Documento della Segreteria Confederale sulla situazione

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Documento della Segreteria Confederale sulla situazione
Confederazione Generale Italiana del Lavoro
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Documento della Segreteria Confederale sulla situazione internazionale
Il senso delle novità
Una delle parole più frequenti che si ritrovano nei commenti politici e giornalistici sulla crisi
internazionale oggi è “novità”: la novità delle elezioni irachene, le novità portate da quelle in
Palestina, la novità del viaggio in Europa del presidente degli Stati Uniti e del suo secondo mandato,
quelle in Libano. Quanto e come si riconoscano e apprezzino quelle novità come positive
sembrerebbe poi, nell’approccio dei più, il discrimine tra un atteggiamento laico, razionale e
pragmatico e uno conservatore, ideologico, ovviamente con tutte le sfumature del caso.
Lungi dal negare che quelle novità esistano, sarebbe bene, per evitare nel migliore dei casi di
sovrapporre speranze e realtà, o nel peggiore di confermare manipolazioni della realtà, non limitare
attenzione e giudizi su ciò che c’è di nuovo e quindi non cancellare i contesti sociali ed economici,
oltre che politici, e i possibili sviluppi, le dinamiche nelle quali quelle novità si realizzano. Fuori di
metafora, se dall’importante novità dalle elezioni irachene si dovesse far derivare l’esaltazione del
processo democratico in corso in Iraq, ciò equivarrebbe da un lato a cancellare la materialità di una
democrazia svuotata di significato reale dalle stragi quotidiane, dall’altro a giustificare, a posteriori e
soprattutto per il futuro, l’esportazione della democrazia con le armi.
La Cgil ha avuto e ha un ruolo molto importante nel movimento della pace, quello che ha
attraversato l’Europa e il mondo nei due anni di guerra in Iraq, che si è materializzato con tanta
evidenza il 19 febbraio a Roma per la liberazione di Giuliana Sgrena.
Abbiamo sempre legato, in questi due anni, il nostro impegno al nesso tra affermazione della pace,
ripudio della guerra e possibilità di difesa, promozione, estensione dei diritti del lavoro e
dell’ambiente, tra pace dunque e possibilità di sviluppo sostenibile in Italia, in Europa, nel mondo.
Per questo abbiamo definito la pace come strategia razionale di sopravvivenza di un mondo globale
interdipendente e su questo abbiamo costruito gli assi della nostra politica internazionale e fondato
giudizi, iniziative, mobilitazioni.
Abbiamo avuto e abbiamo chiaro che la dimensione internazionale è oggi il banco di prova della
rappresentanza sociale e politica, e che difesa e promozione di ciò che s’intende per modello
sociale europeo, alternativo al “modello americano”, è la condizione necessaria per proporre equità,
solidarietà, diritti umani e del lavoro come perno dell’organizzazione sociale a livello globale. E che
ciò ha a che fare con la riforma delle istituzioni internazionali, non solo quelle politiche ma anche e
soprattutto quelle economiche in modo che quest’ultime non contraddicano i buoni propositi delle
prime.
E ancora che la cancellazione del valore del lavoro dalla gerarchia dei valori sociali, nel Nord ricco e
nel Sud povero del mondo, come dimostrano i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro
(OIL) sulla caduta del reddito da lavoro in ogni parte del mondo, è il punto fondamentale su cui si
fonda la globalizzazione senza regole.
Abbiamo chiaro che il ripudio del terrorismo è impegno fondamentale del sindacato e che esso
riesce facilmente ad attecchire tra miseria, povertà, guerra, in aumento e non in riduzione oggi nel
mondo. Come ci è altrettanto chiaro che la convivenza e il dialogo tra culture è la vera risposta
all’insicurezza e allo scontro di civiltà.
Richiamare gli elementi fermi che ispirano la politica internazionale della Cgil è importante quanto
richiamare le novità del panorama internazionale, poiché i primi costituiscono il metro di misura che
aiuta a valutare la cifra di quelle novità: in caso contrario è difficile rintracciare i parametri sulla base
dei quali si giudicano i cambiamenti. Ciò è vero dal punto di vista metodologico in termini generali.
Lo è ancora di più in politica estera, dimensione nella quale giudizi e azioni non possono
prescindere da ciò che si ritiene interesse di chi si rappresenta.
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Le elezioni irachene
Non abbiamo incertezze nel giudicare le elezioni in Iraq un fatto positivo. L‘avevamo già fatto
quando era stato convenuto il percorso che è iniziato con l’elezione della “costituente” il 30 gennaio
e si concluderà alla fine del 2005, con l’elezione definitiva del Parlamento. Per la stessa ragione,
avevamo salutato positivamente la risoluzione Onu 1546, che aveva modificato l’ipotesi iniziale
dell’amministrazione americana, in una prima fase (governo Bremer) convinta che la guerra in Iraq
sarebbe stata rapida e facile definire una sorta di protettorato in loco.
L’evento nuovo da salutare dunque non sono le elezioni, ma è la partecipazione a quel voto: e di
certo si tratta di un elemento importante, da non sottovalutare, perché significativo della volontà di
autodeterminazione del popolo iracheno.
Vale la pena di guardare più in profondità al processo politico in corso in Iraq che il risultato
elettorale evidenzia.
La scelta netta degli sciiti di esercitare quel diritto di contare politicamente, oltre che numericamente,
che Saddam aveva loro negato, è uno degli elementi più significativi. Lo stesso vale per i curdi,
anch’essi numerosissimi al voto. In entrambi i casi, per esplicita dichiarazione, l’esercizio del diritto
di voto è stato posto in relazione alla volontà di autodeterminazione e di fine dell’occupazione del
paese.
E’ altrettanto evidente la scelta del non voto da parte dei sunniti, al potere con Saddam, certo per
ragioni esattamente opposte, ma anche con una volontà dichiarata di boicottaggio delle scadenze
elettorali fino alla fine dell’occupazione e al ritiro delle truppe occupanti.
Alcuni commentatori hanno voluto minimizzare il boicottaggio sunnita affermando che
complessivamente la percentuale di votanti, quasi il 60% degli aventi diritto, è maggiore
dell’affluenza alle urne negli Stati Uniti d’America. Quasi banale notare come il metro di valutazione
in questo caso non possa essere meramente quantitativo, se si tratta dell’assenza dalle urne di
un’intera etnia. Altrettanto far rilevare che di per sé la percentuale di votanti non è l’unico parametro
per misurare il grado di democrazia sostanziale di un paese: se non lo è in America non lo è
ovunque.
Va da sé che il peso che giocherà sul processo politico in corso la comunità internazionale o in sua
vece “la coalizione dei volenterosi” garantiranno diversamente tutti sulla realizzazione
dell’autodeterminazione del popolo iracheno e sulla soluzione dei problemi aperti: un paese federale
o centralista (questione curda)? Una costituzione laica o fondata sulla sharia? Quale rapporto con i
sunniti?
Come sarebbe sbagliato rinunciare a vedere il significato di quelle elezioni, lo sarebbe altrettanto
oscurare i problemi che quel voto non risolve, al di là di qualunque enfasi e senza ignorare che a 3
mesi di distanza non c’è ancora un governo iracheno: la violenza continua e doppia nei confronti
delle donne, la realtà materiale di vita degli iracheni, quel 60% di disoccupazione, l’assenza di luce,
acqua, cibo, il rischio continuo della vita, la distruzione dell’apparato amministrativo, delle case, del
patrimonio culturale, il teatro cioè di una guerra che non ha ancora esaurito la sua potenza
distruttiva, del terrorismo irrobustito dalla guerra stessa.
Sbagliato sarebbe sorvolare anche sul fatto che le elezioni sono avvenute senza osservatori
internazionali e che oggi quel teatro di guerra e terrorismo non ha cronisti, e soprattutto cronisti
italiani.
Ancora più sbagliato, sarebbe, per il passato recente ma soprattutto per il futuro prossimo, esaltare
il nesso tra guerra e nascita di una democrazia via export.
Per il passato siamo nell’ovvio: la guerra all’Iraq è stata dichiarata per il possesso di armi di
distruzioni di massa da parte di Saddam (?); nessuno di coloro che l’hanno condotta oggi sfiora più
l’argomento, utilizzato oggi però come causa delle nuove minacce all’Iran.
Per il futuro la ricerca di consenso intorno alla missione americana di esportazione della liberà e
della democrazia, come l’ha declinata con accenti mistici nel discorso di insediamento del secondo
mandato il presidente Bush, è profondamente inquietante perché dà un fondamento integralista,
fondamentalista e quindi contraddittorio al processo razionale e laico di affermazione di diritti politici,
ma anche civili e sociali.
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La teoria della guerra “giusta” come strumento di affermazione di una missione di libertà, in termini
generali conferma scenari di scontro di civiltà, non li attenua, ed è cosa diversa dall’assunzione di
responsabilità della comunità internazionale rispetto ai problemi. Non è superfluo ricordare che ciò
che a proposito recitano la Carta dell’Onu e molte costituzioni europee, la negazione cioè della
giustezza di qualunque guerra, è il prodotto delle riflessioni di tutti dopo le due guerre mondiali.
In termini specifici, qui e ora, richiama sospettosamente il peso delle spese militari nel sostegno di
molte economie ricche e allo stesso modo richiama interrogativi sul perché alcune dittature siano più
negative di altre se siedono su giacimenti di petrolio.
Naturalmente è l’insieme di questi elementi – processi politici, processi sociali e condizioni reali di
vita delle persone, dinamiche complessive aperte nel Medio-Oriente – che dovrebbe guidare analisi
e giudizi sulla situazione irachena e su quali iniziative dovrebbero essere messe in campo dalla
comunità internazionale.
Al contrario il dibattito politico italiano si è concentrato ormai da due anni sul ritiro o permanenza
delle truppe italiane in Iraq e sulla natura di quella missione, se di pace o di guerra. Che si tratti di
una missione di guerra, è ampiamente suffragato da troppi elementi, in palese violazione della
Costituzione italiana. Se la presenza delle truppe italiane e straniere sia parte dei problemi iracheni,
ostacolo ai processi di autodeterminazione e di ricostruzione di tessuto sociale, oppure parte della
soluzione dei problemi è l’interrogativo più spinoso perché ambiguamente proposto dal governo
italiano (ma non solo) come scelta tra assunzione di responsabilità e assenza di responsabilità
rispetto alla tragedia irachena per amore di polemica politica, dunque cinismo.
La Cgil ha da sempre richiesto, ieri come oggi, il ritiro delle truppe occupanti e l’entrata in campo
dell’Onu, cioè della comunità internazionale, con persone provenienti da paesi occidentali che la
guerra non avevano fatto e arabe, per sostenere sia il processo politico iracheno che la
ricostruzione materiale e del tessuto sociale. L’abbiamo fatto convinti che le truppe occupanti
costituissero un ostacolo in entrambi i casi e che la loro presenza alimentasse un folle terrorismo.
Bisogna poi sapere che esistono in Iraq anche opinioni diffuse, quella del sindacato iracheno è una,
che, avendo preso nettamente le distanze dal terrorismo, hanno espresso la loro ostilità al
permanere delle truppe d’occupazione, perché ostili alla politica praticata in loco dai paesi d’origine.
Sappiamo con certezza del tentativo di condizionare il nuovo sindacato iracheno, ma ciò vale
ovviamente in molti altri campi.
Nel corso dei due anni che ci separano dall’inizio dei bombardamenti a Baghdad è aumentato l’arco
delle forze che chiedono il ritiro delle truppe: fuori dall’Iraq (basti pensare a quei 12 paesi, tra cui la
Spagna, che hanno ritirato i loro contingenti), e in Iraq, se si pensa che il successo elettorale è
andato a formazioni che l’hanno dichiarato (AUI e curdi) e chi non è andato a votare l’ha fatto con
quella motivazione e ancora che il minor consenso elettorale è andato alla formazione sciita laica di
Allawi, unica a non proporre quel terreno di ragionamento.
Ci sembra dunque che un’impostazione corretta del tema dovrebbe in primo luogo interrogarsi su
quali sono oggi i problemi reali in Iraq e dunque su quali devono essere le iniziative per affrontarli: la
sicurezza fisica, la guerra civile, le condizioni di vita. In due parole, c’è la guerra o il punto è la
ricostruzione?
Il dubbio che le truppe d’occupazione, chiamate così anche da Bush, vigilino sugli interessi dei paesi
d’origine piuttosto che su quelli del paese occupato è assolutamente legittimo.
Per tutto ciò rimaniamo convinti che la real politik non possa ignorare la complessità della situazione
e semplificare con la presa d’atto dell’esistente.
Per questo pensiamo che l’Europa dovrebbe assumere responsabilità. Per questo pensiamo, come
abbiamo già detto mesi or sono e non oggi, che è necessaria una Conferenza di pace: cioè un luogo
in cui i problemi vengano definiti e con essi l’impegno della comunità internazionale a risolverli.
Per questo continuiamo a pensare che, di fronte al tormentone “truppe sì, truppe no” utilizzato oggi
come semplificazione di un approccio, l’atteggiamento della Cgil non è cambiato né cambierà,
giustificando a posteriori ciò che ha sempre condannato a priori e in corso d’opera.
Il problema ci pare più grande: come la comunità internazionale assume responsabilità di fronte alla
distruzione dell’Iraq, a quella di Falluja e a quella di Ramadi, e di fronte al processo di
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autodeterminazione iracheno, dando seguito dunque alla risoluzione 1546. Un tentativo in questo
senso a noi è sembrato l’ultimo discorso di Kofi Annan sull’argomento, piegato ad altri fini dal
governo italiano.
Per quanto ci riguarda, consideriamo i rapporti che come Cgil e come Cisl internazionale abbiamo
intessuto con il sindacato iracheno, che chiede aiuto per la formazione di propri quadri, un contributo
alla ricostruzione di tessuto sociale.
Siamo tutti americani o antiamericani?
Pesa nella formazione dei giudizi sulla situazione irachena, e non poco, la valutazione della
necessità di ricostruire o consolidare rapporti positivi con l’amministrazione Bush. E’ senz’altro
giusto affermare che un nuovo equilibrio mondiale multilaterale è difficile da realizzare senza gli Usa
o contro di loro (ma Kyoto è entrato in vigore senza la firma dell’amministrazione americana). Ma è
un errore pensare di costruire un governo multipolare del mondo – fondato cioè sulla presenza sulla
scena mondiale di più soggetti politici ed economici, portatori anche di idee differenti di democrazia
e sviluppo (Ue, Usa, Mercosul, le economie emergenti asiatiche) – eludendo i problemi veri aperti
sullo scenario mondiale, tornando indietro dal sistema delle Nazioni Unite, o ancora venendo meno
a punti di vista consolidati, e ignorando la logica di potenza che sostanzialmente continua ad
ispirare la politica estera dell’amministrazione Bush, come dimostra inequivocabilmente la scelta
degli uomini indicati per la Banca Mondiale e per la propria rappresentanza alle Nazioni Unite.
Infatti un nuovo equilibrio ha bisogno di un’Europa capace di esprimere e valorizzare la propria
cultura politica, sociale ed economica, quella presente nel Trattato costituzionale, pur con tutte le
sue contraddizioni. Più esisterà una dialettica tra i diversi poli nel mondo, più sarà possibile
realizzare equilibrio e alleanze, in luogo di subordinazioni, culturali prima ancora che politiche ed
economiche.
In secondo luogo le novità in politica estera annunciate dell’amministrazione americana, sono state
esplicitamente avanzate a sostegno della richiesta alla UE di corresponsabilità nella tragedia
irachena. Quella richiesta di corresponsabilità va sgravata dal messaggio messianico
sull’esportazione della democrazia, come obiettivo comune su cui fondare una nuova alleanza
atlantica e limitata a ciò che è. Così, al di là dei segnali di fumo, pare sia successo. I singoli paesi
europei hanno convenuto con l’amministrazione americana, e conformemente a quanto già definito
dalla risoluzione Onu 1546, quanto (poco) personale mettere a disposizione per addestrare la nuova
polizia irachena. Non è chiaro invece, ma questo sarebbe decisivo, quanto l’Europa è disposta a
mettere in campo d’iniziativa propria per ricostruire in quel paese tessuto sociale, produttivo, società
civile.
In secondo luogo l’esigenza di tutti di trovare una via d’uscita alla tragedia irachena non può fare
anteporre le aspirazioni alla realtà.
E’ evidente che, nella situazione data, osservazioni critiche sulla portata delle novità in campo si
prestino a giudizi trancianti di ideologismo, conservatorismo e soprattutto antiamericanismo. E’
questo un termine che è difficilmente comprensibile preso per quel che è. Perché è ovvio che
giudicare una politica – quella della guerra preventiva, o quella che ha portato l’amministrazione
americana a non firmare Kyoto o ancora quella che ha portato la stessa amministrazione a non
ratificare la Corte penale internazionale – non può che essere legittimo, trattandosi di scelte
compiute da un soggetto, che interferiscono su tutti gli altri.
Analogamente sulla guerra in Iraq: gli effetti di una guerra illegittima e sbagliata ricadono su tutte le
relazioni internazionali, oltre che sulle condizioni di sicurezza e di vita di tutte le persone,
sicuramente di quelle per cui il Medio-Oriente è vicino di casa ed in tutto il Mediterraneo. Astenersi
dal commentare quella politica sarebbe francamente lesivo perfino degli interessi nazionali, oltre
che europei, oltre che globali; analogamente astenersi dal contrastarla. Certamente qualunque
fronte comune occidentale per l’esportazione della democrazia ci appare più come una minaccia
che come una positiva promessa: la democrazia è un processo e non una merce. Difficile dunque
esportarla in punta di baionetta, in ogni caso.
Roma, 15 marzo 2005
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