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Diario d’autore (12)
AFORISMI SU ‘L’ARTE DI CUCINARE I LIBRI’
Un critico-scrittore in veste di chef distilla acuti pensieri di ‘gastronomia letteraria’
svariando da Flaubert a Montale, da Primo Levi a Pizzuto, da Dino Campana a
Fenoglio, da Arbasino a Caproni, da Goethe a D’Annunzio, non dimenticando Dan
Brown e Paolo Giordano. Come dire andando dall’haute cuisine al fast food
dell’editoria attuale.
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di Donato Di Stasi
Quando un giovane poeta chiede indicazioni tecniche o di metodo sui suoi primi scritti, gli si può
tranquillamente consigliare (come Erasmo nei Dialoghi) un pasto abbondante e una procace
prostituta.
“Sono qui per mangiare. Qui con la speranza di deglutire parole, confessioni, confutazioni, poemi,
trattati, romanzi, aforismi”. A Gustave Flaubert morto per indigestione di libri, scrivendo Bouvard e
Pécuchet. A Jean Paul Sartre morto senza essere riuscito a digerire tutto Flaubert.
Una nuova generazione di critici: tristemente incapaci di distinguere epicarpo e pericarpo, gettano
via i frutti e si disputano le bucce. Le lodi alle scorze si sprecano.
Che cosa c’è di più indigesto di un brutto romanzo? Un bel romanzo in stile creative writing alla
maniera di… (aggiungere nomi a piacimento).
Bisogna infarcire le parole di rospi, o la poesia rimane un grande pettegolezzo.
Lo scrittore riporta la creazione alle sue sorgenti storiche e biologiche. Si interroga sulla moralità
della forma, non sulla sua commestibilità per le librerie.
Il tempo di godere dell’intelligenza non è trascorso: si gettino focacce avvelenate alla banalità.
In un vagone piombato viaggia l’anima assassinata, affamata di Primo Levi. Sarebbe bastato un
torsolo di serenità per non gettarsi dall’acapulco di un palazzo torinese dentro la stazione di rovine
dell’eternità.
Verga e Carducci: minestra scaldata alla francese e bollito barbaro, coriaceo.
Va da sé che il suo caffè risulta il più odoroso, una miscela di sperimentalismo e classicismo
remoto. Sorseggiarlo con lo zucchero dei dizionari rianima le lingue morte e vive. Emilio Villa:
penna pro nobis!
In tempi di Restaurazione l’uovo del gallo è sempre a portata di mano.
Cercare la bellezza è più doloroso che tagliarsi un orecchio per darlo in pasto ai cani gialli della
schizofrenia, vero Vincent?
Ho letto e comprato quasi tutti i libri di Alberto Arbasino (da Fratelli d’Italia a La vita bassa,
passando per Super-Eliogabalo e Un paese senza). Pasto nutriente di letteratura non geneticamente
modificata. Tutte le volte, però, che incrocio la sua erre snob, le pagine lette inacidiscono come
peperoni fritti in olio di colza (radical-chiccherìa, malattia suprema del borghesismo di sinistra).
Intrugliati nei sughi della Storia facciamo caso solo ai ragli dei Salvatori della Patria.
Stride La bufera e altro (1956) come per terra il piede sui grani di sale; scricchia in bocca il frasario
ermetico. Montale non sazia mai e se anche si masticasse l’intera sua poesia, non si sarebbe che
all’antipasto del nihil.
Hanno avvelenato il pozzo della coscienza: pochi secchi e corde troppo corte.
La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, best seller e traduzioni in altre lingue. Diffido a
priori dei titoli particolarmente riusciti, perché essi per uno strano sortilegio esauriscono quanto uno
scrittore ha da dire. Non pago di ciò ho soggiaciuto al masochismo di sfogliare le prime cinque
pagine, le cinque mediane e le ultime cinque; non ne sono rimasto deluso, era esattamente quello
che mi aspettavo: spezie sparse su carne frolla.
Antonio Pizzuto, questore, riparatore di bambole, chef di rango extravagante, disciplinatissimo:
scoperchiò la pentola del linguaggio, curando in ogni dettaglio quel che rovistava il suo mestolo di
faggio.
Le parole si consumano, e consumandosi splendono.
A Dan Brown, al suo Codice da Vinci e agli idioti che lo hanno comprato e magari letto: oltre a non
contemplare con la verità nessun legame, le sue misticherie non raggiungono la dignità di un uovo
al tegame.
Gusci vuoti di arachidi, di noci e di nocciole; spicchi di mele guaste e pere acquose; pezzetti di
carne con macchie di sugo rancido: questo apparecchia l’insipida poesia italiana. Un mistero come
mai non l’inseriscano nelle guide di cucina.
In fondo al corridoio della ragione la creatura con il seno gonfio, la chimera, sprizza latte con miele
e tosco: lì Dino Campana impiastriccia i suoi fogli per la mappa del nostro labirinto fosco.
La poesia va offerta su un piatto d’argento come la testa di Giovanni Battista.
Luminosità delle Langhe deteriorate: asfalti anonimi, paesi transitabili senza istruzioni, paesaggi
dimessi e amari. Osservo con il timore che il nuvolame crolli e cancelli le prose anglopiemontesi di
Fenoglio (nel suo stomaco era digerita l’eternullità).
Abituati ai loro trofei essiccati, i cacciatori di teste della filosofia, sbilanciati in avanti dalle cattedre
universitarie passano ore a parlare alle generazioni passate.
Montunquasimodo, mostro trifauce posto a guardianìa della caverna ermetica. Azzanna chiunque si
azzardi a fregiarsi dell’epiteto di ermeta.
Per cucinare il brodo della Storia occorrono ossa anonime.
Nello stagno le gelide carcasse di rane zampe all’aria: uno dei tanti antipasti stoppacciosi del
réstaurant pascoliano (l’odiosamato gre gre delle ranelle, La mia sera ecc.).
Il sogno ha il sapore nauseabondo dell’inchiostro kafkiano.
Nel grasso canale di Livorno, negli scuri carrugi genovesi, nella pietraia romana, chi si è accorto
dell’ovino Caproni che pascolava incurante a un tiro di schioppo dalla bestia divina?
Che cosa aspettarsi da Gabriele D’Annunzio, zuccheroso plagiatore di prose e di versi francesi, se
non un diabete da lettura?
La città ha i suoi latifondi. Si cammina in molti, risucchiati senza preavviso. Quando la mattina
vado a Campo de’ Fiori a comprare i giornali e a fare colazione, la statua del Nolano a mezz’aria
continua a rimproverarmi.
Durante un pranzo di gala offerto in suo onore, Goethe poté asserire che, quando egli aveva diciotto
anni, la letteratura tedesca non ne aveva molti di più.
Tutto finisce in pitale quando s’esce sudati dalla lettura degli accoliti di Montale.
Se si mangiassero i libri a morsi, qualcosa resterebbe da Omero in poi; qualcosa del corpo elettrico,
dell’anima digitale (nel frattempo, però, fate presto a pensare).
L’Italia è in silenzio, per questo occorre scrivere in una lingua rumorosa.
Tota nocte scribentes nihil coepimus. O magnifique, o mémorable neant.