Paesaggi_della_Paura_Mall

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Farhad Manjoo, Paesaggi urbani
della paura, Salon, 26 agosto 2006
Titolo originale: Cityscape of Fear – Scelto e tradotto per
eddyburg_Mall da Fabrizio Bottini
22 agosto 2006 – Dopo una settimana dagli attacchi terroristici dell’11
settembre, al Lincoln Center for the Performing Arts di New York sono
state allineate una mezza dozzina di barriere di separazione di tipo
autostradale a formare un blocco attraverso la Josie Robertson Plaza,
principale punto d’accesso al complesso dall’esterno. Queste barricate di
sicurezza, sgradevoli lastroni bianchi conosciuti come “New Jersey”,
erano pensate per proteggere le sale del centro esposizioni da un camion
bomba che fosse entrato in velocità. Forse, solo un improbabile terrorista
acculturate vorrebbe colpire il Lincoln Center, che sta otto chilometri a
nord di ground zero nell’Upper West Side di Manhattan: ma nella tensione
successiva agli attacchi, nessuna precauzione appariva eccessiva. I
portieri del Lincoln Center hanno pensato di migliorare quelle barriere
Jersey mettendoci sopra delle piante in vaso colorate, una tecnica di
intervento simile a quella di appiccicare una tiara sopra Medusa. Sono
passati quasi cinque anni dagli attacchi. Quelle barriere sono ancora al
loro posto.
Per valutare quanto l’America sia cambiata dall’11 settembre, basta
camminare per una qualunque grande città. Quanto si vede punteggiare il
paesaggio è la concrezione fisica della paura. Le installazioni di sicurezza
impiantate dopo gli attacchi continuano a bloccare l’accesso pubblico e a
ingarbugliare il traffico pedonale. Fuori dal capolinea degli autobus della
Port Authority a Manhattan, vistose fioriere rosse minacciano il traffico
pedonale delle ore di punta. Fioriere giganti che hanno abbandonato
qualunque ambizione vegetale, molte delle quali sbocciano solo di
spazzatura e terra rovesciata. Ci sono “barriere francesi”, griglie d’acciaio
pensate per controllare le folle, che circondano molti luoghi simbolo –
come il Transamerica Building di San Francisco – come le corpulente
guardie del corpo di un attore di secondo piano. Poi ci sono i paracarri,
vari elementi cilindrici per impedire l’accesso ai veicoli, tanto diffusi che ci
si chiede se siano riusciti a riprodursi asessualmente. A Washington, ci
sono paracarri a circondare ogni cosa. É da quando il generale
confederato Jubal Early attaccò la città nel 1864, che la capitale nazionale
non si sentiva tanto assediata.
E non si tratta solo delle barriere, ci sono anche gli edifici. Dopo l’11
settembre, i consulenti per il rischio che lavorano per la polizia, le agenzie
federali, le compagnie di assicurazione, hanno preso il controllo di
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numerosi progetti di nuove costruzioni. “La sensazione è che i consulenti
per la sicurezza agiscano come architetto associato in qualunque
progetto, oggi” commenta Paul Goldberger, critico di architettura del New
Yorker. Questi consulenti tendono a preferire la massa, a spese della
grazia. Come primo esempio, Goldberger indica la Freedom Tower, il
grattacielo al centro del proposto nuovo Trade Center. Dopo che il New
York Police Department aveva giudicato un primo progetto vulnerabile alle
autobombe, il progettista dell’edificio David Childs, dellos tudio Skidmore,
Owings & Merrill, è stato obbligato a spostare la struttura in una posizione
molto arretrata rispetto alla strada, e a trasformare i 20 piani più bassi in
un piedestallo senza finestre di calcestruzzo rinforzato ricoperto in vetro.
“É un esempio di architettura piuttosto grigio” dice Goldberger della torre.
“Non parla della libertà al mondo, proclama la paura”.
Le barriere Jersey con le fioriere al Lincoln Center
Alla valutazione di Goldberger corrisponde la preoccupazione più ampia
dei progettisti su quanto si è perso nelle città cambiate dopo l’11
settembre. Le misure di sicurezza, si dice, stanno distruggendo molte
funzioni e piaceri della vita urbana. Non è necessario aver studiato Jane
Jacobs per capire che le cose migliori di una città spesso si trovano sul
marciapiede, nella densa, caotica, libera interazione fra persone e edifici.
É una cosa che può apparire lontana e teorica. Ma spingendo le persone
a stretto contatto in spazi ristretti, le città incrementano naturalmente le
possibilità di scambio sociale. Il solo passeggiare su un marciapiede di
New York richiede e instilla più tolleranza per le altre persone di quanta ce
ne sarebbe probabilmente bisogno per un anno di vita in un esurbio di
Atlanta. Il teorico delle culture Marshall Berman, autore di On the Town e
di altri libri su New York, aggiunge che dopo l’11 settembre “a New York si
sono rafforzati i legami della società civile”. Ritiene che ora, in un’epoca di
scarsa criminalità, la città si senta più unita di quanto non sia mai
avvenuto nel passato recente.
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Ma altri temono che le misure di sicurezza possano inibire i legami urbani.
Arretrare di molto gli edifici rispetto alla strada, collocarli sopra scudi di
cemento anti-esplosione, stipare I marciapiedi di barricate, controllare
continuamente le persone mentre entrano ed escono dagli edifici,
sorvegliarle elettronicamente in ogni momento di attività: sono cose che ci
allontanano l’uno dall’altro e favoriscono le nostre paure e i sospetti. Gli
effetti sono fisici, e psichici. Goldberger indica come prima si potesse
camminare per tutta Manhattan, sia sui marciapiedi che negli atri dei
maggiori edifici, senza mostrare alcuna credenziale. Oggi questo risulta
quasi impossibile, perché l’ingresso a quasi tutti i fabbricati richiede di
attraversare un punto di controllo della sicurezza. La cultura del
checkpoint pesa sull’anima, ricordandoci di continuo che viviamo in
un’epoca di pericolo, che chiunque vediamo potrebbe tentare di farci del
male.
Fioriere di sicurezza senza fiori al capolinea bus della Port Authority di Manhattan
Molti architetti progressisti sostengono che ciò non è necessario, e hanno
proposto idee progettuali che introducono i legittimi criteri della sicurezza,
senza cedere ai peggiori incubi. “L’architettura ha sempre elevato la
nostra società nei momenti di disagio, rivolgendosi sempre al senso di
ottimismo sociale” dice Tim Christ, architetto dello studio di Santa Monica
Morphosis, apprezzato per il modo in cui ha fuso bellezza e sicurezza nei
suoi progetti di spazi pubblici, come l’enorme nuovo edificio federale a
San Francisco. A New York, in particolare, una serie di studi sta tentando
di inserire i nuovi requisiti per la sicurezza in modo innovativo nella
progettazione. Ma vincere la paura è difficile, e gli architetti, le cui
creazioni sono destinate a rimanere sulla terra per decenni a venire, sono
divisi sulle possibilità di riuscire. Gli attacchi dell’11 settembre hanno
messo le nostre città sulla prima linea di una nuova guerra. Possiamo
evitare che appaiano come dei campi di battaglia?
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Gli sbarramenti Jersey non hanno un ruolo naturale sui marciapiedi
urbani. E questo non solo perché sono brutti: non fanno neppure niente
per fermare gli attacchi. Progettati come separatori di corsie stradali dalla
Highway Authority del New Jersey nel 1955, sono strutturati per essere
collocate n posizione parallela alla direzione delle auto. Un veicolo che si
sposta troppo vicino alla barriera, salirà il margine inclinato scivolando di
nuovo verso la carreggiata, con danni minimi. Se collocate nell’altro senso
– di fronte a un edificio a proteggerlo da un attacco frontale – le barriere
Jersey non sono un vero ostacolo, per un’auto o un camion ad alta
velocità. Nei crash test, i veicoli veloci che impattano sugli sbarramenti ad
angoli ottusi semplicemente li rovesciano, o ci saltano sopra, dritti verso il
bersaglio.
Ma nella corsa a rimpolpare la sicurezza dopo l’11 settembre, pochi
gestori di edifici hanno riflettuto molto sui difetti estetici o pratici di questi
sbarramenti. Non c’era tempo per queste alte analisi: si doveva installare
qualcosa rapidamente, e le barriere Jersey erano quanto a disposizione.
Betsy Vorce, portavoce per il Lincoln Center, afferma che nessuno al
Lincoln Center considera gli sbarramenti con sopra le fioriere un’immagine
della sensibilità artistica del centro. Nell’ambito di un generale
rinnovamento, il complesso attualmente sta cercando di rimpiazzare le
Jersey con qualcosa di più definitivo, anche se sino a tempi recenti non
c’è stata molta riflessione sui progetti delle barricate. In casi di
emergenza, sottolinea la Vorce, “la sicurezza viene prima di tutto”.
Ma in una guerra infinita, non è mai chiaro quando sia passata
l’emergenza. Dopo gli attacchi dell’11 settembre, specialmente a New
York e Washington, non c’è stato un momento esatto in cui le persone
potevano decidere che la situazione era finalmente tornata alla normalità,
e le barriere potevano essere rimosse. Così, sono rimaste, e non solo al
Lincoln Center.
Paracarri che dovrebbero fermare i veicoli al World Financial Center
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Nei giorni successive all’11 settembre la Borsa di New York, circa 700
metri a sud del World Trade Center, ha deciso di limitare il traffico
veicolare sulle strade che scorrono vicine all’edificio. Gli incaricati hanno
chiuso i sette incroci attorno alla Borsa usando un’improvvisata
combinazione di barriere Jersey, birilli segnaletici, reti rifrangenti e furgoni
carichi di sacchi di sabbia. Il sistema di sbarramenti appariva ad hoc e
temporaneo, come i punti di controllo che si possono vedere nelle città
colpite dalla guerra in Medio Oriente. Ma non era affatto temporaneo. È
rimasto al suo posto per quattro anni.
Abitare e lavorare in un ambiente urbano militarizzato avvelena. Gli incroci
chiusi attorno alla Borsa fanno pensare a una città che si sia barricata
nelle sue peggiori paure. Nel 2004, i titolari delle attività nel Financial
District hanno cominciato a minacciare di andarsene perché i dipendenti si
erano stufati del trattamento indegno che comporta il trascorrere il proprio
tempo in un desolato paesaggio del genere. “Non si trattava solo di
percezione, ma di realtà: questo posto era un bersaglio, e tutti erano tesi
al Massimo” racconta Noah Pfefferblit, presidente di Wall Street Rising,
associazione di quartiere senza scopo di lucro della zona sud di
Manhattan. Agli abitanti non garbava l’essere continuamente richiamati ai
pericoli che avevano di fronte “osservando la soverchiante presenza
visiva della sicurezza”. Alla fine sono entrate in campo le autorità
urbanistiche cittadine a salvare il Financial District; è stato scelto uno
studio di TriBeCa, Rogers Marvel, per elaborare nuovi modi di proteggere
la zona.
NoGo placcati bronzo bloccano un incrocio nei pressi della Borsa di New York
Ho fatto una passeggiata in zona di recente, in un bollente pomeriggio di
un giorno della settimana. La Borsa continua a bloccare i veicoli agli
incroci circostanti, ma invece che dai furgoni fermi, le vie ora sono
popolate da grossi massi scolpiti detti NoGo. Progettati da Rogers Marvel,
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sono blocchi di cemento ricoperti da scatole poligonali di bronzo
luccicante. Assomigliano alla versione artistica da fumetto di una
barricata, una gradevole e giocosa gemma il cui vero scopo – impedire a
un veicolo carico di esplosivo di arrivare da qualunque parte vicino alla
Borsa – è invisibile al pubblico. In realtà, il pubblico ha trovato molti altri
usi per quelle barricate. A circa 60 cm da terra un NoGo è un sedile
ideale. Ci sono personaggi in abito tipico da Wall Street che si affollano
attorno ai NoGo all’ora di pranzo, e i ragazzini ci salgono e ci strisciano
come se fossero attrezzi ginnici da giungla urbana.
Come altri architetti che hanno lavorato alla progettazione di modalità
migliori per la sicurezza degli spazi pubblici, Jonathan Marvel è attento a
non fornire troppi particolari sugli incarichi dello studio. Ma è disponibile a
discutere perché, dopo l’11 settembre, ha iniziato a interessarsi alle
infrastrutture della sicurezza. Dice che guardando fuori alle strade di New
York nei mesi successivi agli attacchi, ha cominciato ad avvertire come gli
architetti non venissero consultati su questi nuovi e cruciali aspetti della
progettazione urbana. “Tutti nel mondo della progettazione sono turbati da
quello che accade” racconta Marvel. “Navigare nello spazio pubblico
significa attraversare nuove soglie che prima non esistevano. Ovunque,
ora, è come all’aeroporto: le barriere, le code, le ispezioni. All’aeroporto si
tratta di una scomoda necessità, ma quando lo si deve fare in un edificio –
come cittadino e come progettista – lo trovo inaccettabile”.
Marvel chiama l’attuale paesaggio stradale in cui crescono le barriere “un
ritorno al Medio Evo, quando c’erano il fossato e il ponte levatoio a
separare una parte della società dall’altra”. Fosse stato per lui, Marvel
avrebbe trasformato il fossato in una fontana. La sua filosofia implica la
realizzazione di elementi per la sicurezza la cui funzione non emerga dalle
forme, oggetti che, come nel caso dei NoGo, rispondano anche ad altre
funzioni pubbliche.
A Battery Park City, appena oltre West Street da ground zero, sede del
World Financial Center, lo studio Marvel ha ridotto il rischio delle
autobombe semplicemente riprogettando le strade attorno agli edifici
bersaglio. Sulla North End Avenue, l’arteria principale che conduce al
complesso WFC, il progetto propone di sollevare leggermente parti del
manto stradale e inserire bruschi punti di svolta in posizioni strategiche del
percorso. La nuova organizzazione non solo obbliga i veicoli che si
dirigono verso gli edifici a rallentare – cosa importante, perché
un’autobomba veloce può fare molti più danni di una lenta – ma
ridefinendo il percorso crea anche uno spazio pedonale e una piccola
zona a verde per l’area.
Appena all’esterno del World Financial Center, la Rogers Marvel ha
progettato quella che chiama Tiger Trap, una piazza pedonale realizzata
su un sostegno in cemento cedevole, del tipo utilizzato sulle piste di
atterraggio negli aeroporti. Il calcestruzzo è robusto a sufficienza per
sostenere i pedoni che ci camminano, ma crolla sotto il peso di un veicolo.
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Durante le verifiche, una Tiger Trap ha bloccato un camion da 7 tonnellate
che viaggiava a 80 all’ora. Ma si tratta di una capacità che resta
totalmente invisibile a chi frequenta quello spazio.
Negli ambienti dei progettisti, questo impegno rinnovato per la sicurezza si
è guadagnato visibilità, e le agenzie pubbliche che più hanno potere
sull’organizzazione urbana - come gli uffici responsabili per l’urbanistica a
New York e Washington o la General Services Administration, che
realizza gli edifici per gli uffici federali – hanno iniziato a sostenere in
modo deciso un approccio architettonicamente elegante alle minacce per
la sicurezza.
Nel 2001, la National Capital Planning Commission ha respinto numerosi
ingombranti progetti per proteggere il Monumento a Washington, come
uno che chiedeva di circondare tutto lo spazio con un anello di quasi 400
paracarri. La commissione invece – la stessa che aveva rimosso le
barriere Jersey al monumento dopo gli attentati di Oklahoma City del
1995, altra misura temporanea diventata permanente – ha scelto il
brillante quanto invisibile progetto dello studio di architettura del
paesaggio di Filadelfia Olin Partnership.
Ostacoli di vario tipo di fatto assediano l’edificio della Borsa
Olin ha proposto di utilizzare un elemento di recinzione del XVIII secolo
chiamato ha-ha, una parete bassa e lunga affondata in una trincea,
utilizzata dai giardinieri europei per tener chiusi gli animali senza alcuna
delimitazione visibile. È stata progettata una serie di ha-ha in granite
lungo I percorsi pedonali che conducono al monumento; questo semplice
sistema, che protegge lo spazio dai veicoli in modo gradevole, è stato
realizzato nel 2005.
“Se vogliamo rimanere una cultura sociale, dobbiamo consentire alle
persone di abitare un ambiente fisicamente sicuro, ma non invaso da
barriere fisiche” sostiene David Rubin, socio dello studio Olin. “Esiste una
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domanda crescente per questo tipo di raffinatezze”.
Altri sono meno ottimisti. Vishaan Chakrabarti, ex direttore della sezione
per Manhattan del New York Department of City Planning, dice che uno
dei problemi con le installazioni invisibili per la sicurezza è che spesso
non soddisfano i consulenti per la sicurezza. “Molti addetti del settore
sono abituati a credere che un posto debba anche apparire sicuro” spiega
Chakrabarti. E in effetti, uno dei paradossi degli apparati di sicurezza è
che talvolta l’aspetto può essere più importante dell’efficacia reale. Una
Tiger Trap è più efficace di una barriera Jersey nel fermare
un’autobomba: ma uno sbarramento Jersey appare più minaccioso. “In
particolare se si è un privato, quello che si tenta di fare è di rendere
esteriormente più sicuro il proprio spazio, in modo tale che i cattivi vadano
da un’altra parte” racconta Chakrabarti. “Il problema è che la comunità dei
progettisti e urbanisti sta tentando di rendere quella roba invisibile, loro
dicono: facciamo i NoGo più piccoli possibile. E la gente della sicurezza
potrebbe rispondere: va bene, tecnicamente e scientificamente anche
quelle cose più piccole possono avere il medesimo livello di protezione di
elementi più grossi, ma non sembrano altrettanto difensive”.
Anche spazi progettati per assicurare in modo intelligente la sicurezza,
continua Chakrabarti, diventano vittime delle fisime del settore, una
cultura dove gli addetti continuano ad aggiungere altri NoGo, o ad
aumentare il perimetro attorno agli edifici, anche molto oltre quanto
controllato dai progettisti. “La cosa difficile è che queste cose richiedono
un monitoraggio costante. Le nuove emergenze spiazzano qualunque
progetto. A New York, “c’è stato un gran installare barriere Jersey durante
la convenzione dei Repubblicani” dice Rick Adler, fondatore di RSA
Protective Technologies, che progetta sistemi di sicurezza perimetrali. “É
stato pari al 50% della spinta dopo l’11 settembre. La gente installava
qualunque cosa trovasse”.
Schizzo della base della Freedom Tower: arretramento e pareti cieche
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Per chi sostiene che gli esperti della sicurezza ora battono gli architetti
nelle decisioni sul progetto urbano, la Freedom Tower costituisce la Prova
Decisiva. I critici hanno a lungo dileggiato il progetto, perché troppo neutro
rispetto al luogo dell’attentato, un ibrido poco ispirato fra le visioni di due
architetti molto diversi – David Childs di Skidmore, scelto dal costruttore
Larry Silverstein, e Daniel Libeskind, vincitore del concorso per il progetto
generale di ground zero. Ma è stato nel giugno 2005, quando Childs ha
presentato un progetto adattato ai giudizi del New York Police
Department, che aveva considerato una versione precedente troppo
vulnerabile alle autobomba, che il clamore della critica ha raggiunto la
temperatura massima.
Per ridurre al minimo la vulnerabilità dell’edificio alle esplosioni sul
versante strada, Childs l’ha spostato dalle vie e marciapiedi circostanti.
Ora sarà arretrato in media di circa 27 metri da West Street, la va più
trafficata che passa dalla zona. Childs ha anche modificato il modo in cui
la torre si raccorda al terreno, convertendo l’ex invitante ingresso in un
piedestallo alto 70 metri in cemento rinforzato. La base in calcestruzzo
serve da scudo antiesplosione per l’atrio; ci saranno alcune aperture per
far entrare la luce ai margini più alti, ma sarà principalmente disadorno in
quanto a finestre. Gli occupanti lavoreranno in alto, sopra l’atrio, lontano
dalla portata di un’autobomba. Nicolai Ouroussoff, critico di architettura
del New York Times, ha scritto che il progetto rappresenta “esattamente il
tipo di incubo che i rappresentanti del governo ci hanno assicurato non si
sarebbe mai verificato qui da noi: una torre inespugnabile rivolta contro il
mondo esterno”.
Carl Galioto, socio dello studio Skidmore, mi ha raccontato di ritenere
gran parte delle critiche premature. Il basamento di calcestruzzo
presentato nel 2005 non era pensato come versione finale; gli architetti
hanno sempre desiderato rivestire il piedistallo della Freedom Tower co
qualcosa di più attraente. Qualche mese fa è stato fatto esattamente
questo, proponendo di avvolgere l’edificio in pannelli di prismi di vetro che
brillano al sole. Il vetro laminato sarebbe anche sicuro per gli occupanti: in
caso di esplosione si frammenterebbe in piccolissimi pezzi innocui, come
il finestrino di un’automobile.
Galioto ritiene che il nuovo basamento avvolto di vetro renderà la
Freedom Tower sia molto sicura che abitabile. Dice che il progetto
dimostra come gli attacchi terroristici non abbiano cambiato l’architettura,
quanto “la pratica dell’architettura”. I migliori progettisti, continua,
troveranno modi per esprimere bellezza anche coi nuovi vincoli. Come
esempio, indica il nuovo Seven World Trade Center, pure progettato dal
suo college David Childs.
Tower 7 non sembra spiccare in quanto monumento alla possibilità di
costruire grazia in un mondo grigio. L’edificio originale coi suoi 47 piani di
granite e vetro che stava oltre la Vesey Street rispetto alle Trade Towers è
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crollato al suolo alle 5,21 del pomeriggio l’11 settembre. La nuova torre,
che si è inaugurata a maggio, è un elegante palallelepipedo in cristallo
che ora domina su ground zero. Come la Freedom Tower, anche 7 sta
sopra una enorme volta di calcestruzzo (qui non per resistere alle
esplosioni, ma perché ospita una sottostazione della Con Edison che
alimenta gran parte di Lower Manhattan). Però dalla strada tutto quel
cemento non è visibile. Childs ha ricoperto la base con graziosi pannelli di
acciaio inossidabile progettati dal famoso designer di TriBeCa James
Carpenter. Carpenter ha anche ideato l’esterno in cristallo della torre, che
avvolge lo spazio ad uffici dall’ottavo piano alla cima. Ha scelto un vetro a
basso contenuto di ferro ricoperto da un materiale che tiene all’esterno
l’irraggiamento termico; vetro tanto trasparente che in certe ore, quando il
sole è basso sull’orizzonte, le pareti di Tower 7 sembrano scomparire, e si
possono vedere in trasparenza interi piani dell’edificio.
Tower 7: è sicura anche se non sembra un bunker
Ma la cosa più
sorprendente di 7,
tenuto conto della
posizione, è la sua
pronunciata normalità.
All’interno, l’edificio è
stato attrezzato con
uno spesso nucleo di
calcestruzzo per
proteggere gli
ascensori e le trombe
delle scale in caso di
attacco. Paragonato
alle vecchie torri WTC,
ha spazi più ampi per
l’evacuazione di
emergenza, e i piani
sono schermati da
strati più spessi di
materiali antincendio. I
progettisti lo chiamano
“l’edificio più sicuro
d’America”. Ma
dall’esterno, non si
direbbe. “Una delle cose migliori è che ha l’aspetto di tanti altri eleganti e
sofisticati fabbricati in vetro per uffici, anziché qualcosa di diverso”
commenta Goldberger. “Credo che sia un edificio molto bello”.
Ma Tower 7 non elimina tutte le preoccupazioni di Goldberger per la zona,
o per il modo in cui la progettazione urbana è stata degradata dalla
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sicurezza. Ammette che i nuovi progetti di Childs per circondare la base
della Freedom Tower in vetro attenuano la ruvidità del piedestallo di
cemento, ma indica come “non si affronti uno dei problemi chiave di tutti
questi progetti, ovvero che sono talmente arretrati dalla strada da
spazzarne via tutta la natura di spazio di vita civile”.
Molti progettisti e urbanisti concordano sul fatto che l’abitudine di arretrare
gli edifici dalla strada sia una delle più gravi imposizioni della sicurezza. In
The Death and Life of Great American Cities, Jane Jacobs parlava del
“complicato balletto del marciapiede” che caratterizza la parte di Hudson
Street del Greenwich Village, dove abitava negli anni ‘60. Un balletto che
coinvolge il ferramenta, altri negozianti, macellai, marinai, ragazzini, sarte,
bambini piccoli: gente di tutti i generi le cu interazioni quotidiane sulla via
affollata, sosteneva, costruiscono una sensazione di “generica fiducia
comune” nella città. Le installazioni odierne della sicurezza riducono le
nostre possibilità di incontri sulla strada, e rischiano di interrompere i
nostri legami occasionali.
“Le città sostanzialmente funzionano a livello della vita di strada, e se gli
edifici si trasformano in semplici pareti cieche perché la gente a paura
della strada, ciò contraddice fondamentalmente il significato delle città”
giudica Chakrabarti. E aggiunge: “Basta guardare alle mappe che usano
molti addetti alla sicurezza, che dicono l’edificio deve stare a tante decine
di metri dalla via. E si comincia a pensare che si stia parlando in generale
di suburbio. È quel modo di pensare che, una volta generalizzato, può
davvero danneggiare qualcosa che vogliamo e di cui abbiamo bisogno, e
cioè un ambiente urbano ad alta densità”.
Gli architetti, in quanto artisti, sono per natura contemplativi e un po’
ansiosi, qualcuno è portato ad esagerare sulle difficoltà concrete poste
dalle misure post-11 settembre; dove noi vediamo solo una fila di brutte
barriere Jersey o di edifici poco ospitalmente allontanati dalla strada, un
progettista vede i semi della devastazione civica. In alter parole, è
possibile farsi prendere un po’ la mano da queste analisi, e Chakrabarti
per primo capisce che arretrare qualche nuovo edificio in città non
trasformerà certo New York in un sobborgo. Inoltre, nel caso degli spazi
World Trade Center, gli arretramenti non saranno niente di nuovo. Come
ha osservato Goldberger, nel 1968 sono stati rasi al suolo sette ettari di
Manhattan per creare il “super-isolato” su cui è stato organizzato il World
Trade Center originale. Il nuovo progetto per ground zero ripristina le vie
allora eliminate: dunque potremo vedere più interazione stradale, visto
che aumenta il numero di strade sulla mappa della città.
Alcuni progettisti osservano addirittura che allontanare gli edifici dalla
strada possa essere una buona cosa per le città. Barbara Nadel,
architetto a New York e curatrice di un volume intitolato Building Security:
Handbook for Architectural Planning and Design, sostiene che se sono
ben progettati, le piazze ricavate negli spazi dell’arretramento possono
diventare utili ambiti aperti, dentro a metropoli altrimenti troppo fitte. Ora in
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molte città, aggiunge, “non c’è abbastanza spazio per sedersi a mangiare
qualcosa o prendere un po’ di sole”. Se si spinge un edificio lontano dal
marciapiede, si crea esattamente questo tipo di spazio.
Negli schizzi che mostrano un’immagine stradale della futura Freedom
Tower, la base di cemento dell’edificio è circondata da una vasta piazza
con alberi, gradini e una fontana. Per chi lavorerà a New York fra dieci
anni, quelle gradinate potranno essere un bel posto per fermarsi a gustare
un burrito. D’altra parte, nell’immagine si possono anche vedere i motivi
delle paure degli architetti. La piazza è circondata da una fila di elementi
per bloccare i veicoli che ricordano delle lapidi, e bisogna salire una
montagna di scale per arrivare all’edificio, barricato contro la strada.
Questo illustra il difetto principale
dell’usare l’architettura come
strumento per combattere il
terrorismo: costruiamo strutture
che possono durare per sempre,
ma che sono congelate nelle
nostre paure di oggi.
L’architettura è una forma d’arte
anticipatrice, la sfida di strutture
edilizie che continueranno ad
avere un significato e una
funzione nei decenni e secoli a
venire. D’altra parte le
autobombe, sono un fenomeno
fortemente moderno. “Esiste una
tendenza a progettare a partire
dalle paure per il terrorismo di
ultima generazione” sostiene
Goldberger. “La realtà è che I
terroristi sono molto furbi, sono
molto più avanti di noi. Noi qui
ancora a preoccuparci delle
autobombe rinunciando a tante
cose che sono più importanti”.
Certo possiamo costruire edifici da cui sia più facile evacuare in caso di
incidenti, o meno vulnerabili rispetto al collasso totale della struttura, dice
Chakrabarti. Ma l’architettura in ultima istanza è una difesa debole contro
il terrorismo. “Se si entra nell’idea di persone che fanno schiantare gli
aeroplani contro gli edifici – dice – si parla di una dimensione di follia
contro cui la linea di difesa non può essere l’architettura”.
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