Giobbe 19: 21-27 sermone Care sorelle e cari fratelli, vorrei

Transcript

Giobbe 19: 21-27 sermone Care sorelle e cari fratelli, vorrei
1
Giobbe 19: 21-27
Testo
21 Pietà, pietà di me, voi, amici miei,
poiché la mano di Dio mi ha colpito.
22 Perché perseguitarmi come fa Dio?
Perché non siete mai sazi della mia carne?
23 «Oh, se le mie parole fossero scritte!
Se fossero impresse in un libro!
24 Se con lo scalpello di ferro e con il piombo
fossero incise nella roccia per sempre!
25 Ma io so che il mio Redentore vive
e che alla fine si alzerà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo,
senza la mia carne, vedrò Dio.
27 Io lo vedrò a me favorevole;
lo contempleranno i miei occhi,
non quelli d'un altro;
il cuore, dal desiderio, mi si consuma!
sermone
Care sorelle e cari fratelli,
vorrei condividere con voi alcune riflessioni su questo brano del libro di Giobbe.
È una pagina luminosa e inaspettata che giunge quando Giobbe, dopo aver perso tutto
(famiglia, beni e perfino la propria salute) ha dovuto anche ascoltare le teorie
teologiche dei suoi “amici” sul perché tutto questo gli è accaduto.
Sono stati accanto a lui giorni e giorni in silenzio, soffrendo con lui, e fino a quel
punto hanno fatto bene; hanno fatto ciò che talvolta dovremmo imparare a fare tutti
noi quando qualcuno è gravemente malato: esserci, essere presenti, essere solidali,
saper accettare il silenzio, non pretendere di avere per forza qualcosa da dire o da
dare.
Ma non appena hanno parlato essi sono diventati per Giobbe dei “consolatori
molesti”, perché anziché comprendere il grido di dolore del malato contro il cielo, si
sono trasformati negli avvocati di Dio.
Eppure Dio non ci ha mai chiesto di difenderlo, di intercedere per Lui;
Dio non ha bisogno di avvocati difensori.
Dio ci chiede di intercedere per coloro che soffrono!
Siamo chiamati a stare dalla parte di chi soffre, di chi al culmine della propria
sofferenza grida contro il cielo; siamo chiamati a comprendere le ragioni di quel
grido.
Ma non è così che si comportano gli amici di Giobbe, troppo preoccupati di difendere
Dio, ed è per questo che per Giobbe essi diventano “consolatori molesti”, anzi veri e
propri persecutori (v.19).
2
C’è una teologia che consola, che fa bene; ma c’è anche una teologia che affligge
peggio della malattia.
È il tipo di teologia della quale sono imbevuti gli amici di Giobbe e che egli non può
fare propria.
È quella teologia in base alla quale chi fa il bene nella vita riceve solo il bene, mentre
chi fa il male riceve solo il male.
È un’idea ben presente nell’Antico Testamento, ma di cui rimangono tracce anche nel
Nuovo Testamento.
Basti pensare all’episodio del cieco nato nel Vangelo secondo Giovanni, dove i
discepoli chiedono a Gesù: “Maestro chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia
nato cieco?”(Gv 9:2). Gesù rifiuta quel tipo di teologia e infatti risponde ai suoi
discepoli: “Né lui ha peccato, né i suoi genitori” (Gv 9:3), preoccupandosi di curare
il cieco anziché dilungarsi in disquisizioni teologiche.
Questo idea della retribuzione che Gesù rifiuta e gli amici di Giobbe invece
sostengono è, in fondo, la medesima idea che è alla base della dottrina indiana del
karma (detta anche reincarnazione) in base alla quale la condizione in cui ci troviamo
a vivere è il frutto delle azioni compiute nelle vite precedenti; sicché se sei povero,
malato o storpio, alla fine la colpa è soltanto tua.
Nell’uno così come nell’altro caso, a farne le spese sono comunque le vittime.
È un tipo di teologia che può piacere soltanto a coloro che stanno bene e che non
hanno problemi di sussistenza.
Probabilmente è la teologia che Giobbe stesso condivideva nel primo capitolo del suo
libro, quando era “il più grande di tutti gli Orientali” (Gb1:3).
Ma le cose cambiano quando ti trovi dall’altra parte della barricata, quando da un
giorno all’altro perdi tutto e ti crollano addosso tutte le tue certezze.
Le esperienze esistenziali possono modificare profondamente le convinzioni
teologiche.
Giobbe, dopo aver perso tutto (inclusa la salute) comprende che la teologia della
retribuzione non funziona;
i suoi amici, che non hanno fatto la sua esperienza, e che non riescono a mettersi nei
suoi panni, continuano invece a sostenerla.
Per loro è tutto chiaro: se Giobbe ha perso tutto e alla fine si è anche ammalato
gravemente, qualche ragione sotto sotto deve pur esserci: deve aver commesso
qualche peccato terribile per aver meritato ciò che gli è accaduto.
Ma Giobbe che sa di essere innocente, si ribella con tutte le proprie forze (e
giustamente) a questa teologia troppo semplicistica e in fondo falsa, che finisce per
aggiungere dolore a dolore, trasformando le vittime innocenti in persone colpevoli
della propria condizione.
Tutto il libro di Giobbe rappresenta la ribellione contro questo tipo di teologia.
“Oh, se le mie parole fossero scritte! Se fossero impresse in un libro!” (v.23) grida
3
Giobbe al culmine della sua sofferenza.
Ebbene, questa è una preghiera che verrà esaudita, ben al di là delle sue aspettative,
perché le sue parole non finiranno in un libro qualsiasi, bensì nel Libro dei libri, nella
Bibbia, esse diventeranno Parola di Dio.
Ed è questa la buona notizia, questo è l’Evangelo per Giobbe (ma anche per noi).
Dio non sta dalla parte degli amici di Giobbe che si sono autoproclamati difensori di
Dio, trasformandosi di conseguenza, in accusatori di Giobbe.
No, Dio sta dalla parte di Giobbe, dalla parte di chi soffre, fino al punto da accettare
di diventare il bersaglio della rabbia dei sofferenti, fino al punto da far entrare nella
Bibbia, nella sua Parola, quelle che agli orecchi di molti di noi suonerebbero come
delle vere e proprie bestemmie.
Il paradosso bellissimo della Bibbia è proprio questo: che in essa, nella Parola di Dio,
vengono accolte ed accettate parole che sembrano essere contro Dio.
Dio comprende e accoglie a tal punto il grido dell’innocente contro il cielo, da
assumerlo e farlo proprio, da trasformare quella parola, a tratti blasfema, nella sua
Parola.
Quando gli amici di Giobbe assumono il ruolo di difensori di Dio, e Giobbe, di
conseguenza, da vittima diventa imputato, Dio rinuncia per un momento a ricoprire il
ruolo di giudice per trasformarsi in quel “testimone” (16:19), in quel “garante”
(16:19), in quel difensore a lungo invocato dal povero Giobbe.
E tutto questo Giobbe sembra intuirlo.
Avviene così, che al culmine della propria sofferenza, quando ci aspetteremmo la
rassegnazione, il suicidio o parole di maledizione rivolte a Dio, ci troviamo invece di
fronte ad una splendida confessione di fede:
leggere i vv. 25-27
Al culmine della sofferenza, da Giobbe, che ci appare come un eroe tragico, ci si
aspetterebbe una riflessione cupa sul non senso della vita, un po’ come avviene nel
Macbeth di Shakespeare che si ritrova a dire:
“La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si
pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla
più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non
significa nulla.” (Macbeth, Atto V, scena V, p. 972).
E invece no. Sono ben altre le parole che Giobbe pronuncia:
leggere i vv. 25-27
Io so che il mio Redentore vive, io sento che la mia sofferenza, il mio dolore, non
sono la punizione di qualche colpa da me commessa. Io so che in fondo Dio non può
essere un sadico che goda delle sofferenze umane. Io sento che un giorno questo Dio,
che non sempre riesco a comprendere e i cui disegni mi sono troppo spesso oscuri, un
giorno lo incontrerò faccia a faccia. Io intuisco che c’è qualcosa che va al di là di
questa vita, sento che la morte non può essere l’ultima parola sulle nostre esistenze.
Tutto questo e molto altro Giobbe lo comprende proprio quando ormai ha perso tutto.
4
Tutto, tranne la propria fede.
Quella fede, sottoposta al banco di prova della vita, è stata scossa fin nelle
fondamenta, è stata trasformata, ma non distrutta. Semmai purificata.
Alla fine del suo percorso, dopo aver litigato con i suoi amici e anche con Dio,
Giobbe si ritroverà con una fede più matura.
Non potendo più credere nella dottrina semplicistica della retribuzione, secondo la
quale ai buoni va tutto bene e ai cattivi tutto male farà sua quella semplice verità
secondo la quale il sole sorge su giusti e sugli ingiusti e quando piove, piove sui
giusti e sugli ingiusti.
Dio non gli apparirà più come un giudice capriccioso e arbitrario che si diverta a
dispensare il male; gli si rivelerà, piuttosto, come il Redentore, come colui che alla
fine libera da ogni male e che ha l’ultima parola sulla vita, così come sulla morte.
leggere i vv. 25-27
Questa è la confessione di fede di Giobbe, che pure non aveva ancora conosciuto il
Cristo.
Questa è la fede alla quale noi stessi, oggi, siamo chiamati, noi cui è stato annunciato
l’Evangelo della risurrezione.
Ci preservi il Signore dal diventare dei consolatori molesti, ci doni Egli la pazienza di
Giobbe, unita alla fiducia in Gesù Cristo e nelle sue promesse.
AMEN
Past. Sergio Manna