S. Vassalli, Don Milani, che mascalzone

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S. Vassalli, Don Milani, che mascalzone
la Repubblica - Martedì, 30 giugno 1992 - pagina 36
di SEBASTIANO VASSALLI
DON MILANI, CHE MASCALZONE
A venticinque anni dalla morte, si torna a parlare dell' autore di ' Lettera a una professoressa' Ecco il ritratto
inedito di un maestro improvvisato, manesco e autoritario
A venticinque anni dalla morte, si torna oggi a parlare di don Lorenz Milani priore di
Barbiana, uomo-simbolo della "contestazione" degli anni Sessanta e autore di quella
Lettera a una professoressa che nel nostro paese ebbe fama non minore degli scritti del
"Che" Guevara o di Marcuse, o degli stessi Pensieri del presidente Mao. Un librobandiera, più adatto ad essere impugnato e mostrato nei cortei che ad essere letto e
meditato: ed infatti non furono molti, allora, quelli che si accorsero che la mitica "Scuola di
Barbiana" cui veniva attribuita la paternità dell' opera era in realtà una sorta di pre-scuola
(o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli
dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi... Un'
esperienza didattica forse non proprio marginale, ma simile in definitiva a tantissime altre,
si era così venuta arricchendo d' un ingrediente rivoluzionario: l' odio di classe, che il
movimento operaio italiano aveva ripudiato già nell' Ottocento e che tornava a riaffacciarsi,
dopo quasi un secolo, nella prosa elegante e un po' nevrotica di un prete di origine
borghese. Una prosa scarna ma non priva d' efficacia: a riprendere oggi in mano quel
libretto di 166 pagine, stampato a Firenze nell' ormai lontano 1967 per conto di una non
meglio precisata Libreria Editrice, due cose saltano subito agli occhi: la bravura di
polemista dell' autore e la sua implacabile determinazione a demolire con ogni mezzo e
con ogni trucco l' oggetto della polemica, cioè quella malcapitata "professoressa" in cui il
nuovo Savonarola-don Milani riassume e per così dire simboleggia l' odiata scuola
classista dello Stato italiano. Qualcuno forse, a tanti anni di distanza, ricorderà ancora che
ciò che spinse don Milani a prendere carta e penna e a scrivere il pamphlet contro la
professoressa fu l' insuccesso di tre suoi allievi di Barbiana, presentatisi come privatisti ad
un esame in un istituto magistrale di Firenze: dove l' ignara professoressa li bocciò. La
Lettera, intesa proprio come "vendetta" per quelle bocciature (pag. 139: "La seconda
vendetta è questa lettera") venne poi attribuita ad un gruppo di ragazzi (pag. 5: "Gli autori
siamo otto ragazzi della scuola di Barbiana") in omaggio alla moda allora imperante del
lavoro di gruppo e per aggirare il fin troppo prevedibile diniego dell' arcivescovo Florit
(definito da don Milani in una sua lettera "un deficiente indemoniato") a concedere l'
imprimatur; ma è fuori discussione che l' autore sia stato proprio lui, il parroco, e che i
ragazzi, al più, lo abbiano aiutato ascoltando le sue argomentazioni ed esprimendo la
propria incondizionata adesione. Ciò che invece allora nessuno avrebbe potuto prevedere
era il successo travolgente e incalcolabile di quella Lettera e di quella vendetta, che si
sarebbe abbattuta come un uragano sugli insegnanti italiani della scuola di Stato, e
nemmeno su tutti ma proprio sui migliori, cioè su quelli che - nonostante le molte difficoltà -
cercavano ancora di dare un senso e una direzione al loro lavoro: un autentico cataclisma,
che fece vacillare l' istituzione e danneggiò in modo irreparabile proprio i figli dei poveri,
impossibilitati, per ragioni economiche, ad emigrare in massa (come i "Pierini" borghesi)
nella scuola privata... Chi vuole riandare con la memoria a quegli anni bui, tra la fine dei
Sessanta e l' inizio dei Settanta, in cui la scuola italiana - già così tradizionalmente povera
di strutture, di mezzi, di personale adeguato - rischiò di sgretolarsi dalle fondamenta ad
opera dei moltissimi picconatori che brandivano come un' arma il "libretto bianco" di don
Milani, può leggere ora uno studio di Roberto Berardi (Lettera a una professoressa. Un
mito degli anni Sessanta, Shakespeare and Company, pagg. 97, lire 18.000), molto utile
per ricostruire l' origine di quel mito e per sottoporlo a una verifica puntuale e pacata, con il
senno di allora - Berardi è stato insegnante e preside negli istituti magistrali - ma
soprattutto con il senno dei venticinque anni che sono trascorsi, dalla Lettera ad oggi.
Esperienze pastorali Don Milani, comunque lo si voglia giudicare, era un maestro
improvvisato e sbagliato. Berardi, che nella premessa del suo libro opportunamente
dichiara di non volersi occupare del sacerdote, né del sociologo di Esperienze pastorali,
ma soltanto dell' insegnante di Barbiana, non ha alcuna difficoltà a dimostrare la sua tesi
su Milani maestro, analizzando i suoi scritti: in primo luogo quella Lettera a una
professoressa, che, spesso travisata e citata a sproposito da persone che mai l' avevano
letta, era però destinata a diventare il "manifesto" dell' antiscuola, negli anni delle lotte e
delle masse e della "contestazione" scolastica. Tirato così fuori dal mito e riportato alle sue
dimensioni terrene d' insegnante, don Milani ci appare oggi come fu davvero: un maestro
manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori d' un tempo hanno veramente saputo
che nella Lettera c' è l' apologia della frusta, a pag. 82, e che a Barbiana erano considerati
strumenti didattici "scapaccioni", "scappellotti", "cazzotti", "frustate" e "qualche salutare
cignata"?); un autocrate che non credeva nella pedagogia - in nessuna pedagogia, all'
infuori della propria - e che trattava con sufficienza e con sarcasmo chi si azzardava a
parlargli di libero sviluppo della personalità degli alunni e di altrettali "sciocchezze
borghesi". "La scuola", aveva scritto in una lettera del 1962, "deve essere monarchica
assolutista ed è democratica solo nel fine cioè solo in quanto il monarca che la guida
costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia"; e lo stesso principio era stato da lui
sviluppato nella Lettera a una professoressa, dove anzi si delinea con molta chiarezza
"una concezione collettivistica dell' educazione vista come indottrinamento": una
concezione non dissimile - per chi ha ancora memoria di quegli anni - dai modelli educativi
della cosidetta "rivoluzione culturale" cinese... Migrazioni bibliche Berardi ci mostra poi
come alla base del violentissimo pamphlet contro la professoressa fiorentina che aveva
avuto l' ingrato compito di bocciare i tre studenti barbianesi,"preparati per il sindacato
operaio ben più che per l' istituto magistrale", vi fosse un uso consapevolmente distorto e
sapientemente mistificato delle statistiche sulla cosiddetta "mortalità scolastica", cioè sugli
abbandoni della scuola dell' obbligo e della scuola superiore, negli anni dal 1950 al 1965.
In quegli anni - come tutti sanno - si erano verificate le più grandi trasformazioni
economiche e sociali della storia d' Italia, con migrazioni bibliche da Sud a Nord e dalle
campagne verso le città; trasformazioni che si riflettevano in ogni genere di statistiche e
che non potevano, assolutamente, essere ignorate nella loro lettura. Attribuire - come fece
invece don Milani - tutte le cifre e tutti i mali della scuola dell' epoca all' odio delle classi
privilegiate verso i poveri, alla perfidia degli insegnanti della scuola di Stato - gelosi custodi
di quelle classi e di quei privilegi - fu un atto di calcolata falsificazione della realtà e di
violenta demagogia che l' eccitazione sociale e politica dei tempi non basta a giustificare.
Di più: fu una mascalzonata, per cui migliaia di insegnanti seri e preparati, che avevano
quest' unico torto, di voler continuare a fare il loro lavoro nonostante la paga misera, le
attrezzature insufficienti, gli edifici scolastici cadenti, i doppi e i tripli turni nelle grandi città,
si trovarono da un giorno all' altro segnati al dito e braccati dall' ira delle folle: erano loro, la
causa di tutti i mali e di tutti i dissesti della scuola italiana! Loro che si ostinavano a
insegnare l' algebra e l' Eneide, e che non capivano che, per eliminare la differenza di
classe, bastava promuovere tutti, indiscriminatamente! Chi ha memoria diretta di quegli
anni, come l' autore di questo articolo, ricorda di avere visto la scuola di Stato pressoché
allo sbando. Molti tra gli insegnanti più esperti e più preparati, che avevano raggiunto l' età
pensionabile, se ne andarono; molti, impauriti o sinceramente desiderosi di seguire il
naturale evolversi dei tempi, fecero autocritica. Trionfò l' ignoranza boriosa del "voto unico
dequalificato" e della scuola "senza registri"; dunque si cercò di schiacciare l' orrendo
mostro della "meritocrazia", e di mettere al bando le odiose "nozioni". (Ma che altro può
trasmettere una scuola seria e dignitosa, se non, appunto, nozioni?). I posti lasciati liberi
dai vecchi professori, esperti e infami, vennero occupati da gente appena uscita dall'
università con il "voto politico": giovanotti che non erano in grado di insegnare l' algebra o
di spiegare l' Eneide e che perciò, a loro volta, dovettero impancarsi a "maestri di vita"...
Essendo mancato nell' anno stesso della Lettera, il 1967, don Milani poté assaporare
soltanto in minima parte la sua vendetta e il suo trionfo sulla scuola di Stato. E chissà
come si sarebbe comportato, se avesse davvero potuto assistere a tanta rovina... Certo è
che i suoi programmi scolastici, quelli che lui avrebbe voluto introdurre al posto dei
programmi dell' odiata scuola borghese, erano quanto di più reazionario si potesse
immaginare, tutti basati sull' utilitarismo e sul presentismo (Lettera a una professoressa,
pag. 27: "Non c' è nulla sul giornale che serva ai vostri esami. E' la riprova che c' è poco
nella vostra scuola che serva alla vita") e, in definitiva, sulla "santa" ignoranza. Così, ad
esempio, la matematica nell' istituto magistrale avrebbe dovuto essere abolita (pag. 118:
"Per insegnarla alle elementari basta sapere quella delle elementari. Chi ha fatto terza
media ne ha tre anni di troppo. Nel programma delle magistrali si può dunque abolire"), la
pedagogia si sarebbe potuta ridurre ad una sola pagina (pag. 119: "Allora di tutto il libro
basterebbe una paginetta che dicesse questo e il resto si potrebbe buttar via"), la filosofia
sarebbe dovuta servire per scaldare gli animi (pag. 119: "Io tra un professore indifferente e
un maniaco preferisco il maniaco. Uno che abbia o un pensiero suo o un filosofo che gli va
bene. Parli solo di quello, dica male degli altri"); eccetera. Anche le apparenti novità, come
la lettura del giornale, in realtà erano cose poco nuove: perché - ce lo ricorda
opportunamente Berardi - il giornale era già entrato una volta nelle scuole italiane, al
tempo di Starace e del ministro Bottai, per l' indottrinamento delle nuove generazioni; e l'
uso che se ne era poi fatto a Barbiana non era molto diverso. (Lettera a una
professoressa, pag. 27: "Proprio per questo bisogna leggerlo. E' come gridarvi in faccia
che un lurido certificato non è riuscito a trasformarci in bestie").
la Repubblica - Sabato, 4 luglio 1992 - pagina 34
SEBASTIANO VASSALLI
IL CASO DON MILANI
MA ALLORA I MITI NON MUOIONO MAI
Vassalli risponde alle critiche sollevate dal suo articolo sul parroco di Barbiana
Prima di scrivere l' articolo su don Milani, giorni fa, mi ero riletto, dalla prima all' ultima, le
166 pagine della Lettera a una professoressa e il libro è ancora qui davanti a me, nell'
edizione originale del 1967 che credo sia ormai una rarità bibliografica. Mi chiedo come
possa ancora suscitare umori e amori dopo venticinque anni. Spero che Mondadori - che
fu uno degli editori di don Milani - lo ristampi negli "Oscar", e che i suoi sostenitori,
leggendolo per la prima volta o rileggendolo, si accorgano che non è più difendibile di
quanto lo siano le economie pianificate dei Paesi dell' Est, la Trabant e i "cento fiori" della
rivoluzione culturale cinese. Sono sincero: non avrei mai pensato di fare tanto chiasso con
il mio articolo del 30 giugno - oltretutto odio il rumore - e non avevo intenzione di
provocare nessuno; volevo soltanto rivisitare un mito degli anni Sessanta, con il senno
degli anni Novanta. La discussione che si è poi sviluppata mi ha però insegnato almeno
una cosa: che i miti o cadono da sé con il fragore del muro di Berlino, oppure è meglio
lasciarli dove sono, finché il tempo li cancelli. La ragione non può, e forse non deve, aprire
gli occhi di chi sogna e vuole continuare a sognare, o interferire con i ricordi degli amici,
pronti a giurare che il loro don Milani non ha niente a che vedere con la contestazione del
Sessantotto... Sì, fu un simbolo del Sessantotto Don Milani invece - che ci posso fare? - fu
proprio uno dei simboli di quella contestazione. Lo fu indipendentemente dalla sua volontà
e da quella di chi lo conosceva, e lo fu come autore di un solo libro, quella Lettera a una
professoressa, che, a torto o a ragione, venne poi usato negli anni successivi come
manifesto dell' antiscuola. Il mio articolo del 30 giugno - lo ricordo per chi non lo avesse
letto - prendeva spunto dall' uscita di un saggio di Roberto Berardi (Lettera a una
professoressa. Un mito degli anni Sessanta) ed era centrato esclusivamente sul mito di
don Milani educatore e teorico dell' educazione. In ciò non facevo altro che seguire
Berardi, la sua premessa sul frontespizio del libro: "Questo studio non prende in esame il
Milani sacerdote, né il Milani sociologo di Esperienze pastorali, né il difensore degli
obiettori di coscienza, né l' altro Milani delle lettere alla madre, ma si limita ad analizzare la
Lettera a una professoressa e, in rapporto ad essa, il mito di Milani educatore ed
insegnante quale è stato accreditato nei passati decenni...". Ora, non è colpa né mia né di
Berardi se quel mito, sottoposto, non dico a verifica, perché un articolo di giornale non è
sufficiente per ciò, ma a quella semplice lettura della Lettera che molti suoi seguaci non
hanno mai fatta, pare destinato a disgregarsi da solo. La notizia che nella "scuola di
Barbiana" si usavano, oltre alle mani, anche la frusta per punire i ribelli, e che volavano
botte non sono stato io il primo a darla, è stato lo stesso don Milani; il quale, del resto, non
aveva mai fatto mistero d' avere una concezione autoritaria ed autocratica del ruolo dell'
insegnante; una concezione del tutto coerente con i modelli allora in auge nei paesi del
socialismo reale, e con la sua visione classista della società. Anche Gramsci, in carcere,
pensava che fosse necessaria la coercizione, cioè le busse e i castighi per educare i
giovani; ma a proposito di scuola e di cultura aveva idee molto più articolate e complesse
di quelle di don Milani. Tanto per cominciare, non credo che avrebbe voluto introdurre il
contratto dei metalmeccanici tra le materie di studio della scuola media, e ciò soltanto per
una questione d' ordine (ogni cosa al suo posto); non avrebbe sputato sull' Iliade del Monti
e non avrebbe buttato via nessun libro, nemmeno il Catechismo o il Manuale del caporale
in cui anzi aveva visto riassunti, in estrema sintesi, secoli di saggezza educativa. Don
Milani invece incominciò a buttare via i libri di matematica e di pedagogia della scuola
magistrale, e i suoi seguaci sessantottini buttarono poi via tutto il resto. Nacque il
"donmilanismo": che, forse, era lontano dalle intenzioni di don Milani, ma che fa parte
integrante del suo mito e non può essere trattato separatamente, come se appartenesse a
un' altra persona... Tullio De Mauro, nell' articolo su Repubblica del 2 luglio 1992, dice che
io sono un bravo scrittore e di ciò lo ringrazio, ma dice anche che non ho titolo per parlare
di don Milani; e su questo punto non sono d' accordo. Per quindici anni, dal 1965 al 1979,
mi sono sforzato, giorno dopo giorno, di essere anche un bravo professore; e ho maturato
in quegli anni difficili la persuasione - forse sbagliata ma certamente legittima per un
insegnante - che la nostra povera scuola di Stato abbia urgente bisogno di un legislatore
che porti a termine le riforme avviate trent' anni fa; e che non abbia invece alcun bisogno
di redentori, e di maestri carismatici come don Milani. Che i redentori portino solo
scompiglio; e questo è tutto. Ho riletto in questi giorni, su vari giornali, vecchie e nuove
statistiche sulla "mortalità scolastica" e sull' analfabetismo degli anni Cinquanta e
Sessanta. Anche la Lettera a una professoressa è piena di statistiche: ma - l' ho già detto
nell' articolo del 30 giugno - fu una mistificazione attribuire quei numeri, che riguardavano
le più grandi trasformazioni sociali dell' Italia unita, allo scontro tra borghesia e proletariato;
scontro a cui avrebbe dovuto corrispondere - secondo don Milani - lo scontro tra
insegnanti e studenti all' interno della scuola. Questa è la ragione profonda e la vera
chiave di lettura della Lettera, e questo è anche il motivo per cui quello scritto, oggi, è del
tutto improponibile. Ma i miti, l' ho già detto, stentano a morire. In quanto a don Milani,
duole dirlo ma bisogna dirlo perché è la verità: le uniche statistiche che lui contribuì
davvero a incrementare furono quelle dei passaggi dalla scuola di Stato alle scuole
private, religiose e non, e degli introiti di quelle scuole. Anche se gli scopi della sua Lettera
erano tutt' altri, il risultato concreto, in definitiva, fu proprio questo. Da uomo intelligente e
informato qual era, don Milani sapeva che non erano gli insegnanti i soli e i veri
responsabili dei mali della scuola italiana; sapeva che al di sopra degli insegnanti c' era il
potere legislativo, c' erano i ministri democristiani di quegli anni, c' era il potere esecutivo
dei burocrati; sapeva che gli insegnanti non sono responsabili dei programmi e degli orari
della scuola in cui insegnano, e che anche il loro massimo potere, quello di bocciare, non
è un potere individuale ma collegiale. (Perciò il suo libro è demagogico fino nel titolo:
nessuna singola professoressa aveva avuto il potere di bocciare i ragazzi di Barbiana, ma
quelle bocciature erano state decise da un organismo collegiale di cui facevano parte, per
legge, un presidente di commissione e una decina di insegnanti di varie materie, tra cui un
prete). Povera Italia e povera sinistra! Don Milani sapeva tutte queste cose: però volle
ugualmente dividere il mondo come allora s' usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i
cattivi dall' altra, e si scelse come bersaglio di comodo gli insegnanti. In questo senso, e in
questo soltanto, il suo libro fu una mascalzonata: perché attribuiva tutti i mali della scuola
ai soli professori ("la vostra scuola", "i vostri programmi") e istigava al linciaggio morale di
un nemico, che non era poi nemmeno il vero nemico. Ma se don Milani avesse davvero
alzato il tiro contro l' istituzione scolastica e i suoi potentati, l' arcivescovo lo avrebbe
costretto a fare le valige anche da Barbiana e gli avrebbe tolto anche quell' ultimo pulpito.
Perciò - credo - lui se la prese con gli insegnanti, che del resto sembravano messi lì
apposta per fare da bersaglio ai rivoluzionari dell' epoca, come i poliziotti di valle Giulia
infagottati nelle loro divise. Soprattutto i giovani, e tra loro l' autore di questo articolo,
erano tutti poveracci e figli di poveracci: miracolati del "miracolo economico", che, in onta
alle statistiche, gli aveva permesso di arrivare alla laurea. Manovalanza intellettuale senz'
altri sbocchi sul mercato del lavoro, che dall' università passava direttamente nella scuola
di Stato, allora in grande espansione, e sognava e si sforzava di migliorarla. Queste e non
altre furono, in concreto, le vittime della Lettera a una professoressa; i beneficati, invece,
furono i furbi di sempre, studenti e insegnanti che buttarono all' aria libri e registri e si
fecero qualche anno di finte lotte e di vere vacanze, movimentate da cortei e da discorsi
reboanti contro la scuola di classe... Povera Italia! E povera sinistra, che dal ' 68, o forse
dal ' 45, non ha saputo fare altra politica culturale che quella d' applaudire tutte le
primedonne e tutti i tenori che hanno calcato le platee del bel paese, e che già ha
incominciato a pagarne le conseguenze; ma che ancora non sembra rendersene conto, e
resta cieca e sorda sui suoi errori di sempre.