Liquidiamo don Milani!

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Liquidiamo don Milani!
Liquidiamo don Milani!
Roberto Berardi, “Lettera a una professoressa”. Un mito degli anni Sessanta, Shakespeare and
Company, Milano, 1992, pp. 97, Lit. 18.000.
«Per essere un pamphlet lo scritto deve essere nutrito di esagerazioni, parzialità, tesi
preconcette, uso spregiudicato dei dati e delle informazioni, esposizione passionale degli avvenimenti sino al limite della falsificazione e magari oltre...». Questa definizione che Roberto Berardi
applica (p.16) al libretto della scuola di Barbiana (anzi «di don Milani») si attaglia perfettamente
al suo scritto. Nonostante le fitte citazioni, al termine della lettura ci si chiede se parla dello
stesso libro che avevamo letto venticinque anni fa, allora lo si rilegge ancora una volta e non c’è
dubbio: non è lo stesso libro. Diceva altre cose, con altre intenzioni.
Per cominciare, è poi così certo che don Milani sia stato l’unico autore della Lettera?
Berardi non sa citare in proposito che un’opinione di don Borghi, che premetteva di non aver
conosciuto bene la scuola di Barbiana (in M. Lancisi, Dopo la “Lettera”, Cappelli 1980), mentre
ignora la testimonianza contenuta nello stesso libro di Michele Gesualdi che partecipò al lavoro.
La questione non è tanto marginale, se coinvolge la realtà del metodo di “scrittura collettiva”
sperimentato a Barbiana, su cui abbiamo ora una nuova testimonianza nel volumetto Don Milani
nella scrittura collettiva, di Francuccio Gesualdi e José Luis Corzo Toral (Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1992), che ne documenta la continuità presso la “Casa scuola Santiago 1” di
Salamanca e lo arricchisce di spunti didattici di notevole interesse.
Ma tant’è: che la Lettera sia stata scritta dal solo Milani è diventato un dogma, è «fuori
discussione» ad esempio per Sebastiano Vassalli, che nella sua recensione a Berardi la ha definita
«una mascalzonata». Vassalli è andato più in là, parlando di una «non meglio precisata Libreria
Editrice» che pubblicò il libro (giorni fa, nella libreria che frequento, un commesso borbottava
qualcosa a proposito di difficoltà di rapporti con la Libreria Editrice Fiorentina; gli ho subito
fatto notare che la L.E.F. non esiste, lo ha detto Vassalli, ma quello insisteva che esiste, esiste:
sarà anche lui della congiura?)
Ma per venire a cose serie: una delle tesi che attraversano lo scritto di Berardi è che don
Milani non era un pedagogista (e nel senso accademico non c’è dubbio, ma non so se vada a suo
disdoro o merito), non ha detto niente di importante per l’educazione. Il metodo
dell’argomentazione è semplice: se Lettera a una professoressa fa affermazioni inaccettabili
(come sull’inutilità di studiare matematica all’istituto magistrale), si stracciano le vesti; se dice
cose valide, non ha detto niente di nuovo. Così è per il discorso sulle “regole dell’arte dello
scrivere”: «lo dicevano e lo praticavano le scuole di retorica già venticinque secoli prima» (p.74);
che l’insegnamento di tecniche di produzione testuale fosse allora, sia ancora in gran parte,
trascurato nella scuola, che Barbiana abbia denunciato una lacuna cruciale, non importa. Oppure
le due accuse si applicano simultaneamente: criticare le bocciature è sbagliato perché la ripetenza
ha in generale effetti positivi (p. 45), comunque si tratta di «considerazioni sugli aspetti negativi
della ripetenza che la pubblicistica pedagogica conosce da sempre» (p. 49).
Un secondo tema è che nell’esperienza di Barbiana non c’è niente di valido per la scuolaistituzione: tempo pieno, assenza di voti registri e bocciature, mutuo insegnamento tra i ragazzi,
ritmi didattici regolati sui bisogni dell’“ultimo”... bella forza, era una scuola privata e non doveva
render conto a nessuno. È proprio così e qui sta il punto: se in quelle condizioni si scatenava una
voglia di imparare che la scuola pubblica non riesce quasi mai a muovere, soprattutto in chi parte
in condizioni di svantaggio, allora ci potrebbe essere motivo di riflettere. L’invito non è rivolto a
Berardi che non sembra portato, ma a chi va predicando il prolungamento dell’obbligo come
soluzione all’emarginazione prodotta dalla scuola (o almeno, anche dalla scuola): prima di
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aumentare la dose della medicina che fa ammalare, bisognerebbe riuscire a dare “uno scopo”,
come dicevano don Milani e i suoi ragazzi.
Ma l’accusa centrale è naturalmente di aver fornito uno «strumento eversivo» alla
contestazione sessantottarda. La Lettera ne è corresponsabile perché «spinge a pretendere senza
dare, a reclamare al di fuori della legge, con violenza che qui è solo verbale, ma che presto nei
settatori avrebbe adottato ben altro strumenti di lotta» (p. 39). Una «applicazione devastante dei
suoi presunti modelli pedagogici e didattici» (p. 81) portò al “voto unico dequalificato”,
all’inefficienza della scuola media e al disordine nelle scuole superiori. Sembra in qualche
passaggio che la colpa non sia attribuita direttamente al libro («non si tratta di sostenere
colpevolezze, bensì di sottoporre a revisione il mito della Lettera come pietra miliare nella storia
dell’educazione», p. 37), ma nell’insieme «la responsabilità prima fu dell’autore» (p. 82).
Ora è ben vero che dietro il “non bocciare” e il “voto unico” passarono elementi di
cultura assistenziale, come afferma Berardi (p. 80). Ma è falso che questo abbia una qualche
radice nella Lettera: il libro si preoccupa della bocciatura in quanto espulsione dalla scuola, non
in quanto sanzione di un fallimento educativo. Dice esplicitamente che se la bocciatura avvenisse
al termine del ciclo dell’obbligo «non avremmo più nulla da ridire» (LP, p.56); intitola la sua
seconda parte «Alle magistrali bocciate pure, ma...» (è scritto in grande ma Berardi non lo ha letto). È nel ricordo di tutti che i giovani che si ispirarono alla Lettera si impegnarono a inventare
doposcuola volontari, e sia pure improvvisando spesso con più entusiasmo che capacità (siamo
insomma alle origini del volontariato, non del terrorismo); mentre il libro non era certo il più
citato nelle assemblee che reclamavano il voto unico.
Qualche spunto di riflessione utile non manca, qua e là nel libro di Berardi: ad esempio è
azzeccata la critica all’autoritarismo delle pratiche educative di don Milani, ma al di là del
giudizio sul prete di Barbiana sarebbe importante approfondire la contraddizione insita in ogni
pedagogia della liberazione: “sii libero”, ci hanno insegnato gli psicologi di Palo Alto, è un
classico caso di “doppio legame”. Ancora, dà da pensare la contraddizione tra la rivendicazione
della cultura contadina “del silenzio” e la richiesta di accesso alla cultura “della parola”: magari
in forme nuove, è un problema contro cui va ancora a sbattere ogni progetto di educazione
“compensativa”.
Ma per ragionare su queste cose, occorrerebbe un respiro ideale un po’ più largo di quello
esibito dall’autore, quale si rivela esemplarmente dal confronto fra due luoghi. In alcune pagine
egli spiega le cause della selezione che negli anni sessanta colpiva massicciamente i ragazzi
delle classi diseredate nella scuola dell’obbligo: le migrazioni, le scolaresche pletoriche («sino al
1971 in Italia le classi elementari venivano sdoppiate solo se superavano stabilmente i sessanta
alunni», p. 21, se lo dice lui deve essere vero), i doppi e tripli turni: sono tutte cause oggettive,
andare alla ricerca di responsabilità è un «sofisma della falsa causa» (p. 28). Poco dopo si
sofferma a lungo sul turpiloquio che pare fosse proprio di don Milani: «un dato negativo
insormontabile se si vuol valutare un educatore» (p. 37). Insomma, condizioni di vita e di studio
inumane sono una fatalità, anzi una giustificazione; ma una parolaccia no, quella è
imperdonabile.
Non varrebbe la pena di soffermarsi su un libello così mediocre, se non fosse per il
clamore giornalistico che ha suscitato, e se l’uno e l’altro non fossero sintomo (accanto ad altri
ben più gravi) di una diffusa volontà di vendetta postuma contro tutto ciò che il Sessantotto ha
rappresentato in questo paese; come a sbarazzarsi in un colpo non solo delle conseguenze negative di quel sommovimento, ma dei problemi che ha sollevato, delle piaghe che ha denunciato e
sono ancora aperte.
L’indice, n. 9, p. 41
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