Suicidio: atto contro natura o possibilità aperta all`uomo?

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Suicidio: atto contro natura o possibilità aperta all`uomo?
Arianna Lodi, Laboratorio di filosofia morale
Suicidio: atto contro
natura o possibilità
aperta all’uomo?
Dialogo di Plotino e di Porfirio_ Giacomo Leopardi
Scritto nel 1827, il dialogo riprende i concetti correlati di piacere e noia e un
insieme di pensieri dello Zibaldone con i quali Leopardi cerca di dimostrare la
legittimità del suicidio. Questa posizione è incarnata nel dialogo dal personaggio
di Porfirio, filosofo neoplatonico di origini fenicie (232-312 ca. d.C.), autore di
una biografia del suo maestro Plotino. Quest’ultimo invece rappresenta la
posizione, meno razionale, forse, e più sentimentale, contraria al suicidio, in
quell’operetta che, in ultima analisi, si rivela come una “straordinaria
perorazione in favore della vita”1.
Il punto di partenza, che rivela tutto il pessimismo leopardiano, è lo stato di
souffrance che accomuna tutti i viventi: infatti, nello Zibaldone si afferma che “Gli
enti sensibili sono per natura enti souffrants” (Zib. 3134, 9 aprile 1825). Se a ciò
si accosta la teoria del piacere leopardiana, secondo cui, in virtù dell’amor
proprio di ciascuno, tutti gli uomini sono portati a un desiderio infinito di
felicità, o di minor infelicità, è lecito chiedersi se allora la morte, il suicidio, non
sia una scelta razionale per sfuggire all’unico sentimento reale e concreto della
vita, ovvero il dolore. Questo è ciò che sostiene Porfirio -il quale ha in animo di
suicidarsi- attraverso numerose argomentazioni di carattere razionale alle
obiezioni del suo maestro e amico Plotino, venuto a conoscenza della sua
intenzione pericolosa.
Secondo Porfirio infatti, Platone, istillando negli uomini, attraverso le sue teorie,
dubbi e incertezze sulla vita dopo la morte, ha accresciuto in essi i dolori che già
1 Giacomo Leopardi, Operette Morali, a cura di Laura Melosi, Bur 2008
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naturalmente si trovavano a patire in vita, mentre la natura, seppur cagione di
grandi sventure per l’uomo, gli aveva almeno destinato “per medicina di tutti i
mali la morte”. Porfirio sostiene inoltre che a nulla sono valse le minacce di
castighi ultraterreni o le promesse di ricompensa dopo la morte effettuate da
Platone, affermando: “E in vero, se molto pochi ribaldi, per timore di quel tuo
spaventoso Tartaro si astengono da alcuna mala azione; mi ardisco io di
affermare che mai nessun buono, in un suo menomo atto, si mosse a bene
operare per desiderio di quel tuo Eliso”. L’infinito desiderio della felicità spinge
l’uomo a ricercarla in qualunque modo e se l’unica via a sua disposizione rimane
la morte volontaria, gli è lecito percorrere questa via.
A nulla valgono le obiezioni di Plotino, che invece considera il suicidio come un
atto contro natura; Porfirio ribatte che l’uomo moderno, a causa della
civilizzazione e della conseguente assuefazione, ha perso quell’originario abito
naturale che “indossano” ancora i selvaggi e i bambini, che lo portava a fuggire e
aborrire la morte. L’uomo moderno è invece dominato dalla ragione, è assuefatto
a una seconda natura, tant’è che, se egli vive contro natura, può allora decidere
anche di morire contro natura. Se il presente, “per fortunato che sia, è tristo e
inamabile” l’unica via d’uscita resta allora il suicidio. Porfirio però non nega che,
in tal caso, il mondo si ridurrebbe ad un deserto, e che invece la maggior parte
degli uomini, pur soffrendo enormemente in vita, non sceglie la morte; ciò è
dovuto secondo lui ad un “errore, per dir così, di computo e di misura” nel
mettere sul piatto della bilancia gli utili e i danni, accontentandosi della vita.
Di fronte a tanto rigore logico, la risposta di Plotino risuona travolgente, pervasa
di un impeto e di una forza che non hanno nulla a che vedere con la solidità delle
argomentazioni precedenti, ma, se possibile, ne posseggono una maggiore, una
solidità che si avvale dei sentimenti di amicizia, di amore, di affetto che
indubbiamente sono necessari e cari a qualunque uomo. Quel “viviamo, Porfirio
mio, e confortiamoci insieme” irrompe carico di sentimento e non può far altro
che commuovere, come la voce di chi, con gli occhi lucidi, benché conscio delle
sventure umane, richiama comunque un amico alla vita, a quella “social catena”
in cui si devono stringere gli uomini per sopravvivere ai colpi della fortuna.
Plotino non rappresenta quindi una visione semplicistica ed eudemonistica della
vita, non si affida a vane speranze in una vita dopo la morte, in un ente superiore
che decide, in un modo imperscrutabile all’uomo, della vita di quest’ultimo; egli
rimane “fedele alla terra”, come direbbe Nietzsche, dà un senso tutto umano alla
sofferenza e ad essa cerca un rimedio tutto umano: l’amicizia, l’amore delle
persone che ci circondano devono servire come spinta alla resistenza, a non
piegare il capo in segno di resa.
Credo che il personaggio di Plotino incarni il pensiero di Leopardi stesso, il quale
tratta del tema del suicidio in molte delle sue opere, arrivando però alla
conclusione che il compito dell’uomo è quello di “portare quella parte che il
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destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie”, “dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita” e di
assumere su di sé l’ideale di resistenza della “lenta ginestra”che, pur nella
sproporzione della sua posizione, di fronte alla “crudel possanza […] del
sotterraneo foco”, si aggrappa con tutte le forze delle sue “frali […] stirpi” alla
vita.
Il tema del suicidio compare anche nel pensiero di altri filosofi: ho scelto di
riportare qui anche le teorie di Hume e Schopenhauer.
Sul suicidio_ David Hume2
Il trattato sul suicidio si apre con un elogio della filosofia come rimedio alle false
religioni e alla superstizione. Questa, fondata su false opinioni, è infatti causa di
continua afflizione per l’uomo, il quale, seppure estremamente travagliato in
vita, non osa porre fine ad essa per timore, ad esempio, di offendere il creatore.
L’uomo si trova dunque doppiamente prigioniero, delle sventure della vita e
delle false credenze, le quali gli tolgono il coraggio di compiere qualsiasi gesto
passionale, ma non solo, tiranneggiano anche molti piaceri e gioie, togliendo
all’uomo il potere sulla sua vita.
Hume si propone quindi di “restituire gli uomini alla loro nativa libertà”,
esaminando gli argomenti contro il suicidio e affermando di poterlo scagionare
da ogni accusa.
Se il suicidio fosse un delitto, dovrebbe essere un atto di trasgressione verso Dio,
il prossimo o se stessi, ma ciò non avviene per i seguenti argomenti.
Dio ha istituito delle leggi immutabili che conservano tutti i corpi per dominare
sia il mondo materiale che quello animale, i quali non sono in contrasto, ma dalle
loro interazioni risulta una certa armonia, che è prova della divina provvidenza.
Tutto dunque dipende da questa e dai poteri che il creatore ha dato alle sue
creature, ma non esiste alcun evento, benché capitale per l’uomo, che sia più
importante di altri agli occhi di Dio, poiché la natura procede sempre per il suo
corso secondo progetti a noi imperscrutabili. Allora non ha senso considerare il
suicidio uno sgarbo nei confronti di Dio, perché sarebbe un atto di presunzione il
credere che Egli abbia riservato un posto particolare alla disposizione del
destino umano, che è invece sottoposta a quelle leggi immutabili della materia e
del moto a cui sottostanno tutte le creature. Dunque è criminale che un uomo
disponga della sua vita, così come fanno gli animali? Se si considera ciò vero, non
si dovrebbe ammettere la validità nessuna azione, giacchè ogni movimento
2 David Hume, Sul suicidio e altri saggi morali, editori Laterza 2008
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determinerebbe la rottura dello scorrere naturale. Quindi modificare le leggi
della natura non significa andare contro la provvidenza, poiché “per l’universo la
vita di un uomo non è più importante di quella di un’ostrica”; se solo
l’onnipotente potesse disporre della vita umana, allora “sarebbe egualmente
criminoso salvare o preservare la vita”. Hume a questo punto cita Seneca, il
quale afferma : “Ringraziamo Dio per il fatto che nessuno può essere costretto a
rimanere in vita”. Questo potere di rinunciare alla vita si colloca comunque per
Hume, all’interno di quelle possibilità che Dio ha concesso alle sue creature, in
quanto non infrangono il suo disegno; pensare il contrario, significherebbe
ammettere la superiorità dell’uomo sulle altre creature, cosa che non può essere
affermata, se non negando la sottomissione di quest’ultimo alle leggi della
materia e del moto. La provvidenza dunque determina quella serie di cause che
costituiscono la vita e di conseguenza, ogni azione volta alla sua conservazione o
alla sua perdita si colloca sempre all’interno di essa. Afferma Hume: “Per me il
cambiamento è importante, ma non lo è per l’universo”, “E’ blasfemo
immaginare che un essere creato possa disturbare l’ordine del mondo o
interferire con l’opera della provvidenza!”. Dio, in tal caso, sarebbe offeso da
queste azioni e l’uomo ne proverebbe rimorso, pentimento; ma il suicidio è uno
di questi atti?
Hume afferma che il suicida non nuoce alla società, ma “cessa soltanto di fare del
bene”; l’uomo però non è obbligato a fare del bene alla società a spese di se
stesso, quand’anche i suoi obblighi verso di essa durassero in perpetuo. Inoltre
se un uomo non è più in grado di agire nel bene della società, ma anzi, impedisce
ad altri di farlo, il suo congedarsi dal mondo non solo è innocente, secondo
Hume, ma anche lodevole, perché nessun uomo ha mai “fatto getto della vita,
finchè valeva la pena di conservarla”.
Servendosi di questa dimostrazione rigorosa, Hume riesce quindi a provare che
il suicidio è un atto di natura, non condannabile dalle Sacre Scritture, in quanto
in esse non vi è nessun comandamento che lo proibisca; il comandamento “non
uccidere” è infatti estendibile solo agli altri, sui quali non abbiamo alcun potere.
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Del suicidio_ Arthur Schopenhauer 3
Nel suo saggio sul suicidio, all’interno dell’opera “Parerga e Paralipomena”,
Schopenhauer affronta la tematica in modo logico e rigoroso, partendo dalla
considerazione che sono solo le religioni monoteistiche a considerare come un
delitto l’atto di porre fine alla propria vita, nonostante né nell’Antico né nel
Nuovo Testamento vi siano divieti a ciò. Secondo il filosofo sono dunque “gli
insegnanti di religione” a fondare la condanna del suicidio sulle loro ragioni
filosofiche che si rivelano essere scadenti, perché pive di fondamento, e caricate
di insulti.
Schopenhauer afferma invece che ognuno ha il diritto “incontestabile” sulla
propria persona e sulla propria vita e perciò è lecito il disporne a proprio
piacimento. Ma allora perché gli uomini fanno così fatica ad accettare che un loro
simile ponga fine alla sua vita? Come riporta Schopenhauer, sia la chiesa, sia la
giustizia criminale proibiscono e puniscono il suicidio, ma quale punizione può
mai scoraggiare un uomo che vede nella morte il suo unico rifugio alle
sofferenze? Semmai si potrà condannare il tentativo di suicidio, non in quanto
tale, ma in quanto fallito a causa della sua “goffaggine”.
Nell’antichità, le opinioni sul suicidio erano molto diverse: Plinio, nella sua
“Naturalis Historia”, ne riporta una considerazione positiva, come di un bene
(“quod […] optimum”) che il dio ha donato all’uomo per far fronte alle pene della
vita. Valerio Massimo invece ci racconta che nell’isola di Ceo c’era l’usanza che i
magistrati offrissero una coppa di cicuta a chi poteva addurre valide ragioni per
morire. L’opinione di Aristotele è invece un po’ diversa, in quanto egli vede nel
suicidio non un danno contro se stessi ma contro lo Stato, mentre addirittura la
filosofia stoica esaltava il suicidio come un atto eroico e nobile di ribellione, di
affermazione della propria libertà individuale. In epoca moderna invece, contro i
“deboli sofismi” della chiesa si è espresso David Hume nel suo “Essay on
Suicide”, pubblicato postumo, proprio a causa della censura in Inghilterra.
L’unico argomento morale portato da Schopenhauer contro il suicidio è il fatto
che esso impedisce all’uomo di raggiungere il più alto fine morale, poiché
sostituisce una liberazione solo apparente ad una vera; questo però non è
comunque un motivo per condannare questo atto, come avviene invece ad opera
della chiesa. In ambito cristiano, il vero scopo della vita è infatti il portare la
propria croce, sopportare la sofferenza in vista di un bene superiore oltre la
morte: proprio per questo il voler estinguere questo dolore con la morte viene
disapprovato. Ma, afferma Schopenhauer, questo è un argomento elevato,
ascetico, ben distante moralmente dalle argomentazioni dei filosofi moderni in
Europa e della chiesa: perciò la ragione della loro condanna del suicidio
3 Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena
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potrebbe risiedere nell’ “ottimismo di prammatica” che caratterizza le religioni
monoteistiche.
Schopenhauer argomenta poi che qualunque essere vivente, che riconosca
superiori le sofferenze della vita rispetto a quelle della morte, non esiterebbe a
togliersi la vita se la morte fosse un fatto puramente negativo, ovvero un
semplice cessare dell’esistenza; ma ciò non avviene perché anche nella morte c’è
qualcosa di positivo, cioè la distruzione del corpo che è manifestazione della
volontà di vivere. Se cioè le sofferenze fisiche prevalgono su quelle spirituali,
l’uomo si concentra sulle prime e l’unico suo scopo diviene la guarigione. Ma se
invece sono le sofferenze spirituali ad avere il sopravvento, l’uomo diviene del
tutto insensibile al dolore fisico, che anzi appare come una distrazione, ed è
spinto più facilmente al suicidio, proprio perché il corpo non compie alcun tipo
di resistenza fisica.
Da questo saggio mi sembra di ricavare che la posizione di Schopenhauer sul
suicidio sia che esso è una possibilità dell’uomo, poiché “evidentemente ognuno,
al mondo, a nulla ha diritto in modo così incontestabile come alla sua persona e
alla sua vita”, perciò una condanna come quella fatta dalla chiesa risulta
inappropriata, priva di solide basi, mentre l’unico argomento morale valido
potrebbe essere proprio quello proposto dallo stesso Schopenhauer. Da qui
emerge un’ambiguità, che sembra lasciare aperta la sfida della risposta, messa in
risalto dalle parole con cui il filosofo conclude il saggio: “ Il suicidio può essere
considerato anche come un esperimento, come una domanda posta alla natura
per costringerla a rispondere, vale a dire: quale modificazione subirà l’esistenza
e la conoscenza dell’uomo mediante la morte? Ma è un domandare maldestro:
infatti abolisce l’identità della coscienza, che dovrebbe ricevere la risposta”.
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