Antonio Pietropaoli, Le strutture dell`anti-poesia

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Antonio Pietropaoli, Le strutture dell`anti-poesia
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disobedient and hypersensitive flesh that relegates the human to an abject state of
blind animality. However, this form of embodiment also constitutes an alternative
space that counteracts the paternal order of capitalism founded on exploited bodies.
In doing so, Tozzi questions protagonists’ ‘discordant relationship with the material
world’ (p. 77), indicative of a deeper shame felt through the modern condition of
embodiment that is meant to suppress the animal in man.
In the fourth chapter, Amberson reads Gadda through a gendered lens. She
suggests that Gadda configures the body in three ways: through a self-consciously
permeable male monad, a grotesque peasantry and a bourgeois femininity focused
on maternity. Amberson suggests that Gadda activates an ambivalent misogyny that
simultaneously reveals a narcissistic, femininized body interested in self-preservation
and material accumulation, while also exposing the passive female body as the
‘offended material object of . . . modernity’ (p. 117).
In addition to a comprehensive analysis of corporality in Svevo, Tozzi, and
Gadda, Amberson contributes to a discussion of embodied experience evoked
through literary style. Svevo’s refusal to enact the rhythmic regularity of the canonical Tuscan language supports the irregularity of the Triestine dialect. His ‘scrivere
male’ creates a language that ‘limps’ in order to destabilize a stable, ‘healthy’ Tuscan
model of language that limits self-knowledge. Tozzi’s paratactic and anti-hierarchical style performs the schizophrenic, embodied experience of modernity in order to
resist meaningful conceptualization and undermine the paternal order. In contrast,
Gadda’s encyclopedic and fluctuating style strives to reflect a reality in flux that
rejects its totalization.
Through an engaging and succinct style, rich with clear theoretical and philosophical investigations of corporeality, Amberson creates an astute analysis of
Italian modernists Svevo, Tozzi and Gadda. Giraffes in the Garden of Italian
Literature contributes to an international, not merely regional, discussion of
European modernism that recalls Calvino’s suggestion to dislodge modern Italian
literature from the cultural isolation under which Italian literature has labored.
Amberson’s compelling book investigates new readings of Italian modernism
established through effective textual analysis that projects the enterprise of Italian
literature across borders.
Antonio Pietropaoli, Le strutture dell’anti-poesia. Saggi su Sanguineti, Pasolini, Montale,
Arbasino, Villa, Guida: Napoli, 2013; 255 pp.: 9788866662099, E15,00
Recensione di: Alessandra Ottieri, Università degli Studi di Salerno, Italia
‘‘Un libro che accosta Montale a Villa non può che essere un libro composito, diffratto, certo più di come lo sono in genere le miscellanee, un libro che tiene i suoi pezzi
insieme, se li tiene, solo grazie ad un principio unitario, una specie di basilare ipotesi
storiografica.’’ Con queste parole, contenute nella ‘‘Premessa’’ (5–6), Antonio
Pietropaoli, studioso esperto delle forme poetiche della contemporaneità, mette
subito in guardia i lettori circa il tipo di operazione (‘‘spericolata’’, ma assolutamente
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convincente) compiuta attraverso le pagine del suo ultimo libro, intitolato Le strutture dell’anti-poesia. Saggi su Sanguineti, Pasolini, Montale, Arbasino, Villa.
Questo volume ‘‘composito’’ e ‘‘diffratto’’ – che, tra l’altro, rinvia con un ‘‘titolo a
specchio’’ al lontano Le strutture della poesia (1983) dedicato all’esperienza, per certi
versi paradigmatica, di ‘‘una manciata di poeti primo-novecenteschi’’ (5): Campana,
Sbarbaro, Ungaretti, Quasimodo, Montale, Gatto – si presenta, nonostante tutto,
come un syste`me où tout se tient, un libro, cioè, i cui ‘‘pezzi’’ si tengono insieme per
una cogente necessità interna, per un ‘‘principio unitario’’ che li salda assieme e che
conferisce omogeneità e continuità a saggi apparsi in occasioni e tempi diversi (solo il
saggio sul secondo Montale è inedito). ‘‘L’ipotesi storiografica’’ da cui prende le
mosse il discorso critico di Pietropaoli è subito esplicitata nella ‘‘Premessa’’: ‘‘il
punto di fusione di tutte queste esperienze poetiche sono gli anni Sessanta’’ –
scrive lo studioso –, anni di straordinarie trasformazioni di cui i poeti presi in
esame sono stati ‘‘testimoni diretti e indiretti’’, distanti per formazione e percorsi
esistenziali ma accomunati da una medesima ‘‘posizione ideo-estetica’’: ‘‘a partire
dalla dura condanna di un presente entropico e anomico quanto omologante e a
finire con la convinzione che in un’epoca siffatta non ci sia più spazio per la poesia, e
che la cosa più onesta da fare sarebbe tacere’’ (6). L’alternativa è ‘‘cambiare voce’’,
fare poesia con ‘‘modalità poetiche sghembe, fuori canone’’, anti-retoriche e anticlassiche (7–8). È questo l’assunto di fondo del libro, il fil rouge che attraversa,
legandole tra loro, le tre parti di cui si compone il volume, i titoli delle quali sono
estremamente significativi (titoli ‘‘pieni’’, direbbe l’autore): ‘‘Sanguinetiana: la lotta
al poetese’’ (11–90); ‘‘I convertiti: Pasolini e Montale’’ (91–140); ‘‘Gli estremisti:
Arbasino e Villa’’ (189–250).
Considerata la radicale difformità, e quasi ‘‘incompatibilità’’, delle coppie di
autori proposte nei titoli delle sezioni, il percorso critico suggerito da Pietropaoli
può apparire prima facie una forzatura; anche il lettore più avveduto può restare di
stucco nel trovare ‘‘fianco a fianco’’ Pasolini e Montale, Arbasino e Villa, ma anche
Sanguineti e Pasolini o quest’ultimo e Villa. E invece lo studioso ci dimostra, con
argomentazioni assolutamente persuasive, che l’operazione non solo è possibile ma,
addirittura, auspicabile. Se, infatti, intendiamo uscire dai confini angusti di un’indagine settoriale, limitata a una singola vicenda intellettuale ed estetica, e, viceversa,
preferiamo allargare il nostro sguardo all’intero quadro ideologico-letterario del
secondo Novecento, un tempo caotico, magmatico, lacerato da scabrose contraddizioni, allora vediamo che le distanze ideologiche si accorciano, e le posizioni
estetiche, anche le più irriducibilmente lontane, si avvicinano: Pasolini e Montale
‘‘prima zittiscono rielaborano studiano, e poi ritornano alla poesia con altra voce’’
(7); il Sanguineti neo-figurativo degli anni Settanta, con i suoi ‘‘testi-formicaio’’
‘‘pluricentrici’’ e ‘‘centrifughi’’ (80), condivide con Pasolini la scelta di una poesia
caotica e accumulativa, ‘‘‘sporca’ di realtà, di umori collettivi e personali’’ (111); la
‘‘basilare esigenza d’interventismo socio-politico, da poeta civile (o ‘incivile’)’’ apparenta in qualche modo Arbasino a Pasolini e lo conduce a un tipo di poesia
‘‘trafelata. . . a caldo, dal vivo, d’impronta diaristica’’ (199) non distante, a sua
volta, dal ‘‘‘diarismo’ spicciolo del secondo Montale’’ (201). Il comune
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denominatore è la scelta di una poesia dissonante, ‘‘onnivora’’ che nasce, per tutti,
‘‘sopra un fondo di risentimento etico e ideologico’’ (200). L’‘‘anti-poesia’’ – che è
poesia ‘‘parlata’’, spuria, contaminata dal contatto con le cose, naturali o artificiali,
depotenziata nello stile, costruita per accumulo caotico o depauperata nel lessico
fino ai limiti dell’afasia – diviene, infatti, per tutti e cinque gli autori studiati, l’unica
strada percorribile, il solo modo per continuare a scrivere versi dopo la ‘‘rivoluzione’’ neo-avanguardistica.
La svolta ‘‘neo-figurativa’’ di Sanguineti si consuma negli anni 1960–1970,
quando il poeta, riemerso dalla apocalittica ‘‘Palus Putredinis’’, ‘‘comincia a sperimentare come un forsennato i meandri del labirinto esteriore, del mondo e della
vita’’ (54), fino ad arrivare, negli anni Ottanta, alla ‘‘funambolica esplosione del
linguaggio comico’’, ‘‘quel parodicissimo strombazzamento sonoro che inquina la
trasparenza e la ricercata ‘chiarezza’ del linguaggio neo-figurativo’’ (60–61). Ma il
‘‘trauma’’ degli anni Sessanta, vero punto di non ritorno, coinvolge anche due poeti
‘‘insospettabili’’ come Pasolini e Montale. Il primo, che aveva creduto, fino agli anni
Cinquanta, nella funzione civile della letteratura, esce sconfitto dallo scontro con il
‘‘‘micidiale’ mondo borghese’’ e, deluso, reagisce con rabbia e disprezzo ‘‘convertendosi’’ in ‘‘poeta incivile’’ e ‘‘poeta-buffone’’; è il periodo delle inevitabili ‘‘abiure’’:
‘‘alla poesia, allo stile, alla nazionalità e alla lingua italiana’’ (101), cui segue la fase
dello ‘‘‘sproloquio’, del parlarsi addosso, una scrittura straripante, magmatica,
senza alcun freno di stile né di struttura’’ (110). Una svolta inevitabile per un
poeta che – come scrive Pietropaoli – a un certo punto ‘‘smette di essere ‘tolemaico’
e diventa copernicano’’ (100). Montale, che aveva scelto la via del ‘‘grande stile’’ per
dar voce a una poesia intesa ‘‘come attività disvelatrice di enigmi e verità, di fantasmi
e di epifanie salvifiche’’ (162), è l’altro grande poeta ‘‘convertito’’ all’anti-poesia; egli
non tarda a riconoscere, nel corso degli anni Cinquanta, che il proprio ‘‘stile poetico
è di colpo invecchiato’’ e che ‘‘si deve far poesia in altro modo’’, non più con
‘‘l’essenziale’’ ma con ‘‘il transitorio e l’occasionale’’ (150). Da qui la scelta di una
scrittura di tipo diaristico, in presa diretta, priva di gerarchie interne, all’insegna di
un ‘‘disimpegno’’ che, da Satura in avanti (1971), è insieme stilistico ed esistenziale.
Con Arbasino e Villa, infine, il processo, fin qui descritto, di decostruzione poetica e
di rifiuto dello stile ‘‘alto’’ si radicalizza e giunge, specie con il secondo, a esiti
estremi. Arbasino trasforma la sua rabbia in sarcasmo, in grottesche ‘‘accozzaglie’’
di parole; il suo linguaggio ‘‘sguaiato’’, contaminato da dialettismi, neologismi e
parolacce è lo specchio di un mondo in totale disfacimento. La disillusione eticoideologica si riversa in ‘‘strutture tecnicamente rizomorfe. . . fino all’opzione finale
del genere rap, canto di protesta popolare, incalzante, caotico e assillante, indignato
e arrabbiato quanto basta’’ (200). C’è da chiedersi solo – come fa Pietropaoli – se il
violento sarcasmo del poeta abbia sempre valenza ‘‘diagnostica’’ o riveli, in certi casi,
una punta di ‘‘parossistico compiacimento’’ (226). Diverso il caso di Villa ‘‘neoavanguardista’’ che, dalle 17 variazioni in poi (1955), dapprima riempie le sue
poesie ‘‘di suoni parole e lingue’’ come in un ‘‘pantagruelico pasticcio’’ (239) e poi
procede per sottrazione verso una lingua sempre più entropica e ‘‘smozzicata. . . ai
limiti dell’afasia, dell’autismo cosmico’’ (243). L’obiettivo di Villa, negli anni
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Sessanta, è attingere all’‘‘origine’’ delle cose, ‘‘all’enigma del mondo’’ primigenio,
non incrostato dalle sedimentazioni della storia; il punto di arrivo, negli anni
Ottanta, è ‘‘la felicità del nulla’’ (247), l’approdo a un linguaggio poetico totalmente
dilacerato, ridotto a brandelli senza senso, monconi di parole galleggianti nella
pagina vuota, ‘‘feti linguistici’’ privi di ogni intento significativo: una ‘‘nonpoesia’’ come esito estremo (ma non esiziale) dell’‘‘anti-poesia’’.
Eleanor Canright Chiari, Undoing Time: The Cultural Memory of an Italian Prison, Peter
Lang: Bern, 2012; 243 pp.: 9783034302562, $64.95
Reviewed by: Elgin K Eckert, The Umbra Institute, Italia.
In her fascinating book Undoing Time: The Cultural Memory of an Italian Prison,
Eleanor Canright Chiari reconstructs the cultural memory of the Casa Circondariale
di Torino (Le Nuove) prison, the northern Italian city’s main prison from its inauguration in 1870 until 2003. The book, based on Chiari’s doctoral dissertation and
research conducted at the University College of London, is an important contribution to Italian cultural memory studies, especially during the anni di piombo (Years of
Lead). Chiari combines anthropology, cultural studies, microhistory, songs and
poems as well as oral history to paint a thorough picture of an oft-overlooked
part of society. She not only focuses on inmates’ recollections of their time at
Le Nuove (which in most cases consists of only a relatively short period of their
lives), but also tells the story of those who spent most of their active adult life in the
prison, namely, prison guards, members of the clergy and various judiciary officials.
The book’s felicitous architectural structure makes for a captivating read, as the
author takes us from the actual prison cells onto the ramparts and roofs and into the
church and the main hall, which today serves as a meeting point for tours of
the defunct penal complex. Chiari intersperses theory (Foucault’s 1986 work,
Discipline and Punish: The Birth of the Prison, is very important to her discussion)
with engaging descriptions, reflections and memories shared by those who were
directly involved in the penitentiary and affected by their time spent there.
Chapter 1, ‘The Cell,’ focuses on prisoners’ memories of their ‘primary site of
punishment’ as well as their new temporary ‘home.’ Chiari includes oral histories
from primarily two groups of prisoners: those held in Le Nuove during the years of
German occupation (including a moving account provided by partisan Marisa
Scala, who was later deported to the Ravensbrück concentration camp) and those
incarcerated there during the 1970s, especially members of far-left terror groups.
A clear difference between the accounts from those two periods emerges in this
chapter: while the prison was described as a place of silence by those confined
during the 1940s, prisoners from the 1970s remark especially on the chaos and
noise surrounding them at all hours of the day and night. Issues in this chapter
include food, coffee and cigarettes as means of communication and power, as well
as sexual relations and personal possessions. Chiari’s focus in this volume is clearly
on political prisoners; she includes the experiences of only a few ‘regular criminals.’