Siena e la storia delle sue fonti di acqua

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Siena e la storia delle sue fonti di acqua
Siena e la storia delle sue fonti d'acqua
Un fiore, come una città, per svilupparsi ha bisogno dell’acqua elemento
fondamentale per le sue funzioni vitali.
La storia ci insegna che l’acqua ha giocato sempre un ruolo fondamentale per
la sopravvivenza e sviluppo delle città.
Molte grandi città devono la loro fortuna alla possibilità di rifornirsi di
abbondanti quantità d’acqua, due esempi sono città tipo Roma con il Tevere e
Firenze con l’Arno.
Dell’acqua ce n’è sempre stato bisogno per dissetare animali, per irrigare i
campi, per far funzionare l’industria. Insomma poter contare su ingenti
quantità d’acqua garantisce lo sviluppo e la prosperità di una civiltà.
Purtroppo Siena, data la morfologia e geologia del suo territorio, fu costruita
infatti sulla cima di tre colline, una posizione meno malsana e più difendibile
dagli attacchi nemici, ma con scarsa possibilità di reperire l’acqua da poter
sfruttare.
L’affannosa ricerca di acqua creò nei senesi la credenza che sotto la città scorresse un fiume il cui nome
aveva un chiaro richiamo mitologico “Diana”. Da
qui la necessità per i Senesi, nei secoli XI e XII,
dominati da un notevole sviluppo sia economico sia
demografico, di ricorrere alla costruzione di fonti
limitrofe alla città che sfruttassero vene esistenti o
addirittura vecchie fonti o pozzi di epoca romana o
etrusca. La fonte serviva a vari scopi, per far bere
uomini e animali, molto utile, in caso d’incendi. Per
quanto riguarda gli usi artigianali, la scarsità
d'acqua di Siena causò l'allontanamento dalla città
di certe attività, restarono tra le mura solo i piccoli
opifici per i quali era sufficiente servirsi delle varie
“fonti”.
Le fonti erano per lo più suddivise in tre vasche di raccolta,
collocate a vari livelli di altezza. Quella collocata più in alto, che
riceveva l”'acqua nova" che sgorgava dal muro, rappresentava
quella che oggi chiamiamo “l'acqua corrente" da utilizzare per
bere e cucinare. La seconda vasca si alimentava dal "supero"
della prima e, essendo meno pulita, serviva per abbeverare gli
animali. Nella terza, collocata in basso, si potevano lavare i
panni senza rischiare di sporcare le altre. Il trabocco finale, poi,
veniva utilizzato per scopi artigianali (ad esempio per lubrificare
le mole degli arrotini) o per innaffiare i campi circostanti. I due
bacini, indistintamente, servivano poi come perenne riserva
d'acqua in caso d’incendi.
Oltre ai militari vi erano dei custodi pagati dal comune che avevano il compito di sorvegliare la fonte ed il
suo bottino e di far rispettare le leggi, che erano al tempo molto severe in quanto l'acqua era un bene
ritenuto indispensabile; c'era ad esempio il divieto di sporcare l'acqua, di fare un uso improprio dei bacini, di
usare recipienti sporchi per riempirli d'acqua, di gettare rifiuti nell'acqua, di non introdursi nei bottini e così
via. Talvolta, se la colpa era particolarmente grave, si rischiava anche la pena di morte.
Gli acquedotti sotterranei che dopo aver raccolto le infiltrazioni
delle acque piovane e delle vene, nelle colline circostanti,
alimentavano le fonti, le fontane pubbliche e i moltissimi pozzi
privati sono chiamati “bottini”, scavati nell'arenaria, in parte
anche murati, quasi tutti praticabili.
Si trova citato nei documenti il termine "Buctinus" per la prima
volta nel 1226 e si riferisce al fatto che la volta di queste gallerie
sotterranee era a "botte" (solo il bottino di Fontanella, di probabili
origini etrusche, ha la volta "a capanna"). Si riconoscono due
metodi di scavo del cunicolo: nel caso del bottino di Fontebranda,
più antico, si scavava attaccando da una sola parte, cioè dalla
fonte, risalendo, lievemente tenendosi sempre tra i due strati
geologici che formano le colline senesi: uno superiore a sabbia gialla (arenaria pliocenica), porosa e
permeabile, che filtra l'acqua piovana e l'altro, sotto, di
argilla turchina compatta ed impermeabile che la
raccoglie. L'acqua raccolta scorreva sul fondo della
galleria in un canaletto (Gorello) sopra docci di
terracotta, aumentando di volume e giungendo
abbondante alla fonte.
Per il bottino di Fonte Gaia si iniziò invece da due punti:
Fonte Gaia e S. Petronilla, nella stessa direzione
convergendo nel punto mediale, ed anche, sempre da S.
Petronilla , a Nord verso Fonte Becci. Questo metodo era
più veloce ma anche più difficile perché poteva capitare
che le due gallerie non si ricongiungessero perché‚ passanti su piani diversi, e questo si nota in alcuni tratti
che sono più larghi o hanno la volta molto più in alto del normale. Proprio per mantenere una certa
direzione, in assenza di strumenti adeguati, ogni tanto si scavava in alto fino a sbucare all'aperto e questi
pozzi, detti anche occhi o smiragli, servivano anche per areare le gallerie e permettere il trasporto in
superficie dei detriti e dei materiali di risulta.
Il lavoro nei bottini era abbastanza lento, perché nella galleria poteva lavorare un solo uomo per volta. Si
scavava utilizzando attrezzi rudimentali come i picconi, pale e palette, paletti di ferro e scalpelli. Inoltre
veniva usato l'archipendolo, uno strumento fatto come una "A" con un filo centrale piombato che serviva per
stabilire la pendenza che, spesso, era mantenuta costante con una angolazione quasi impercettibile dell'uno
per mille, così che l'acqua, nel suo lento scorrere, potesse anche depositare impurità o calcare. Per
illuminare le tenebre, il comune forniva candele di sego e talvolta lanterne.
Dopo che un abbozzo di galleria era stato scavato, si provvedeva ad ampliarla e contemporaneamente
veniva rinforzata con archi, transetti e spesso spalline di laterizio per evitare frane e cedimenti. Quindi dietro
ai minatori lavoravano anche i carpentieri e molte altre persone, come i vetturali, cioè gli addetti al trasporto
dei materiali (nuovi e di risulta) e gli addetti ai rifornimenti alimentari, perché ci si accorse che il Comune
avrebbe risparmiato tempo se avesse provveduto a portare il cibo sottoterra, anziché far uscire i lavoratori
per la pausa pranzo. Questi avevano varie qualifiche: i manovali erano reclutati giorno per giorno e venivano
subito pagati ed erano precari. I maestri, gente più esperta, avevano un rapporto d’impiego più duraturo e
guadagnavano il doppio di un manovale, che a sua volta guadagnava il doppio di una donna. La paga
comprendeva sempre anche un pasto: pane, vino, melone, carne (talvolta).
C'erano anche operai specializzati reclutati tra i minatori delle colline metallifere che avevano un ingaggio
duraturo e sicuro. Questi minatori erano chiamati "GUERCHI", nome di derivazione tedesca (la spiegazione
popolare vuole che fossero chiamati così perché, lavorando per mesi sottoterra, quando rivedevano la luce
del sole ne venivano abbagliati tanto da restare privi della vista (guerci). Inoltre la vita sotterranea, oltre ad
essere pericolosa e malsana, creava anche paure diffuse, causate soprattutto dal buio e dall'ignoranza: si
riteneva che vi abitassero animali fantastici come il Fuggisole, capace di avvelenare, o demoni malvagi che
potevano, con il loro fiato, intossicare i lavoratori (la spiegazione
può ritrovarsi nelle frequenti fuoriuscite di gas naturale). Ci si
immaginava anche la presenza di nani, cioè "homicciuoli",
somiglianti a vecchiettini, che però non infastidivano gli uomini ma
anzi li rallegravano (i lavoratori bevevano molto vino, che veniva
loro elargito per corroborare il fisico e allontanare dalla mente paure
e incubi, anche se poi, verosimilmente, era proprio l'alcool a
causarli).
A conti fatti, nonostante le condizioni poco umane dei lavoratori, il
pericolo di crolli o di incidenti sul lavoro, si contano pochissimi
infortuni e ancor meno casi di morte, nonostante nei bottini abbiano
lavorato migliaia di persone per centinaia di anni
I BOTTINI OGGI
Per quanto riguarda la situazione attuale, abbiamo una rete di bottini perfettamente funzionanti nella loro
parte terminale, cioè in prossimità della città, in quanto anche se qualche tratto è completamente rivestito di
calcare (Fontanella), l'acqua arriva alle fonti nella dovuta quantità e molta se ne perde non essendo
utilizzata. Per questo il comune ha consentito che vi continuassero ad esserci varie utenze lungo il percorso,
come il Campo scuola, il centro elettronico del Monte dei Paschi, il laboratori Nannini Conca d'Oro, lo stadio,
etc.). ma per quanto riguarda la zona a nord della città (soprattutto nelle località di Uopini, Mazzafonda,
S.Dalmazio, Peragna), a causa di continue infiltrazioni, della penetrazione di radici della vegetazione
sovrastante, dell'incuria e dell'accumulo di calcare e fango nel gorello con la sua relativa ostruzione e
allagamento dell'intero camminamento, si sono verificate e si verificano
piccole frane che, unitamente al danno fatto da chi ha gettato detriti dai
cosiddetti "occhi", rendono la situazione poco rassicurante.
I bottini, senza interventi adeguati, rischiano di interrarsi, di ricoprirsi e
questo è già successo in alcuni rami divenuti ormai impraticabili.
La storia dei bottini ha nel tempo sempre interessato e incuriosito persone
da tutto il mondo, giornalisti e televisioni italiani e stranieri hanno studiato,
visitato e girato programmi che parlano della storia dell’acqua di Siena, un
esempio: Piero Angela in “Superquark”, Osvaldo Bevilacqua in “Sereno
Variabile”.
Negli anni è nata un’Associazione di volontari, appassionati e amanti della
propria città, che hanno come obiettivo dichiarato lo studio, la
valorizzazione e la tutela dei Bottini, delle Fonti monumentali e di tutto il
patrimonio storico, culturale ed architettonico legato alle Acque di Siena.
Con l’aiuto del Comune e della Regione è stato creato il “Museo
dell'Acqua”, un museo-laboratorio dove i protagonisti sono i suoni, i colori, le storie, le origini e i
personaggi dell'acqua di Siena.
E' un luogo in cui si valorizza e si rende viva, suggestiva e fruibile da tutti la storia dell'acqua a Siena grazie
ad un modo di raccontare del tutto originale e interattivo. L'invenzione e la costruzione dei bottini, infatti,
sono presentati nelle loro ingegnerie, ma anche nelle loro storie e memorie perché questi stessi luoghi
vivano nel quotidiano dei senesi e dei viaggiatori. Il Museo rende i visitatori protagonisti attivi, non solo
spettatori, in un viaggio-racconto basato su rigore scientifico e chiarezza narrativa, che mette insieme
curiosità, fantasia e divulgazione scientifica.