usa: l`impossibile exit strategy dall`iraq

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usa: l`impossibile exit strategy dall`iraq
USA: L'IMPOSSIBILE EXIT STRATEGY DALL'IRAQ
Martedì 16 Gennaio 2007 01:05
di Daniele John Angrisani
Nei corridori del potere di Washington tira una strana aria. Per la prima volta dalla fine della
guerra fredda l’elite politica ed economica degli Stati Uniti, abituata a fare e disfare qualsiasi
cosa a suo totale piacimento, si trova ad affrontare una situazione di crisi da cui sembra
apparentemente non riuscire ad uscirne fuori. Il pantano in cui si è andato ad infilare l’esercito
americano in Iraq, assomiglia infatti, ogni giorno che passa, sempre di più ad una palude di
sabbie mobili che inghiotte la potenza politica e militare americana con la velocità di un buco
nero. L’inquilino della Casa Bianca, ormai più anatra decapitata che azzoppata, viene additato
come il principale responsabile di questa catastrofe, che, anche un giornale dell’estabilishment,
come il New York Times definisce “un fallimento disastroso”. Persino coloro che questa guerra
tanto l’avevano agognata, ai tempi del “suonar di tamburi di guerra sul Potomac”, adesso hanno
iniziato a ricredersi e a considerare questa avventura come uno dei peggiori errori strategici
della storia degli Stati Uniti. Il tutto mentre da pochi giorni si è riunito il nuovo Congresso che,
dopo la disfatta dei repubblicani alle elezioni di mid term, è dominato dai democratici, i quali non
lesinano critiche anche pesanti alla condotta della Casa Bianca, sebbene non abbiano di fatto
nessuna soluzione alternativa da proporre.
In questo contesto l’impegno illustrato da Bush
pochi giorni fa, durante un discorso televiso alla Nazione, per aumentare il numero delle truppe
ed assicurare la “sicurezza” fino a quando il governo iracheno non sarà capace da solo di
gestire il proprio Paese, sembra essere “del tutto surreale, del tutto lontano non solo dalla
disastrosa realtà irachena, ma anche da quella dell’opinione pubblica del proprio Paese”, che,
come afferma il New York Times, è sempre più distante dalla Casa Bianca. I sondaggi
confermano questa opinione, mostrando infatti un crollo senza fine della popolarità di Bush,
ormai attestata su un misero 23%-25% nel caso più ottimista. Esponenti del suo stesso partito,
che fino a pochi mesi fa erano considerati come fidatissimi, iniziano a criticare apertamente la
politica presidenziale, per timore che nel 2008 si ripeta la disastrosa debacle che ha
consegnato a novembre il controllo del Congresso a quei democratici che neppure due anni
prima, subito dopo la riconferma di Bush alla Casa Bianca, venivano considerati come
spacciati, mentre un gaudente Karl Rove festeggiava affermando che questo sarebbe stato il
secolo del “dominio repubblicano”. Solo John McCain, che si gioca il tutto per tutto per avere la
prossima nomination repubblicana per la Casa Bianca, ed uno sparuto gruppo di
neoconservatori incalliti, sembrano credere davvero che la situazione sia ancora recuperabile.
La gravità della perdita di prestigio americana all’estero è invece riassumibile in una sola
scena. A novembre, stando a ciò che raccontano a denti stretti fonti confidenziali della Casa
Bianca, il presidente americano Bush non sarebbe neppure stato in grado di convincere il suo
fido alleato, il premier iracheno Nuri al-Maliki, a partecipare ad una cena, durante il loro summit
tenuto ad Amman. Bush è stato così lasciato solo a parlare della necessità di disarmare le
milizie sciite, e questo è ciò che di più forte è stato capace di dire: “Se il governo iracheno non
porterà a termine le proprie promesse, perderà l’appoggio del popolo americano”. Ma visto che
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questo supporto è svanito da un bel po’, è difficile immaginare una minaccia più vuota, o peggio
ancora, una più palese confessione dell’assoluta impotenza americana dinanzi all’evolversi
della crisi. Il tutto diventa persino patetico se si considera che l’intenzione iniziale del discorso di
Bush era quella di scagliarsi contro la Siria e l’Iran, le vere potenze emergenti del Medio Oriente
post-disastro iracheno.
Dal lato suo, insidiato dall’influenza crescente degli sciiti filo iraniani, e dalla rivolta sunnita e
dalla possibilità che gli americani lo lascino sempre più solo a fronteggiare la catastrofica
situazione irachena, il premier iraqueno Nuri al-Maliki, ben conscio che la sua stessa
sopravvivenza ,non solo politica, dipende principalmente da questo, ha deciso di mostrare i
muscoli. L’impiccagione dell’ex dittatore iracheno, Saddam Hussein, e dei suoi due gerarchi,
Barzan al-Tikriti e Awad Hamad al-Bandar, voleva proprio dimostrare questo. Il problema è che,
come fanno notare in molti, queste mosse potrebbero essere controproducenti, in quanto hanno
di fatto trasformato l’ex rais in un martire per molti iracheni di origine sunnita, e così hanno reso
sempre più profonda la rottura tra gli esponenti delle diverse concezioni religiose del Paese,
ormai in preda ad una violentissima e crudele guerra civile che non risparmia più nessuno,
neppure donne e bambini. I segni di tortura e di violenza sui corpi delle centinaia di vittime che
ogni giorno vengono causate dalla mattanza in atto non fanno neppure più notizia, in quanto
rappresentano la “normale quotidianità” della vita di un Paese, che i suoi stessi abitanti, quando
sono in grado di far sentire la propria flebile voce all’esterno, definisco come un “inferno in
Terra”.
La mattanza continua a mietere vittime anche tra i soldati americani, che hanno raggiunto la
quota di 3.018 morti ed oltre 22 mila feriti, stando ai dati ufficiali diramati dal Pentagono. Soldati
che sono impiegati in missioni senza fine nelle province sunnite come quella di Anbar, dove
ogni casa può essere sede di cecchini o di guerriglieri nemici, visto l’assoluto disprezzo della
popolazione nei confronti degli “occupanti” americani. Decine di vittime ogni mese, i cui parenti
fanno sentire sempre di più il peso su una opinione pubblica che sembra essere finalmente
uscita dallo stato catatonico in cui era piombata dopo i tragici attentati dell’11 settembre. Da
questo punto di vista il 2005 è stato l’anno della svolta: la “crociata” della madre pacifista Cindy
Sheehan che ha fatto tremare di commozione l’intera America con la storia del proprio figlio
morto in guerra, e soprattutto la catastrofica gestione della devastazione portata a New Orleans
dall’uragano Katrina, ha fatto aprire gli occhi anche a chi, nonostante che ci fossero tutte le
avvisaglie, ancora non voleva vedere in faccia la realtà.
Ora il re è finalmente nudo e l’America è sotto shock di fronte all’inevitabile sconfitta del
proprio esercito, una volta considerato onnipotente ed invincibile, in Iraq per mano di una
guerriglia le cui armi migliori sono state la disperazione del popolo iracheno e i madornali errori
americani di gestione del conflitto, non ultime le vergognose ed infami immagini delle torture di
Abu Ghraib che hanno fatto il giro di tutto il mondo, nonchè la totale incapacità da parte
americana a garantire anche un minimo di sicurezza ai cittadini iracheni. Ma se è irragionevole
pensare che il nuovo piano di Bush possa garantire anche solo uno spiraglio di soluzione alla
catastrofe irachena, altrettanto irragionevole è pensare che la nuova maggioranza democratica
al Congresso possa fare qualcosa di effettivo per risolvere la situazione, sia perchè non ha la
forza nè la capacità di assumere posizioni politicamente rischiose quali negare il finanziamento
delle truppe in zona di guerra per forzare un ritiro di tali truppe, sia soprattutto perchè anche
essa manca di una vera strategia alternativa. Come ha ben chiarito il piano presentato dal
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gruppo bipartisan di studio sull’Iraq, capitanato da James Baker e Lee Hamilton, l’unica
plausibile soluzione passa per un graduale ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’apertura di colloqui
con i grandi nemici americani, Siria ed Iran, per garantire un futuro pacifico al disastrato Paese
del medioriente. Sarebbe, di fatto, la sconfessione totale e l’ammissione di sconfitta definitiva
per la strategia di Bush e l’ammissione di una debacle da cui gli Stati Uniti d’America avrebbero
grosse difficoltà a riprendersi. A distanza di soli due anni dalle prossime presidenziali si puà
essere sicuri che nessuno si assumerebbe tali responsabilità.
In attesa di capire quale possa essere l’evoluzione della crisi e vedere cosa accadrà nei
prossimi mesi, possiamo solo riflettere sulle seguenti parole dette in altri tempi: “Milioni di
persone hanno deciso di muoversi oltre il semplice patriottismo, passando alla libera
espressione del proprio dissenso, basata sul mandato della propria coscienza e sulla
conoscenza della nostra storia. Oggi, di sicuro, una delle difficoltà che si trovano nel voler
parlare è data dal fatto che vi sono coloro che tentano di additare come traditori coloro che
mostrano il proprio dissenso. E’ un triste momento della storia della nostra nazione, quando le
autorità di più alto livello cercando di usare ogni metodo, compreso questo, per zittire coloro che
dissentono. Ma in ogni caso qualcosa sta succedendo e le persone non sono più zitte. La verità
deve essere detta. Ed noi affermiamo che coloro che cercando di far apparire chiunque si
opponga alla guerra come un folle o un traditore, o un nemico dei nostri fratelli che combattono
sotto le armi, è egli stesso una persona che ha tradito ciò che c’è di meglio nelle nostre
tradizioni”. Tali parole sono state dette da Martin Luther King Jr.i il 16 aprile 1967 in un discorso
tenuto alla Ebenezar Baptist Church di Atlanta. Era in corso un’altra guerra, il Vietnam, ma il
dolore, il lutto, e l’incapacità dei governanti è sempre la stessa di allora. Con la differenza che
questa volta, se gli americani non sapranno reagire alla follia imperante dei Dott. Stranamore
della Casa Bianca, il giudizio della storia sarà ancora più spietata con loro.
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