Francesca secondo Platone

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Francesca secondo Platone
Francesca secondo Platone
La biga alata dell’anima
Alice Merenda Somma
IIIB a.s. 2007/’08
Prima della nascita, prima di incarnarsi nel corpo, l’anima di ogni uomo esprime la propria
immortalità dimorando con gli dei sottoforma di biga alata, trainata da due cavalli, uno nero e uno
bianco: il primo è recalcitrante e ingovernabile, il secondo nobile ed elegante. I due cavalli tirano
veementemente la biga, quello bianco in tensione verso l’Iperuranio, il secondo caoticamente
destabilizza l’auriga. Fra tutte le bighe delle immortali anime umane si creano ingorghi e collisioni,
tant’è che spesso si rompono le ali di una biga, la quale precipita rovinosamente verso la Terra, e
s’incarna.
Attraverso un mito raccontato da Platone nel Fedro, abbandonata un’ancestrale dimensione
divina, la dimora degli dei immortali, una sorta di Paradiso Terrestre, in seguito a un evento
drammatico, un “peccato originale” commesso da ogni anima, da ogni cavallo nero, eccoci giunti
all’umanità e alla sua finitezza, eccoci su questa Terra, la stessa su cui “la marina (…) dal Po’
discende per aver pace coi seguaci suoi”, è su questo mondo finito, espressione di una colpa
originale, di un disequilibrio fra passione e intelletto, che si compie il dramma di uno dei personaggi
più celebri dell’Inferno di Dante: Francesca da Rimini.
Francesca ci viene presenta da Dante come una “donna gentile, nata e cresciuta in ambiente
cortese” (Mario Zoli), conosce la letteratura cortese e parla con l’eleganza di un sonetto
stilnovistico (“Amor ch’a cor gentil ratto s’apprende”); la colpa di questa donna, come del suo
amante, è di aver sottomesso “la ragion (…) al talento”. Attraverso l’idealizzazione poetica operata
da Dante, la tragedia dei due amanti rapiti l’uno dagli occhi dell’altra, colti da “Amor [che li]
condusse (…) ad una morte”, da fatto da storico, da tanche de vie, diviene espressione del dramma
universale di “un potente sentimento umano sospeso in bilico fra il bene e il male, (…) l’ebbrezza e
la rovina: donde la condanna e l’assoluzione insieme” (Giovanni Buti) da parte di Dante, il quale
“comprende quest’anima gentile, prova pietà, ma insieme condanna i principi con i quali ella si
assolve” (M. Zoli).
Ma di tutto questo, seguitando nel raccontare ci ha già parlato, in termini mitologici e universali,
Platone. Nel mito infatti egli racconta come gli uomini, costretti alla prigione del corpo, trascorrano
la propria vita nella continua ricerca di ricongiungimento alla dimensione precedente, alla vicinanza
con l’Iperuranio, e alla conoscenza. Questa graduale ascesa, ricongiungimento, avviene grazie a un
“demone mediatore” (Giovanni Reale), Έρος, Amore: infatti chi ama riceve dall’amato, attraverso il
canale degli occhi, un flusso divino in grado di riparare le ali spezzate della biga-anima, per questo
chi ama desidera vedere l’amato, e ritrova nei suoi occhi qualcosa di misteriosamente attraente,
come non sentirne un’eco nel verso dantesco “per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura e
scolorocci il viso”? Nella concezione greca, l’amore era un sentimento univoco, c’è chi ama e chi si
fa mare, quest’ultimo costretto a ricambiare amando non l’altro, l’amore in sé, come non sentire un
collegamento patafisico con il celebre “Amor ch’a nullo amato amar perdona”?
E se sia Dante che Platone ci parlano di un amore che diventa tensione verso la conoscenza (Dante
nell’evoluzione della figura di Beatrice dalla Vita Nova, al Convivio, alla Commedia), sono
innegabili forti contrasti, in particolare nel rapporto che intercorre, nella visione dei due intellettuali,
fra anima e corpo: Platone concepisce l’amore per il bello fisico come primo gradino verso l’ascesa
conoscitiva, mentre Dante sublima l’amore e trascende, sin dalla produzione stilnovistica, il corpo
(che, in una visione medievale, è potenziale sede del peccato e espressione stessa del peccato
originale.). Ma, pur sussistendo questa innegabile differenza, ciò che permette questo ponte
patafisico e immaginifico, che vuole congiungere Dante a Platone, è il fulcro concettuale e morale
alla base della colpa (o meglio delle condanna-assoluzione ambigua) di Francesca: infatti la sua
eterna dannazione è causata, non tanto dall’eccesso nell’amore sensuale, quanto nel prevalere del
cavallo nero su quello bianco, le due forze che anche sulla Terra, se ragionevolmente (con la
ragione!) equilibrate, possono permettere a chi è mosso da Έρος, di non precipitare nella
dissoluzione, nel vortice infernale dantesco, ma proseguire verso la somma conoscenza, trainare la
biga-anima, guidata dall’auriga-ragione, verso il ricongiungimento col metafisico, la
contemplazione del Bene. E’ in questo che Francesca ha segnato la propria rovina, nell’ “annullarsi
delle libere scelte” (M. Zoli) nel “sovrapporsi dell’amore-passione all’amore gentile” (ibidem), nel
venire meno di quella componente indispensabile all’uomo, che lo distingue dalla bestia:
l’intelletto, la ragione, che permette il compiersi di “quell’amore virtù che aveva illuminato la
giovinetta Beatrice, la quale diverrà la celeste protagonista della Commedia” (ibidem).