Un atto di coraggio: il libro di Giobbe
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Un atto di coraggio: il libro di Giobbe
Un atto di coraggio: il libro di Giobbe Di Teresa Mattesini L’uomo non può che riconoscere l’esistenza del dolore. Il fedele crede nell’esistenza di Dio. Ne consegue che il fedele è costretto a confrontarsi con l’idea che il dolore, anche quello più profondo e devastante, è permesso da Dio e fa parte in qualche modo del suo disegno. Il libro di Giobbe rappresenta all’interno della Bibbia un indubbio atto di coraggio, e coraggio richiede per essere affrontato. Questa può essere una chiave di lettura delle tre giornate di incontri che si sono tenute a Genova nei giorni 6, 8 e 9 maggio scorsi, nella cornice della chiesa valdese di via Assarotti. La prima è stata dedicata alla lettura integrale del libro, la seconda a una riflessione sulla traccia di tre domande guida, la terza alla presentazione di esperienze personali. La riflessione sui tre punti è stata affidata alle voci del rabbino capo di Genova Giuseppe Momigliano, che ha offerto una prospettiva fortemente radicata nel testo, in dialettica con gli altri libri della Bibbia; alla pastora Maria Bonafede, che ha trattato il testo dall’ottica pastorale; e a Michele Corioni, coordinatore attivo nell’area del sociale, che ha esposto un punto di vista laico ma con implicazioni chiaramente bibliche e teologiche. L’intervento del rabbino parte dalla prima domanda che chi si accosta al testo di Giobbe non può eludere: Dio sta forse giocando sulla pelle di Giobbe? In questo interrogativo sentiamo l’eco di quello che si presenta a chiunque si confronti con una sofferenza: perché Dio permette questo? Dio conosce già l’esito della prova, e sa come ne uscirà il protagonista. Chi non ne è al corrente, oltre allo stesso Giobbe, è Satana, reduce dal percorrere la terra e dall’andare per essa, incaricato dell’ufficio del pubblico ministero. In questo caso deve mettere alla prova Giobbe. Vengono citati altri due passi in cui compare questo figlio iperattivo di Dio, l’Antagonista, incaricato di mettere alla prova il genere umano, Numeri 22 e Zaccaria 3. Ma è il Signore che ordisce la prova che Satana si limita a mettere in atto, nei confronti di Giobbe, l’uomo giusto, da Uz, la terra dei saggi consigli, come si può dedurre dal suo stesso nome. Nella concezione antica, quindi, la terra stessa della prosperità, siccome la sapienza tradizionale non fa che mettere in risalto il legame tra benessere, saggezza e giustizia, che poi la vita stessa tristemente si incarica di smentire. È la posizione rappresentata, con dovizia retorica e potente autoconsapevolezza, dai tre consolatori di Giobbe. E che tanta fortuna, se posso dire, gode ancora presso di noi, attraverso sentieri della mente poco noti anche a noi stessi, ingenuamente, nella speranza che ci sia un legame irresolubile tra scelte sagge e successo, o quando pensiamo che, in fondo, a noi, nulla di male può accadere, oppure, per un radicato riflesso, nel senso di fallimento inconsolabile che ci assale quando perdiamo il lavoro o cadiamo in disgrazia. Il libro di Giobbe s’incarica di dissipare questo facile sapere. La distruzione della vita di Giobbe è la distruzione delle semplificazioni della saggezza, che non ci avvicinano veramente a Dio. È la rottura del velo che separa da Dio, in cui è sì cruda verità, ma anche, e proprio in essa, infinito amore. Nella concezione biblica, l’uomo rivolge a Dio interrogazioni e sfide. Giobbe sfida Dio e si ribella, chiede a Dio conto della sua sofferenza. Questo chiedere delle risposte a Dio lo troviamo anche in Abramo, quando perora per la vita degli uomini di Sodoma e Gomorra. Mosè lo farà per difendere il popolo di Israele. Bisogna saper interrogare Dio e forse anche ribellarsi, per avere delle risposte da lui. Nel libro, Dio non fornisce una risposta teologica, ma Giobbe sente il rivolgersi di Dio a lui, sente che Dio non gli ha dato la risposta, ma gli ha parlato. Giobbe, nella sua esperienza estrema, vede lacerarsi il velo che impedisce la visione di Dio. La vecchia sapienza, incenerita dal dolore, dà luogo a una nuova consapevolezza. La chiusa del racconto vede Dio chiedere ai consolatori un sacrificio guidato dalla preghiera del giusto Giobbe a riparazione del cattivo servizio resogli. Perdonerà la loro deviazione per amore del giusto. La pastora Maria Bonafede esordisce ricordando che la cornice narrativa di Giobbe può suscitare resistenze nella mente dell’uomo moderno. Nella Bibbia anche i nomi hanno peso: l’etimo di Giobbe probabilmente è: dov’è il padre, ma è probabile che gli antichi abbiano sentito maggiormente vicino a loro l’etimo alternativo: colui che suscita ostilità, ostile. Entrambi i significati mostrano un legame con la trattazione. Nei primi due capitoli del libro e nell’ultimo sta la vicenda del giusto Giobbe provato da Dio, eroe della volgata della pazienza, che in realtà è però un uomo in rivolta con Dio stesso, tutto meno che paziente. Giobbe non è un trattato filosofico ma un’opera creativa filtrata attraverso varie epoche, e come tale ha i suoi respiri, le sue scansioni, che le sono connaturati e necessari. La cornice è profondamente innervata in queste ritmiche. Il commento alla parte centrale poetica viene infatti spesso relegato a poche annotazioni. Ma la forma, a suo modo, è sostanza. Giustamente, la pastora Bonafede evidenzia che il contenuto del libro sarebbe fondamentale anche senza la cornice, ma è proprio quest’ultima a far scaturire la riflessione della parte poetica, a conferirle forma, a consentire al lettore l’approccio a una tematica disturbante come la superiore conoscenza conferita dal dolore senza ritorno, e ad accompagnarlo verso la conclusione della riflessione. Lo fa, certo, con le modalità e i tempi di un racconto popolare antico, che vive anche della propria forma. A questo proposito, mi viene in mente quanto in psicanalisi sia importante, fondamentale al fine della guarigione del soggetto, il concetto di “sapersi raccontare” un evento o un fatto. E Giobbe è anche un libro di guarigione. A questo proposito, sento importante dire che il libro non autorizza mai il lettore a mettersi sul piano di Giobbe, ma lo spinge semmai ad adottare l’ottica dell’Antagonista, che assiste alla prova con rispettosa estraneità di spirito. Il dolore è un geloso possesso di chi lo prova. Il tentativo di condivisione, onesto in certi momenti, ma colpevolmente ottuso, degli amici, si rivela in questo senso sia un fallimento che un tradimento, e andrà espiato con il sacrificio e la preghiera. Il fatto che Giobbe li dovrà guidare, esplicita come il suo livello di conoscenza abbia varcato un limite reale. Bonafede ricorda che nella sofferenza Giobbe si rivolge a Dio, mentre gli amici sembrano non porsi mai domande. Questa loro ignoranza profonda adira Dio. La riflessione di Michele Corioni prende spunto ancora una volta dal significato del nome del paese di Uz: Terra del buon consiglio; a somiglianza con la nostra che, almeno nelle aspirazioni, è una terra del benessere. Il nostro radicamento nella società dei consumi spinge a rifiutare il dolore da un lato, o a consumarlo, come ogni altra cosa, riducendolo a merce (anche televisiva), dall’altro. Ma la manipolazione mediatica non aiuta. Il dolore è una parte inseparabile del destino umano. Non si può eludere: sia nel caso ci sfiori, o ci investa direttamente, non ci permetterà la scorciatoia di facili risposte. Questa è una delle ragioni della difficoltà del libro di Giobbe. La sua stessa origine sta nella crisi delle tesi precostituite: Giobbe è un uomo saggio e giusto della terra di Uz, che ha nel suo etimo stesso la traccia dei buoni consigli. Ma la sapienza umana è cosa fragile, e Dio ne saggia i limiti. Fino a quando la disturbante realtà non ci riporta con i piedi per terra, portando con sé accadimenti reali, come malattia e morte, bruschi freni dell’espansione dei nostri confini personali. Il benessere è un prodotto della labilità dell’uomo, ma anche della sua tensione verso la giustizia, il buon equilibrio. Aspiriamo sempre alla rassicurazione del benessere. Noi sentiamo di aver meritato di stare dalla sua comoda e confortevole parte. Questo modello umano si trova imputato a un processo a cui non può partecipare. Perché Giobbe deve sottostare alla prova? Perché questa prova è voluta da Dio. Cercando un consuntivo e una chiusura, penso di poter trarre la seguente riflessione. Perché mettere alla prova il giusto? Ricordiamoci che Giobbe è un’opera dell’ingegno: non è il giusto a essere messo alla prova, ma la sapienza umana nei confronti dell’ineliminabile presenza del dolore. Vediamo che la sapienza tradizionale della terra di Uz non ha i mezzi sufficienti, ma tramite la prova di Giobbe, arriva a uno stadio superiore, si evolve. Varca il proprio limite, rimanendo sempre in sé. Beninteso, non siamo autorizzati a considerare la sofferenza in sé e per sé una prova. È quella di Giobbe a esserlo. La sofferenza è il campo nuovo di esplorazione in cui Giobbe esprime, anche nella sua ira, il profondo attaccamento a Dio. Dio è sempre in presenza, e lo dimostra anche eleggendo Giobbe, un gentile, alla chiamata profetica più radicale e straziante. La consapevolezza che ne scaturisce è in sé una nuova nascita, simbolizzata dalla rinascita di Giobbe stesso. Il Dio di Giobbe è indeterminato, cosmico. Il dolore non guarda in faccia, non ha rispetto, non si lascia leggere. Anche per questo il gentile Giobbe è chiamato a divenire paradigma del dolore israelita.