Vivere o non vivere, essere o annullarsi
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Vivere o non vivere, essere o annullarsi
VIVERE O NON VIVERE, ESSERE O ANNULLARSI Il suicidio: via libertatis o “azione vana e quindi stolta”? di Cristiana Bullita «Quando sarò arrivato a leggere queste righe probabilmente il sole si sarà già levato e "squillerà in cielo”, e riverserà su tutto ciò che si stende sotto di lui la sua immensa, incalcolabile forza. E sia pure! Io morrò con lo sguardo rivolto a quella sorgente di forza e di vita, e rifiuterò quella vita! Se avessi potuto non nascere, certo non avrei accettato l'esistenza a condizioni così ridicolmente ingiuste. Ma ho ancora il potere di darmi la morte, anche se non faccio altro che restituire dei giorni già contati […] forse, il suicidio è ancora l’ultimo atto che io possa intraprendere e portare a effetto di mia propria volontà. Chissà, forse io voglio approfittare dell’ultima possibilità che mi è concessa di agire. La protesta, certe volte, non è un atto insignificante…». Ippolit è un adolescente gravemente malato e prossimo alla fine, che pensa al suicidio come all’ultimo, titanico atto di protesta e di ribellione contro una sorte ingrata. La sua voce, fiera e sferzante nelle intenzioni, risuona tuttavia come uno struggente inno alla vita: «Sapevo per certo di avere la tisi e di essere incurabile, non tentavo di ingannare me stesso ed ero consapevole della mia situazione. Ma più ero consapevole della mia situazione, più acuto si faceva il mio desiderio di vivere, mi aggrappavo alla vita e desideravo vivere ad ogni costo» Egli è convinto che tutti: «disprezzano il valore della vita e che tutti la sprecano con molta leggerezza senza sfruttarla appieno, usandola con sconsideratezza e rivelandosene pertanto indegni, tutti nessuno escluso!». (F. Dostoevskij, L’idiota) Tuttavia «le mie convinzioni sono del tutto indipendenti dalla mia condanna a morte»: esse sono il frutto maturo di una riflessione condotta dal giovane con assoluta lucidità. «L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile e effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia) Il personaggio dostoievskiano è sicuro che se avesse potuto scegliere tra non nascere e nascere vivendo alle «condizioni così ridicolmente ingiuste» dell’esistenza avrebbe scelto di non essere. Il saggio Sileno nietzschiano proferisce a denti stretti, tra incongrue risa, una terribile sentenza: il meglio per noi sarebbe stato non nascere. Ma ci resta la speranza di morire presto. In alcuni suoi scritti, Seneca vede nel suicidio una via libertatis: «La legge eterna non ha fatto niente di meglio di questo: ci ha dato un solo modo per entrare nella vita ma molte possibilità di uscirne». (Seneca, Lettere a Lucilio) In modo ancora più esplicito: «Da qualunque parte guardi, c’è la fine dei tuoi mali. Vedi quel precipizio? Da quello, si scende alla libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo? La libertà siede là, sul fondo. Vedi quell’albero basso, rinsecchito, malaugurato? La libertà è appesa a quello. Vedi il tuo collo, la tua gola, il tuo cuore? Sono vie di scampo alla servitù. Ti mostro forse uscite troppo laboriose e che richiedono molto coraggio e molta forza fisica? Chiedi qual è il sentiero della libertà? Qualunque vena del tuo corpo». (Seneca, Dell'ira) Arthur Schopenhauer sostiene che chi cerca la morte non lo fa per ripudio filosofico della vita, bensì per le condizioni avverse alle quali è costretto a vivere: «Chi è oppresso dai pesi della vita, chi la vita bensì vorrebbe, e la vita afferma, ma ne ha in orrore i tormenti, e soprattutto più non sa tollerare il duro destino, che a lui proprio è toccato, questi non ha da sperar liberazione nella morte, né si può salvare col suicidio: sol con falsa illusione lo trae a sé l'oscuro, freddo Orco qual porto di riposo. La terra si volge dal giorno verso la notte; l'individuo muore; ma il sole brilla senza posa in eterno meriggio. Alla volontà di vivere è certa la vita: la forma della vita è un presente senza fine; né importa il come nascano e periscano nel tempo gl'individui, fenomeni dell'idea, comparabili a sogni fugaci. Il suicidio ci apparisce già da questo un'azione vana e quindi stolta: e quando saremo progrediti più oltre nella nostra indagine, ci si presenterà in una luce ancor più sfavorevole» In Schopenhauer il sole «brilla senza posa in eterno meriggio», come in Dostoevskiji esso è simbolo e «sorgente di forza e di vita», in contrapposizione alla notte oscura e fredda della morte. Alla volontà di vivere, che è l’essenza stessa della realtà, il noumeno insopprimibile dietro ogni fenomeno, non importa l’individuo. Ogni singolo nasce e muore nella totale indifferenza di una Wille zur Leben cieca e irrazionale. La natura e le specie sono spesso in conflitto con le necessità vitali del singolo, che finisce per soccombere. In tale contesto, il suicidio appare un gesto irrilevante per la sua inefficacia. La volontà di vivere investe ogni aspetto della realtà e a nulla vale l’infima decisione di qualcuno di sparire. Perché la volontà è unica e non sarà intaccata da nessuna ricerca di morte, che non è mai negazione della vita tout court, ma sempre rifiuto di condizioni esistenziali particolari e contingenti. Il sole continuerà comunque a brillare senza posa, implacabile come la volontà di vivere che si vorrebbe estinguere. «La vita dei più non è che una diuturna battaglia per l'esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa perdurare in questa sì travagliata battaglia non è tanto l'amore della vita, quanto la paura della morte, la quale nondimeno sta inevitabile nello sfondo, e può a ogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l'uomo cerca di sfuggire con la massima prudenza e cura; pur sapendo, che quand'anche gli riesca, con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabile e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti gli scogli, ai quali è scampato». (A.Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione). La potenza icastica di questo brano è stupefacente: ci pare di vedere noi stessi annaspare in «un mare pieno di scogli e vortici», come in un dipinto di Ajvazovskij, in un sublime dinamico kantiano che però di sublime non ha più nulla, perché si è dissolta anche l’ultima illusione di poter sopravvivere (è «la certezza della sconfitta finale»). Mi sovviene un’altra immagine, che non è schopenhaueriana ma emerge dal fondo limaccioso del mio inconscio prodigo di rappresentazioni marziali: vivere è come essere costretti a una continua e folle corsa su un campo minato, con il terrore, ad ogni passo, di saltare in aria. Avanziamo a zig-zag, un piede qui e uno là, nella penosa speranza di evitare l’ordigno possibilmente nascosto sotto quel sasso, dietro quel cespuglio. Per sottrarci al rischio, non ci è consentito di restare dove siamo, dobbiamo muoverci: il tempo che passa non ammette indugi e soste. A volte calpestiamo una mina e perdiamo un braccio, un occhio, una gamba. Procediamo saltellando su un solo arto, perché non abbiamo altra scelta. Non esiste traguardo da tagliare, non c’è arrivo, nessuna zona franca da raggiungere. La nostra corsa terminerà soltanto con un’ulteriore esplosione, quella definitiva. La «diuturna battaglia per l’esistenza» si combatte per «paura della morte», più che per «amore della vita». Non abbiamo alcuna possibilità di sfuggire a questa condanna: come si è visto, neppure il suicidio rappresenta una soluzione. Quando Martin Heidegger invita l’uomo a “scegliere” l’anticipazione della morte, infatti, non intende che dobbiamo decidere se interrompere la nostra vita prima del tempo. Il filosofo tedesco riconosce nell’uomo una colpa originaria, una negatività che lo chiama ad assumere su di sé la consapevolezza della morte come «imminenza che sovrasta». La morte è «la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile» dell’Esserci che è l’uomo. Egli, in quanto essere-nel-mondo, è anche, necessariamente, essere-per-la-morte. «Il tacito e angoscioso autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole è ciò che chiamiamo decisione» (M. Heidegger, Essere e tempo) L’uomo si trova a esser-ci, a esistere, senza averlo deciso (lo sa bene Ippolit): ciascuno di noi è un progettogettato, è senza fondamento, è nulla in sé. L’ente-uomo, l’Esserci, il Dasein, il cui modo d’essere specifico è l’esistenza, è «nullo fondamento di una nullità». Il pensiero della morte suscita angoscia, a cui si tenta di sfuggire immergendosi nel “si dice”, nel “si pensa”, nel “si fa” dell’esistenza inautentica e banale. La chiacchiera, la curiosità, l’equivoco delineano una dimensione comune e corriva d’interpretazione del mondo, cui l’uomo aderisce in modo acritico. «Mah! Pare di sí, che ci sia questo bisogno di sapere che cosa dà agli altri o come è per gli altri la vita, e che se ne pensi e che se ne dica. Bisogno di viver fuori, in questa curiosità della vita degli altri, e per riempire il vuoto della nostra, distrarci dai fastidi, dagli affanni che ci dà. E cosí passare il tempo. È accaduta una disgrazia? un caso strano? Com’è? Come si spiega? Si corre a vedere, a sentire. Ah, è cosí? Ma no, che! Cosí non può essere. E allora come? Quando poi non avviene nulla, la noja, il peso delle solite occupazioni. E l’angoscia di vedere, come ora la signora Léuca la vede, lentamente morire ai vetri la luce del giorno». (L. Pirandello, Pena di vivere così in Novelle per un anno) In poche righe ecco illustrata in modo magistrale l’inautenticità da cui Heidegger ci mette in guardia: il bisogno di vivere nella curiosità della vita degli altri per riempire il vuoto della nostra, per eludere certe domande e l’angoscia che ne deriverebbe. La curiosità e la chiacchiera divengono una sorta di divertissement pascaliano, fuga dal pensiero, ricercato oblio della nostra vera natura. L'angoscia però giunge lo stesso a pungolare l’uomo (per la signora Léuca, essa è quel lento «morire ai vetri la luce del giorno») e gli impone una scelta: egli può restare chiuso nella sua rassicurante illusione che le cose del mondo abbiano senso e importanza oppure accettare la propria finitezza e anticipare la morte riconoscendosi “essere-per-la-morte”: «Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’Esserci». (M. Heidegger, Essere e tempo) Ciò non significa, però, che il suicidio o anche solo una vita condotta nell’attesa inerte della morte siano ragionevolmente perseguibili: l’uomo ha delle scelte esistenziali da compiere, deve progettarsi e rapportarsi al mondo, prendersi cura degli enti, utilizzarli e maneggiarli, nell’assoluta consapevolezza di essere-per-lamorte. «O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla. Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». (C.Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) Il giorno in cui verrà la morte sapremo che la speranza è al contempo vita e nulla e, transitivamente, che la vita è speranza ed è nulla. Cesare Pavese è stato probabilmente suggestionato dalla filosofia dell’esistenza e dal nulla heideggeriano e sartriano (come suggerisce anche la poesia Lo Steddazzu, nella quale il nulla è ciò che non accade). «Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta una vita per imparare a morire», scrive Seneca nel De brevitate vitae. Per accedere alla dimensione heideggeriana dell’esistenza autentica, o a quella pavesiana dell’identità di vita e nulla, occorre tempo e la filosofia può essere di grande aiuto. «Filosofare è prepararsi a morire senza rammarico», afferma Platone nel Fedone. «Cicerone dice che filosofare non è altro che prepararsi alla morte”, conferma Michel de Montaigne nei Saggi citando l’erudito romano, e aggiunge che «tutta la saggezza e i ragionamenti del mondo si riducono infine a questo, di insegnarci a non temere di morire». Perché temere la morte, del resto, se si ha «pena di vivere così»? «La vita? Eh già, proprio quella, la vita: una vergogna da non potersi nemmeno confessare; una miseria da compatire cosí, stringendo le spalle e socchiudendo gli occhi, o spingendo su su il mento come fosse anche un ben duro e amaro boccone da ingozzare». È ancora Pirandello, insieme a quei suoi personaggi «disgraziati che […] sentono la vita come una fame che insudicia e non si sazia mai». La vita: «Pare che debba esser cosí. Questo, ecco, il disgusto. Non come il suo cuore, da giovinetta, la sognò; ma questa miseria che (forse è peccato dirlo) ad accostarsi, pare debba proprio insudiciare; da compiangere fors’anche, certo anzi da compiangere, perché ogni piacere è poi pagato a prezzo di lagrime e di sangue». (L. Pirandello, Pena di vivere così in Novelle per un anno) Un amaro calice da bere fino in fondo. La signora Léuca, ancora una volta abbandonata dal marito, prosegue la sua scialba esistenza, precocemente imbiancata e avvilita. Il giovane Ippolit, a dispetto dei suoi annunciati propositi suicidari, fallisce un plateale tentativo di spararsi un colpo di pistola. Il disgusto di una vita che insudicia, la disperata ribellione di un malato terminale. Lordura e rabbia irrinunciabili, però.