Meditazione sul libro di Giobbe pubblicata sulla rivista Rocca di

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Meditazione sul libro di Giobbe pubblicata sulla rivista Rocca di
Meditazione sul libro di Giobbe pubblicata sulla rivista Rocca di Lidia Maggi
Silenzio, si soffre.
Tre amici di Giobbe, Elifaz di Teman, Bildab di Suac e Zofar di Naama, avendo udito tutti
questi mali che gli erano piombati addosso, partirono, ciascuno dal proprio paese, e si
misero d'accordo per venire a confortarlo e a consolarlo.
Alzati gli occhi da lontano, essi non lo riconobbero, e piansero ad alta voce; si stracciarono
i mantelli e si cosparsero il capo di polvere gettandola verso il cielo.
Rimasero seduti per terra, presso di lui, sette giorni e sette notti; nessuno di loro gli disse
parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande (Gb 2,11-13).
Da tre estremità della terra arrivano gli amici di Giobbe. Attraverso di loro tutto il mondo è
convocato alla presenza del dolore di un singolo uomo. La sofferenza di una sola creatura riguarda
l'intera creazione.
Quel dolore ha fatto il giro del mondo e non ha lasciato indifferenti gli amici più lontani. Questi si
consultano (come avranno fatto? Nell'antichità non c'era internet né il telefono!) e concordano di
mettersi in viaggio per andare insieme a consolare Giobbe.
Vorrebbero essergli di conforto con la loro vicinanza, con le loro parole, con la loro semplice
presenza. Scopriamo così che Giobbe ha perso molto, ma non tutto. Ha una moglie che gli è rimasta
accanto, ha amici lontani che, nonostante la disgrazia, nel momento più buio della vita non lo hanno
abbandonato.
Giobbe non sa che potrebbe esistere un dolore più acuto del suo: quando ci si sente abbandonati da
tutti. Di quel dolore ci parla il salmo 22: “mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Gli
amici di Giobbe non hanno dimenticato il loro triste compagno e sono disposti a mettere da parte i
propri impegni, le loro priorità per andarlo a visitare e consolare. E così si mettono in viaggio.
Fanno tanta strada per incontrarlo. Alla fine lo scorgono da lontano, ma non lo riconoscono. Non
riescono a credere ai propri occhi: la sofferenza ha deformato il suo volto, lo ha sfigurato. La
visione di quell'uomo devastato smuove in loro il pianto. Compiono gesti liturgici che rimandano
alle veglie funebri orientali. Il dolore si manifesta pubblicamente con pianti ad alta voce, vesti
stracciate e il capo coperto di polvere. Anche il cielo non può non essere in lutto per il dolore di
quell'amico: per questo non si limitano a cospargersi di cenere, ma la sollevano verso l'alto, verso la
dimora divina. Ogni possibile commento appare inopportuno, ogni tentativo di consolazione
inadeguato. Gli amici possono solo portare sé stessi, stare accanto a colui che soffre, con
discrezione, senza disturbare.
La scena descrive la vicenda privata di un uomo schiacciato dal dolore ma circondato dagli affetti di
amici veri che nella sofferenza non lo abbandonano. Tuttavia, questi pochi versetti, dove ogni
parola, ogni gesto sono raccontati con maestria e perfezione, dove il superfluo non trova spazio e il
quadro è costruito con un'essenzialità superba, aprono un mondo più grande di quello privato
segnato dal dolore e dalla solidarietà di persone care.
Non è un caso che gli amici siano tre, un numero pieno, completo, ma essenziale. Essi poi vengono
da paesi diversi e convergono nel centro del dolore. Vorrebbero consolare e confortare l'amico con
la forza dei discorsi che, in seguito, pronunceranno; rimangono, invece, senza parole per sette
lunghi giorni.
Il loro silenzio non è solo segno di profonda com-passione con la vicenda dell'amico: è anche un
controcanto alla memoria del Dio creatore, una riscrittura del racconto di creazione.
Attraverso la parola, Dio strappa dal non senso l’abisso informe e caotico; qui, invece, la parola non
trova più la sua forza creativa: il non senso del dolore l'ha resa afona, sterile. In sette giorni Dio ha
creato il mondo, secondo il mito biblico e, dopo ogni opera creata, Dio ne dà un giudizio positivo e
una benedizione. Qui è il silenzio che dura sette giorni. Il ciclo della creazione, o più
ordinariamente della vita tessuta nel susseguirsi di giorni e settimane sembra trovare il controcanto
a quel giudizio positivo originario. Se Dio vide che tutto era bello e buono, gli amici di Giobbe
videro che tutto era male per il loro compagno. Per questo rimasero paralizzati nel silenzio. Le
parole morirono loro in bocca; la loro lingua si incollò al palato. Tanto feroce è la forza distruttiva
del dolore da lasciare muti.
In tutto questo non ci viene detto nulla sulle emozioni di Giobbe. Trovò conforto in quegli amici
che, venuti da lontano, si fecero così prossimi da tacere accanto a colui che la sofferenza aveva
ammutolito? Forse è proprio attraverso quella vicinanza inattesa che Giobbe trova la forza di parlare
per maledire la vita, la sua vita... Egli non pretende di maledire Dio né l'intera creazione, ma la sua
nascita sì. Quando Giobbe prenderà la parola, sarà un fiume in piena, un rantolo di morte che
nemmeno la forza dell'amicizia potrà trasformare nel gemito di una partoriente.