mito di fondazione
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mito di fondazione
SCHEDA INTEGRATIVA Nei versi 535-557 della Teogonia di Esiodo è narrato un “mito di fondazione”: esso spiega cioè come nacque un’istituzione che da allora viene ripetuta allo stesso modo, poiché si richiama a un atto originario compiuto una volta per tutte e rimasto definitivo nella storia dell’umanità. In seguito all’astuzia di Prometeo, dopo il sacrificio, agli dèi toccano le ossa della vittima, agli uomini la carne. Così, il cibo degli uomini da quel momento fu diverso dal cibo degli dèi. Il sacrificio di Mecone istituisce dunque la separazione definitiva tra le due sfere, divina e umana: spartire il cibo, infatti, indica comunanza di status sociale, mentre avere cibi diversi istituisce un’incolmabile diversità (…). Il significato e le origini del sacrificio Per i Greci, come per gli altri popoli antichi, il sacrificio era il momento fondamentale del rito religioso e, nello stesso tempo, rivestiva un valore politico e sociale poiché, essendo compiuto pubblicamente, suggellava il legame di solidarietà reciproca tra i membri del gruppo e tra la comunità umana e quella divina. Sostanzialmente il sacrificio consiste nell’uccisione di un animale che viene offerto alla divinità o agli spiriti: una parte della vittima è consumata dagli uomini che ne mangiano le carni, un’altra (a esempio le ossa o il fumo) viene donata alla divinità. Quest’offerta viene compiuta allo scopo di nutrire simbolicamente gli dèi, di placarli e contemporaneamente di dividere la mensa con loro, creando dei legami di solidarietà magico-rituale e chiamandoli a far parte della comunità dei sacrificanti (questa valenza del rituale si conserva anche nelle religioni più recenti, tra cui il Cristianesimo). Le origini del sacrificio si perdono nella notte dei tempi; esso era già praticato all’epoca dell’uomo di Neanderthal, in base a quanto si può intuire dai ritrovamenti archeologici. In Grecia, come abbiamo detto, il sacrificio assume un marcato aspetto politico, nel senso che esso si compie in genere pubblicamente e all’interno di un rituale che coinvolge la comunità; va anche detto che, poiché in Grecia non esisteva una vera e propria casta sacerdotale, il sacrificio poteva essere compiuto da qualsiasi singolo individuo, ma quando esso avveniva a nome della comunità era compiuto dal sacerdote della divinità a cui si sacrificava, oppure anche da un magistrato cittadino. Le norme rituali Il sacrificio veniva scandito secondo norme rituali precise, la cui descrizione ci viene essenzialmente (almeno per quanto riguarda il sacrificio “classico”, quello tributato alle divinità olimpiche) dalla testimonianza di Omero e dei tragici. Il rito prevedeva innanzitutto una fase preliminare, che comportava una purificazione ottenuta con bagni e vesti pulite e, a volte, astinenza sessuale. A questo momento iniziale seguiva la processione dei fedeli verso il luogo del sacrificio, dove si conduceva l’animale da sacrificare bendato, con le corna dorate come se si trattasse di una festa. Era importante che la vittima seguisse di sua volontà il corteo, perché questo veniva ritenuto un segno favorevole da parte della divinità: il consenso della vittima veniva altrimenti simulato spruzzandone il capo di acqua, di fronte all’altare, al fine di ottenere un simbolico cenno di assenso. Questo elemento è fondamentale per comprendere il reale significato del sacrificio nel mondo greco, poiché tutta la procedura sacrificale è volta ad allontanare dalla comunità la “colpa” dell’uccisione: l’animale deve procedere di sua volontà e avvicinarsi all’altare come se acconsentisse alla propria morte di buon grado; questa simulazione si mantiene anche quando il sacrificante taglia alcuni peli dalla fronte della vittima, li getta nel fuoco e procede allo sgozzamento. E’ questo il momento in cui le donne presenti al sacrificio levano un grido acuto, che racchiude in sé il trionfo dell’uomo che uccide la sua preda e lo sgomento e il dolore di fronte alla morte. Le Bufonie L’estrema teatralità del momento sacrificale, il brivido collegato all’uccisione e insieme il profondo senso di colpa a esso associato vengono ben esemplificati dal rito che si compiva in Atene durante le feste Bufonie, dove quella che è stata definita “la commedia dell’innocenza” assume un’importanza decisiva. La festa comportava l’uccisione di un bue in onore di Zeus e avveniva in piena estate, il 14 del mese di Sciroforione (luglio). Secondo la descrizione di Teofrasto, un corteo portava dei cereali e il coltello sacrificale; la vittima non veniva designata fin dal principio, ma un certo numero di buoi veniva fatto girare intorno all’altare su cui era posta un’offerta di tipo cerealicolo, finché uno degli animali rompeva il cerchio e si avvicinava per mangiare l’offerta. Con questo atto diveniva vittima sacrificale, poiché si rendeva simbolicamente colpevole di avere mangiato il pasto destinato agli dèi. Dopo l’uccisione dell’animale, il rito proseguiva con un elemento a prima vista grottesco: veniva intentato un processo al coltello sacrificale, “colpevole” di aver ucciso il bue; poiché un oggetto inanimato non poteva ovviamente dichiararsi innocente, era condannato per omicidio: in tal modo la colpa della comunità era espiata e trasferita sullo strumento del sacrificio che veniva scagliato in mare, portando con sé la contaminazione per il sangue versato. Nella descrizione tradizionale del sacrificio, allo sgozzamento della vittima seguiva il momento dello smembramento; l’animale veniva infatti diviso secondo un rituale prestabilito: spesso il cuore veniva posto per primo sull’altare, il fegato era assegnato all’indovino perché ne traesse presagi, ma la maggior parte delle viscere era immediatamente arrostita sull’altare e distribuita ai presenti; rimanevano esclusi solo la colecisti e le ossa, che venivano ricomposte per ricostituire idealmente la figura dell’animale ucciso. Infine il fuoco purificatore bruciava tutti i resti sui quali venivano anche gettate libagioni di vino e focacce destinate agli dèi. I rituali di sepoltura Nei rituali di sepoltura, il sacrificio accentuava il suo carattere di banchetto funebre: nelle cerimonie istituite da Achille per la morte dell’amico Patroclo (Iliade XXIII, vv. 29 ss.) i convitati girano molte volte intorno al cadavere intonando lamentazioni funebri, mentre numerose giovenche, pecore, capre e maiali vengono sgozzati per procurare copiosa offerta di sangue al defunto. Dal sacrificio celebrato in onore delle divinità infere mancava tuttavia il pasto collettivo; ad esempio, nel sacrificio che faceva parte della cerimonia del giuramento, la vittima veniva bruciata completamente, in quanto consacrata alle potenze sotterranee, e nessuno dei convenuti poteva cibarsi delle sue carni. Il racconto esiodeo La Teogonia (vv. 535 ss.) contiene la descrizione di un pasto sacrificale mitico, all’interno del quale si sancì definitivamente il distacco fra mondo degli dèi e mondo degli uomini ed ebbe fine la convivenza fra i due universi. Prometeo infatti decise, in quell’occasione, di destinare alle divinità la parte peggiore del banchetto sacrificale: avvolse le ossa nel bianco grasso e assegnò agli uomini le interiora. Da questo episodio mitico emerge dunque il carattere ambiguo del sacrificio tradizionale: dono offerto agli dèi, ma nel contempo inganno poiché al dio viene riservata la parte dell’animale che non ha alcuna proprietà nutritiva. La pratica sacrificale ha infatti una duplice valenza simbolica: da un lato crea un vincolo speciale fra la comunità dei fedeli e il mondo divino, attraverso la condivisione del banchetto del sacrificio, ma dall’altro ricorda anche il primo sacrificio, che comportò il definitivo allontanamento degli uomini dagli dèi, e una colpa originaria, quella di Prometeo che, escludendo gli dèi dal banchetto di carne, escluse i mortali da un’età in cui uomini e dèi condividevano il pasto conviviale in armonia. L'ambiguità del sacrificio L'ambiguità del sacrificio risulta evidente, infine, anche nel suo duplice statuto sociale: da un lato infatti la pratica sacrificale è strumento di coesione sociale e, in quanto rito, elemento fondamentale di espressione collettiva; ma d’altro canto nell’estrema drammatizzazione della procedura, nel profondo senso di colpa, nel gusto dell’uccidere e del divorare i resti della vittima, nella presenza forte del sangue, emerge indubbiamente una pulsione primitiva e irrazionale della comunità che viene canalizzata nella struttura “normalizzante” del rito. Il sacrificio da Giulio Guidorizzi, Letteratura greca, pp. 228-231