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Umberto Toschi
La Città-Regione e i suoi problemi
Un resoconto critico dettagliato (e storicamente discutibile) del famoso
seminario internazionale di Stresa, che introduce in Italia il concetto di
regione metropolitana moderna. Tratto dalla Rivista Geografica Italiana,
giugno 1962
Nei giorni 19, 20 e 21 gennaio di quest'anno, l'Istituto Lombardo di Studi
Economici e Sociali, ILSES, ha riunito a Stresa uno scelto gruppo di
studiosi italiani e stranieri per un «seminario» sulla «nuova dimensione
della città» : la Città- Regione. Si è voluto affrontarlo in tutta la sua
complessità, aprendo un discorso «interdisciplinare», perciò, oltre agli
urbanisti, che costituivano la maggioranza dei presenti, erano stati invitati
economisti, sociologi e geografi. Il termine Città-Regione non è molto
felice e non lo è neanche nella sua forma originaria inglese City-Region 1 .
Ma ormai è divenuto un termine tecnico di generale comprensione e faut
de mieux serve allo scopo di indicare un fenomeno urbano che non tanto
si è prodotto di recente (rari ma imponenti casi singoli risalgono fin verso
la metà del secolo scorso), quanto di recente ha assunto una definita
fisionomia, suscitando le preoccupazioni degli studiosi non solo sul piano
conoscitivo, ma particolarmente per le sue implicazioni sociali,
economiche e lato sensu politiche.
È, per noi, anzitutto un fenomeno di sviluppo topografico degli aggregati
urbani maggiori, in certi casi per diffusione da un nucleo originario
principale, in altri per l'aggregazione, la saldatura di più, talora parecchi
nuclei in sviluppo. Città-Regione nel senso che tutta una regione, un
territorio, cioè una certa estensione, assume predominanti caratteristiche
urbane. E per essere più chiari basterà citare alcuni esempi del primo
caso con Londra, Parigi, Nuova York e del secondo caso con le
«conurbazioni» del Lancashire e della Ruhr, mentre dell'uno e dell'altro
aspetto partecipa Tokyo. Città per le quali si valuta una popolazione
paragonabile a quella di un medio Stato europeo: Tokyo 20 milioni,
Jugoslavia 19; Nuova York 15 milioni, Cecoslovacchia 14; Londra 10
milioni come l’Ungheria, ecc.
Le proporzioni sono ben diverse da quelle degli esempi citati, ma anche in
1
Fra geografi si parla ora spesso di «regioni urbane». É bene mettere in chiaro che, se il
fatto è press'a poco lo stesso, il concetto è diverso. Nella «regione urbana» l'accento è
posto sul fatto «regione», nella «città-regione» sul fatto «città». Così, ad esempio; la
«regione urbana» di Parigi è la regione, il «tratto di superficie terrestre» caratterizzato
dalla presenza di Parigi coi suoi sobborghi, le sue propaggini, i suoi satelliti o, potremmo
dire, per mettere in rapporto i due concetti, caratterizzato dalla «città-regione» Parigi.
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Italia lo sviluppo di Roma, Milano, Napoli; Torino, ecc. presenta ormai
aspetti e problemi analoghi 2 .
Quando, più di trent'anni fa, ho cominciato ad interessarmi della città dal
punto di vista geografico, una delle mie prime preoccupazioni è stata
quella di tentar di individuare i limiti, in senso topografico, della città : ma
già allora riconobbi vano cercare di riconoscerli in una netta
contrapposizione fra città e campagna, intesa come area rurale, e li indicai
pertanto come limiti fra città e non-città.
Nella casistica concreta poi, l'espansione di città prossime con propaggini
tendenti ad incontrarsi e a presentare aspetti di saldatura topografica,
rende maggiore in qualche tratto la difficoltà di individuare il limite, perchè
non si tratta più di limite fra città e non-città, ma fra questa e quell'altra
città.
Indicavo pertanto necessario assumere come criterio di delimitazione non
la continuità topografica, ma il carattere degli insediamenti, carattere da
riconoscersi fondamentalmente dal genere di vita in essi prevalente in
connessione con momenti economici tipicamente urbani, come industrie,
mercati, nodi di traffico e così via; quindi -come mi esprimevo già allora –
un «corpo» della città, con le sue «propaggini» dissolventisi in una
diaspora di «nuclei» e «nucleoli» e di «gemmazioni» a relativa distanza,
coi successivi collegamenti, raffittimenti intermedi e spesso infine
«saldature».
Da allora le cose si sono sempre più complicate per il crescente
disseminarsi di attività urbane nell'intorno delle città (esempi il
decentramento industriale e - tipico oggi - l'aeroporto), e per le intime
modificazioni che gli stessi generi di vita ruraìi ne hanno subito,
attenuando sempre più, su ampie zone, il contrasto fra città e campagna,
fra paesaggio urbano e paesaggio rurale.
Ovviamente il fenomeno non è sfuggito agli urbanisti, i quali, solleciti dei
problemi delle strutture concrete in evoluzione, debbono proporsi
interventi ai fini di strutturazioni, più o meno nuove, ma razionali, tali da
consentire, promuovere, guidare gli sviluppi economici in senso
produttivistico, gli sviluppi sociali nel senso del benessere,
dell’elevamento culturale, dell'armonia, non trascurando infine le esigenze
estetiche dei nuovi aspetti in uno col rispetto dei valori culturali acquisiti
dalla storia 3 .
2
Vedi p. es. i contributi dei nostri SESTINI (A.), Qualche osservazione geograficostatistica sulle conurbazioni italiane, in «Studi geogr. in onore di R. Biasutti », Firenze,
1958 e NICE (B.), Sviluppo e problemi delle grandi città italiane nel vol. III degli Studi in
memoria del prof Gino Zappa, Milano, Giuffrè, 1961, ed in ispecie il volume di
ACQUARONE (A)., Grandi città e aree metropolitane in Italia, Bologna, Zanichelli, 1961
(con ricca bibliografia). Sul termine conurbation, cfr. anche : ANDRIELLO (B.), Aspetti
urbanistici della conurbazione, «Atti Accad. Pontaniana », n. s., voI. X, 1961.
3
Su quest'ultimo punto, che è restato un po' in ombra nelle relazioni e interventi
successivi, ha richiamato l'attenzione il prof. Benevolo, proponendolo come altro
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Per le relazioni e discussioni del «Seminario» era predisposta una
articolazione in quattro temi: l'accentramento e il decentramento; i
problemi di trasformazione della città esistente in città-regione; i caratteri
sociali ed economici della città-regione; la dimensione e le forme della
nuova città. In realtà, come ovvio, gli argomenti venivano a compenetrarsi,
nelle relazioni e tanto più nelle discussioni, e ad arricchirsi continuamente
di nuovi spunti, di nuove preoccupazioni, di nuovi quesiti, sia come effetti
della casistica concreta, numerosa e multiforme, presa in considerazione,
sia nei riflessi economici e sociali dei problemi posti e delle soluzioni
prospettate, sia nei rapporti con gli strumenti a disposizione per
l'intervento urbanistico.
La trattazione del primo tema era introdotta da una dotta relazione del
geografo J.F. Gravier, distribuita a tutti gli intervenuti. Purtroppo egli non
aveva potuto essere presente di persona, ma il discorso di apertura
pronunciato dal prof. Piccinato ne ha ripreso i concetti e li ha sviluppati
con viva sensibilità dei valori umani del problema e dei suoi momenti
geografici. Lo sviluppo del fatto urbano si traduce in una «nuova
geografia», cioè in un nuovo assetto del territorio, cioè del suo paesaggio.
Dobbiamo noi accettare - egli ha detto - come fatale lo sviluppo quale in
fatto si viene determinando o non abbiamo il diritto, anzi il dovere, di
prospettarci questa nuova geografia come una «geografia volontaria»?
Non si tratta di trasportare talune strutture sin qui riconosciute come
«urbane» sul territorio; il problema è di fare di questo un organismo.
Con questo spunto il Piccinato ha aperto il colloquio su un concetto, che
ha polarizzato buona parte della discussione, quello di «congestione», il
fenomeno che si riconosce come effetto negativo («patologico» molti
hanno insistito a designarlo) dell'accentramento ed al quale vien fatto di
opporre come soluzione il «decentramento», soluzione peraltro
semplicistica se non la si integra con l'apporto di altri elementi qualitativi.
Per cui, fra l'altro, è apparsa seducente la definizione della città-regione
come «città integrata»,
Si vede la congestione, l'«urbanesimo», in suoi «difetti» soprattutto di
natura sociale, ma non ne mancano di stretta natura economica, come
eccessi di costi diretti e indiretti (rallentamenti, impacci) della circolazione.
Una definizione economistica della «congestione» ha affacciato lo
Astengo, per il quale ogni agglomerato ha una propria legge interna di
sviluppo e quindi un proprio punto di congestione, quello nel quale gli
elementi negativi vengono a prevalere sui positivi. E chiedeva agli
economisti di fornire un modulo di misurazione, che infatti in prima
approssimazione, ma ancora in astratto, l'economista prof. Forte ha
indicato nel punto nel quale l'utile di un singolo utente addizionale
problema specifico ed essenziale fra i tanti problemi affrontati: un problema di
conservazione selettiva e attiva, non indifferenziata né passiva.
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eguaglia lo svantaggio che determina nei terzi.
Pertanto, formulava ancora l' Astengo, la pianificazione è ricerca di un
nuovo equilibrio con capacità di sviluppo a rendimenti crescenti.
Il decentramento, aveva già detto Piccinato, non è un fine, è un mezzo
della pianificazione. La pianificazione è il fine, cui si deve mirare, ma a
sua volta va intesa come mezzo strumentale se limitata ad un determinato
tratto di territorio (città o città-regione o anche «campagna» che sia): la
pianificazione deve investire tutta l'unità; perlomeno tutta l'unità politicoterritoriale, nella quale quei «tratti» sono inclusi: pianificazione regionale
quindi, anzi in ultima istanza «pianificazione nazionale».
In questo quadro la nuova strutturazione del fatto urbano - quale viene
sviluppandosi nei fatti e ancora più quale dobbiamo proporci di guidare,
armonizzare - importa del pari una nuova strutturazione della
«campagna» o in altri termini delle attività primarie in rapporto alle
secondarie e terziarie. Il nostro intervento deve mirare a far sì che quelle
possano integrarsi con queste in un contesto organico, vitale, armonico.
All'attività primaria, nei rapporti coi centri urbani, - ha di rincalzo fatto
osservare l'economista agrario prof. Calcaterra - non spetta soltanto la
funzione di dare i «prodotti»che ne sono caratteristici, ma anche quella di
riempire gli spazi interposti fra le espansioni urbane. Per vero una tale
generalizzazione va presa cum grano salis, in quanto – se può valere per i
paesi di densa popolazione e forte sviluppo urbano - in diversa
considerazione debbono tenersi altri paesi o zone o plaghe, nelle quali
l'attività primaria, intensiva o estensiva, resta dominante anche su vasti
spazi, per condizioni ambientali fisiche, per rado popolamento, ecc.
Il secondo tema (problemi di trasformazione della città in città-regione) è
stato introdotto da una relazione di Jan Nairn, redattore di «Architectural
Review» con riferimento al caso specifico di Londra: Ma nella sua
descrizione e ricostruzione storica i «problemi» si sono innestati senz’altro
nelle «soluzioni». Il problema-base della città-regione, per lui, è semplice
nonostante la complessità delle elaborazioni richieste. Esso risiede nel
mantenimento simultaneo dell'identità delle singole parti e dell'identità
dell'insieme. Così - come egli insisteva con un'analogia suggestiva - le
mani, i piedi, le orecchie, gli occhi sono parti, provviste di individualità
distinta, di un tutto pure caratterizzato dalla propria individualità, più larga
e diversa. Le soluzioni: 1) distinzione fra categorie di paesaggi (tale è
molto opportunamente il termine da lui adottato): città, campagna, zone
industriali, sobborghi, ecc., quindi una suddivisione in «zone» a seconda
del loro «carattere» e non di una semplice o semplicistica «destinazione
d'uso dello spazio» ; 2) creazione nel «territorio urbano» di una struttura di
subcentri, ch'egli chiama mini-città e mini-villaggi (mini-towns, minivillages); 3) creazione di un'«ambiente di contorno», per quanto più
possibile di facile accesso per ognuno di essi. Il Nairn indica come solo
modo organico di raggiungere tale risultato un'espansione radiale
secondo direzioni opportune e fra aree rurali non ancora raggiunte da
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realizzazioni inadatte e, negli assi radiali, una espansione a nuclei (minicentri), con le rispettive cinture di verde e gli assi a loro volta coincidenti
cori le ferrovie.
Il modello così tracciato con riferimento alla «più grande Londra» (Greater
London) difficilmente potrebbe generalizzarsi. Lo si è visto subito nella
relazione successiva, che doveva aprire la discussione sul terzo tema.
In effetti il prof. Werner Hebebrand, inspiratore e realizzatore del Piano
della Grande Amburgo, impostava l'esame dei caratteri economici e
sociali della città-regione (ché questo, s’è detto, era il terzo tema)
sull'esposizione di un'esperienza concreta, di largo raggio e vivissimo
interesse, quella appunto della Amburgo postbellica. Esperienza peraltro
che si svolge in condizioni affatto particolari in quanto il territorio cui si
riferisce forma non soltanto una unità amministrativa, ma una unità
politica, con proprie possibilità di legislazione e con una base economica
e finanziaria poderosa: la Città-stato.
Inoltre le distruzioni operate dagli eventi bellici, specialmente nei quartieri
residenziali circondanti il più vecchio nucleo della città, hanno consentito
una pianificazione assai libera con spostamenti di residenze oltre che di
stabilimenti industriali. Lo sviluppo è quasi tutto al nord, in destra dell'Elba
(a sinistra, di là dal porto, resta, con minore sviluppo, la, zona di Harburg).
A destra dunque vengono individuate quattro zone concentriche
successive: 1) Il vecchio centro cittadino ha un raggio di circa 600 metri;
un tempo la metà dell'area vi era dedicata a strade e piazze, il resto alle
costruzioni; nella città nuova: il 50% è a disposizione degli insediamenti, il
35% a verde, il 15% per le comunicazioni, un terzo ai fabbricati
residenziali; 2) una, seconda zona, che si spinge sino a 6 chilometri dal
centro, è quella nella quale si erano diffusi i quartieri residenziali prima
della guerra ed oggi si trova destinata per circa un terzo della superficie
alle comunicazioni e ad aree di lavoro e un terzo a spazi verdi, specchi
d'acqua, servizi collettivi; 3) la terza zona giunge sino ai confini della Città
Libera, in media cioè a una ventina di km, e ingloba gli antichi centri di
Altona, Wandsbek e Bergedorf; è l'attuale zona di espansione, per la
quale è predisposta la formazione di altri nuclei satelliti marginali e tutta
una regolamentazione che consenta di non superare una densità di 300
abitanti per ettaro su una metà dell'area complessiva, lasciando l'altra
metà a spazi verdi.
Si pone infine il problema dell'espansione oltre i confini dello Stato, per il
quale - in mancanza di un organo federale di pianificazione regionale - si
sono creati comitati di coordinamento con le autorità locali degli Stati
circostanti (Schleswig-Holstein, Bassa Sassonia).
Alla relazione di Hebebrand è seguita quella dell'Astengo con una sobria
esemplificazione dei casi nostrani, muovendo dalle trasformazioni in atto
degli intorni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Firenze, Taranto,
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altrettanti casi ciascuno con proprie diverse caratteristiche e quindi propri
problemi distinti.
Una generalizzazione è consentita spostandosi a considerare gli strumenti
a disposizione per gli interventi pianificatori, nell'attuale regime politico ed
economico e allo stato della legislazione vigente. Si pongono,
praticamente, come sole efficaci forme di intervento vincoli e stimoli (fra
questi incluse le infrastrutture), mentre gli istituti che le consentirebbero al
livello della città-regione sarebbero i Piani territoriali di coordinamento
impostati su base regionale (nel senso dato al termine «regionale» dalla
Costituzione) e i Piani intercomunali. Per gli uni e per gli altri non si è
ancora superata la fase degli studi preliminari, più o meno avanzati,
mentre ancora relativamente numerosa, varia e più o meno efficiente è la
programmazione o pianificazione «settoriale» (strade, agricoltura,
industrializzazione. E pure, invece, l’urgenza è di superare questa fase di
pianificazione episodica nello spazio, nel tempo e per settori, se si vuole,
come necessario, uno sviluppo coordinato, armonico, delle destinazioni
d’uso del territorio, sviluppo che non è solo economico ma, in lato senso,
sociale, e che deve essere veduto anzitutto a livello nazionale e via via
articolato a livello subregionale, «intercomunale» e comunale.
Un intervento particolarmente ampio, informato e penetrante è stato
portato dall'economista prof. S. Lombardini, ordinario dell'Università
Cattolica di Milano ed esponente dell'Istituto di ricerche che si occupa del
piano intercomunale di Torino. Egli ha riconosciuto che i più degli
economisti, i quali hanno dedicato la loro attenzione ai problemi della
«economia spaziale», si sono intrattenuti su modelli teorici senza la
preoccupazione degli interventi operativi, mentre gli urbanisti - a suo
avviso - solleciti degli aspetti tecnici, ingegneristici ed architettonici della
pianificazione urbanistica, anche quando proiettata su un più esteso
territorio che non quello della città propriamente detta, non hanno avuto o
raggiunto adeguata considerazione dei riflessi economici degli interventi
da loro prospettati.
Il Lombardini ha espresso 1a preoccupazione che il dialogo fra economisti
e urbanisti sia reso difficile da diversità di linguaggio. I termini dello
sviluppo urbanistico, in ultima analisi, ha ritenuto di poter ridurre a due
problemi di localizzazione: delle industrie e delle residenze, con le relative
dimensioni. È su quest'ultimo particolarmente, sulle dimensioni, che
preme l'intervento degli economisti, tendendo a fissare, con opportune
misurazioni e calcoli, indici che rappresentino i dati più certi delle
alternative per operare le scelte. Tali alternative riguardano
essenzialmente le destinazioni del suolo espresse in vincoli, da una parte,
e dall'altra le infrastrutture determinanti incentivi. Esse vanno definite in
funzione di utilità sociale (occupazione, benessere, ecc.) in rapporto ai
costi e rendimenti economici e per di più tali da non porsi come rigide ma
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dotate di una certa flessibilità. Nei termini di codeste alternative le scelte
poi spettano all'autorità politica.
A questo punto si è inserita la parola del geografo, che, unico presente
come tale di professione, ho cercato di portare io stesso. Anzitutto ho
creduto bene mettere in chiaro, sulla base di una lunga esperienza di
partecipazione personale, che nella preparazione e redazione dei piani
urbanistici (siano piani regolatori comunali e ancora più se piani
intercomunalì o territoriali) uno dei fondamenti è stato sempre ed è
l'acclaramento delle situazioni di fatto non soltanto e direi anzi non tanto
delle strutture degli insediamenti, quanto delle condizioni demografiche ed
economiche nelle loro consistenze, nelle loro tendenze evolutive e quindi
nelle ragionevoli previsioni di sviluppo. Previsioni, a loro volta, esaminate
quali si profilano nell'ipotesi della continuità di una evoluzione
«spontanea» nell'incontrollato giuoco delle forze in atto e quali nell'ipotesi
dell'attuazione degli interventi di propulsione, di indirizzo e di disciplina
prospettati.
Non si nega certo la necessità di una più intima e feconda collaborazione
di economisti (che, del resto, raramente ci è mancata), ma pare il caso di
mettere sull'avviso circa l'esigenza di non procrastinare gli interventi
nell'attesa di una perfezione, spesso più formale che sostanziale, di
determinazioni statistiche e di modelli econometrici. Bisogna ricordare s'è permesso di dire il geografo - che la materia sulla quale si agisce è
apparentemente fisica, ma prima ancora è umana. E noni sarà mai
possibile ricondurla a un sistema di equazioni per quanto complesse, che
non siano soltanto rappresentative ma tali da potervi calare grandezze
concrete, numeri, e indurne a calcolo, sia pur con «cervelli elettronici» le
conclusioni normative.
Quella della pianificazione è un'opera creativa, per una facoltà dunque
che è propria dello spirito, il quale nell'atto di essa estrinseca in
immediatezza le risultanze di una sintesi di valutazioni, quindi scelte, di
elementi oggettivi od oggettivabili e di elementi soggettivi. E ammettiamo
anche che per semplificazione, se pur non rigorosa, si sia indotti a
rapportare i primi essenzialmente a «utilità», i secondi a «gusti».
Non meraviglino queste affermazioni del geografo, perchè egli tiene a far
notare (tanto più in un’accolta di studiosi di altre discipline) che la
geografia non si esaurisce nella geografia fisica, ma é una scienza
naturale ed una scienza morale al tempo stesso e pone il suo centro di
interessi nell'uomo, l'uomo vero, completo nel suo ambiente fisico e
storico. Ed è pertanto particolarmente sensibile;, il geografo, ai valori
propri, sì, fotografabili, misurabili del paesaggio, ma anche ai valori umani
delle distribuzioni spaziali, dei territori ossia delle «regioni». E, nel
momento in cui si applica a interventi normativi, questo suo spirito di
sintesi, questa sua attitudine a cogliere gli aspetti più diversi, tutti gli
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aspetti di una situazione in sviluppo, gli consente una collaborazione
diretta e di controllo critico nell'impostazione, nella redazione e
nell'attuazione di qualsivoglia piano, il quale tenda a organizzare
l'evoluzione «urbanistica», che é evoluzione del paesaggio urbano e
«territoriale».
Il quarto tema, apparentemente più tecnico, della dimensione e forma
della nuova città, era affidato a Sir William Holford, professore di
Urbanistica (Town Planning) nell'Università di Londra. Per vero la parte
più interessante della sua esposizione riguardava le «città nuove», per le
quali recava il frutto di una vastissima esperienza di attività personale in
varie parti del mondo ed in ispecie a Chandigarh, la nuova capitale del
Pangiab, a Canberra e a Brasilia, ma anche nelle new towns
dell'Inghilterra. La conclusione forse più interessante risultata è che per
pianificare una città nuova bisogna prendere in considerazione non solo e
non tanto la città stessa di per sé, quanto il territorio cui essa deve servire,
nel quale deve enuclearsi e vivere.
Su queste considerazioni può basarsi una previsione delle dimensioni
della città nuova. Non vi è quindi una univoca misura di dimensioni
ottimali.
Quanto alla sua forma le discussioni sono aperte. Superata ormai la
concezione di quelle altamente centralizzate, radiocentriche o «a stella»,
la preferenza cade su forme estese o lineari, con adesione alle condizioni
topografiche e sfruttamento delle medesime (per esempio con creazione
di specchi d'acqua intorno come a Brasilia, «città estroversa», o nel
mezzo, come Canberra, «città introversa»).
Il tema delle «dimensioni» e «forma» è stato allargato alla città-regione
dal relatore italiano prof. Quaroni. Ripreso il concetto di essa come città
integrata, e posto quindi come problema fondamentale quello della
coesistenza e vicendevole interconnessione delle tre forme economiche
primaria, secondaria e terziaria, Quaroni ha riconosciuto che gli urbanisti
architetti troppo spesso restano legati a una concezione formale, per la
quale sono portati a considerare anzitutto l'aspetto planimetrico e poi
quello volumetrico e a trascurare la dimensione tempo. Ordine e
pianificazione, invece, devono passare dalla concezione statica a una
dinamica.
Una difficoltà pratica si incontra nella diversa celerità di possibile
adattamento degli interventi urbanistici in confronto a quelli economici.
L'intervento urbanistico, in quanto si concreti in localizzazione di
insediamenti e di infrastrutture, determina fatti che non si possono
eliminare o modificare frequentemente e radicalmente, mentre l'intervento
economico può adattarsi con ben maggiore frequenza e rapidità alle
tendenze di sviluppo modificantisi in intensità e direttive e perfino alla
congiuntura. Nondimeno, oggi, lo stesso «consumo» delle strutture
urbane si è fatto più rapido che nel passato e quindi la pianificazione
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urbanistica e la stessa architettura si avviano -come si è espresso il
Quaroni - verso una certa fluidità in una loro continuità nel tempo.
La forma della città, ed in specie della Città-Regione, ha proseguito, più
che corrispondere a qualcosa di materiale e di stabile (più che imperniarsi
sugli aspetti di residenza, ha precisato poi l'Aymonino), consiste nella
«organizzazione» dei fatti urbani.
Correlato diviene il concetto della dimensione, pur essa non più
concepibile come qualcosa di statico, ma in divenire e senza possibilità di
generalizzazione univoca né a livello conoscitivo, né a livello precettivo.
Ovvio, comunque, dati questi concetti, il legame fra la base «urbanistica»
in senso classico e la base economica.
Il criterio di efficienza dèll'intervento, da quest'ultimo punto di vista, - ha
precisato Quaroni - vien dato da un bilancio fra costi individuali e sociali
da una parte e rendimenti individuali e sociali dall'altra. È questo che gli
urbanisti chiedono agli economisti di fornire per ciascuna alternativa di
azione pratica i termini di tali bilanci. Si deve infine evitare una
«mitizzazione» della pianificazione, che Quaroni conclude col definire «un
sistema di coordinamento ex ante delle decisioni col fine di minimizzare i
rischi».
Sollecitati a parlare i sociologi, particolarmente notevole è stato
l'intervento del prof. Pizzorno, in ispecie per i il dubbio che egli ha
espresso circa l'efficacia degli interventi urbanistici, considerati nel loro
aspetto fisico, sull'evoluzione sociale. La convinzione da lui manifestata
che il comportamento dei gruppi sociali e dei singoli nei rispettivi gruppi
non possa essere influenzato da modificazioni della struttura degli
insediamenti (spazi, volumi, rapporti fra aree coperte e scoperte, vie,
forme .architettoniche ecc.), ha suscitato un certo disorientamento negli
urbanisti, i quali pongono a motivo precipuo dei loro interventi proprio
l'opposta convinzione che essi valgano al fine di modificare, migliorare i
comportamenti e i rapporti sociali mediante la modificazione, il
«miglioramento» dell'ambiente.
Ma il sociologo con la sua affermazione paradossale tendeva a mettere
nella più vivida luce il momento reciproco: essere cioè le esigenze sociali
a portare all'urbanistica i problemi specifici che egli è chiamato a risolvere.
Per cui lo studio sociologico della situazione deve costituire, se non la
base, come i sociologi sono portati ad affermare, certo una delle basi
indispensabili per fondare e condurre qualsiasi opera di pianificazione
urbanistica. Questa peraltro non può limitarsi a seguire sviluppi sociali, né
a prevederli - per dirla col Piccinato - in una loro fatalità di processo
autonomo, ma non può fare a meno di proporsi di indirizzarli, così come si
propone di indirizzare gli sviluppi economici.
D'accordo che le strutture sociali non si modificano tanto per impulso
esterno di modificazione dell'ambiente fisico, quanto per evoluzione o
rotture interne sotto l’impulso di varianti fattori politici ed economici, e
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lentamente o anche bruscamente (crisi, guerre, rivoluzioni). Ma per ciò
che riguarda i comportamenti non si può generalizzare con tanta
semplicità. Anzi occorre proprio distinguere e individuare comportamenti,
che possono essere influenzati dalle modificazioni dell'ambiente recettivo
(dimore, infrastrutture, ecc.), e comportamenti, che tale influenza non
subiscono o subiscono in minima misura, e ancor quelli che possono
rapidamente modificarsi e altri che si modificano solo lentamente, Perchè
l'uomo desidera nella sua casa più luce, più aria, più calore, più conforto?;
e perchè l'intervento dell'urbanista e dell'architetto cercano di darglieli ?
Perché quell’uomo pensa che, ottenendoli, avrà più salute, più tranquillità
di spirito, più benessere. E non dilazionati nel tempo, ma ben presto, una
volta che alla sua casa, al suo insediamento tali condizioni - per quanto
fisiche ed esterne – siano assicurate. Altre influenze si rivelano invece in
più lungo periodo, come quelle che possono considerarsi indotte dalle
modificazioni ambientali e non più soltanto modificazioni fisiche, ma
economiche e politiche.
Il sociologo ha quindi largo campo di intervenire, a sprone, a sussidio, a
guida del pianificatore.
In particolare, poi, è da considerare che egli ha sviluppato tutta una
propria metodologia d'indagine, preziosa al pianificatore per i risultati che
ha dato e potrà ancora dare, ma anche soltanto proprio per assumerla
come strumento, di cui servirsi. E se ne serve già largamente.
Non vogliamo peraltro soffermarci ancora su altri interventi prodottisi nel
«Seminario», numerosi e sovente notevoli dagli stessi e da altri punti di
vista, generali e particolari, stranieri, nazionali e locali, né su altre
considerazioni che ci è avvenuto di fare in proposito, durante le riunioni e
dopo, nel riandare col pensiero le vivaci e fruttuose tornate del Convegno.
Annoteremo soltanto che un quadro comprensivo dei suoi risultati e delle
«aperture» che ha consentito, ha dato infine il prof. Giancarlo De Carlo,
che ne è stato l'ordinatore e animatore.
E tuttavia sarà permessa qualche ultima considerazione di geografo: Non
soltanto nel senso generico della opportunità e fecondità del suo incontro,
del suo colloquio con gli specialisti di altre discipline, che con occhio e
interesse non alieno, ma diverso, considerano e discutono gli stessi
fenomeni di cui egli si occupa: il che ormai è ovvio, anche se da questo
Convegno in modo eccezionalmente perspicuo dimostrato. Incontro e
colloquio, diremo ancora, tanto più necessari in quanto possono condurre
ad eliminare le tuttora troppo frequenti incomprensioni fra gruppi di
studiosi e il non meno increscioso (e antieconomico) parallelismo di
iniziative di ricerca conoscitiva ed opera applicativa, che si ignorano e non
ignorandosi potrebbero ben più fruttuosamente integrarsi. Non su questo
vorremmo ancora attirare l'attenzione dei nostri lettori, cultori di geografia,
ma su qualche altro punto specifico.
Un fatto nuovo dell'odierna geografia, è questo della Città-Regione, un
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fatto nuovo cui pervengono convergendo lo sviluppo della città e
l'evoluzione stessa degli insediamenti rurali sotto la spinta
dell'accelerazione delle comunicazioni e dei trasporti e delle esigenze
sociali delle popolazioni rurali. Quest'ultimo aspetto apre altro discorso,
non svolto ma soltanto accennato di riflesso nel «Seminario» di Stresa, e
che peraltro va fatto.
Si tratterà, in certo qual modo, di osservare i fatti invertendo il punto di
vista, osservarli dall'altro lato, cioè dal lato della non-città. Questo assunto
ci permettiamo di indicare proprio alla buona volontà dei geografi, sia che
considerino l'evoluzione del paesaggio nel suo aspetto fisico, sia che si
preoccupino dei momenti geografici della distribuzione spaziale della
popolazione in numero in generi di vita e correlativamente di quella delle
attività economiche nelle loro forme differenziate e localizzate. È un
campo di studio del più alto interesse per noi, anche se ci sia doveroso
avvertire ancora una volta che nella vastità della superficie delle terre
emerse, nel «mondo» oggetto limite della geografia, situazioni del genere
di quelle sulle quali sin qui ci siamo trattenuti si presentino ancora con
carattere di eccezionalità circoscritte nei paesi di più antico e più fitto
popolamento e di più intenso sviluppo economico, e prendano quindi
posto in una gamma di casi - da individuare e da classificare - che va
dagli intorni delle metropoli europee e americane, a un estremo, sino ai
territori di rado popolamento ed economia rurale estensiva (agricola,
allevatrice, forestale) o addirittura di tipo primitivo, all’altro estremo. È già
un compito, questo conoscitivo, che proprio il geografo meglio di alcun
altro può assumersi, nella sua forma di cultura, nel suo spirito di sintesi e
nella sua sensibilità ai valori spaziali, ai rapporti d’interdipendenza dei fatti
umani fra di loro per effetto della coesistenza e simultaneità localizzata di
sviluppo e fra essi, nel loro complesso e pei loro elementi costitutivi, e
l'ambiente fisico.
Indubbiamente da questa conoscenza - se non si soffermi, come non
deve, nella fotografia delle situazioni, ma individui e chiarisca le tendenze
evolutive che vi sono in atto - potranno derivare suggerimenti, indirizzi,
fecondi perché istruiti, in fase applicativa. Resti questa, fin che può
restare, al geografo o passi, in ciò che deve passare, all'economista, al
tecnico, all'urbanista e infine al «politico», al quale va legittimamente
riconosciuta la facoltà delle decisioni, perché su lui cade la responsabilità
delle loro conseguenze.
In altri termini l'argomento al quale vedrei volentieri rivolgersi l'attenzione
dei geografi potrebbe enunciarsi come «urbanizzazione della vita rurale e
urbanizzazione del paesaggio rurale». Non è che ne manchino cenni negli
autori più aperti e pronti, e prima cura dello studioso dovrebbe essere
proprio quella di raccoglierli dalla nostra letteratura.
Ma quello che resta da fare è una sistemazione della materia, un’indagine
concettuale più approfondita, una raccolta di informazioni dirette sul
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materiale informativo e sui luoghi nei quali i fenomeni si presentano tipici.
Compiti, che s'intrecciano fra loro, ché - se la sistemazione è il fine - la
raccolta di osservazioni è conseguenziale ad essa in quanto essa ne
prestabilisce l'inquadramento, ma va anche considerata preliminare, in
quanto è questa raccolta che dà alla sistematica il materiale sul quale
impostarsi, integrarsi, correggersi. Così come l'indagine concettuale è
preliminare alla sistematica e alla raccolta (indica essa che cosa
raccogliere!), ma non può operare soltanto su concetti a priori (del resto
non inventati, ma intuiti, cioè istintivamente indotti).
Da un punto di vista pratico un ultimo suggerimento pertanto vorrei
permettermi. Come è ovvio per il tema della Città-Regione, anche per
questo dell'evoluzione del paesaggio rurale, è augurabile che, mentre chi
può e si sente di farlo si applichi sin da ora al lavorò di speculazione
concettuale e di sintesi sistematica, altri e numerosi si volgano a studi
monografici anche di ambito spaziale il più circoscritto.
In questa «geografia della campagna che si urbanizza» come in ogni altra
geografia, da quella generale alle più specializzate, sono gli studi
monografici chiamati a recare il materiale più ricco, più utile, spesso
impareggiabile, talora insostituibile, per la costruzione delle sintesi, che
costituiscono la conclusione, il carattere distintivo e la ragion d'essere
della geografia come scienza.
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