testo stefani giobbe19.03.2012

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testo stefani giobbe19.03.2012
Riscritture
Personaggi dell’Antico Testamento raccontati da scrittori del ‘90
Una rassegna a cura degli Amici di Torino Spiritualita
Giobbe di Joseph Roth
Il Circolo dei Lettori 19 marzo 2012 ore 21
Abstract dell’intervento di Piero Stefani
Rendere un testo sacro letteratura, vale a dire proiettarlo fuori dalla crisalide delle
comunità religiose che lo hanno trasmesso e custodito, significa tradirlo? Gli
apologeti del controllo istituzionale sul sacro, al pari dei fondamentalisti di ieri e di
oggi, risponderebbero di sì. La smentita rispetto alle loro diverse, eppure concordi,
posizioni, viene, a volte, dall’interno stesso del Libro. Ciò ha luogo quando lo scritto
di partenza è in se stesso dichiaratamente letterario. In questi casi non va neppure
sollevato il problema se un testo sacro possa diventare letteratura. Il discorso va
capovolto. Fin dal principio, infatti, fu compiuta la scelta di affidarsi alla specificità
di una forma letteraria al fine di esprimere il sacro. È il caso del libro di Giobbe.
In principio c’era l’antica e ben conosciuta novella del giusto messo alla prova dalla
sventura e poi reintegrato nella sua fortuna come premio per la pia accettazione di
quanto gli accade. Il libro biblico accoglie questo sostrato ponendo, all’inizio e alla
fine del testo, due sezioni in prosa (Gb 1-2; 42,7-16). Stretto tra questi esili braccia vi
è il grande corpus dei capitoli in poesia (Gb 3-42,6), torrenziale susseguirsi di parole
di protesta contro l’operare divino e di apologia nei confronti della giustizia di Dio,
concluso dall’erompere stesso della voce del Signore. Il proprium del libro di Giobbe
è di essere contraddistinto dall’intreccio di due generi letterari. Occorre decidere
quali fra le due componenti di questo tessuto misto abbia la precedenza. Il primato va
alla componente drammatica della parte in poesia in cui Giobbe alza il suo grido, i
suoi amici sviluppano i loro ragionamenti apologetici e il Signore dice la sua parola
conclusiva? O piuttosto la chiave che dischiude è quella stessa che chiude, vale a dire
i versetti in prosa che, in modo circolare, dicono il benessere, la prova e di nuovo il
benessere? O forse il senso del libro sta proprio nel suo presentarsi come una stoffa
tessuta con fili disomogenei? Qualunque sia la soluzione adottata, resta la presenza
dell’opzione accomunante di non voler lasciare alla sventura l’ultima parola.
Joseph Roth, grande cantore di un tempo da poco trascorso eppure
irrimediabilmente tramontato, scrisse nel 1930 il suo Giobbe. Il libro inizia nella
Russia zarista del primo Novecento e termina negli Stati Uniti degli anni Venti. A
differenza del suo antico modello, collocato in un mitico oriente, privo di tempo e
quasi indefinito nello spazio, nel romanzo sono i luoghi e la storia a sconvolgere il
ritmo ripetitivo proprio del protagonista Mendel Singer, umile maestro che fa
pronunciare ai suoi giovani scolari sempre le stesse parole e fedele orante che recita,
giorno dopo giorno, sempre le stesse formule. Le disgrazie lacerano questa tela
omogenea così conforme all’immagine del Dio che dà e toglie presente nella parte
iniziale del biblico Giobbe. In America, lontano dalla reiterazione infantile e
assediato dalle disgrazie, Mendel esce dalla parte in prosa di Giobbe ed entra in
quella in poesia. Diviene ribelle e lottatore. Per farlo sceglie l’empietà. È lì lì per
compiere il gesto ultimo di bruciare Dio stesso; decide, infatti, di distruggere gli
oggetti tipici del suo pregare quotidiano (i filatteri e il mantello di preghiera). Solo
l’intervento degli amici lo trattiene. Tuttavia, nei successivi discorsi avvenuti tra loro,
la contrapposizione resta. Si tratta della sezione del romanzo in cui il sottotesto
biblico è ripreso nella maniera più diretta.
Nel Giobbe di Roth vi è un patetismo e un senso della famiglia assolutamente alieni
all’omonimo testo biblico. Il dramma che percorre il romanzo culmina nella
fuoriuscita contemporanea da uno stile di vita che dai padri non passa più ai figli. La
catena si è spezzata, nessun figlio di Mendel vivrà come il padre. Da qui il senso di
impotenza che pervade il protagonista. Il recupero perciò potrà avvenire solo quando
anche il genitore uscirà, in modo definitivo, dai suoi antichi ritmi di vita. Tuttavia lo
scioglimento della vicenda, per quel tanto che avviene, avrà luogo in uno dei riti
simbolo del succedersi delle generazioni ebraiche: la cena pasquale. Si tratta di un
riferimento del tutto estraneo al Giobbe biblico che ebreo non è. Là vi sarà una
specie di riscrittura domestico-ebraica-messianica della fiaba del brutto anatroccolo:
il rachitico e idiota Menuchim, il figlio abbandonato in Russia e custodito nel cuore,
si presenta ora sotto la veste di un ricco genio baciato dal successo e dalla ricchezza,
un Elia profano e familiare che entra dalla porta la notte di Pasqua e fa sì che il padre,
oppresso dalle sciagure, giunga infine a riposarsi «dal peso della felicità e dalla
grandezza dei miracoli».
Piero Stefani