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Per i Cirenei della Missione Un piccolo estratto dal testo di Paolo Curtaz, Sul Dolore. Parole che non ti aspetti. Per gentile concessione dell’autore. Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”. (1,20) A leggere attentamente il libro di Giobbe, si resta impressionati dal diverso atteggiamento che il protagonista assume all’inizio e alla fine della sua dolorosa esperienza. Nei primi due capitoli troviamo un Giobbe eroico, deciso, pronto a manifestare la sua fede profonda, un martire disposto a sfidare la malasorte. È un uomo retto, giusto, redarguisce la moglie che lo invita a maledire Dio, si ostina a proclamarsi innocente davanti ai suoi amici venuti per consolarlo. Giobbe si presenta come un uomo improbabile: chi non è piegato dalla sofferenza? Chi non vacilla davanti alla perdita dei figli? E della salute? Giobbe, invece, sembra un eroe invincibile, un santo granitico, un martire della fede. Finto. In buona fede, certo, ma finto. A partire dal terzo capitolo inizia la ribellione verso Dio: Giobbe si lamenta, pone domande sempre più forti, si arrabbia, si dispera. Ora cerca di blandire Dio, ora cerca di convincerlo, ora lo sfida. È stato inutile essere onesto e sincero. È stato inutile fidarsi di Dio. È stato inutile servirlo e pregarlo. Non è più l’uomo paziente ed eccezionale dei primi due capitoli. Esistono davvero uomini così? Gli amici difendono Dio: egli è giusto e se Giobbe soffre è a causa dei suoi peccati. Hanno ripreso a parlare, e prendono le parti di Dio, senza conoscerlo. Sono frasi fatte, luoghi comuni: sanno già le risposte, senza ascoltare le domande. Risposte che Giobbe definisce sentenze di cenere, cumuli di frottole. Giobbe radicalizza le sue domande: forse Dio è sadico, forse si diverte quando vede gli innocenti morire. Se il flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. (Gb 9,23) Giobbe non censura le domande, lascia aperta ogni possibilità, anche la più tragica. È sempre di fronte a Dio, anche quando lo accusa, anche quando lo bestemmia. Non fa il finto devoto: Dio lo ha trattato seriamente, ora è lui a fare altrettanto. È l’incontro fra due adulti, quello in gioco, di due pari, non di un suddito spaventato dall’ira del padrone. La Parola di Dio contempla il fatto che un credente possa ribellarsi ed è parola ispirata anche il dubbio più radicale, quello che nega la bontà di Dio. Ma, alla fine del testo, dopo decine di capitoli in cui gli amici cercano di convincerlo riguardo alla sua colpa nascosta all’origine di tanto castigo, Giobbe è una persona molto diversa. Dio si presenta, lo riporta con i piedi per terra. Ora è Dio a porre molte domande: conduce Giobbe in un viaggio ideale nella complessità del Creato, chiede a Giobbe dove egli fosse quando furono creati i cieli e la terra. Per due interi capitoli Dio elenca le opere della Creazione, invita Giobbe a riflettere: forse che Dio gli ha chiesto consiglio prima di decidere? Perché, ora, Giobbe contesta l’opera di Dio? Giobbe dà ragione a Dio: come può un uomo capire il suo progetto misterioso? Giobbe prese a dire al Signore: “Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò”. (41,3-5) Ora Giobbe è pronto ad ascoltare, ha abbandonato la veste del martire, ha tolto la maschera del devoto incorruttibile, ha smesso i panni del superuomo che non si piega davanti alla sofferenza e che non perde la fede. La malattia lo ha cambiato radicalmente e, imprevedibilmente, lo ha reso umile e capace di capire ciò che Dio sta per rivelargli.