L`impotenza del mondo di fronte al dramma del Ciad

Transcript

L`impotenza del mondo di fronte al dramma del Ciad
Africa
L’impotenza del mondo di fronte al dramma del Ciad
Marco Cochi
11/06/2009
All’inizio degli anni ottanta il Ciad era stato classificato come la nazione
più povera del mondo. Quasi tre decenni dopo, questo vasto paese
dell’Africa centrosettentrionale si trova ancora nei bassifondi dell’Indice di
sviluppo umano pubblicato dalle Nazioni Unite: 170.mo posto su 177 Stati
presi in esame. La miseria che lo attanaglia è testimoniata dal fatto che
l’80% dei suoi dieci milioni di abitanti vive sotto la soglia della povertà
con meno di un dollaro al giorno. Gran parte della popolazione si dedica all’agricoltura o alla
pastorizia. Ma anche qui le difficoltà sono molte perché il territorio è arido e numerosi sono i
periodi di siccità che generano gravi disagi a queste attività. Nel frattempo un rapido processo di
desertificazione sta aggravando il prosciugamento delle poche risorse idriche presenti, tra cui il lago
Ciad.
Una guerra civile senza fine
Ma i problemi del Ciad non sono solo di ordine economico e ambientale, ma anche e soprattutto di
assetto politico. Fin dall’indipendenza conquistata nel 1960, l’ex colonia francese è stata sede di
vari tentativi di rivolta. Gruppi di guerriglieri sono insorti a più riprese in tutto il paese, sostenuti
soprattutto dalla Libia che mirava ad annettersi la zona settentrionale, la fascia di Aouzou nel
Tibesti, ricca di uranio. Da qualche anno a questa parte è stato trovato il petrolio, e gli appetiti si
sono moltiplicati. In particolar modo quelli del suo attuale presidente, l’ex leader del Movimento
patriottico di salvezza (Mps) Idriss Déby Itno. Déby, salito al potere nel 1990 in seguito alla
cacciata del sanguinario dittatore Hissène Habré, rifugiato in Senegal da 19 anni, ha vinto tre
elezioni presidenziali, ma l’opposizione ha sempre sostenuto che siano stati i brogli a tenerlo in
carica.
Certo è che la costituzione fino al 2005 limitava a due i mandati presidenziali che un cittadino
ciadiano poteva ricoprire, ma Déby, come molti altri suoi omologhi africani, ha preteso e ottenuto
una modifica costituzionale attraverso un referendum riconosciuto dalla comunità internazionale
malgrado i dubbi sulla sua regolarità. Modifica che nel 2006 gli ha permesso di essere rieletto con il
77,5 per cento dei voti grazie anche alla scelta dell’opposizione di boicottare la consultazione.
Da quando Déby regge le sorti del Ciad molti movimenti antigovernativi hanno tentato di rovesciare
il suo regime. L’uomo forte di del Ciad ha subito gli ultimi attacchi della guerriglia nell’aprile del
2006 e nel febbraio 2008 (dieci offensive ribelli dal 2005 di cui due sole fino à N’djamena, la
capitale). Nel primo caso i ribelli, sostenuti da Cina e Sudan e capeggiati da Mahamat Nour
Abdelkerim, successivamente rientrato nei ranghi e nominato ministro della Difesa, arrivarono alla
periferia della capitale, dove le truppe governative li annientarono prendendo decine di prigionieri
che furono persino mostrati in televisione.
Déby si difese cacciando i nazionalisti di Taiwan, con cui fino a quel momento aveva relazioni
diplomatiche e riconoscendo Pechino, che aveva armato i ribelli. Sperava così di poter governare
serenamente. Nel febbraio dello scorso anno, invece, alcuni gruppi ribelli finanziati da Khartoum e
guidati dai suoi stessi nipoti, i gemelli Timan e Tom Erdimi, e dall’ex ambasciatore in Arabia
Saudita ed ex ministro della Difesa Mahamat Nouri, hanno messo per tre giorni a ferro e fuoco
N’djamena. Solo l’aiuto del contingente francese, presente nel paese in base ad accordi postcoloniali, ha consentito di respingere l’assalto e garantire la sicurezza del presidente.
Nelle ultime settimane, il dittatore si è di nuovo trovato ad affrontare l’avanzata di colonne di ribelli
provenienti dal Sudan. Stavolta gli insorti si sono raggruppati sotto la sigla dell’Unione delle forze
della resistenza (Ufr). La nuova alleanza, nata il 18 gennaio scorso, si è subito presentata come un
movimento con un’unica direzione politica e militare, dopo anni di divisioni e contrasti che avevano
portato alla formazione di nove diverse fazioni.
L’offensiva, lanciata dall’Ufr lo scorso 4 maggio, è stata respinta dopo tre giorni di combattimenti
in cui, secondo fonti vicine all’esecutivo, avrebbero perso la vita 225 guerriglieri e 22 militari.
Sembra dunque difficile che il dominio del presidente Déby possa essere scalfito, almeno fino a
quando riuscirà a mantenere il controllo dell’esercito e ad apparire come l’unica opzione possibile,
elemento che gli consente di ottenere l’indispensabile sostegno internazionale, specialmente
francese. Un sostegno che costituisce la sua principale fonte di legittimazione e di supporto in uno
scenario di crisi permanente in cui il Ciad deve fare i conti anche con l’emergenza dei rifugiati che
provengono dal vicino Sudan e dalla Repubblica Centrafricana.
Il sanguinoso conflitto che dal febbraio 2003 imperversa in Darfur, regione a ovest del Sudan, ha
infatti provocato l’arrivo in Ciad di circa 250mila rifugiati sudanesi e 180mila sfollati ciadiani
fuggiti dai ripetuti attacchi dei janjaweed, le milizie irregolari di arabi nomadi che con il benestare
del governo sudanese di Omar al-Bashir radono al suolo interi villaggi.
La missione europea
Per fronteggiare questa emergenza, l’Unione europea il 28 gennaio del 2008 ha lanciato la missione
militare Eufor Tchad/Rca, rimasta in Ciad fino al 15 marzo scorso in appoggio alla missione Onu
Minurcat. Composta da 3.700 unità e stanziata in applicazione della risoluzione 1778 del Consiglio
di Sicurezza dell’Onu del settembre 2007, l’operazione ha avuto il compito di contribuire alla
stabilizzazione dell’area al confine con il Darfur, al fine di facilitare la distribuzione degli aiuti
umanitari e di proteggere i civili, in particolare i rifugiati.
Avviata proprio in un momento di crisi e ritardata fino ad un dispiegamento ottimale a metà del
2008, la missione Eufor non è stata all’altezza del mandato assegnatole. Si sono evidenziate alcune
delle maggiori lacune delle forze Ue, in particolare la scarsità di alcuni mezzi militari, come gli
elicotteri. L’operazione è stata anche accusata da Oxfam International, un ’importante network di
cooperazione, di non essere riuscita a proteggere i civili dalle violenze perpetrate nell’est del Ciad.
Le valutazioni delle istituzioni Ue sui risultati della missione, sono di diverso tenore. Secondo
Bruxelles durante i 12 mesi in cui è stata operativa l’Eufor ha contribuito a prevenire attacchi nei
confronti della popolazione civile all'interno della sua area di operazioni. È innegabile che la più
grande operazione che l’Ue abbia mai condotto fuori dall’Europa ha dato un valido supporto sia ai
circa 250mila rifugiati provenienti dal Sudan che agli sfollati interni nel Ciad orientale.
Lo scorso 15 marzo l’Eufor ha lasciato il passo alla Minurcat, che al momento conta meno di
tremila operativi, mentre il dipartimento delle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite ha
numerose difficoltà a raggiungere i 5700 effettivi previsti. Inoltre, il dispositivo messo in opera
secondo le risoluzioni 1778 e 1861 del Consiglio di Sicurezza, prevede una forza militare e una
forza di polizia addestrata dall’Onu. Quest’ultima, nota con la sigla Dis (Détachement intégré de
sécurité), scorta di norma i convogli umanitari delle Ong e protegge i rifugiati, ma ha ridotto le
operazioni in seguito al recente deterioramento delle condizioni di sicurezza dovuto alla crescente
diffusione del banditismo armato dopo gli scontri di maggio tra ribelli e truppe governative.
I convogli umanitari e le scorte sono di vitale importanza perché il personale delle Ong possa
recarsi nei campi rifugiati e nelle aree destinate agli sfollati interni. Fino a quando non si riuscirà a
migliorare la situazione di sicurezza, il che richiederebbe un impegno internazionale ben più
consistente dell’attuale, anche gli aiuti umanitari avranno enormi difficoltà a raggiungere i
destinatari. All’impotenza della diplomazia internazionale si aggiunge quindi il rischio che la
spirale di violenza porti a un dramma umanitario sempre più grave.
Marco Cochi svolge attività di ricerca presso il Centro Altiero Spinelli dell’Università di Roma Tre
ed è Consigliere del Sindaco di Roma Gianni Alemanno per la cooperazione decentrata.