Ricordi di un ragazzo del Sessantotto che da grande conquistò la

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Ricordi di un ragazzo del Sessantotto che da grande conquistò la
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25 agosto
L’incontro con Snead e Di Martino: «Impariamo a liberare il desiderio»
Vivere, non sopravvivere
Il teologo protestante Hauerwas: rovinati dall’ansia terapeutica
L’ambiguità del rapporto tra l’uomo e il suo desiderio originale di felicità è il tema su cui si sono confrontati il teologo protestante Stanley
Hauerwas, docente di Etica Teologica alla Duke University e Carter
Snead, professore di diritto e bioetica alla Notre Dame University dell’Indiana, ieri a questa 29esima edizione del Meeting.
«Chiedo spesso agli amici come
vorrebbero morire - apre Hauerwas e la risposta è: velocemente, nel sonno, senza dolore e senza essere un
peso. Non vogliono essere un peso
perché non si fidano dei loro figli,
perché quando muoiono non vogliono rendersi conto che stanno morendo».
Il teologo liberale descrive quindi
una esasperazione del desiderio di
sopravvivenza che porta ad una ricerca della cura che a sua volta sfocia in un mondo “bizzarro”, dove «la
difficoltà sta nello stabilire una priorità nell’assegnazione delle cure sanitarie».
Un problema «legato a questo
concetto di giustizia: chi ha la possibilità di pagare, si salva. Invece, è il
bisogno che dovrebbe determinare la
giustizia, perché essere malati è condizione dell’agire compromesso».
Spiega che il guaio oggi è «che la
medicina moderna, e l’etica sviluppata per legittimare tale medicina, si
sono prese come compito quello di
servire il desiderio delle persone che
vogliono evitare la vita, vivendo» e
affonda anche sulla professione del
medico. «Essere un medico non significa avere un mestiere, ma essere
legato ad una pratica che costituisce
il bene di una comunità». Individua
quindi una soluzione a questo cinismo medico nel cristianesimo, quello stesso cristianesimo che portava
l’uomo medievale a volere una morte lenta e non improvvisa, per poter
avere il tempo di riconciliarsi con i
nemici, con la famiglia e con Dio.
«I cristiani sono una comunità di
gente che ha imparato che la loro
stessa morte non è un disastro assoluto. Ciò che è più importante è che
sono un popolo che ha imparato che
assistersi vicendevolmente è più importante che la vita in sé». Poi alza la
voce. «Chiediamo di dare presenza
fisica al malato, accompagnandolo.
Proprio come facevano i monaci di
un tempo».
Poi conclude: «Le domande su come la cura medica dovrebbe essere
distribuita non possono essere chiuse sviluppando valori di giustizia più
sofisticati. La giustizia deve attingere al coraggio se dobbiamo sapere
come affrontare la nostra morte e la
morte di coloro che amiamo».
Poi interviene Snead, docente di
diritto ed espertissimo di bioetica (è
consulente giuridico della presidenza del Comitato di Bioetica e delegato Usa all’Unesco).
Spiega che per rispondere all’an-
Carter Snead e Stanley Hauerwas in posa sotto il titolo del Meeting
«Chiedo spesso agli amici
“Come vuoi morire?”
E la risposta è sempre
la stessa: in fretta,
nel sonno
e possibilmente
senza dolore»
sia di vivere, l’uomo ricorre alla
scienza moderna. Una scienza
«presuntuosa, che non ha niente da
dire sui concetti umani di libertà,
giustizia, eguaglianza». Semplicemente, non può. Perché, dice, è una
scienza che trasforma tutto in matematica, per poter misurare e calcolare tutto, con l’ansia di avere ogni
cosa sotto controllo.
Ed è, aggiunge «una scienza antiteologica, dalla quale bene e male
sono esclusi». Aggiunge che i desideri sono orientati ai fini e tutto ciò
che maschera l’aspirazione originale dell’uomo di essere felice, può
essere smantellato solo se «ci rendiamo conto che l’unico desiderio
da conseguire è il bene». Carmine
Di Martino, docente di Propedeutica alla Filosofia presso la Statale di
Milano, domanda cosa ci aiuta a
desiderare il bene e Snead risponde
che è un compito arduo, perché
«dobbiamo riabituarci a desiderarlo, non mossi dalle argomentazioni.
L’unica speranza è attingere ai rapporti umani».
Conclude Di Martino: «Non intendiamo opporre desiderio a desideri. Mi pare che tratti invece di riscoprire la profondità originale del
tutto, mettendo in discussione le
immagini codificate stabilite dal
Potere - come diceva Pasolini. La
battaglia va vinta sul terreno del
desiderio, non della privazione. Bisogna che accadano figure di umanità in cui tutta l’originalità e la
grandezza di queste esigenze si vedano all’opera».
Maria Acqua Simi
Ricordi di un ragazzo del Sessantotto
che da grande conquistò la finanza
Il banchiere Modiano, oggi all’incontro sugli anni della contestazione, spiega: «Non fu
una rivoluzione ma una specie di formazione accelerata alla responsabilità individuale»
di Pietro Modiano *
Nel 1968 avevo sedici anni. Un bambino, rispetto agli standard di adesso. Un
adolescente, al più. E invece non mi ricordo così. Il ’68, e i quattro-cinque anni
dopo, sono stati anni di uscita forzosa dall’inconsapevolezza, di taglio forzoso –
nel mio caso - con i ripiegamenti dell’adolescenza borghese. Una formazione
accelerata alla responsabilità individuale,
anzitutto. (...) Durante il ’68, solo un’affannosa ricerca di punti di riferimento, diversi tutti da quelli dell’infanzia e dell’adolescenza: non bastavano più i genitori, i
professori, i libri di storia del ginnasio
che si fermavano al risorgimento, o quelli di filosofia che si fermavano a Hegel.
Un grande disordine intellettuale, questo
sì. Libri scelti in base ai titoli e all’editore,
senza alcuna sistematicità, letti spesso
senza capire . (...) Facile dire che così non
saremmo andati da nessuna parte, e che
abbiamo perso tempo, e il ’68 ha fatto
perdere tempo e occasioni al nostro paese
(e ad altri, fortunatamente per noi). Ma
non era un percorso rivoluzionario, non
era la rivoluzione. Più semplicemente era
il percorso di formazione di una parte –
non grande peraltro ma rumorosa - del
paese: i giovani di allora, alle prese con
un mondo intero che provava a cambiare.
Cadute le mitologie, questo percorso di
formazione mantiene un suo valore, per
le persone che lo hanno vissuto e per la
collettività che le ha espresse. E va visto
con l’indulgenza degli anni che passano.
Io mi guardo con indulgenza, e anche
con qualche cosa di più. Perché quel percorso di formazione è stato - almeno mi
pare - più ricco e meno infecondo di quello che ha costretto, qualche anno dopo,
gli adolescenti del ’77 entro le gabbie di
scelte ideologiche precostituite. E del percorso delle generazioni successive, riflusso, omologazioni, scetticismi. Noi siamo
stati un’altra cosa, ed è stato un privilegio:
una generazione in fondo coraggiosa,
confusa e confusionaria, ma capace di
scegliere individualmente e con libertà, e
quindi di fermarci in tempo, cambiare idee, misurare i propri tradimenti e viltà
successive ma anche rivendicare le proprie coerenze. E mantenere a sprazzi i nostri coraggi di allora, qualche confusione
a volte, ma anche la nostra capacità, che
viene da lì, di dire sì sì no no, magari sbagliando e allora ci si ripensa, ma prendendo una volta ogni tanto di petto le scelte e
le decisioni e le responsabilità, e difendendole se necessario, ritrovare via via i
vecchi amici che poi hanno fatto scelte
diverse, e essere indulgenti gli uni con gli
altri. Non è un gran che, rispetto alle idee
di partenza, ma è già qualcosa.
* Direttore generale vicario del Ceo
e Direttore Banca dei Territori
di Intesa San Paolo
da oggi su ilsussidiario.net