1 L`ULTIMO UOMO DI SAMPIERDARENA di Marco Burchi

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1 L`ULTIMO UOMO DI SAMPIERDARENA di Marco Burchi
L’ULTIMO UOMO DI SAMPIERDARENA
di Marco Burchi
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I
L’esile corpo, intriso di sudore, dipinse una sindone astratta sul
lenzuolo che lo ricopriva. Tre secondi di panico resero l’uomo
inerme, incapace d’agire. Tentò di dischiudere gli occhi per
svegliarsi, ma qualcosa impedì il compiersi di quella semplice
azione. Attese alcuni minuti, lasciando che i battiti cardiaci
riprendessero il normale ritmare, poi ristabilita la calma, con una
concentrazione simile a quella di un religioso raccolto in
preghiera, recuperò tutte le energie di cui poteva disporre e le
confluì sulle palpebre degli occhi, inducendole ad aprirsi.
Vide un soffitto bianco, di modeste dimensioni, poteva
appartenere a una stanza che non superava i quattro metri per
quattro. Osservò i suoi confini con il solo movimento degli
occhi, senza muovere la testa né a destra né a sinistra. Al centro
un neon interrompeva la geometria piatta della superficie bianca,
era spento e la poca luce che penetrava attraverso le vetrate della
finestra apparteneva a un sole incerto.
Sentì il lato sinistro del suo corpo assopito, insicuro di voler
comunicare nuovamente col mondo esterno. Sollevò allora la
mano destra e constatò con una certa meraviglia la totale
obbedienza di questa agli ordini impartiti. Iniziò a farla mulinare
nell’aria circostante al volto, come una farfalla vola attorno al
suo fiore e dopo aver sbattuto le ali e ripreso vigore, si posò tra
il naso e la fronte, creando una sorta di ponte immaginario. Con
una carezza perlustrò tutta l’epidermide facciale senza avvertire
escoriazioni o mutazioni varie, la mano poi scorrazzò tra i capelli,
saggiando accuratamente il rotondo territorio, scoprendo con
sollievo la totale integrità della testa.
Con l’aiuto della solita mano, imperterrito proseguì nella ricerca.
Scrupoloso, lento nello spostamento, prese il lenzuolo che lo
ricopriva in parte, lo alzò e vide che aveva indosso una vestaglia
ospedaliera lunga fino a metà coscia. Non ancora soddisfatto,
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lanciò il lenzuolo più in basso, in fondo ai piedi, riuscendo ad
avere in questo modo una più ampia visuale di se stesso. Sempre
determinata nei suoi movimenti, la mano, scivolò giù verso il
lembo di tessuto più estremo della vestaglia. Lo afferrò e lo tirò
su. Per agevolare la vista allungò anche la testa sul petto e così
facendo poté osservare il suo molle pene incanalato dal catetere.
Costernato, riappoggiò la testa sul cuscino. Bloccò lo sguardo
sul soffitto per diversi minuti, durante i quali emise solo un
lamento laconico, fatto unicamente per udire se stesso.
Al lato opposto della finestra c’era una porta chiusa laccata in
bianco, oltre di essa proveniva la quiete assoluta.
Non gli occorse una particolare lucidità per comprendere che si
trattava di un ricovero ospedaliero, mentre invece si prospettò
più complicato capire quando fosse avvenuto. Probabilmente era
ancora febbraio, ricordava infatti di aver festeggiato il suo
compleanno il tredici di quello stesso mese. In supporto alla sua
considerazione intervennero alcune immagini della serata
trascorsa al ristorante. Rivide sua moglie Adele e gli amici
presenti quella sera. Poi ipotizzò che non potevano essere
trascorsi molti giorni dal suo risveglio in quella stanza e fu per
lui una strana sensazione scoprire come dei ricordi risultassero
chiari e ben decifrabili, mentre, facendo appello a uno sforzo
maggiore, per mettere in risalto ricordi poco più recenti, la
memoria non concedesse più nulla di quanto fornito.
Entrò un’infermiera, bassa, tarchiata, aveva il viso ricoperto da
una spessa maschera di trucco. Alla destra del suo faccione,
poco al di sopra del labbro superiore, le spuntava evidente un
neo, grosso come la capocchia di un porcino. Sul camice bianco
teneva appuntata una spilla riportante il nome e la funzione che
ricopriva in ospedale. Si chiamava Ida ed era un assistente di sala.
«È molto che hai aperto gli occhi?» domandò.
«Sssaran sarannoo…» l’uomo non riuscì a esprimersi e, pieno di
sgomento, guardò l’infermiera supplicandola di una spiegazione.
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«Hai avuto un ictus, adesso fai fatica a parlare, ma con una
buona riabilitazione tornerai ad essere quello di prima».
«Un ii… iictus?».
«Sì, ma non sforzarti e cerca di riposare, comunque vado a
chiamare il dottore».
Ida gli rimboccò la coperta, dopodiché uscì dalla stanza,
lasciandolo nuovamente solo.
I vetri della finestra vibravano per gli spostamenti d’aria generati
da un cantiere in continuo movimento. Sentiva bene le urla degli
operai mescolate alle percussioni dei martelli pneumatici, mentre
le continue accelerate degli autocarri e delle ruspe in manovra,
provocavano nuvole nere di gas di scarico che si levavano in aria
fino a raggiungere la finestra.
La porta si riaprì, era Ida accompagnata dal medico.
«Come va?» chiese il medico.
L’uomo non rispose, fece solo una smorfia facendo intendere
che aveva visto giorni migliori.
«È stato colpito da un ictus ischemico, in forma piuttosto
lieve…».
Il medico s’interruppe, pensando che l’uomo volesse porre una
domanda, ma restò in silenzio, al suo posto.
«Il flusso sanguigno diretto al cervello è stato ostacolato da un
improvviso restringimento di un’arteria, questo le ha causato
l’insorgenza di un'emiplegia, cioè di questa debolezza che prova
nel muovere metà del suo corpo, accompagnata dal disturbo
dell’uso della parola e della deglutizione. Non ha dovuto subire
interventi ed è molto positivo visto che le consentirà di
ristabilirsi più rapidamente, ovviamente sottoponendosi a
un’adeguata riabilitazione».
Nel fluire della spiegazione, l’uomo si discostò completamente
dalla realtà, confondendo l’immagine del medico con quella di
un professore avuto a scuola. Una persona infinitamente
innamorata di se stessa e del proprio linguaggio dotto, al quale
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non interessava coinvolgere gli alunni durante le lezioni,
limitandosi a insegnare per contratto senza un minimo di
passione. Fu una sorta d’allucinazione istantanea, dalla quale si
riprese subito, che aveva trovato spazio nella sua mente più per
la somiglianza fisica dei due uomini che per il modo d’esprimersi
del medico che in fondo era fin troppo chiaro.
«In qqualle ospedale sssiamo?» domandò l’uomo in sincero
affanno.
«Al Centro Ictus del Galliera» rispose il medico.
«Che ggiornno è oggi?».
«È martedì venticinque febbraio, è stato portato qui in
ambulanza questa mattina verso le nove e trenta. Le dico subito
che sua moglie è stata avvertita ma…» fece una breve pausa
scontrando lo sguardo dell’infermiera «diciamo che in questo
momento è sotto un regime ospedaliero restrittivo e quindi non
può assolutamente vedere nessuno. Comunque sono le undici e
quaranta, più tardi avrà ulteriori notizie in merito. Ora cerchi di
riposare. Tornerò a fine mattinata per visitarla nuovamente,
buongiorno».
L’uomo contraccambiò al saluto con un cenno della mano, poi,
quando fu solo, si adagiò sul letto mettendosi alla ricerca del
riposo tanto raccomandato.
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II
Un cumulo di pensieri s’introdusse disordinatamente nella sua
testa. Chiuse gli occhi, cercando di riordinarli, ma il senso di
scoramento che provava rendeva l’operazione praticamente
impossibile. Pensò a sua moglie e al fatto che lui fosse lì, in quel
non luogo, solo come un cane e in breve sentì riaffiorare la
tensione provata durante il risveglio. Si stava liberando nel suo
corpo, lasciando intuire chiaramente la forza del suo imminente
dominio e a un certo punto essa si manifestò attraverso un
improvviso cedimento di nervi che lo condusse a un pianto
isterico, dal quale gli sembrò fin da subito impossibile uscire.
La bufera durò a lungo e, dopo che l’ultima lacrima sgorgata si
deterse, rimase bloccato su di un unico pensiero, rivolto alla
ricerca di una spiegazione plausibile a quello stato di solitudine a
cui era stato abbandonato.
Ripercorse mentalmente gli eventi, fin dove la sua mente poteva
arrischiarsi: la mattina era uscito per andare a lavoro, come del
resto faceva sempre. Sveglia alle sette, lui a preparare il caffè, sua
moglie in bagno a confezionarsi il bel faccino, terminata la
colazione, bacio in bocca e ognuno per la sua strada. Lei a piedi
verso l’ufficio e lui verso il parcheggio, dove teneva la sua Mini
Minor. La ricostruzione non valse a nulla e divagò ampiamente.
Desiderio Ottonello. Senza indugi ricordava come si chiamava. Il
nome di battesimo era stato scelto dai sui genitori il giorno
stesso della sua nascita, al Gaslini di Genova, in omaggio al
desiderio avverato di avere un figlio dopo cinque anni di
tentativi, in cui si potevano annoverare due aborti spontanei, una
gravidanza spenta, infinite richieste di esami e relative umilianti
analisi, eseguite sia dalla madre che dal padre. Ormoni,
malumori, dissapori, false speranze e infine una gioia, Desiderio.
Aveva trent’anni e da circa dieci, lavorava alle dipendenze della
“Sicur-Tex”, un’importante azienda di Bolzaneto, specializzata in
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sistemi di sicurezza. Questa produceva porte antirapina per le
banche di mezza Italia, tecnicamente erano definite bussole e
non erano altro che porte girevoli poste all’entrata di ogni banca,
munite di un sistema capace di rilevare oggetti metallici della
dimensione di una pistola, o di un cutter.
A un tratto Desiderio sentì bisogno di voltarsi a pancia in giù,
ma il catetere e altri tubi collegati al braccio gli impedirono
qualsiasi movimento. Riprese a navigare tra i ricordi e ripensò
alla prima bussola che aveva visto, a come era stato tratto in
inganno dalla sua forma. Era in officina, assieme all’ingegnere
che lo aveva assunto, mentre gli stava mostrando tutto lo
stabilimento. Era entrato grazie a delle conoscenze, senza sapere
nemmeno cosa facessero in quell’azienda, tantomeno quali
sarebbero stati i suoi compiti. La vide appoggiata su un bancale
di legno, già imballata con del nylon trasparente pronta per la
spedizione. Si presentava come un grosso parallelepipedo, la cui
struttura in acciaio, verniciata in nero, con una finitura goffrata,
comprendeva due grossi vetri antisfondamento posti su due lati,
mentre su ciascuno degli altri due lati liberi da impedimenti fissi,
si reggeva una porta sempre in vetro massiccio ma di forma
curvilinea, che poteva scorrere su di una rotaia, offrendogli così
la possibilità di aprirsi e di richiudersi. A primo acchito, confuse
il parallelepipedo per un ascensore e questa sua convinzione
l’accompagnò per quasi tutta la prima giornata di lavoro, fino a
quando non prese parte all’assemblaggio di una di queste.
All’inizio della sua avventura lavorativa Desiderio fu affiancato a
Oreste Piana. Un ometto gracile, dalle enormi mani callose, di
sessantadue anni, in pensione ormai da quattro. Continuava a
presentarsi regolarmente in officina tutte le mattine,
trattenendosi fino alla pausa pranzo. Con l’azienda aveva
stipulato un accordo secondo il quale percepiva una retribuzione
al nero per le sue quotidiane prestazioni. Questo offriva un
duplice vantaggio alla dirigenza della “Sicur-Tex”, di non versare
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contributi e di avere un dipendente di navigata esperienza,
rimasto ancora uno dei pochi in grado di fronteggiare qualsiasi
tipo d'inconveniente nell’ambito costruttivo di una bussola e che
finalmente poteva trasmettere agli altri i trucchi del mestiere.
I rapporti tra i due erano altalenanti, Oreste non era capace di
gestire il proprio umore, a momenti scontroso e irritante, a
momenti spiritoso e di buona compagnia. Sapeva di questi suoi
sbalzi d’umore e per giustificarli tirava sempre in ballo una
maledetta andropausa. Amava parlare di politica e non passava
giorno che non ricordasse quanto fosse importante per un
operaio essere di sinistra ed essere al contempo solidale con le
cause del sindacato. Come s’infuriava poi quando parlava degli
“altri”, quelli di destra! Parola questa che non utilizzava mai, la
sostituiva semplicemente con un “vai di là”, “gira dall’altra
parte” o “al lato opposto della sinistra”.
La convivenza lavorativa tra i due comunque durò poco più di
un anno, s’interruppe bruscamente a causa di un incidente sul
lavoro, un inconveniente che Oreste non seppe fronteggiare. Più
che altro fu una leggerezza commessa per la troppa confidenza
che aveva nel manovrare il muletto. Quel giorno infatti, a bordo
di uno di quei mezzi, effettuò una sterzata troppo rapida per il
peso che stava trasportando, il muletto s’imbarcò su se stesso e
la bussola che stava trasportando cadde rovinosamente a terra
fracassandosi completamente. Impietrito, in faccia gli si dipinse
un’espressione simile all’uomo dell'Urlo di Munch. Tutti
cercarono di sdrammatizzare, dagli operai agli ingegneri di
reparto, ma in cuor suo sapeva di aver fatto un danno da
ventiduemila euro e non solo, sapeva anche che in quarant’anni
di mestiere questa era la prima volta che il suo curriculum si
macchiava d’un orrore simile, così, mortificato nel più profondo
dell’animo, prese la decisione di non tornare mai più.
Negli anni a seguire Desiderio riuscì a capitalizzare gli
insegnamenti di Oreste in modo tale da ritagliarsi un briciolo
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d’indipendenza all’interno dell’azienda. Questo privilegio gli
venne attribuito dalla dirigenza non solo per le sue doti, ma
anche per quel suo atteggiamento d’astensionismo nei confronti
delle agitazioni sindacali, comportamento contrario al pensiero
del suo primo mentore, ma certamente più proficuo. Come
dazio da pagare per l’agio ottenuto, doveva sopportare
l’indifferenza di un gran numero di colleghi rimasti infastiditi per
la prevaricazione subita da parte di un giovane arrivato da poco,
che si era messo in evidenza, a loro avviso, solo per il semplice
fatto che evitava gli scioperi. Non solo, ogni giorno, intorno a lui
girava uno sciame di sindacalisti determinati a ottenere una
tessera da lui sottoscritta, talvolta anche tentando d’imporsi con
toni minatori, ma lui in modo subdolo si mostrava sempre
interessato all’argomento e allo stesso tempo incerto su chi
potesse essere il miglior garante per la tutela dei suoi diritti.
Temporeggiava e allontanava eternamente così il giorno di
un’eventuale iscrizione, senza destare troppi dubbi sulla vera
natura delle sue intenzioni.
L’indipendenza di cui poteva beneficiare, corrispondeva alla
qualifica d’installatore, quindi, invece di occuparsi della fase
costruttiva, doveva provvedere alla sistemazione delle bussole
direttamente nelle banche. La mattina, quando usciva dalla
“Sicur-Tex” con l’auto aziendale, raggiungeva il posto di lavoro
che mutava in base alla durata e al tipo di prestazione da
effettuare, considerato che, oltre a installare, svolgeva anche
servizi di manutenzione itineranti su tutto il territorio ligure e
toscano. Una posizione invidiabile la sua, svincolato da qualsiasi
legame diretto con i superiori e dal resto dei colleghi, doveva
semplicemente seguire una tabella di marcia che gli veniva
fornita prima dell’uscita. Libero di scegliere il momento in cui
farsi una pausa caffè, fumarsi una sigaretta, libero d’intrattenersi
al telefono quanto voleva.
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III
I martelli pneumatici cessarono di lamentarsi e con loro
svanirono anche i brusii degli operai impegnati nel cantiere.
L’improvvisa assenza di rumori catapultò Desiderio nella realtà
della stanza, sradicandolo da ogni suo pensiero. Si guardò
attorno, alla ricerca di particolari che ancora non aveva rilevato.
Vide uno strano contrasto creato tra l’inesistente arredo e
l’angolo tecnologico posto a fianco del suo letto. Un monitor e
una matassa di fili che andavano ad attorcigliarsi su di lui,
proprio come fossero i tentacoli di un polpo, posizionati
appositamente per controllare le sue funzioni cardio-respiratorie.
Nient’altro, né una sedia dove potersi sedere, né un comodino
dove poter poggiare un bicchiere o un libro, tanto meno un
armadietto dove poter mettere degli indumenti. Niente di niente,
come se prima di allora quella stanza non fosse mai stata
utilizzata. Troppo dimessa per far parte di un padiglione
ospedaliero, troppo lontana dal via vai frenetico degli infermieri,
dei degenti o dei visitatori.
Per la terza volta si aprì la porta, questa volta però a entrare
furono due uomini distinti in giacca e cravatta. Uno giovane di
circa trentacinque anni, l’altro molto più attempato.
«Desiderio Ottonello?» domandò l’ultimo.
«Sss sì sono io».
«Bene! Sono il giudice Ferrando e questo è l’avvocato Priano,
suo difensore d’ufficio. Premetto che ho parlato con il medico e
sono quindi a conoscenza della sua situazione clinica. Mi ha
anche informato che al momento non ricorda nulla di quanto ha
fatto, ma vede, viste le circostanze è fondamentale stabilire se
effettivamente è in grado o meno di sottoporsi a interrogatorio
in merito all’episodio criminoso che l’ha vista coinvolta».
Desiderio aggrottò la fronte accogliendo la notizia come si
conviene di fronte a un’assurdità, dando prova di una sincera
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estraneità a quanto aveva appena detto il giudice.
«Qqualle ep… eepisoodio, iio non sso niente?» balbettò
lentamente.
«Glielo dico io cos’è successo. Tanto per chiarire la sua
posizione, visto che è in stato di arresto e non lo sa, o fa finta di
non saperlo, ma lo valuteremo in seguito se lei è uno che dice la
verità… mi capisce Ottonello?».
«Dd… di quale aaarresto sta parlando?» replicò nervosamente
Desiderio.
«Questa mattina, alle ore nove circa, lei si è reso responsabile di
una rapina ai danni di un cittadino italiano, un commerciante,
magari questo particolare può aiutarla a ricordare. Ha tentato
prima di scipparlo di un sacchetto di nylon, quello della spesa
per intenderci, poi, vista la resistenza prodotta dalla vittima, ha
iniziato a colpirla a pugni in faccia fino a quando non ha mollato
la presa. Una volta entrato in possesso del sacchetto si è dato
alla fuga… solo che la sua corsa è durata sì e no venti metri,
perché, colto da malore, si è accasciato a terra senza più
muoversi. La vittima, - si ricordi bene la vittima - ha chiamato
immediatamente il 118 e se le sue condizioni non si sono
aggravate lo deve anche a questo lodevole comportamento,
perché, parliamoci chiaro, un altro probabilmente le avrebbe
ripreso il sacchetto e poi chissà, magari se ne sarebbe andato
senza chiamare nessuno, lasciandolo in balia degli eventi. A
questo punto giova ricordare che in concomitanza dell’arrivo
dell’ambulanza sul luogo della rapina, interveniva una volante
della polizia, e nella circostanza gli agenti procedevano all’arresto
nonché all’assunzione delle dichiarazioni rilasciate da un
passante, testimone dei fatti avvenuti. Questo è il quadro della
situazione e se le viene in mente qualcosa gradirei saperlo».
Quelle parole spinsero Desiderio fuori dal buio nel quale si era
rifugiato dopo la perdita di coscienza, tutto d’un tratto l’occhio
della sua memoria rivide chiaramente l’esitazione avuta prima di
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approssimarsi all’uomo, i colpi sferrati con una freddezza
inimmaginabile, il primo passo verso la fuga conclusasi con la
caduta a terra. Crebbe in lui rapidamente l’ansia e a essa si unì
un forte moto di dolore, le lacrime gli sgorgarono copiose da un
pianto silenzioso, come di rassegnazione.
«Non ci crredo, quello non sssono iio… no!» disse,
interrompendo per un attimo il pianto.
«Era proprio lei… eccome se era lei. Invece di dormire questa
notte faccia mente locale, provi a sforzarsi di ricordare. Per la
convalida dell’arresto francamente le sue dichiarazioni non sono
necessarie, ma se vuole patteggiare per una riduzione di pena
dovrà dichiararsi colpevole. Certo questo lo deciderà con
l’avvocato, ma credo non esistano soluzioni migliori».
«Giunti a questo punto, credo sia meglio lasciar riposare il mio
cliente, visto che per la convalida c’è ancora tempo. Se vuole
potremmo tornare domani, cosa ne pensa?» intervenne
l’avvocato.
«Potremmo tornare domani, ma ritengo sia inopportuno. Si
ricordi anche lei, avvocato, che c’è una testimonianza che
avvalora l’esposizione della parte lesa. Però in realtà c’è una cosa
che vorrei sapere dal suo cliente - visto che lo considera tale
dando per scontato che il signore qui non abbia un avvocato di
fiducia - e cioè se lo scippo, tramutato poi in rapina, era
destinato effettivamente a quell’individuo o se la scelta è stata
occasionale. Sa perché le dico questo Ottonello? - il giudice si
rivolse a Desiderio - perché nel sacchetto di nylon c’erano
quindicimila euro in banconote di vario taglio e ho l’impressione,
come dire, che la vittima sia frutto di una scelta premeditata.
Comunque, considerato che al momento non può ricordare,
questo particolare emergerà sicuramente in fase processuale».
«Facciamolo riposare» intervenne in difesa l’avvocato.
«E visto che il giudice è entrato nell’argomento, volevo
precisarle che l’ispettore responsabile del turno delle volanti
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della Questura, dovendo assegnarle le garanzie difensive
secondo le norme vigenti per la difesa d’ufficio, mi ha contattato
informandomi dell’arresto. Quindi al momento io la rappresento
legalmente, sempre che lei sia d’accordo e non abbia già un
avvocato di fiducia».
«Nnon ho mmai avuto bisogno di un llegale di fiducia pprrima
d’ora».
«Allora le lascio il mio biglietto da visita con numeri di telefono
e indirizzo dello studio, ci aggiorneremo nei prossimi giorni con
la speranza che le sue condizioni migliorino».
I due uomini si liquidarono. Alla loro uscita Desiderio intravide
oltre la porta, due agenti in divisa della polizia penitenziaria,
addetti alla sua sorveglianza. Avevano dato da poco il cambio ai
colleghi del turno smontante, si era accorto della loro presenza
durante il passaggio delle consegne, quando uno dei due si era
affacciato dalla porta per vedere chi fosse l’arrestato.
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IV
«Così, così. Ci siamo, è in bolla. Ora possiamo fissarla al
pavimento» disse Ruggero guardando in faccia Desiderio pieno
di soddisfazione.
«Fai vedere anche a me».
«Guarda… il tassello che ho messo nell’angolo ha bilanciato il
peso».
«Sì, è vero, hai ragione. Grande Ruggero!».
Erano le nove e la banca ormai costipata di clienti, ospitava al
suo interno un fiume in piena di persone che si diramava su più
colonne tra l’ingresso e le casse. Il via vai di gente non facilitava
il lavoro dei due installatori alle prese con Ciclope 3000, fiore
all’occhiello della “Sicur-Tex”.
Quella bussola possedeva un meccanismo antiostaggio
programmato per impedire il passaggio nei locali di due persone
contemporaneamente, utilizzando un sistema di controllo del
peso del vano di transito, con una soglia di sicurezza regolabile
fino a un massimo di 120 kg. Ma ciò che in assoluto faceva di
Ciclope 3000 un sistema di sicurezza innovativo, era l’accesso
tramite lettore biometrico delle impronte digitali, in grado di
memorizzare quelle delle persone che accedevano per la prima
volta nella porta antirapina, unitamente all’immagine del viso
ripresa da una telecamera. Studiato in modo tale da non violare
la privacy dei clienti della banca, dato che il sistema non
associava il nome della persona né alla sua immagine né alla sua
impronta. Eseguiva semplicemente delle registrazioni,
trasmettendole a un elaboratore centrale, oppure stampandole se
la situazione lo richiedeva, come in caso di rapina o di un
tentativo di scasso. Comunque gli istituti di credito che
intendevano avvalersi di quel tipo di tecnologia ed evitare inutili
querelle, aggirando in modo definitivo la legge sulla privacy,
facevano firmare ai clienti una riserva in cui risultava l’esplicita
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volontà del contraente a rilasciare l’impronta digitale e a rendere
possibile il trattamento dei dati personali.
Desiderio era in ginocchio, stava lavorando sulla pedana interna
della bussola, quando un uomo in cima alla coda, prossimo a
raggiungere uno dei cassieri, iniziò a salutare tutti i dipendenti
della banca per nome, ostentando una cordiale amicizia di
circostanza. Parlava ad alta voce, impettito, fiero della sua
esistenza, consapevole di essere al centro dell’attenzione. Vestiva
abiti eleganti. Un gessato marrone a righe scure, con camicia
bianca e cravatta rossa cangiante, scarpe traforate marroni di
chiaro stile britannico, con un cappotto di cammello di alta
sartoria tenuto in braccio. Alto, ben messo, di circa quarant’anni,
un volto abbronzato dalle lampade e una folta chioma di capelli
rosso prugna fissati all’indietro con abbondante gel.
Desiderio aveva smesso di lavorare per seguirlo con lo sguardo,
un gesto involontario prodotto dal senso di fastidio che
quell’uomo suscitava in lui.
«Ma guarda quello là! Ruggero l’hai visto quello?».
«Chi?».
«Quello là…» Desiderio lo indicò. «Quello che si dà un monte di
arie, il fenomeno che sta urlando davanti al cassiere piccoletto
coi baffi… lo vedi?».
«Ah sì, che ha fatto?».
«Niente ha fatto, che deve fare. Ma non ti urta i nervi? Senti!
Senti come grida!».
«Sì, è di un’arroganza esteriore impressionante. Il mondo è
pieno di gente così… sarà ricco. Dannatamente ricco».
«Sì lo è, ce l’ha stampato in faccia. Guarda la malevolenza nei
suoi occhi, non ha certamente lo sguardo di uno che ha il mutuo
da pagare. Cazzo che faccia di merda!» Desiderio lo stava
osservando nuovamente.
Era davanti al cassiere, intento questa volta a svuotare il
contenuto di un sacchetto di plastica sul bancone.
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«Ma dimmi te oh!» sbottò ancora Desiderio.
«Che c’è adesso?» gli rispose Ruggero spazientito.
«Ma no… niente, niente». Desiderio gli aveva visto tirare fuori
dal sacchetto tre mazzette di banconote, ognuna legata da un
elastico. Le tre mazzette erano suddivise in base al taglio della
banconota e quindi una era composta di banconote da cento,
una da cinquanta e una da venti euro. Tanti soldi, ma proprio
tanti pensò subito Desiderio.
«E il grande Genoa?» urlò l’uomo al cassiere.
«Belin! Non parlarmi del Genoa altrimenti mi emoziono e
sbaglio a contare!» rispose il cassiere, con un marcato accento da
orgoglioso cittadino di Zena, mentre contava i soldi
consegnatigli.
«Quest’anno siamo grandi, meriteremmo troppo la Champions
League!» aveva pure smesso di contare per parlare del Genoa,
poi, dopo aver dato uno sguardo alla fila di gente, capì che non
era il momento adatto per distrarsi e proseguì nel suo lavoro.
Dopo la consegna del denaro, l’uomo ritirò la contabile che gli
spettava, salutò tutto il personale presente con le stesse modalità
di quando si era presentato e si diresse, compiaciuto per
l’operazione ben riuscita, verso la bussola d’ingresso.
Desiderio era ancora in ginocchio, questa volta preso dal lavoro,
quando se lo trovò davanti in attesa che liberasse il passo.
«Bellissima questa porta che state montando, un po’ alla Star
Trek! ».
«È la migliore che abbiamo» rispose Desiderio senza entusiasmo.
«Mi piace che in difesa del castello ci sia un portone simile, lo
metterei anche a casa!».
«Sì, se vuole possiamo farle anche la fossa con i coccodrilli!».
«E perché no! Questa è proprio buona… la saluto, buona
giornata».
L’uomo se ne andò senza che Desiderio facesse in tempo a
ricambiare il saluto.
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«Un amore a prima vista il tuo! Vero Desiderio?» se ne uscì
Ruggero ridendo.
«Sì! Epidermico!».
«E chissà quante volte dovrai incontrarlo ancora!».
«Poco importa, tanto qui ho quasi finito».
«E no! Ho già chiesto a Marcenaro di farti restare anche per il
censimento dei clienti, questa banca ne ha molti».
«Non l’ho mai fatto».
«T’insegno io, sei qui per questo. L’azienda ti vuole a tutto tondo,
altrimenti che installatore sei?».
«Non sapevo di godere di tutta questa fiducia» rispose sorpreso
Desiderio.
«È un buon momento questo per loro e dovranno formare altro
personale, tanto vale che inizino da te».
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V
Il sole apparso al mattino in veste primaverile era divenuto
pallido, gelido, uniforme al biancore omogeneo del cielo che
emetteva ormai fioche radiazioni luminose. La penombra
creatasi dall’assenza di luce avvolgeva l’interno della stanza,
contribuendo a esaltare il triste umore di Desiderio. Stava sul
letto corrucciato, sconvolto dall’incontro con il giudice, i filmati
del suo futuro più prossimo scorrevano all’impazzata nella sua
testa, dalla probabile reazione di Adele, al sicuro licenziamento
con le conseguenti malelingue dei colleghi una volta venuti a
conoscenza dell’arresto. Un groviglio di immagini avvilenti che
testimoniavano una paura agghiacciante per la situazione creatasi.
Ida e il medico fecero il loro ingresso proprio come avevano
promesso per un controllo.
«Ottonello, direi che possiamo togliere il catetere, così se deve
andare al bagno può farlo liberamente. Adesso è necessario che
poco per volta riprenda confidenza nello stare in piedi, sempre
con l’aiuto dell’infermiera ovviamente, non si alzi mai da solo».
«Il bbagnno ddovv’è?».
«È qua fuori, dove sono le guardie, non potevamo metterla con
altre persone e allora abbiamo dovuto optare per questa
sistemazione».
«Se non lle ddisspiace allora uutillizzerò il pappag il pappagallo».
«Fa lo stesso, comunque sia faccia un po’ di moto con
l’infermiera, per quanto riguarda le analisi non sono emerse
novità, però dovrà essere monitorato per una decina di giorni
ancora e poi vedremo. Salvo complicazioni noi ci rivedremo
domani». Il medico uscì lasciandolo solo con Ida.
«Allora come va?» ruppe il ghiaccio lei.
«Ccome ddeve andare…» Desiderio fece un profondo sospiro.
«Cerca di riposare, qua dentro è l’unica cosa che puoi fare».
«Sssono a un ppasso dd dalla galeraa... come posso ripossare?».
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«Ma quale galera! A meno che tu non sia recidivo in galera non
ci vai».
«Cossa ne ssai tu di queste cose?».
«Ho una certa esperienza in materia… fidati. Avevo un figlio
tossicodipendente, entrava e usciva dal carcere. Non ce l’ha fatta
a smettere ed è morto per un’overdose di eroina. Ma tu sei
diverso, non ti fai vero?».
«No, nonn mi ffaccio» rispose Desiderio seccato dalla domanda.
«Sì lo so, ho controllato le analisi del sangue e poi si capisce
subito che non sei una persona cattiva».
«Ma ccosa ne ssai ddi mee!» rispose Desiderio questa volta,
turbato dalla conversazione.
«Di te niente, ma so come gira il mondo, specialmente in certi
ambienti».
«Qqualli ambienti?».
«Quelli in cui finirai se non ti fermi in tempo, le guardie mi
hanno detto perché sei qui e se non l’hai fatto per farti una dose
allora l’hai fatto per i soldi…» continuò determinata nella sua
esposizione. «Anche a mio figlio piacevano i soldi facili, ha
cominciato quando aveva quattordici anni rubando i motorini
per strada, li smontava nel garage di suo padre e poi rivendeva i
pezzi agli amici… amici, parola grossa… ho scoperto più tardi
che alcuni lo ripagavano con pezzi di hashish o pasticche, quelle
che ti fanno vedere i mostri!».
Desiderio era stufo di ascoltare le frustrazioni di una donna che
non conosceva, ma Ida era incontenibile, parlava con una verve
espositiva impossibile da placare.
«Poi un giorno di tanti anni fa, mentre ero in casa telefonò un
maresciallo dei carabinieri dicendomi che avevano arrestato mio
figlio assieme a un altro, perché a bordo di uno scooter rubato,
avevano scippato una vecchietta a Brignole… lo incarcerarono.
Aveva altri precedenti per rissa e reati di stadio così quella volta
il giudice non fu per niente clemente. Scontò una pena di nove
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mesi, aveva diciannove anni, era solo un ragazzino…».
Il volto di Ida assunse un’espressione sofferente, Desiderio in
quel momento avrebbe voluto fermarla ma era ancora troppo
lanciata nel racconto del figlio.
«… Gianni si chiamava, quando uscì era cambiato, non parlava
mai, dava subito in escandescenza se gli chiedevi qualcosa, se
sospettava di essere controllato. Una volta picchiò addirittura
suo padre, solo perché gli disse di non uscire di casa. Aveva
iniziato a bucarsi e non era più in grado di auto-controllarsi,
rubava perfino in casa, un periodo umiliante quello!» fece una
smorfia esprimendo tutto il disgusto che provava per le cose che
diceva.
«Ricordo come fosse adesso quando un giorno, in preda a una
crisi d’astinenza, entrò in casa e… io ero sola, mio marito non
c’era… mi aggredì con un furia impressionante, picchiò anche
me. Mentre lo faceva mi dava della puttana, urlando a
squarciagola, chiedendomi soldi e io… gli detti tutto quello che
avevo, contribuendo alla sua fine. Prima di uscire dalla porta
scoppiò in lacrime, tornò da me abbracciandomi, chiedendomi
perdono per quello che aveva fatto. Urlava isterico, gridava che
era colpa di quei bastardi di quei figli di puttana se si era ridotto
così… colpa di chi, Gianni! Gli dicevo io, colpa di chi? Urlavo
isterica anch’io…! Mi rispose che era colpa di quei figli di
puttana in carcere, dei tossici che c’erano là, dei detenuti, dei
magrebini, dei negri, dei secondini, di tutto quel sistema corrotto
che ruotava intorno a quel maledetto carcere» fece una pausa,
riprese fiato e proseguì ancora imperterrita.
«Mi disse che alcuni secondini smerciavano la droga all’interno
del carcere, era risaputo, sapeva anche chi fossero, ma nessuno
faceva niente per fermarli, la corruzione era estesa a un livello
ampio, ci mangiavano tutti insomma! La droga veniva
consegnata ad alcuni detenuti che si prestavano per lo spaccio in
ogni settore del carcere. I primi tempi gliela regalavano, poi, una
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volta certi che non potesse farne più a meno, gli chiedevano
soldi, che non aveva quasi mai e quindi capitava spesso che
dovesse contraccambiare in natura. Lo iniziarono con violenza,
col tempo invece divenne una pratica normale per ottenere una
dose. Quando terminò di vomitarmi in faccia tutto questo uscì
di casa, senza farsi più rivedere. Dopo un anno e mezzo circa
morì per overdose, fu trovato da una pattuglia della polizia con
la siringa ancora attaccata al braccio dentro un’auto abbandonata
in via Sampierdarena, nei parcheggi dove ci sono tutti quei locali
a luci rosse».
Ida distolse lo sguardo da quello di Desiderio, socchiuse gli
occhi e aggiunse «… È la prima volta che ne parlo con qualcuno
che non sia mio marito, con te è stato molto spontaneo, forse mi
ricordi Gianni, grazie per avermi ascoltata».
Desiderio, visibilmente turbato, non proferì parola, lasciando
sempre a Ida il compito di prendere la situazione in mano per
risollevare la pesante atmosfera piombata nella stanza.
«Ora caro mio, togliamo il catetere e poi ti porto il pranzo, oggi
menù tipico… minestrina, pollo lesso con purè di patate e una
mousse di mela verde».
L’estrazione del catetere mise Desiderio ancor più a disagio di
quanto non lo fosse già, era tanto che non mostrava le vergogne
a una donna che non fosse sua moglie e pensò allora in
quell’istante di aver pareggiato i conti con Ida.
21
VI
«L’impronta del dito e l’immagine del viso delle persone che
passano dalla porta antirapina viene memorizzata sull’hard-disk
per alcuni giorni, sino alla saturazione del disco che poi si autorigenera» spiegò Ruggero al direttore della banca.
«E in caso di necessità è possibile visionare il materiale
mantenuto in memoria» precisò ancora.
«Iniziamo a censire i clienti, se non ricordi qualcosa chiedi pure»
disse questa volta rivolgendosi al collega.
«Sì, ma penso di aver capito» rispose Desiderio.
Le lancette dell’orologio al polso di Desiderio segnavano le
undici e dieci minuti, in realtà erano le undici in punto, aveva
preso l’abitudine di tenere l’orologio avanti dieci minuti per
contrastare il suo fisiologico stato di ritardo. Completarono
l’istallazione dell’hard-ware nella bussola proprio in quel
momento, i clienti sarebbero giunti soltanto nel pomeriggio, con
la riapertura della banca alle quindici e avevano quindi un’ora di
libertà anticipata. Ruggero e Desiderio decisero di servirsi di
quel tempo per un pranzo come si doveva. Si trovavano a
Genova, la banca era proprio nello stesso quartiere in cui
risiedeva Desiderio, all’inizio di Via Avio, angolo Piazza Vittorio
Veneto, a Sampierdarena. Era quello un quadrilatero che
accoglieva numerose banche, pieno di palazzi storici e loggiati,
abitati un tempo dalla borghesia sampierdarenese. Negli ultimi
decenni lo scenario era cambiato notevolmente, il degrado era
palpabile al primo sguardo. Muri incrostati e anneriti dallo smog,
traffico incessante, spazzatura parcheggiata a ridosso di
cassonetti sempre ricolmi di sporcizia, deiezioni di cani costretti
a vivere nel cemento sparse ovunque.
Per riqualificare la zona, alle porte del quadrilatero, proprio dove
si concludeva Via Avio, ormai da almeno sette anni esisteva un
immenso centro servizi nato dalle ceneri di un altrettanto
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immenso centro industriale.
Comprendeva negozi, ristoranti, bar, cinema multisala, palestre,
piscine, grattacieli residenziali, bassi edifici adibiti a ufficio, vie
pedonali con giardini, palme, fontane e tutto quello che i geni
addetti alla vivibilità avevano ritenuto indispensabile inserire allo
scopo di creare un’isola felice. Ma malgrado lo sforzo, l’isola non
era felice e ogni giorno veniva menzionata nella cronaca locale
dei quotidiani genovesi per episodi di violenza, risse tra bande,
scippi o furti avvenuti all’interno del centro commerciale.
L’appartamento di Desiderio invece era in un palazzo degli anni
trenta, anch’esso un tempo signorile, con loggiato e negozi,
collocato in via Buranello, una lunga via fiancheggiata da un
viadotto ferroviario che attraversava longitudinalmente tutto il
centro storico di Sampierdarena, da Piazza Barabino a Piazza
Vittorio Veneto, quella vicino la banca in cui stavano effettuando
i lavori. Lo aveva acquistato con sua moglie un anno prima del
matrimonio con un solido mutuo trentennale. Ben strutturato,
anche se poco luminoso, con un soffitto alto decorato a stucchi,
pavimento rivestito con parquet e arredato in stile classico
mescolato sapientemente con pezzi contemporanei.
Desiderio e Adele, ancor prima di acquistare, riflettendo sulle
sorti future della zona, erano giunti alla conclusione che un
giorno non troppo lontano, qualche assessore dei piani alti del
Comune avrebbe sicuramente dato vita al restyling, se non di
tutto il quartiere, almeno della zona a cui erano interessati. Ma a
distanza di anni purtroppo la realtà faceva ben altro che sperare,
e l’ipotesi formulata si stava preannunciando come un vero e
proprio azzardo, dato che la ristrutturazione di quel posto non
garantiva lucro sistematico all’amministrazione locale.
I due colleghi attraversarono Piazza Vittorio Veneto, dirigendosi
in Via Cantore, nel cuore di Sampierdarena, decisero di fare due
passi a piedi prima di fermarsi in una trattoria e ammazzare il
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tempo fino alla riapertura della banca.
24
VII
«Sei felice?».
«Basta con questo sei felice, ti rendi conto che me lo chiedi ogni
giorno? Sei una tortura!».
«Perché non posso chiedertelo, sei la persona che mi è più vicina
in questo momento, avrò pur diritto di sapere se sei felice, non
credi?».
«No, non credo proprio, cosa dovrei risponderti? Da quando me
l’hai chiesto ieri non è successo niente, non ho fatto niente,
quindi la risposta la conosci già».
«No, non la conosco affatto la risposta, il concetto del mio sei
felice è ben più esteso di quanto tu creda, non è vincolato a un
semplice episodio di vita vissuto nell’arco di una giornata, ma
allo stato d’animo interiore».
«Sei pesante da digerire quando fai così, sono solo le undici,
abbiamo appena iniziato e la notte è ancora lunga».
«È proprio per questo che ne dobbiamo parlare e non solo per
ingannare il tempo, ma proprio per rendere costruttivo il nostro
stare insieme».
«Costruttivo! Ma ti senti! Beppe, tutti i giorni con questa storia,
non è costruttivo te lo posso assicurare, ma distruttivo!
Distruttivo con la D maiuscola!».
«No non è vero, non conosci nessun altro con cui tu possa
parlare di certi argomenti e lo sai benissimo, i tuoi amici sono
tutti dei superficiali».
«E meno male, altrimenti sarei in depressione sai da quanto!
Cazzo ma non lo vedi dove siamo! Qui soli come due coglioni a
spazzare via la merda dalla città! E ancora te ne vieni con la
felicità!».
«Siamo due operatori ecologici e allora? Se ti dà tanto fastidio,
perché non ti cerchi di meglio, sei un geometra no? Vai a fare il
geometra così non ti sporchi le mani!».
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«Lo sai che non ho mai fatto praticantato, mi sono diplomato,
ho fatto il militare e poi ho iniziato a svuotare i cassonetti di
Genova. Sono cinque anni che lo faccio, felicemente? Non lo so,
però stipendio sicuro, pensione sicura e tutte quelle cazzate là.
Ripeto, il problema è che da due anni a questa parte, cioè da
quando facciamo coppia fissa, non fai altro che tormentarmi.
Non te ne rendi conto ma sei una goccia che scava nella roccia,
nuoci alla salute di chi ti sta intorno!».
«Va bene, va bene, messaggio ricevuto, con te non si può parlare.
Se proprio non mi sopporti, puoi sempre chiedere di lavorare
con qualcun altro».
«Non è possibile, già chiesto!».
«Ah bene! Questa non me l’aspettavo, sei pure un infame che
colpisce a tradimento».
«Beppe falla finita stavo scherzando! Se non ci sto io con te ma
chi ci sta?».
«Dici così solo per rimediare, tanto lo so che ti sei stancato di
sentirmi, ma non posso farci niente, per me non è tutto così
semplice. Casa, lavoro, divertimento, scopare… no non fa per
me, sono convinto che ci sia dell’altro».
«Beppe, abbiamo solo venticinque anni, ma cosa ci deve
essere… fai riposare un po’ il cervello, il giorno invece di stare
chiuso in casa ad ascoltare quella musica angosciante o a leggere
quei mattoni, prova a uscire, vai in centro a svagarti e senza
chiedere al primo che passa se è felice».
«Lo sai che non posso farne a meno di chiederlo».
«Lo so e infatti tutti ti evitano, ma la solitudine fa male, divora la
consapevolezza che uno ha di se stesso. Dammi retta, esci e
alleggerisci il fardello che ti porti appresso, ubriacati magari che
ne so, fumati una canna, una volta ogni tanto puoi lasciarti
andare, non essere sempre così rigido con te stesso. Dai sali
su… vai Dante!».
«Vai Dante!».
26
«Vaiiii!».
«Oh… si è addormentato un’altra volta, ma proprio con noi
deve lavorare quello. Vado a bussargli alla porta».
Giulio scese dal predellino posto sul retro dell’autoimmondizie e
si diresse verso Dante.
«Sveglia! Se continui così a mezzogiorno siamo sempre in
strada!».
Giunto all’altezza della portiera, vide che l’interno dell’abitacolo
era vuoto.
«Ma dove si è cacciato quello stordito! Beppe! Dentro non c’è, te
lo vedi in giro da qualche parte?».
«Sì eccolo là a parlare con quella prostituta, vado a chiamarlo io!».
Erano in via Sampierdarena, strada dell’omonimo quartiere che
di notte si trasformava in un bordello.
Quando Beppe si avvicinò ai due, vide che stavano discorrendo
amichevolmente, pareva si conoscessero da tempo, quindi con
discrezione si mantenne a una ragionevole distanza per non
essere troppo invadente e lo chiamò. Dante, sentito il proprio
nome risuonare alle sue spalle, non prolungò la conversazione,
dette un bacio sulla guancia alla prostituta e tornò sul camion.
Beppe invece esitò, colpito dal sorriso di quella bionda in abiti
succinti, si sentì come incoraggiato ad avvicinarsi. Mostrando il
migliore dei sorrisi di cui poteva disporre, si fece avanti.
«Ciao».
«Ciao, gioia come stai?» rispose lei gioviale con un marcato
accento slavo. Lui, non potendo trattenersi, dette libero sfogo al
suo vezzo psicotico.
«Sei felice?».
«Amore io sono triste, ma tra le mie gambe ho un distributore
automatico di felicità, vuoi vederlo?».
Beppe, inorridito dalla risposta, fece ritorno immediato al
camion, salì sul predellino e gridò.
«Vaiii!».
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Giulio avvertì subito lo stato d’agitazione dell’amico.
«Cosa vi siete detti?».
«Niente, niente».
«Hai chiesto anche a lei se è felice, vero? La devi smettere Beppe,
la devi smettere, è un’ossessione la tua, mi fai star male».
«Sì, sì… basta, basta».
Il camion riprese la marcia, lento nella via verso altri cassonetti
da svuotare.
«Credi di essere nato per soffrire, ecco qual è il tuo problema!
Sempre in cerca di risposte a quella cazzo di felicità! Ti rovinerai
l’esistenza, vedrai!» sbottò ancora Giulio.
Il camion si fermò nuovamente dopo poche decine di metri
percorsi nella stessa via, davanti alla porta d’ingresso di un night
club in cui si era radunato un gruppetto di sud americani alticci,
immersi in un’animata discussione nella loro lingua.
Beppe, avviandosi verso i cassonetti, si avvicinò al gruppetto di
persone, questa volta con aria di sfida si piazzò di fronte a uno
di loro e guardandolo dritto negli occhi urlò: «Sei felice? Sei
felice? Rispondi, dài, rispondi!».
L’uomo forse in preda ai fumi dell’alcool, non comprese
neanche il significato di quelle parole, comunque non perse
tempo, vistosi aggredire verbalmente consegnò subito alla
persona più vicina la bottiglia di birra che teneva in mano e si
avvicinò minacciosamente a Beppe senza proferire parola.
Dall’altra parte, Giulio, che aveva visto tutta la scena, raggiunse
Beppe con una corsa rapida, lo prese per la giacca e lo riportò
indietro scusandosi con l’uomo per l’atteggiamento assunto
dall’amico.
«Ma vuoi farti ammazzare? Ma cos’hai in testa stasera me lo
dici?».
Beppe guardò Giulio con un volto stralunato e poi gridò ancora:
«Dante! Dante!… E tu sei felice?».
«Ma allora sei fuori! La smetti o no…! La smetti o no!» riprese
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Giulio questa volta preoccupato.
«Va bene, va bene, stavo solo scherzando! Fidati, non sono
pazzo!» replicò, ridendo con uno sguardo tornato alla normalità.
«È uno scherzo del cazzo, quelli potevano spaccarti la testa, lo
sai!».
«Scusa, ma veramente stavo solo giocando».
«Vaffanculo!» Giulio prese il cellulare in mano e compose un
numero di telefono.
«Chi stai chiamando adesso?» domandò Beppe.
«Mia sorella, sento se è a casa e se ci fa salire un attimo, così ti
prendi una camomilla e ti dai una calmata».
«Ma non voglio una camomilla io!».
«Allora la prendo io, visto che mi hai fatto cagare addosso,
brutta testa di cazzo che non sei altro!».
«Pronto… Adele, ciao sono Giulio…».
«Ciao Giulio…».
«Che voce hai?… È successo qualcosa?».
«Papà e mamma non ti hanno detto niente?».
«No, cosa avrebbero dovuto dirmi?».
«Desiderio…».
«Cosa?».
«Desiderio è stato arrestato questa mattina!».
«Oh ma… stai scherzando!».
«No Giulio non sto scherzando, è tutto vero».
29
VIII
Fu un sogno insolitamente lungo quello realizzato da Desiderio
sul letto d’ospedale, un’illusione rivelatasi beffarda, durata gran
parte della notte e ricordata al risveglio solo nella sua parte finale.
Con un amico che non vedeva ormai da anni contemplava un
muro, su questo muro era dipinta una tavola geografica della
terra. Un enorme quadrato blu, raffigurante l’oceano, con
all’interno i cinque continenti colorati di un tenue marrone. I
confini terrestri erano imprecisi, ricordavano quelli di un atlante
storico, con le Americhe e l’Africa più strette e più lunghe di
quanto lo fossero realmente e l’Europa più larga e schiacciata.
Tra l’oceano e la terra scorreva una linea nera che separava il blu
dal tenue marrone. Il nero utilizzato per demarcare le linee
frastagliate dei continenti era stato usato anche per scrivere una
frase in corsivo, eseguita probabilmente dalla mano di un
bambino. La frase tagliava orizzontalmente a metà il corno
meridionale del sud America, proprio dove si trovava l’Argentina.
«Sei un buono a nulla».
Desiderio e l’amico lessero la scritta senza darci troppa
importanza, poi salirono su un’auto allontanandosi dal muro.
Poco dopo, durante il viaggio, l’amico irruppe nel silenzio
urlando: «Sono felice!».
Desiderio, guardò l’amico alla guida.
«Lo vedo, anch’io lo sono» rispose.
Consapevoli che quelle parole non corrispondevano al loro reale
stato d’animo, si guardarono ancora, cercando reciproca
convinzione, ma niente da fare, passarono pochi istanti e furono
assaliti dall’angoscia, un'angoscia talmente intensa che svegliò
Desiderio dal sogno.
Ancora mattino, ancora in ospedale, aveva dormito di filata per
tutta la giornata precedente, saltando la cena e svegliandosi una
sola volta durante la notte per orinare nel pappagallo, era dai
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tempi della scuola che non dormiva così tanto. I crampi allo
stomaco per la fame si facevano sentire, si mise seduto sul letto
rivolto verso l’apparecchiatura, cercando una posizione che
attenuasse gli spasmi. Trovata la giusta posizione, si mise a
fissare la parete bianca come nel sogno, un muro quello della
stanza senza dipinti, senza segni che conciliassero il distorcersi
dello sguardo capace di originare figure immaginarie. Con la
vista immersa nel bianco, il pensiero ricadde sull’Argentina, la
terra per antonomasia, luogo ideale in cui scomparire.
I vagabondaggi mentali di Desiderio la utilizzavano da sempre
come unica meta d’evasione, approdando sulle sue coste per poi
addentrarsi nelle immense distese di splendida desolazione, alla
ricerca dell’habitat naturale. Quella terra era divenuta l’unico
cantuccio in cui nascondersi nei momenti di tristezza. Lui a
cavallo come un gaucho, tra i ricchi pascoli, confortato dal
quotidiano vivere alla giornata e dall’annullamento di quei sensi
di responsabilità che inducono a una vita monotona e spenta.
Tutto d’un tratto Desiderio si ritrovò a ridere come un cretino,
in preda a un’esaltazione mai provata prima. Rideva, felice di
sentirsi finalmente vivo. Nel più violento dei modi aveva rotto
con il sistema, aveva ucciso la noia, se non fosse stato per quel
fottuto ictus, chissà fin dove sarebbe arrivato. Miracolosa
quell’Argentina, sempre capace di entusiasmare, mai stata così
vicina. Si sentiva come il fuori legge Butch Cassidy, quando la
scelse in alternativa al nord America di fine Ottocento per
sfuggire a un sicuro ergastolo.
31
IX
«Cognome e nome» disse Desiderio concentrato sulla tastiera.
«Pittaluga Ernesto» rispose l’altro.
«Può darmi il suo codice fiscale?».
«Sì… ecco qua».
«Professione?».
«Commerciante, in realtà sono il direttore generale di una catena
di negozi, però temo sia troppo lungo da scrivere, quindi… va
bene commerciante».
L’uomo sventolava fastidiosamente un sacchetto della spesa
tenuto nel pugno stretto di una mano, l’oscillazione provocava
un lieve strepitio echeggiante per l’ufficio. Quel sacchetto,
probabilmente pieno di banconote, era lo stesso che aveva
consegnato al cassiere qualche giorno prima.
In un attimo la mente di Desiderio fu attraversata dal pensiero di
possedere quei soldi. Soldi che equivalevano ad una boccata
d’ossigeno, niente di più, lo sapeva, ma l’idea gli si era ficcata
prepotentemente in testa. Odiava quel figlio di puttana fin dal
primo momento che lo aveva notato in banca e questo non
faceva altro che alimentare quel pensiero malsano.
«Adesso deve posizionare il polpastrello dell’indice destro su
questa piastrina».
«Così va bene?» disse l’uomo.
«Sì… lo tenga immobile… così».
«Okay, la registrazione è fatta, quando si troverà di fronte alla
nuova bussola non dovrà far altro che riposizionare il dito, come
ha fatto adesso, sulla piastrina posta al lato dell’ingresso e
attendere l’apertura».
«Sembra facile!».
«Lo è!» rispose Desiderio.
«Allora vi aspetto a casa mia, così ne mettiamo una!».
«Perché no! Anche due!» Desiderio si alzò dalla sedia e
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accompagnò l’uomo alla porta, lo seguì per un po’ con lo
sguardo e come supponeva si era diretto dal cassiere per
depositare il denaro.
Mentre faceva entrare un altro cliente per compiere la solita
operazione, il pensiero viaggiava su un altro binario. Cercò di
capire perché adoperasse quel banale sacchetto per trasportare le
banconote e, dopo una veloce analisi, considerò che una
ventiquattrore non sarebbe passata inosservata agli occhi di un
balordo incontrato durante il tragitto per raggiungere la banca.
Diversamente la decisione di metterli nel sacchetto era in
qualche modo spiazzante, visto che nessuno avrebbe mai potuto
immaginare che contenesse dei soldi.
33
X
«Ma cosa ha fatto?».
«Ha rapinato un uomo fuori da una banca!».
«Ma chi, Desiderio? Non ci credo neanche se lo vedo con i miei
occhi!».
«Giulio, ti dico che ha rapinato un uomo, è la verità! Questa
mattina a Sampierdarena…».
«Come a Sampierdarena?».
«Sì, sì, vicino via Avio, a due passi da casa! Non so cosa gli sia
preso, proprio non riesco a capirlo! E non è finita qua!».
«Perché, cosa c’è ancora?».
«C’è che è in ospedale!».
«L’hanno pestato?».
«No, no, è che durante la fuga gli è preso un ictus e si è
accasciato a terra dopo pochi metri».
«Cazzo! Un castigo divino! Ma ci hai parlato almeno?».
«Non è possibile, fuori dalla stanza ci sono le guardie e non
fanno entrare nessuno. Però nel pomeriggio ci sono tornata per
portargli della biancheria e nel mezzo ho nascosto il suo cellulare,
ma ancora non mi ha chiamata».
«Sì, ma almeno sai come sta?».
«Ho parlato con un dottore, mi ha detto che ha subito una lieve
paresi del braccio e della gamba sinistra e una provvisoria
limitazione dell’uso della parola, però tutto risolvibile con
farmaci e fisioterapia».
«Mi lasci senza parole, non so cosa dire».
«Giulio, io me ne sono andata da casa!».
«Dove sei ora?».
«Da papà e mamma. Non ci torno a casa con lui!».
«Non lo so, forse dovresti parlarci prima. Ma avete problemi di
soldi?».
«Come tutti Giulio! Ma non per questo uno si sveglia la mattina
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e va a fare una rapina!».
«Magari è stressato dal lavoro, chi lo sa!».
«No, credo anch’io che il problema siano i soldi, ma sono incinta
e non ci sono giustificazioni per quello che ha fatto!».
«Senti ora ti devo lasciare, sto lavorando…».
«Va bene, va bene, ma perché mi hai chiamato?».
«Sono quasi sotto casa tua e volevo fare un salto a farvi un
saluto, ma visto come stanno le cose… Domani appena mi
sveglio passo a trovarti almeno ne parliamo meglio. Senti, forse
sarà superfluo dirtelo, ma cerca di stare tranquilla, tutto si
risolverà per il meglio. Un bacio, ciao».
«Ci proverò… ciao Giulio».
Giulio messo via il telefono guardò sbigottito Beppe.
«Ma hai sentito la telefonata?».
«Sì, è stata un vero godimento, da adesso in poi tuo cognato sarà
il mio mito sfigato! Ti rendi conto cosa ha fatto? Ha
assecondato il suo lato oscuro!».
«Sì e hai visto dov’è finito! Oh ma te stasera proprio non ci sei
con la testa!».
«Perché dici così, pensaci… in quanti, almeno una volta nella
vita, avranno avuto un pensiero simile in testa, scippare la
pensione alla vecchietta, rubare la moto al tizio più ricco, a tutti
è capitato di voler fottere il prossimo, ma poi il raziocinio vince
sempre!».
«Ma stai solo dicendo che il fine giustifica i mezzi!».
«Sto dicendo che…».
«Basta Beppe! Stasera ne hai già dette troppe di stronzate, non
mi va di ridicolizzare questa faccenda, c’è di mezzo mia sorella!».
«Sì, sì… Per me resta sempre un mito! Magari un po’ sfigato,
quello sì. Ma perché è finito in ospedale, che non sono riuscito a
capire?».
«Durante la fuga è stato colto da un ictus ed è caduto a terra!».
«Però è stato proprio sfigato!».
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«Si vede che era destino, non doveva farlo!».
«Certo che la sfiga non la pianifichi!».
«Vai Dante!».
36
XI
«Alla buonora, credevo non volessi svegliarti più!» disse Ida,
andando verso la finestra.
«Ho ffame» rispose Desiderio ancora con le pieghe del cuscino
sul viso.
«Lo immagino, i colleghi mi hanno detto che hai saltato pure la
cena». Spalancò finestra e persiane, poi, accorgendosi di aver
esagerato, socchiuse la finestra riducendo l’ingresso d’aria fredda
nella stanza.
«Intanto che facciamo cambiare un po’ l’aria vado a prenderti la
colazione, c’è anche una sorpresa per te questa mattina…».
«Cosa?» rispose Desiderio senza indugiare.
«Vedrai… vedrai!» disse Ida, liquidandosi sbrigativamente.
Il periodo d’assenza di Ida nella stanza fu talmente breve che
non permise a Desiderio di formulare alcuna ipotesi sulla
sorpresa che stava per ricevere, pareva quasi che Ida si fosse
preparata tutto dietro la porta per ridurre al minimo l’attesa.
Riapparse con un carrello su cui era sistemata la colazione, sul
ripiano inferiore del carrello invece c’era un pacco abbastanza
grande, imballato con della carta marrone, simile a quella che
usano i fornai per incartare il pane. Il pacco era stato aperto,
visto che lo scotch con il quale era stato chiuso era staccato.
«Vuoi fare colazione prima?» chiese Ida.
«No» si limitò a dire Desiderio allungando le mani verso
l’infermiera, facendole cenno di consegnargli il pacco.
Ida allora lo prese e lo passò nelle mani di Desiderio.
«Lo hanno aperto le guardie qua fuori per controllarne il
contenuto, hanno trovato dentro un cellulare e se lo sono tenuto
senza dare spiegazioni».
«Qquanndo è stato pportato?» s’informò Desiderio.
«Ieri, mentre tu stavi dormendo… ti lascio solo, quando hai
finito chiamami con il campanello».
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Desiderio non rispose, appena rimase solo scartò il pacco e
vedendone il contenuto comprese all’istante la sua provenienza,
avvertendo una lieve commozione.
Tolse la carta, ne fece una palla e la lanciò verso il cestino posto
vicino la porta, centrando il canestro.
Seduto sul letto, con la schiena poggiata sulla testiera e le gambe
distese sul materasso, prese a osservare meglio il presente.
Il pacco racchiudeva un pigiama nuovo, quattro t-shirt nuove,
quattro slip nuovi e un beauty-case contenente uno spazzolino da
denti un dentifricio e quant’altro fosse necessario per un lungo
soggiorno fuori casa.
La cosa più importante fu però il rinvenimento di una busta da
lettere occultata all’interno della maglia del pigiama ripiegato.
Questa, come il pacco era già stata aperta e probabilmente era
finita lì per caso dopo che le guardie avevano perquisito tutto il
materiale.
La busta ovviamente conteneva una lettera, era un foglio di una
pagina a quadretti strappata da un quaderno che Desiderio e
Adele tenevano a casa per prendere appunti, la riconosceva
perché era gialla proprio come tutte le altre pagine di quel
quaderno.
La lettera era stata scritta a penna proprio da Adele, la sua
calligrafia era inconfondibile, frettolosa, svogliata, storta, lei
detestava scrivere, preferiva piuttosto la tastiera di un computer.
Sono sconcertata, ancora non riesco a credere come tu possa aver fatto una
cosa simile.
Penso a tutto quello che abbiamo condiviso insieme e a tutto quello che
stavamo per fare.
Penso a cosa ne sarà di noi adesso, della nostra bimba quando nascerà.
Eri la realizzazione di un sogno. Eri la mia vita. Ora ho paura, sto male.
Dove sono finite le mie certezze!
Vado a vivere dai miei, quando uscirai, se uscirai, potrai stare a casa solo
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per un breve periodo di tempo, lo stretto necessario che ti consenta di trovare
un’altra sistemazione.
Cosa ti ha spinto Desiderio, cosa ti ha spinto?
I soldi! Li volevi così fortemente da fare del male ad un’altra persona. Io
proprio non ti riconosco!
Finito di leggere guardò il cestino, appallottolò la lettera, prese la
mira, tirò, canestro.
Due su due.
39
XII
Erano le otto e trenta quando risuonò nella camera la melodia di
Smells like teen spirit dei “Nirvana”, Adele fece un sobbalzo sul
letto e dopo aver spalancato gli occhi, istintivamente abbracciò la
pancia di ormai sei mesi, un gesto materno eseguito spesso
durante le giornate. Dopo lo scambio di effusioni con la piccola
in grembo, Adele prese a pizzicare il sedere di Desiderio fino a
svegliarlo e a tirarlo giù dal letto.
«Mi scuote i nervi svegliarmi la mattina con quel casino ormai
dovresti saperlo, cambia quella suoneria ti prego!».
«Sì, sì, poi la cambio» Desiderio, sbadigliando, spense la sveglia
dal cellulare.
«Che ore sono?» riprese lei.
«Le otto e mezza».
«Ma è presto, l’appuntamento con la ginecologa l’abbiamo fra
tre ore!».
«Sì lo so, ma devo fare un salto in banca, quella in cui sto
lavorando in questi giorni, per controllare una cosa, a ogni modo
torno subito».
«Ma non avevi preso festa oggi?».
«Sì, sono in festa, infatti, torno subito».
«Allora io dormo un altro po’, mi svegli quando ritorni?».
«Va bene… ci vediamo tra un po’».
Desiderio uscì dall’appartamento, dette uno sguardo
all’ascensore ma come al solito era al sesto piano, scese le scale a
piedi, a passo svelto per essere in banca almeno cinque minuti
prima delle nove.
In Via Buranello ad attenderlo c’era già una lunga colonna di
auto. L’ideale per affrontare il traffico genovese era sicuramente
l’utilizzo di uno scooter, come del resto facevano in tanti, un
mezzo di locomozione strategico per la città, visto i continui sali
scendi impossibili a farsi con una bicicletta e di gran lunga meno
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impegnativo da parcheggiare rispetto a qualsiasi veicolo dotato
di quattro ruote. Lo scooter però non rientrava assolutamente
nelle possibilità di Desiderio a meno che non decidesse di farsi
carico di altre piccole rate da aggiungere a quelle già in suo
possesso, riducendo ulteriormente il potere d’acquisto del suo
stipendio.
Scartata l’ipotesi macchina, la scelta fu obbligata, guardò l’ora e
capì che, se voleva rispettare l’orario prefissato, doveva fare una
corsettina.
Col fiatone giunse di fronte all'obiettivo, decise di stare sull’altro
lato di Via Avio, sotto un loggiato. Per non dare l’impressione di
essere lì senza far niente si comprò anche un giornale,
sfogliandolo di tanto in tanto con aria interessata.
Erano le nove e dodici minuti, ora di Desiderio, il che equivaleva
alle nove e zero due, il motivo della sua spedizione stava
passando proprio in quel momento, aveva un sacchetto della
spesa in mano e si stava introducendo in banca.
Da quando l’individuo ben vestito aveva fatto il suo ingresso
nella banca, Desiderio non aveva tolto gli occhi di dosso dalla
bussola che aveva montato due settimane prima.
Trentacinque furono i minuti della sua permanenza all’interno,
spesi in chiacchiere e deposito contanti.
Pittaluga Ernesto, Desiderio ricordava perfettamente come si
chiamava, uscì e prese a destra, senza dirigersi verso auto
parcheggiate in doppia fila, proseguì la sua camminata verso Via
Buranello, oltrepassò una banca e poi svoltò nuovamente a
destra in Vico della Catena. Il fatto che ancora non fosse salito
su un’auto parcheggiata facilitava sicuramente il compito di
Desiderio, anche se al momento intendeva solo osservare le
abitudini del suo uomo.
Desiderio fino ad allora si era mantenuto sempre dalla parte
opposta della via rispetto al Pittaluga, ma quando entrò in Vico
della Catena, fu costretto ad attraversare Via Buranello e a
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introdursi nel vico con lui. Nel vico stretto e buio, dove non
passava mai nessuno aumentava la possibilità di essere scorto.
Erano a circa dieci metri, si fermò e temporeggiò per qualche
istante incrementando la distanza che li divideva.
Quando Pittaluga giunse al fondo, Desiderio decise di allungare
il passo per non perderlo d’occhio e recuperare quei metri
perduti. Nella ritrovata luce furono in Piazza del Monastero,
Pittaluga proseguì la camminata sull’asfalto mentre Desiderio
salì sul marciapiede.
All’intersezione della piazza con Via Sampierdarena, un grosso
Suv nero della Mercedes sostava col motore acceso, Pittaluga ci
salì a bordo e partì. Desiderio intravide una donna al posto del
conducente, bionda con capelli lunghi lisciati alla piastra e un
paio di occhiali da sole tipo mascherina; considerò che doveva
trattarsi della moglie, poi soddisfatto della sua attività d’indagine
fece ritorno a casa.
Quella mattina con Adele sarebbero dovuti andare dalla “gina”,
questo l’appellativo con cui erano soliti chiamare la ginecologa.
Più la pancia aumentava, più le visite dalla “gina” si facevano
frequenti. Le visite incidevano notevolmente sullo stress
generale della coppia, poiché la dottoressa, si avvaleva sempre di
numerose analisi da eseguire in altre strutture mediche da lei
raccomandate. A questo si aggiungeva l'indubbio sforzo
economico per sostenerle, già aggravato peraltro dalla spesa per
l’allestimento della cameretta e dell’acquisto di tutti i vestitini che
parevano di una Barbie, solo più grandi e costosi o dei prodotti
per l’igiene intimo dei neonati, dei giochi interattivi, dei prodotti
per l’allattamento, dei passeggini, delle navicelle per il trasporto
del bebè in auto e di tutto ciò di cui ancora non erano
minimamente a conoscenza.
Spesso l’animo razionale di Desiderio frenava l’entusiasmo per la
dolce attesa, era un meccanismo incontrollabile il suo, a un pro
si contrapponeva sempre un contro di uguale proporzione. Alla
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vita il costo della vita. Aveva provato a trarre conforto dalla
lettura di riviste per donne incinte, vagliando i vari suggerimenti
forniti in tal proposito, ma immancabilmente se ne uscivano
sempre con suggerimenti scontati, tipo modificare l’ordine delle
priorità, sicuramente il più gettonato e quello che mandava più
in bestia Desiderio.
43
XIII
Era ancora lanciato sulla sua colazione quando una raffica di
vento e pioggia spalancò la finestra. Le gocce presero a cadere
obliquamente sul pavimento, formando nel giro di pochi istanti
una pozza d’acqua. Desiderio premette l'allarme e l’intervento di
Ida fu immediato: chiuse la finestra, uscì dalla stanza per poi
tornare con un secchio e uno straccio; strofinò lo straccio sul
pavimento e asciugò tutta l’acqua depositata.
Durante tali manovre Desiderio terminò la colazione e come per
magia sentì tornare le energie di un tempo e la voglia irresistibile
di rimettere i piedi a terra.
Per facilitare la camminata, Ida lo sistemò all’interno di un
deambulatore. Desiderio una volta dentro, studiò lo strano
arnese, proprio come se avesse davanti la carpenteria di una
bussola, osservando prima le saldature che tenevano assemblati i
tubi, poi il movimento delle ruote.
Dopo lo scrupoloso esame fece un’espressione d’approvazione,
poi aggrappandosi alle impugnature del deambulatore, iniziò a
girare per la stanza. Raggiunse la finestra. Vide la pioggia
scendere giù con insistenza, le gocce fitte rendevano il paesaggio
esterno sbiadito e cupo, gli operai al di sotto, fuggivano
freneticamente dal cantiere, avvolto ormai da una spessa coltre
di fango.
Desiderio si voltò e posò gli occhi sulla buffa figura di Ida. Lei
sentendosi osservata, abbozzò un mezzo sorriso, poi mosse il
grosso labbro superiore, forse con l’intenzione di parlare, ma
non fece a tempo. Desiderio ricambiò il mezzo sorriso senza
modificare l’espressione triste dei suoi occhi e proseguì la sua
camminata per la stanza. Avrebbe voluto dirle che non ne
poteva più di quel tempo burrascoso là fuori, così in sintonia
con il suo spirito. Avrebbe voluto esprimerle quanto urgente
fosse il bisogno di muovere in cielo una mano per dipanare le
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nuvole gravide di pioggia e restituire finalmente il sereno, ma
non lo fece.
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XIV
Ultimato il lavoro con la banca di Via Avio, a Desiderio fu
assegnato un itinerario di revisioni da eseguire in alcune banche
nel savonese. Nonostante la lontananza dal suo principale
interesse, non abbandonò mai il programma di sorveglianza
iniziato quella mattina in cui aveva accompagnato Adele dalla
ginecologa.
Usciva dalla “Sicur-Tex” il prima possibile raggiungendo la
banca alle nove in punto, osservava i movimenti di Pittaluga e
poi riprendeva l’auto aziendale imboccando l’autostrada a
Genova ovest; la deviazione non apportava un gran ritardo sulla
tabella di marcia, dato che l’ingresso al casello autostradale non
distava molto dalla banca.
Passavano i giorni e in lui si fortificava l’idea che l’insano
proposito fosse facilmente realizzabile. Aveva ormai appurato
che il tragitto effettuato da Pittaluga per raggiungere la banca era
sempre il medesimo. Travisando il volto con un berretto da
baseball e un paio d’occhiali da sole, l'azione si sarebbe svolta
nel vico, dove l'oscurità avrebbe contribuito a proteggere la sua
figura. Si sarebbe impadronito del sacchetto, avrebbe corso
rapidamente verso la fine del vico, avrebbe raggiunto, prima
piazza del Monastero, poi piazza Modena, fino ad arrivare in via
Ghiglione, una via poco frequentata, dove probabilmente
avrebbe potuto disfarsi del berretto e degli occhiali, rallentare la
corsa e rifiatare. Via Ghiglione era una parallela di via Buranello,
la via di casa. Qui avrebbe avuto due possibilità: arrivarci tramite
via della Cella oppure da via Giacometti, entrambe erano
percorribili con una certa calma considerata la loro viabilità a
senso unico e solo al momento avrebbe deciso quale fare. Anche
via Buranello, essendo a senso unico, l’avrebbe percorsa in senso
contrario a quello di marcia, con la possibilità di osservare il
sopraggiungere di pattuglie della polizia e d’introdursi all’interno
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di qualche negozio per non essere individuato.
Restava solo da decidere come impadronirsi del sacchetto,
mediante la minaccia di un oggetto contundente o con un
banale scippo. Sicuramente una mano armata da un coltello lo
avrebbe reso più convincente agli occhi della vittima, ma nella
peggiore delle ipotesi, e cioè in caso di arresto, la pena che
avrebbe dovuto scontare sarebbe stata più aspra di quella per lo
scippo. Desiderio concretizzò di temere di più una permanenza
prolungata nel carcere, quindi si convinse che la soluzione
migliore fosse strappargli di mano quel sacchetto e scappare via.
I soldi, per quello che ne sapeva lui, dovevano essere puliti,
supponeva infatti che le banconote segnate venissero utilizzate
solo nelle banche, necessarie agli investigatori per rintracciare la
refurtiva in caso di una patita rapina, questo perlomeno, era
quanto aveva appreso durante gli anni della sua giovinezza
guardando film di genere. Vista l’ingente somma di cui avrebbe
potuto disporre dopo lo scippo, per non destare sospetti,
avrebbe evitato di depositarli nella sua banca, sapeva che anche a
inventare la più astuta menzogna per giustificarne la provenienza
lecita, sua moglie non ci avrebbe mai creduto. Quindi stabilì che
i soldi sarebbero rimasti a casa, nascosti in dispensa all’interno di
uno dei fusti di pittura per pareti, tenuti nello scaffale in alto,
fuori dalla portata di sua moglie. Il punto saldo di questa
iniziativa era che i soldi non servivano all’acquisto di beni che
soddisfacessero esigenze di carattere personale, ma solo ed
esclusivamente di carattere familiare, in pratica per la spesa di
beni di prima necessità. Questo secondo lui era l’unico modo
per trarre un reale beneficio da quei soldi, usarli con parsimonia
nel tempo, allontanando così l’evenienza di dover ripetere un
crimine.
47
XV
«Sono sicura che sia stato vittima di un errore Carlo. Come puoi
pensare che tuo figlio abbia fatto una cosa simile?».
«Io non penso proprio niente, ma questi sono i fatti, adesso
siamo in ospedale o no?».
«Sì, ma…».
«Oltre quella porta, controllata a vista dalle guardie, c’è tuo figlio
o no?».
«Sì, Carlo…».
«Abbiamo parlato con l’avvocato sì o no?».
Per qualche istante rimasero senza dire niente.
«Carlo ti prego non fare così, è tuo figlio, lo conosciamo bene,
vedrai che si risolverà tutto per il meglio».
«Emma, io non sono così fiducioso, mi dispiace ma i fatti sono i
fatti…».
«Sì, ma almeno cerca di preoccuparti per la sua salute, quando lo
vedremo, non aggredirlo com'è tuo solito, fagli capire che gli
siamo vicini e che gli vogliamo bene!».
«Certo, certo, come al solito tu fai la comprensiva e io lo stronzo
della situazione!».
«Carlo non è il momento adatto per discutere!».
«Allora dimmi tu come devo gestire le mie emozioni, vuoi che la
prenda a cuor leggero? Vuoi questo, vuoi che me ne freghi di
quello che sta succedendo? Sono mortificato e arrabbiato! Con
lui, con te, con me stesso per non avere capito quello che aveva
in testa! Eppure mezzo discorso me l’aveva fatto, ma non gli
potevo dare certamente importanza!».
Carlo si bloccò con lo sguardo sul pavimento, ripensando
all’ultima volta che aveva avuto l’occasione di stare assieme al
figlio. Stavano passeggiando sotto i portici di Via Cantore, in un
freddo sabato pomeriggio.
«La vedi quella scritta papà?» Desiderio indicò con l’indice della
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mano una scritta, fatta con dello spray nero, sulla facciata di un
palazzo.
«Quale… quella là! Produci Consuma Crepa».
«Sì proprio quella. Credo sia il manifesto più ripetuto nel
quartiere».
«Può essere, in effetti te la ritrovi un po’ ovunque».
«Chi credi l’abbia scritta?».
«Ma… non saprei, forse un adolescente viziato, figlio di papà
che frequenta i centri sociali».
«Forse, sì».
«O forse un adulto veramente incazzato».
«Potrebbe essere… sì. Non saprei neanche io. Comunque,
indipendentemente da chi l’abbia scritta, devo dire che mi ha
sempre turbato. Sono cresciuto per le strade di Sampierdarena e
su quella scritta ci ho sempre sbattuto il naso».
«Beh, in effetti ora che mi ci fai pensare è da una vita che ci
sono in giro, però se dovessi dirti con esattezza a quando
risalgono non saprei proprio».
«Danno l’impressione d’esserci sempre state».
«Forse, ma perché ti inquieta?».
«Non saprei di preciso, è che riduce tutto ai minimi termini,
lavori e mangi per una vita e alla fine… poof! Muori».
«Sì, la traduzione direi che è esattamente quella. È una maniera
molto triste e cinica di intendere la vita».
«Sì ed è la verità!».
«Stai trascurando il contorno».
«Cioè?».
«La famiglia, gli affetti, l’amore che provi per certe persone, le
esperienze in generale… positive o negative che siano. Tutto
quello che va a comporre il vissuto».
«Credo tu abbia sempre avuto un bell’atteggiamento nei
confronti della vita, hai sempre sgobbato senza soste e non ti è
mai pesato. Io non sono così, a me pesa e pesa tantissimo.
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Arrivo a fine giornata, vado a letto e mi rialzo per ripetere la
stessa cosa del giorno prima».
«Desiderio, in mezzo a quelle giornate c’è qualcosa».
«Cosa papà?».
«Te l’ho detto… i rapporti con gli altri».
«Non lo so, mi scivola via tutto e non mi resta niente».
«Forse non ti trovi più bene al lavoro?».
«No, no… al lavoro ho raggiunto la mia indipendenza, tutto
sommato non posso lamentarmi».
«Hai qualche problema a casa con Adele? Magari senti troppo il
peso della gravidanza?».
«No, a casa va tutto bene, sono io che sono un po’ così».
«Ti sento triste direi, ma non hai motivo di esserlo te lo
assicuro».
«Triste no, forse un po’ sconfortato… o sconfitto».
«Perché dici così Desiderio?».
«Perché dentro mi sento esplosivo, però non vivo di
conseguenza. Da anni non faccio qualcosa di diverso, qualcosa
per me, sono entrato in quel circolo vizioso in cui ormai, preso
dalle responsabilità, cammino a testa bassa senza guardarmi
troppo intorno, perché non ho tempo, perché non ho soldi a
sufficienza. Papà, io sono incazzato proprio come quell’adulto
che potrebbe aver scritto quella frase sul muro!».
Carlo stava fissando ancora il pavimento e solo quando tornò
con lo sguardo su sua moglie si accorse che lo stava chiamando.
«Carlo, mi stai ascoltando?».
«Cosa hai detto scusa?».
«Ho detto, quale mezzo discorso ti aveva fatto?».
«Ora non ne vaglio parlare».
50
XVI
Il forte acquazzone si tramutò in un leggero piovigginare, tutto
il paesaggio al di fuori della finestra appariva plastificato da una
patina grigia di micro particelle d’acqua che ondeggiava in base
alle correnti d’aria.
Desiderio stava ancora camminando per la stanza all’interno del
deambulatore, sotto la stretta sorveglianza di Ida, quando dalla
porta entrarono due agenti della polizia penitenziaria. Uno di
loro, il più alto in grado, teneva tra le mani un fascicolo
riportante le generalità di Desiderio, il numero di matricola e la
motivazione dell’arresto.
Ida, senza sapere ancora cosa fossero venuti a fare, accompagnò
Desiderio sul letto, sistemandolo con la schiena appoggiata su
un cuscino contro la testiera e liberò la stanza dalla sua presenza.
«Buongiorno» dissero all’unisono i due agenti.
«Buongiorno» rispose Desiderio senza storpiare la parola.
«Siamo qui per procedere alla sua scarcerazione» questa volta
parlò solo il più alto in grado.
«Ah…» Desiderio, preso di sorpresa, non ebbe altro da
aggiungere.
«In altre circostanze avrebbe dovuto sostenere un processo per
direttissima, ma viste le sue condizioni è stato convalidato
l’arresto e messo in libertà in attesa di giudizio. Questo significa
che non potrà allontanarsi da Genova, che una volta uscito di
qua il giudice la sottoporrà all’obbligo di firma presso un
Commissariato e che un giorno non troppo lontano sarà
convocato presso il Tribunale per essere processato e
condannato. Tutto chiaro?» l’agente, perentorio nella
comunicazione, guardò secco Desiderio aspettando una sua
risposta.
Desiderio comprese chiaramente quello che gli era stato riferito,
ma data l’importanza della notizia rimase talmente sorpreso che
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non seppe cosa rispondere.
«Giovane, ha inteso quello che ho appena detto o devo
ripeterlo?» incalzò la guardia.
«Sì» rispose Desiderio, confermando con il movimento della
testa.
«Allora deve firmare questi verbali». La guardia aprì il fascicolo
che teneva in mano e prelevò alcuni fogli che sottopose
all’attenzione di Desiderio.
Desiderio lesse da cima a fondo le poche righe contenute nel
primo verbale, lo fece più volte, perdendosi alla fine anche nel
significato delle parole più semplici. Controllò gli altri e, quando
si accorse che in realtà si trattava di un unico verbale con le
relative copie, in lui si ristabilì un po’ di chiarezza. Fu
semplicemente colto dalla paura, per un istante pensò anche che
avrebbe voluto l’avvocato, ma non disse nulla e con la penna
firmò tutto quello che andava firmato.
L’agente ordinò al collega di andare a prendere il sacco
contenente gli effetti personali di Desiderio. Quando fece
rientro nella stanza con il sacco nero di nylon, lo porse a
Desiderio dicendogli che all’interno avrebbe trovato gli
indumenti che portava al momento dell’arresto, un mazzo di
chiavi, una chiave d’auto con relativo portachiavi, il portafogli
contenente tre banconote da venti euro, delle tessere cartacee,
un bancomat e un cellulare fattogli pervenire dalla moglie
insieme al pacco con la biancheria intima, trattenuto per ovvi
motivi.
Dopo che Desiderio terminò ebbe finito di firmare l’ultima
copia di verbale, la guardia li sistemò all’interno del fascicolo
nello stesso ordine originario.
«Appena tornerà a casa sarà contattato dalla Giudiziaria del
Commissariato, per le notifiche dei provvedimenti che già le ho
esposto. Si presenti con carta d'identità o con un qualsiasi altro
tipo di documento equipollente. Ah, un’ultima cosa, se le è
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possibile contatti il suo avvocato e buona fortuna!».
I due agenti uscirono dalla stanza lasciando Desiderio
meditabondo. Stava contemplando le sue mani. Le guardava
mentre le apriva e le richiudeva senza accusare dolore, senza
accusare alcunché. Aveva appena firmato dei verbali inerenti la
sua scarcerazione quando il pensiero gli scivolò sulle mani, poi
dalle mani all’ictus, come se la sua mente saltasse di palo in
frasca, senza un preciso ordine coerente a un vero stato d’animo.
Sull’ictus finalmente indugiò a lungo, riflettendo su di esso e su
quanto improvviso e inaspettato fosse pervenuto, chissà da dove
poi e con quali intenti, per giunta senza precedenti nella sua
famiglia.
Al di là della porta qualcuno impugnò la maniglia, inclinandosi
verso il basso produsse quel leggero cigolio tipico delle maniglie
che necessitano di un goccio d’olio, dalla soglia si affacciò il
papà di Desiderio.
«Possiamo entrare? Sono con la mamma…».
Desiderio li accolse con un sorriso incerto, temeva la loro
reazione, per di più ancora non li aveva minimamente presi in
considerazione dal momento in cui si era risvegliato in ospedale.
Aveva riflettuto su Adele, sul lavoro, sul racconto di Ida, sulla
rapina, ma mai sui suoi genitori.
Sua madre si avvicinò al letto prendendo la situazione in pugno.
Accarezzò il figlio candidamente sulla fronte poi fece scivolare la
mano sul collo fino a raggiungere la spalla, la carezza terminò
sul bicipite che palpò, constatandone la sua robustezza.
«Come stai Desiderio?» mormorò infine, fermandosi con la
faccia a pochi centimetri da quella del figlio.
Aveva il volto pallido e scavato, reso ancor più magro da quella
barba scura che solitamente portava incolta ma curata, divenuta
ormai lunga e ispida; due occhi grandi, cerulei come quelli di un
neonato allattato al seno della propria madre.
Con un’espressione sconcertata prese a guardarsi attorno,
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mentre sentiva gli occhi puntati dei genitori su di sé, osservava
per l’ennesima volta quella stanza cupa che lo accoglieva ormai
da più di ventiquattro ore. Tutto era rimasto al solito posto,
come se il tempo non potesse avere nessuna influenza sul suo
stato di conservazione, solo quando abbassò lo sguardo ai piedi
del letto e vide sul materasso il sacco nero contenente i suoi
vestiti appena consegnatigli dagli agenti comprese che il tempo
là dentro per quanto potesse essere ingannevole e restio nel
voler lasciare traccia del suo scorrimento, si consumava
ineffabile proprio come nel paesaggio che poteva scorgere oltre
la finestra.
Finalmente trovò il coraggio di alzare lo sguardo, indirizzandolo
verso quello della madre. Pensava a cosa dirle, ma tra le tante
parole che gli balzavano alla mente, sembrava non riuscire a
carpire quelle più consone alla situazione. Fragile, mutevole il
suo umore, destinato a rimanere in balia degli eventi.
La madre viste le difficoltà del figlio, capì che meglio delle
molteplici parole esisteva un unico silenzio carico di
comprensione. Inclinò allora la testa verso quella di Desiderio, lo
baciò sulla fronte, poi si voltò verso il marito e, dopo averlo
preso per mano, si avviarono alla porta. Raggiunta la soglia si
voltarono un’ultima volta a guardare il loro unico e prezioso
erede e uscirono.
54
XVII
Nella notte che stava spingendosi al culmine della sua durata,
Desiderio non era riuscito a chiudere occhio. A breve la sveglia
del suo cellulare avrebbe suonato la nenia tanto disprezzata da
Adele, annunciando il fatidico tempo di agire.
Durante le ore trascorse in solitudine, aveva passato in rassegna
ogni mossa da effettuare, scrupolosamente aveva sfoltito fino ad
azzerare le incertezze e le paure che aleggiavano intorno al suo
piano. Quando finalmente fu sicuro di sé, si alzò dal letto per
disattivare la sveglia ancor prima che suonasse, evitando così
d’infastidire Adele ancora addormentata al suo fianco.
In cucina, mentre l’odore del caffè aveva pervaso tutto
l’ambiente, Desiderio consumò la sua colazione a base di latte e
cereali, poi passò nella stanza da bagno dove iniziò a prepararsi
per l’uscita. Le nove erano ancora lontane, decise quindi di farsi
una doccia. Dopo una breve insaponata, si sottopose a un
risciacquo rigenerante. Prima con un robusto getto d’acqua
cocente, poi rotando la leva del miscelatore dalla parte opposta,
con acqua fredda, ottenendo un effetto lenitivo sul rossore della
pelle. L’alternanza del caldo e del freddo lo risvegliò
prepotentemente dal torpore accumulato durante la notte
insonne. Al termine della doccia scozzese s’infilò l’accappatoio,
si spostò davanti allo specchio appannato dal vapore che
persisteva nell’aria e inspirò a pieni polmoni, dilatando il più
possibile le narici. Trattene il fiato alcuni secondi, poi espirò via
con forza, fino a estirpare l’ultimo alito d’aria calda che aveva
dentro di sé. Ripeté l’operazione altre quattro volte e si sentì
decisamente pronto a proseguire.
Ancora in accappatoio prelevò i vestiti dall’armadio della camera
da letto, facendo sempre attenzione a non svegliare Adele, li
portò in sala e l’indossò dopo essersi completamente asciugato.
Fermo, davanti alla libreria, prese in mano un porta fotografie
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d’argento in cui era custodita una foto in bianco e nero che lo
ritraeva da bambino. La guardò. Aveva circa cinque anni, era
seduto a bordo di un’auto da formula uno a pedali, con uno
sguardo incerto rivolto a chi in quel momento lo stava
immortalando per l’eternità. Forse il fotografo aveva avuto
troppa premura nello scattare, non accorgendosi che il suo
soggetto non aveva assunto ancora quell’aspetto ridanciano di
circostanza. Pensò allora alle foto che lo ritraevano in quel
periodo, tutte così simili tra di loro, sfondo anonimo,
espressione anonima di una vita anonima. Probabilmente anche
al migliore dei fotografi non sarebbe risultato semplice rubare
un sorriso a quel bambino.
Si sorprese nel vedere l’ora riflessa dai diodi rossi della sveglia
elettronica. Erano le otto, ancora troppo presto per uscire. Si
sedette sul divano, prese il telecomando del televisore e lo accese.
Fece un po’ di zapping, quando vide che non c’era nulla
d’interessante lasciò su un canale musicale. Trascorsero alcuni
minuti e si addormentò.
Si svegliò con un sussulto e il cuore in gola per la sensazione di
aver oltrepassato di gran lunga le nove, gettò lo sguardo sulla
sveglia e constatò che questa volta segnava le otto e quarantatré
minuti.
In meno di venti secondi si allacciò le scarpe, s’infilò nella
camera da letto accertandosi che Adele stesse ancora dormendo,
poi tornò di corsa in sala. Indossò la giacca, prese il berretto da
baseball, gli occhiali da sole e uscì di casa.
Durante la corsa sul marciapiede di Via Buranello, riordinò
mentalmente le idee su quello che si apprestava a fare. In realtà
sapeva benissimo che non doveva fare molto, si trattava più che
altro di cogliere di sorpresa e correre senza fermarsi, proprio
come stava facendo in quel momento. Arrivò all’imbocco di
Vico della Catena annaspando faticosamente. Il volto gli si
dipinse di un colorito paonazzo. Sperò in quell’istante di poter
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aspettare a intervenire, ma in fondo, nella penombra, intravide
un uomo che stava avanzando con un sacchetto di nylon in
mano. Si guardò intorno accertandosi che nessun’ altro stesse
dirigendosi dalla loro parte, poi, consapevole di dover agire,
proseguì con passo deciso verso l’uomo.
Quella esigua distanza che li separava, fatta di una manciata di
metri, sembrava non terminare mai. Una lunga marcia,
interminabile anche nella sua mente, che già pregustava il sapore
della rivalsa, di una vittoria nei confronti di quella vita ingiusta.
Scoprì subito con trepidazione che il procedere generato dalla
sua falcata lo avvicinava verso un nuovo mondo al quale non era
mai appartenuto. Era un mondo perfetto, fatto apposta per lui.
Restava l’ultimo metro da percorrere, prima dello scatto
fulmineo. Osservò in faccia Pittaluga. Era assorto nei suoi
pensieri, tanto da non accorgersi della presenza di un’altra forma
di vita all’interno del vico oscuro. Sfruttò proprio quell’attimo di
distrazione, ideale al suo bieco scopo, inquadrò il sacchetto,
tenuto nella mano dall’uomo ignaro del suo futuro più
imminente e si scagliò con la mano tesa, pronta ad agganciare e
a strappare. In pochi secondi comprese che tutto quello che
aveva immaginato su quel banale scippo si stava tramutando in
qualcosa di ben diverso, in qualcosa che non aveva mai osato
prendere in considerazione tanto era semplice da mettere in atto,
tanto era scontata la sua riuscita.
Il sacchetto era bloccato nella mano dell’uomo, come stretto in
una morsa da un’impressionante forza. Come se quella mano,
invece di appartenere a un innocente borghese, appartenesse a
uno scaricatore di porto della darsena di Genova.
Si rese conto della sua ingenuità, era talmente ovvio che avrebbe
opposto resistenza per una tale somma di denaro che gli
risultava pazzesco credere di non aver considerato una simile
eventualità.
Nella lentezza di quel volgersi di pensieri, la reazione esterna di
57
Desiderio fu rapida. Certo della sua stupidità, per non aver
considerato bene tutte le reali e possibili reazioni di Pittaluga,
contrariamente a quanto credeva di aver fatto, la collera si
impadronì di lui. Lasciò la presa, strinse la mano destra in un
pugno e iniziò a colpire ripetutamente il volto dell’uomo, fino a
quando questo non lasciò cadere a terra il sacchetto per
proteggersi dai fendenti che lo investivano. Desiderio raccolse il
sacchetto e si lanciò in una precipitosa fuga, lasciando alle sue
spalle Pittaluga in una maschera di sangue.
Tutto lo sforzo servito fino ad allora rendeva la sua corsa
imballata, la fatica lo stava annientando, sembrava che ogni
passo allungato in avanti, invece di garantirgli la via verso la
salvezza, lo facesse sprofondare a poco a poco in una melma
fangosa porta d’accesso verso un oblio sempre più prossimo.
Giunse quasi al termine del vico, dove la luce regnava
incontrastata e cadde rovinosamente a terra senza più rialzarsi.
58
XVIII
Desiderio, discinto in un luogo indefinito, teneva sul palmo
aperto di una mano un verme. Lo guardava.
“Vorrei essere come te. Uguale nella lunghezza, nel diametro, nel
movimento”.
Fece una pausa, osservandolo più attentamente.
“Come te vorrei ingoiare chilometri e chilometri di terra umida e
fertile, trasportato da un unico istinto di piacevole
sopravvivenza”.
Il molle invertebrato, fermo sulla mano, non accennava alcun
movimento.
“È proprio nella semplicità d’espressione che trasuda la verità e
gli esseri umani, caparbi nel loro continuo sopravvalutarsi, non
riescono neanche a immaginare che tu possa giungere
soddisfatto al termine della tua esistenza, solo perché sei un
verme!”.
Il verme s’impennò nell’aria abbozzando un gesto d’intesa,
come volesse confermare le parole udite.
“Se così fosse la tua vita non avrebbe alcun senso!”.
S’interruppe e, in rigoroso silenzio, scrutò l’orizzonte.
Trascorsero alcuni secondi dopodiché con impeto riprese.
“Invece l’uomo di tanto straordinario cosa fa? Ingoia chilometri
e chilometri di merda spingendosi attraverso un labirinto di
barriere immaginarie, fino a quando indebolito esala l’ultimo
respiro e diviene nutrimento proprio per voi vermi”.
Desiderio s’inginocchiò facendo scivolare sul terriccio argilloso
l’amico, molto meno viscido di tante persone che conosceva, poi,
spostandosi di poco, si tuffò con lui in quel mare solido solo
esteriormente, fatto di terra sciolta e sostanze vegetali.
Appena si riprese dall’insolito pensiero, cercò di anticiparne
l’intendimento sviluppandone uno nuovo, ma colpito da una
folgorazione illuminante ne colse subito il significato e per tale
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motivo prese il cellulare, lo accese, inserì il codice pin, attese
qualche istante affinché tutte le operazioni risultassero accessibili
e compose un numero telefonico.
«… Pronto…».
«Adele…».
«Desiderio…».
Silenzio.
«Perdd… perdonami. Perdonami Adele!».
Silenzio.
«Adele ti amo! Sssono sstato…».
Silenzio.
«Ssono… Un pazzo! Ma ti amooo! Nnon anndare via da casa ti
pp… prego Adele!».
Silenzio.
«Nnon lasciarmi solo, ho bb… bisogno di tte».
Un lungo silenzio.
«Adele… ti prego dimmi qualcosa!».
Silenzio.
«Adele…».
Adele interruppe la comunicazione.
Desiderio sentì subito la necessità di rialzarsi in piedi, raggiunse
claudicando il deambulatore e s’adagiò al suo interno. Poi, come
se quella stanza non contenesse più ossigeno da respirare, si
lanciò in penosa apnea verso la porta, l’aprì e prese una lunga
boccata d’aria. Chiuse gli occhi e sbuffò con veemenza. All’atto
di riposare lo sguardo su ciò che non aveva ancora mai visto,
ebbe la strana sensazione di trovarsi di fronte a una delle due
guardie, un’istantanea che scomparve nell’attimo in cui realizzò
di essere tornato libero.
Davanti a sé vide la porta del bagno, entrò e si chiuse dentro.
Dopo aver espletato il suo bisogno fisiologico uscì fuori. Si
trovava alla fine di un lungo corridoio in cui l’andirivieni
confusionario del personale medico era incessante, il brusio dei
60
loro dialoghi giungeva a lui mitigato dalla distanza che li
separava. Il classico odore d’ospedale era particolarmente
persistente, quasi nauseabondo. Tornò nella stanza, con molta
calma raggiunse la finestra. L’aprì e una brezza d’aria gelida,
tagliente come una lama affilata lo colpì al petto. Si spostò e
permise al vento di penetrare all’interno per rimuovere l’aria
avvizzita, poi richiuse. Andò a letto esausto e nel giro di pochi
minuti si addormentò.
Adele era ferma sulla porta, nel retro della stanza in cui si
trovava Desiderio. Entrò e lo vide disteso sul letto, ancora
addormentato. Lo fissò a lungo, tentando di scorgere in lui un
dannato cambiamento, ma da quell’attento esame non emerse
nulla. Allungò allora una mano sulla sua caviglia, la strinse e la
scosse energicamente fino a quando non riuscì a svegliarlo.
Lo smarrimento iniziale provocato dal brusco risveglio costrinse
Desiderio a strizzare gli occhi più volte per mettere a fuoco la
figura bruna posta al suo fianco e solo quando la scorse in modo
inequivocabile emise un debole sorriso. Lei di rimando rimase
impassibile. Aveva un volto stanco, macerato dal dolore,
sicuramente l’ambasciata di quei giorni non aveva giovato alla
sua gravidanza.
«Nnon andare vvia da ccasa…» spiccicò lui in visibile affanno.
«Perché non dovrei dopo quello che hai fatto?».
«Perché ti amo, perché ssei inn incinta».
«E tu vorresti fare il padre, certo come no!».
«Adele avevamo bbisogno di soldi».
«No, tu avevi bisogno di soldi, tu avevi bisogno di qualcosa in
più e sei sempre stato abbastanza chiaro in questo, ma io come
una stupida ho sempre fatto finta di niente!».
«Di cccosa sstai parlando?».
«Di noi Desiderio. Sto parlando di noi. Hai escogitato questa
assurdità per uscire dalla mia vita, dal nostro mondo che ti
opprime chissà da quanto tempo ormai».
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«Nnon è così! Ti sbagli… Cristo! Ma nnon mmi chiedi
nneaanche come sto!».
«Sei vivo. Ti dovrebbe bastare».
Desiderio scosse la testa sdegnato.
«Non vai in galera?» riprese stizzita Adele.
Desiderio scosse nuovamente la testa assumendo un’espressione
ancor più greve.
«Come sstai?» riprese lui.
«Secondo te?».
«La pancia ssta bbene?».
«Basta Desiderio, non ti dico un bel niente!» scoppiò in lacrime e
prese a colpirlo con degli schiaffi sulla gamba.
«Non ti dico un bel niente… un bel niente! Capito!».
Adele si passò le mani in faccia, poi si voltò di scatto, corse
verso la porta e uscì sbattendola con forza.
62
XIX
«Come sta?».
«Il dottore mi ha detto che va migliorando, lo terranno in
osservazione per un po’ e credo non passerà molto che lo
dimetteranno».
«Già parlano di dimissioni?».
«No Giulio, nessuno ha parlato di dimissioni, è solo una mia
sensazione, visti i termini positivi con cui si è espresso il
dottore».
«Credevo fosse più complicato venirne fuori».
«Lo è infatti, ma dipende anche da come si manifesta e lui
sembrerebbe sia stato fortunato. Dovrà fare della riabilitazione e
poi potrà tornare quello di prima».
«Senza medicine?».
«Dovrà prendere un antitrombotico».
«Per sempre?».
«Credo di sì, ma quello è il meno».
Giulio si allungò con il braccio verso il giaccone, appoggiato sul
bracciolo del divano su cui era seduto, rovistò nel suo interno e
tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ne prese una, la mise in
bocca, poi sempre dal pacchetto prelevò anche l’accendino,
l’accese e con esso accese anche la sigaretta.
Adele teneva ancora la tazza del caffè in mano, era divenuto
freddo ma non aveva smesso di sorseggiarlo.
«Potresti evitare di fumarmi addosso?» disse, guardando il
fratello.
«Scusa, avevo dimenticato». Giulio si alzò dal divano e si diresse
verso la finestra, l’aprì lasciandone solo uno spiraglio dal quale
poteva soffiare il fumo.
«Beh anche tu potresti evitare di bere il caffè!».
Adele posò la tazzina sul piattino sopra il tavolino.
«Hai ragione, ma ne avevo bisogno anche se il solo odore mi
63
disgusta» rispose lei.
«E cosa vi siete detti?».
«Non molto. Mi ha chiesto di non andarmene da casa perché mi
ama».
«È già qualcosa non credi?».
«Tu cosa faresti al suo posto? Non credo abbia altre scelte nelle
sue condizioni se non quella di tornare a casa, con me lì ad
attenderlo».
«Sì, ma cosa gli hai risposto?».
«Praticamente niente. Mi sono messa a piangere e me ne sono
andata».
«Non vi siete detti altro?».
«Mi ha detto che avevamo bisogno di soldi».
«Allora è questo il motivo?».
«Sembrerebbe di sì».
«E tu?».
«Niente, te l’ho detto, ero talmente sconvolta che me ne sono
dovuta andare».
«E adesso?».
«Non ho idea. Devo metabolizzare il tutto, poi prenderò una
decisione. Pensavo di lasciarlo per un periodo di tempo, magari
fino a quando non si rimette. Lo so che è una cosa vile, ma tanto
lo aiuteranno i suoi genitori».
«Hai parlato con loro?».
«Sì».
«E cosa ti hanno detto?».
«Anche loro sono completamente smarriti. Non sanno darsi una
risposta per quello che è successo».
«Per i soldi. Se lo dice lui!».
«Sì, ma quando sono andati a trovarlo non hanno parlato un
granché. Tutti troppo a disagio e poi credo che con loro
Desiderio non tirerebbe mai fuori l’argomento soldi».
«Perché?».
64
«Perché lui è fatto così! Guarda cosa ha fatto pur di non
chiedere!».
Giulio scosse la sigaretta e fece cadere la cenere fuori dalla
finestra. «Non lo facevo così orgoglioso» disse. Per un attimo si
guardò attorno, poi riposò lo sguardo sulla sorella.
«Allora resti qua da papà e mamma?».
Adele annuì.
«Fai bene, adesso che sei incinta non puoi restare sola in casa
tua».
Restarono in silenzio alcuni minuti. Giulio fumava.
«In azienda credi che se lo riprenderanno?» proseguì lui.
«Non ho idea di come si comporteranno, però potrebbero
licenziarlo in tronco».
«Si è già fatto sentire qualcuno?».
«Quella mattina mi chiamarono per avere sue notizie, visto che
ancora non si era presentato al lavoro e non riuscivano a
rintracciarlo al cellulare, ma io non sapevo niente ancora e dissi
soltanto che probabilmente si trattava di un ritardo dovuto al
traffico. Poi, quando mi hanno avvisato dall’ospedale, li ho
chiamati e gli ho raccontato del ricovero».
«Non dell’arresto?».
«No, ancora non sapevo niente, dopo in ospedale ho saputo
dell’arresto».
«Quindi ancora loro non sanno niente?».
«Di sicuro non da me, ma credo che le autorità provvederanno
in merito».
«Così potrebbe trovarsi anche senza lavoro, ci hai pensato?».
«Sì e non è proprio il momento migliore direi».
Giulio espirò l’ultima boccata di fumo, richiuse la finestra e
spense la sigaretta in un portacenere sul tavolino, poi si rimise a
sedere sul divano accanto alla sorella.
«Giulio, ho paura che i soldi abbiano un’ importanza marginale
in quello che ha fatto».
65
«Lui non dice questo».
«È in una posizione scomoda te l’ho detto, non può dire molto
o semplicemente ancora non ha trovato il coraggio per farlo.
Credo sia stato sospinto da un insieme di motivazioni».
«Quali? Ti sarai fatta un’idea…».
«In tutta sincerità no, so soltanto che ultimamente era strano».
«Ci credo, chissà da quanto tempo rimuginava su questa pazzia!».
«Desiderio è una persona malinconica, ma questo non mi ha mai
preoccupato perché lo è sempre stato e fondamentalmente lo
sono anch’io. In fin dei conti ho sempre ritenuto fosse una
peculiarità di chi è sensibile e poi ho sempre subito il fascino del
tenebroso».
«Ma se ha la macchina verde pisello!» Giulio sbottò in una risata.
«Già e l’adoro, ma quando ci siamo conosciuti ne aveva una
nera» ora rideva anche Adele.
«Sì, sì ricordo bene aveva una Pallas. Certo che i suoi gusti in
fatto di macchine sono proprio discutibili!».
Risero ancora un po’, poi Adele s’incupì nuovamente e con lei
anche Giulio.
«Il fatto è che lo vedevo triste, quando rientrava a casa dal lavoro
era un’anima in pena. Ho provato più d’una volta a chiedergli
cosa diavolo avesse, ma niente. Più lo pungolavo e più si
chiudeva in se stesso e quindi non sono mai venuta a capo di
niente. Ho paura, ho un gran paura Giulio!».
«Cerca di stare tranquilla. Adesso devi solo concentrarti su te
stessa, altrimenti finirai per fare un torto alla piccola in grembo».
«Sì, ma se mi lascia! Se non mi ama più! Cosa devo fare Giulio?».
Erano ancora seduti a fianco, mentre Adele piangeva, Giulio
pensava a una risposta rincuorante, ma non la trovò. Riuscì solo
a pensare che se solo avesse potuto, avrebbe invertito le parti,
allontanando sua sorella da quella pioggia di lacrime amare.
66
XX
Complessivamente, furono ventisei i giorni trascorsi da
Desiderio nell’ospedale. Un’eternità consumata in completa
solitudine. Escludendo le visite ricevute all’inizio della sua
degenza, solo l’avvocato era riuscito a incontrarlo la settimana
dopo il giorno del ricovero, per dei chiarimenti inerenti la sua
situazione penale. Durante il resto della permanenza aveva
invece di fatto rifiutato d’incontrare qualsiasi visitatore che si
presentasse, impedendo in più circostanze l’accesso anche ai
genitori e concedendo unicamente qualche telefonata per
rassicurare sulle sue condizioni.
L’intervallo vissuto in quelle quattro mura lo tuffò in un
processo d’estraniazione dalla vita esterna che non aveva mai
sperimentato, alla fine della quale comprese che stare lontano da
tutti fosse l’unica panacea contro la difficoltosa realtà che lo
attendeva una volta tornato fuori.
Quei giorni furono tutti simili tra di loro, differenziandosi solo
nei miglioramenti delle condizioni fisiche che lui stesso poteva
osservare nella sua persona, ottenuti sia per il semplice decorrere
del tempo, in grado di rimarginare qualsiasi ferita, che per
l’intensa attività fisioterapica cominciata dieci giorni dopo l’ictus.
Gli unici diversivi di cui aveva potuto disporre furono le
conversazioni con Ida, divenuta la sola persona in grado di
penetrare quel vuoto che proteggeva Desiderio dalla realtà e
l’ascolto di tutta la musica rock con il suo mp3, portatogli dai
genitori, senza il quale lui non poteva vivere.
Desiderio lasciò l’ospedale il mattino del ventidue marzo a
bordo di un taxi e anche in quella circostanza preferì essere solo.
Prima di andarsene però salutò Ida. La ringraziò infinite volte
per essersi presa cura di lui e dopo averle chiesto il numero del
cellulare e l’indirizzo di casa, le assicurò che di tanto in tanto
sarebbe andato a trovarla. Ida ripagò l’affetto ricevuto con un
67
solido abbraccio, sussurrandogli confidenzialmente in un
orecchio che sarebbe stato sempre il benvenuto.
68
XXI
Nell’inoltrato secondo giorno di primavera, Genova era
riscaldata da un sole tiepido. Desiderio la guardava incuriosito
attraverso il finestrino del taxi. Il traffico era scorrevole, la gente
che vedeva a bordo delle altre auto o che camminava per strada
appariva sorprendentemente serena.
Un giorno, uno dei tanti vecchi che abitava nel suo palazzo gli
aveva parlato delle fiere origini del popolo genovese, armatori e
bancari abituati a comandare, gente che sapeva il fatto suo. Poi
arrivarono le guerre e i debiti derivanti dalle stesse guerre. Tutto
a poco a poco cambiò. Gli armatori rimasero dei miseri figuranti
nei loro stessi imperi, obbligati a lasciare la stanza dei bottoni a
stranieri che nulla sapevano di quell’antico mestiere. Le banche
costrette a chiudere vennero sostituite anch’esse da società estere.
Fino ad arrivare a oggi, dove non esistono più o quasi, floride
imprese genovesi e dove tutto è in mano agli altri. Nel decorso
di quegli stessi anni il popolo genovese aveva tramutato l’umore.
Da solare, tipico di chi subisce gli effetti benefici della vicinanza
al mare, a ombroso. Il vecchio disse che probabilmente era
proprio in virtù della vicinanza al mare che il popolo genovese
soffriva. Ogni volta che lanciava uno sguardo verso l’immensa
distesa blu ricordava i fasti di un tempo, della Repubblica
Marinara madre di Cristoforo Colombo, scopritore di nuovi
mondi e di tutte le ricchezze che non possedeva più e
sopraffatto da quel pensiero negativo, mugugnava. Desiderio si
mostrò contrariato a quell’assurda teoria e disse al vecchio che
per un genovese il mare era un elemento necessario alla
sopravvivenza e gli ricordò come la sua assenza si faceva
martellante ogni volta che si tentava di allontanarsi da esso.
Il vecchio sul momento non ebbe da replicare, ma congedandosi
mugugnò qualcosa d’incomprensibile scuotendo la testa in segno
di disapprovazione.
69
Il taxi giunse a destinazione. Desiderio pagò la corsa e scese
dall’auto. Era davanti al portone d’ingresso del civico numero 6
di via Buranello. Entrò e svoltò verso la scala destra. L’ascensore
era al sesto piano, il tempo che avrebbe dovuto attendere
affinché scendesse e risalisse fino al terzo ammontava a due
minuti, tempo addietro lo aveva cronometrato. Più che un
ascensore pareva un montacarichi, infinitamente lento. Salì a
piedi, sperando che il suo fisico reagisse bene allo sforzo. Come
ogni martedì il pozzo scale aveva l’aria irrespirabile, satura di
uno sgradevole odore di minestrone. Quando varcò la soglia
l’appartamento era al buio, fu l’immediata conferma che Adele
non era in casa. Aprì le persiane, senza ottenere un grande
risultato, vista la pessima esposizione delle stesse nei confronti
del sole, poi accese la luce in sala, prese il telefono e si buttò sul
divano. Telefonò prima al cellulare di Adele, che trovò spento.
Lasciò quindi un messaggio sulla segreteria telefonica,
annunciando il suo ritorno a casa, poi telefonò a casa dei suoi
genitori. Rispose il padre. Felice nel risentirlo, disse che sarebbe
subito passato a prenderlo, ma Desiderio fu di diverso avviso e
lo invitò a restarsene tranquillamente a casa, esortandolo a non
preoccuparsi, perché stava meglio. Concluse la telefonata
assicurandogli che si sarebbe fatto vivo lui nel giro di qualche
giorno.
Erano le undici e trenta e la signora Lavinia, al piano superiore,
iniziò il suo spettacolo quotidiano. Calpestando il pavimento con
un paio di scarpe in cuoio, spolverava, spazzava e sbatteva
mobili a destra e a manca cantando a squarciagola una canzone
famosa.
«Aaancoraaa! Aaancoraaa! Aaancoraaa!» gridava.
Inneggiando a un plurimo orgasmo consecutivo con una tale
rabbia da far accapponare la pelle. Aveva circa sessant’anni, era
vedova, sola e probabilmente quegli orgasmi, a cui ambiva con
tanto clamore, sarebbero rimasti per sfortuna di tutti i
70
condomini, un lontano miraggio. Per coprire le urla di quella
pazza, Desiderio accese il suo impianto hi-fi da milleseicento
euro, pagato ovviamente in comode rate mensili. Premette il
tasto play e senza sapere quale fosse il cd contenuto al suo
interno, la musica partì.
“The world is a vampire!”.
L’opzione random che teneva sempre inserito scelse il sesto
brano del cd.
Billy Corgan, cantante degli “Smashing Pumpkins”, con la sola
voce ingoiò l’assolo della signora Lavinia.
“Sent to drain!”.
Le potenti chitarre decollarono in sostegno del cantante dando
vita a un pezzo rock di rara magnificenza.
Desiderio, sicuro di aver coperto definitivamente i molesti
rumori provenienti dal piano superiore, iniziò a ispezionare
l’appartamento. Osservando le stanze vuote, immaginò Adele
mentre scappava via in fretta, lasciando tutto in disordine dopo
aver stipato i vestiti in due enormi valigie. L’appartamento
manifestava effettivamente uno stato di noncuranza dovuto agli
svariati giorni d’abbandono, ma il dettaglio più avvilente fu il
ritrovamento dei rubinetti del gas e dell’acqua chiusi, una
precauzione che veniva adottata solo quando si allontanavano
per alcuni giorni ed era alquanto esplicativa riguardo le sue
intenzioni.
Billy Corgan intanto stava ancora cantando Bullet with butterfly
wings e dopo l’ingresso in assolo, arrivò al ritornello.
“Despite all my rage I am still just a rat in a cage”.
Nonostante avesse perso elasticità nel tradurre al volo i testi
delle canzoni che un tempo conosceva a memoria, quelle parole
s’introdussero in maniera cristallina nella sua mente. Scorrevano
una dopo l’altra, come titoli di coda al termine di un
documentario televisivo, composte da lettere a caratteri cubitali e
tutte incredibilmente tradotte in lingua italiana.
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“MALGRADO TUTTA LA MIA RABBIA SONO SOLO UN
TOPO IN GABBIA”.
Billy Corgan sbraitava come un indemoniato, le sue parole
ruggenti, parlavano chiaro, fin troppo e Desiderio le sentiva sue.
Erano state scritte e cantate negli anni novanta, per gli anni
novanta, probabilmente senza sapere che sarebbero rimaste
attuali anche a inizio secolo e oltre. Billy Corgan iniziava la sua
Razzo con ali di farfalla con un’affermazione.
Il mondo è un vampiro mandato per dissanguare.
Si riferiva sicuramente a un mondo plasmato dall’uomo che pare
dalle infinite opportunità e che invece si rivela sempre a senso
unico. Un mondo che quando tenti di capirlo ne esci
inevitabilmente sconfitto. Un mondo che ti costringe in una
gabbia. Conclusa l’analisi del testo della canzone, Desiderio fu
investito da una vampata di disperazione che subì in silenzio,
senza lottare.
72
XXII
«In mezzo al futuro non ci sta niente!».
Beppe esclamò d’improvviso, sbattendo una mano sul tavolo.
Gli avventori nel locale si girarono tutti a guardarlo, ma lui,
come se non avesse cognizione di tempo e di luogo, continuò a
sbraitare.
«Se sei felice devi esserlo adesso e non tra mezz’ora o tra cinque
anni!».
«Beppe, ma che cazzo dici! Stavamo parlando d’altro!».
«Ah...! sì giusto».
«Giusto? Ma sei fuori! Siamo a berci una birra in un pub, lo vedi
anche tu vero?».
«Sì, mi sono distratto un attimo, scusa. È che ultimamente ci
penso un po’ più spesso del solito».
«Quanto più spesso?».
«Non saprei... spesso».
«Spesso quanto? Tre, quattro volte al giorno, ogni ora o
mezz’ora. Quanto?».
Giulio distolse lo sguardo da Beppe per guardare l’ora al polso,
erano le ventidue e tra non molto sarebbero andati al lavoro.
«Allora quanto?» riprese Giulio.
«Spesso, sempre. Non faccio altro che pensarci. In ogni minuto,
in ogni istante della mia fottutissima esistenza penso, mi chiedo
se sono felice. Non riesco più a riposare, quando torno a casa,
dopo lavoro, sono esausto. Mi getto sul letto ubriaco di sonno e
stanchezza, ma non dormo e mi domando, sei felice? Sei felice?
Sei felice? Sotto la pesantezza delle coperte sudo per il caldo,
allora mi scopro, prendo freddo e tremo come una foglia. Mi
ricopro e sudo e così via, senza dormire, con quella domanda
che mi perfora il cervello. Sto male Giulio, sto male!» Beppe
appoggiò i gomiti sul tavolo e infilò la testa appesantita dal
dolore placidamente esternato tra le mani unite a V.
73
«Non puoi andare avanti così. Non vorrei urtare la tua sensibilità,
ma credo sia giunto il momento che tu vada a parlare con
qualcuno» riprese Giulio dopo un breve silenzio.
«Pensi sia arrivato al capolinea?».
«Solo tu puoi sapere dove sei arrivato».
«Come fosse facile saperlo! Tu piuttosto lo sai dove sei
arrivato?».
«Io sto andando».
«Ah sì! E dove?».
«Dove, dove… vivo alla giornata Beppe, non sono mai stato
bravo a fare programmi per il futuro, però sto bene. Spero di
trovare una persona con cui condividere felicemente il resto dei
miei giorni».
«Puttanate! Non esiste nessun rapporto felice!».
«Cosa ne sai delle unioni e dell’amore se non hai mai avuto una
fidanzata? Sei un disfattista! Ecco cosa sei e ti ripeto per
l’ennesima volta, ti piace soffrire! Ti fa comodo soffrire perché
così hai una scusa per non affrontare la vita».
«Puttanate!».
«Non sono puttanate, stai male e sei cosciente di questo
malessere che ti porti dentro, quindi fai qualcosa!».
Giulio dette una sorsata alla pinta, poi la riposò sul tavolo.
«Fai qualcosa» ribadì guardando Beppe negli occhi, che nel
frattempo si era rilassato nuovamente contro lo schienale della
sedia.
«Desiderio?» disse Beppe dopo un po’.
«È tornato a casa».
«Come sta?».
«Credo bene, ma nessuno l’ha visto o meglio Adele ancora non
vuole vederlo».
«Loro non sono felici».
«Bravo. Ti senti meglio ora che hai scoperto l’acqua calda?».
«Scusa non volevo».
74
«Sei un caso patologico».
«Ti ho chiesto scusa».
«Dài andiamo, si sta facendo tardi» disse Giulio.
Entrambi finirono la birra e si allontanarono verso l’uscita.
Arrivati alla porta, Beppe si girò verso il bancone e rivolgendosi
alla cameriera indaffarata urlò. «Sei felice?».
La ragazza, con l’indice rivolto verso di sé, chiese se stesse
parlando con lei.
Beppe allora gridò nuovamente: «Sei felice?».
Lei di rimando lo mandò letteralmente a fanculo.
75
XXIII
Desiderio uscì dall’appartamento. Quando si ritrovò a
costeggiare la lunga linea orizzontale di cassette postali in
prossimità del portone d’ingresso, vide che la sua conteneva una
cartolina bianca. La prelevò e ne lesse il contenuto. Si trattava di
un invito a presentarsi urgentemente presso il Commissariato di
Cornigliano innanzi l’Ispettore Capo Luciano Barbieri della
Divisione Anticrimine. Dopo averla riposta nella tasca della
giacca, andò fuori. Era il mattino seguente il ritorno
dall’ospedale e doveva chiarire la sua posizione con alcune
persone. In base al suo criterio di priorità, l’Ispettore di Polizia
veniva per ultimo.
Sotto il cielo azzurro via Buranello era ravvivata da un vivace
corteo di manifestanti che stava dirigendosi verso piazza
Vittorio Veneto. Erano circa un centinaio, scortati da due volanti
e una camionetta della Polizia. Nell’insieme sembravano pacifici,
alcuni di loro alzavano al cielo cartelli e striscioni di protesta con
le frasi: “BASTA ALLA VIOLENZA” e “VOGLIAMO UN
QUARTIERE PIU' SICURO”, altri fischiavano, con il solo
intento di attirare l’attenzione degli estranei al corteo. Tutto
questo si svolgeva mentre il loro leader urlava al megafono una
lunga lista di “Non ne possiamo più”, facendo riferimento a una
serie di episodi criminosi avvenuti negli ultimi tempi nel
quartiere di Sampierdarena. Al megafono fu menzionata anche
la rapina di Desiderio. Descritta nei minimi dettagli, fu messa in
risalto la brutalità con cui era stata eseguita. Incisivo nella sua
esternazione, l’uomo lo definì come una bestia feroce, un
criminale socialmente pericoloso al di fuori di ogni controllo.
Processato nella pubblica piazza, come accadeva nel Medioevo,
Desiderio rallentò bruscamente il passo, aspettò che sfilasse il
corteo fino al passaggio della camionetta della Polizia, tenendo
la testa bassa per la paura improvvisa di essere riconosciuto. Poi
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oltrepassò la strada gettandosi sotto un tunnel del passante
ferroviario che portava in piazza Tre Ponti. Ormai distante dal
corteo, si sentì al sicuro. Pensò se effettivamente avesse corso il
rischio di essere riconosciuto, ma non seppe darsi una risposta.
Sapeva che dopo il fatto erano usciti numerosi articoli con i suoi
dati anagrafici, ma non sapeva se gli stessi articoli fossero stati
accompagnati da una sua foto. Ci rimuginò sopra per alcuni
minuti, poi si disse che era impossibile. Che nessuno poteva aver
distribuito la sua foto, nemmeno la Polizia, visto che non era
stato foto segnalato.
Desiderio non si sentiva abbastanza in forza per guidare l’auto,
così prese il 12 alla fermata di via Cantore. Raggiunse la casa dei
suoceri in via G.B. Monti e suonò il campanello. Rispose il padre
di Adele il quale, piuttosto imbarazzato, lo informò che sua figlia
era fuori con la madre. Da quella voce incerta, impreparata nel
dire un’inaspettata bugia, Desiderio capì subito che Adele era in
casa. Pensò anche che, per quanto potesse essere indignata,
doveva comunque dargli un’altra possibilità, ma non replicò,
ringraziò cortesemente e si allontanò. Amareggiato da tale
atteggiamento, prese di nuovo l’autobus e andò alla “Sicur-Tex”.
La fermata era a pochi passi dalle sbarre poste all’ingresso del
parcheggio prospiciente la fabbrica. Raggiunte le sbarre, salutò il
guardiano ed entrò. Le auto dei dipendenti riempivano tutti gli
spazzi demarcati dalle strisce bianche, erano tante e rosolavano
sotto il sole. Attraversò il parcheggio fino a raggiungere il
portone d’ingresso. Esitò un attimo, poi si fece coraggio. Nei
meandri della direzione, sotto gli sguardi indiscreti degli
impiegati, iniziò un incessante scimmiottare alle sue spalle che lo
resero più nervoso di quanto si aspettasse. Procedendo per la
sua strada, giunse fino a una porta, bussò e attese una risposta.
«Avanti!».
Desiderio entrò.
«Buongiorno, sono Desiderio Ottonello e vorrei parlare con il
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dottor Capurro, se è possibile».
Desiderio fu squadrato da capo ai piedi.
«Certo, attenda un attimo».
La segretaria prese la cornetta del telefono e digitò un tasto.
«Dottore c’è il signor Ottonello… sì, lo faccio entrare subito».
Era la prima volta che entrava nella tana del lupo. Il lupo. Lo
chiamavano così per la sua fame di potere. Era un pezzo d’uomo
di un metro e novanta, sulla cinquantina. Sempre elegante nel
vestire, ma non negli atteggiamenti. Tutti lo chiamavano dottore,
ma non era laureato, tantomeno diplomato. Si era fatto da sé e a
soli quarant’anni ricopriva già la carica di amministratore
delegato. Attualmente guadagnava circa un milione di euro
l’anno e se poteva non perdeva mai l’occasione per farlo pesare.
La sua foto drappeggiava in ogni ambiente, come quella di un
presidente di Stato nel Parlamento, ritratto a mezzo busto in
abito blu scuro, ma con un’aria più severa e determinata. Non
era noto come, ma nella foto era riuscito ad assumere lo stesso
sguardo che aveva la Gioconda nel ritratto di Leonardo da Vinci,
capace di osservare ovunque. Da buon dittatore quale era, aveva
i suoi scagnozzi-spia, pagati oltre che per lavorare anche per
mettere disordine generale tra i rapporti dei dipendenti. Secondo
la sua politica, la frammentazione del personale in tanti piccoli
gruppi assicurava più facilità gestionale rispetto a un unico
raggruppamento compatto. Sapeva tutto di tutti ed era abile nel
condire l’enorme insalatiera di profonde ingiustizie.
Preceduto dalla segretaria, Desiderio era entrato nell’ufficio.
Questa lo presentò, poi, con il petto in fuori e la schiena ben
eretta, fece un dietro front marziale e se ne uscì.
«Che fica!».
Il dottor Capurro era in piedi davanti alla scrivania, con lo
sguardo puntato verso la porta da dove era appena uscita la
segretaria.
«La Simonetta è proprio una gran fica, che ne pensi Ottonello?».
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Desiderio, preso in contropiede non seppe cosa rispondere e
abbozzò un timido sorriso.
«Al colloquio d’assunzione non seppe dire un cazzo. Le dissi
però che se fosse stata disposta a seguirmi ovunque il lavoro mi
portasse e non avesse avuto nessun tipo di problema a indossare
gonne sopra il ginocchio e tacchi alti, l’avrei subito presa con me.
Ed eccola là! Pronta a eseguire ogni mio ordine, senza batter
ciglio. È il sogno di ogni uomo no? Avere una segretaria fica!».
Fece il giro della scrivania e si sedette.
«Siedi Ottonello, prego».
Desiderio avanzò di tre passi e si sedette anche lui su una delle
due poltrone sistemate davanti alla scrivania.
«Allora… cosa hai combinato eh?» disse Capurro con aria
maliziosa.
«Quello che ha sentito dire in giro, suppongo».
«E ne è valsa la pena?».
«Sembrerebbe proprio di no».
«Ho sentito che ci sei andato giù pesante con quello là!».
Desiderio scosse lievemente la testa e allargò le braccia facendo
il gesto di chi non conosce la risposta.
«Cosa hai provato nel compiere un azione simile?» continuò
Capurro.
«Non sono venuto a parlare di questo» rispose Desiderio,
mostrandosi turbato per la domanda troppo impertinente.
«Ah no? E di cosa sei venuto a parlare… di lavoro?».
«Certamente non di quello che ho fatto fuori dal lavoro».
«Però i giornalisti non hanno avuto scrupoli a parlare di te in
qualità di dipendente della “Sicur-Tex” e spero tu riesca a
comprendere che non è stata una gran pubblicità! Quindi se
permetti, tutta questa storia, mi riguarda eccome!».
Desiderio rimase in silenzio fissando Capurro.
«Allora, cosa hai provato a colpire quel poveretto in faccia? E
dopo? Dopo averlo fatto, cosa hai provato?».
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«Non lo so».
«Non lo sai? Mi vuoi dire che non hai avuto tempo di pensarci?
È praticamente impossibile Ottonello!».
«Rabbia!» sbottò Desiderio.
«Solo rabbia?».
«Solo rabbia».
«E adesso? Adesso cosa provi?».
«Voglia di rifarlo. Di rifarlo meglio. Di rifarlo a più persone.
Vorrei farlo anche a lei!».
«Vorresti pestarmi in questo momento?».
Desiderio prima di rispondere, rimase interdetto alcuni istanti.
Era talmente forte l’emozione che stava provando per quella
verità esplosa fuori d’improvviso, senza paura di ripercussioni,
da non credere fosse stato lui a parlare. Poi, con estrema
tranquillità, si lasciò andare completamente.
«Non può immaginarsi quanto!».
«E perché non lo fai?».
«Perché sarebbe uno sfogo liberatorio fine a se stesso. Non
procurerebbe alcun cambiamento positivo alla mia vita».
«Per quindicimila euro lo faresti però?».
«Non l’ho fatto solo per i soldi. Forse inizialmente, poi mi sono
convinto che stessi facendo la cosa giusta e basta,
indipendentemente dai soldi».
«Perché?».
«Non lo so. Forse per placare la rabbia».
«E da dove nasce tutta questa rabbia?».
«Nasce dall’insicurezza, dalla continua sensazione di aver
sbagliato o il dubbio di non aver preso la decisione giusta. È una
rabbia che mi sta incollata addosso da una vita e che non si
scorda mai di me. È una rabbia divenuta troppo dura da
controllare».
«Sapersi abbandonare alla propria rabbia è utile, spesso
determinante per avere successo nella vita. Guarda me per
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esempio, saprai come mi chiamano nell’ambiente? Eppure ti
posso assicurare che mi aiuta, anzi mi aiuta molto. Meglio essere
temuti che rispettati! Fidati!».
Desiderio non obiettò. Dopo alcuni secondi, alzò una gamba e
l’accavallò sopra l’altra, sistemandosi più comodamente sulla
poltrona.
«Nessuno si è interessato a te qua dentro» continuò Capurro.
«Beh… non ho mai leccato il culo a nessuno io» replicò
Desiderio.
«E forse, cosa ancor più grave, non ti sei mai iscritto a un
sindacato» rispose Capurro accennando un sorriso.
«Non credevo che un giorno potesse tornarmi utile».
«Non ho detto questo» disse scuotendo la testa.
«Può tornarti utile la rabbia, non il sindacato. Certo… sempre se
saputa controllare».
«Ma a chi può tornare utile la mia rabbia, a me o a lei?».
«Sei un ragazzo sveglio. Vedi, il fatto è che non solo non
interessi a nessuno, ma indirettamente ci sono dei personaggi
che stanno spingendo per ottenere al più presto il tuo
licenziamento. Sai a chi mi riferisco vero?».
«Ai sindacalisti?».
«Bravo, vedo che hai capito benissimo. Hai la fortuna, forse in
questo caso sfortuna, di ricoprire un posto ambitissimo
all’interno dell’azienda e ti vogliono fare le scarpe. Perché dovrà
essere assegnato a un altro, più accondiscendente nei loro
confronti e molto meno nei miei. È come in una partita a
scacchi in poche parole, muovono i loro alfieri contro il re».
«E io cosa c’entro in tutto questo?» disse Desiderio.
«Sarai un dispetto bello e buono per quei rompi coglioni.
Resterai al tuo posto e se farai come ti dico, quando si saranno
calmate le acque, ti ritroverai a dirigere qualche reparto
dell’ufficio personale, a controllare proprio quei rompi coglioni
che non ti vogliono più, ovviamente sempre a mia disposizione».
81
«Sarà un inferno per me».
«Lo è già da molto, mi par di capire. Comunque, dalla tua hai la
rabbia no? Non è da tutti e poi sai difenderti, anche troppo!».
«Credevo mi avrebbe licenziato».
«Sei troppo negativo. Poi ricordati che sto solo ribaltando questa
situazione a mio favore».
82
XXIV
Adele e sua madre fecero ritorno a casa. Suo padre stava
piangendo in cucina mentre tritava con la mezzaluna una cipolla
per il soffritto del ragù.
«Papà ha telefonato qualcuno?» disse Adele dalla sala.
«È passato Desiderio!» gridò, asciugandosi gli occhi con il dorso
della mano.
«Quando?» disse dalla soglia della cucina, raggiunta con una
corsa.
«Una mezzoretta fa».
«E l’hai fatto salire?» chiese preoccupata.
«No, gli ho detto che eri fuori con la mamma».
«E lui?».
«Penso non mi abbia creduto, l’ho sentito un po’ sconsolato.
Comunque mi ha ringraziato e se n’è andato».
«Dove?».
«E cosa ne so io Adele! Non mi ha detto nient’altro».
Adele guardò suo padre con gli occhi neri come due olive, gli si
avvicinò e bloccò le sue mani che stavano lavorando ancora sulla
cipolla.
«Che faccio?» chiese, stringendosi la testa sulle spalle come un
gattino indifeso.
Lui si fermò, prese il tagliere su cui era cosparsa la cipolla e
aiutandosi con la mezzaluna, la versò nel tegame al fuoco, su cui
si stava già scaldando l’olio. Ripose il tagliere sul tavolo, prese il
mestolo di legno e girò la cipolla nel tegame, dopodiché mise via
il mestolo e alzò leggermente la fiamma. Solo allora rivolse
l’attenzione alla figlia e le disse semplicemente di non saperlo.
83
XXV
Tre.
Quattro.
Cinque.
Desiderio contava le deiezioni dei cani che incontrava durante il
suo cammino.
“Che posto di merda è diventato!” si disse quando giunse alla
fermata dell’autobus.
Dopo otto minuti, come indicato sul monitor dell’AMT, giunse
il 7 che lo riportò a Sampierdarena. Era sufficientemente
tranquillo visto l’esito del tutto inaspettato dell’incontro avuto
con Capurro, perciò decise di tornare dai suoceri per un nuovo
tentativo di riconciliazione con Adele.
Undici.
Dodici.
Tredici.
Questo fu il numero di merde contate da quando era sceso
dall’autobus, fino all’abitazione.
Tredici merde -un numero fortunato!-.
Suonò il campanello. Rispose Adele.
«Dài vieni su!».
Appena Adele vide uscire Desiderio dall’ascensore crollò in una
disperazione incontenibile. Si chinò su se stessa abbracciando il
pancione come volesse proteggerlo da un’imminente caduta.
Poi allungò una mano sul muro e tastandolo, raggiunse il
corrimano su cui si tenne aggrappata fino a quando non lo
lasciò per abbandonarsi su un gradino delle scale. Da seduta
piangeva, le colava il naso e non faceva nulla per ripulirsi.
Vederla in quello stato fu una sofferenza anche per Desiderio, si
trovava al cospetto di quella povera creatura senza scusanti. Le si
avvicinò cautamente e le passò una mano tra i capelli, decidendo
in quell’istante di essere tenero, come non lo era stato mai.
84
Mentre le accarezzava la testa disse di amarla profondamente e
che niente era perduto. Le ricordò i giorni felici trascorsi assieme
da quando avevano deciso di convivere e i momenti difficili che
con estrema semplicità erano riusciti a superare. Adele però
continuava a piangere. Le raccontò allora dell’incontro con
Capurro, notoriamente un bastardo ma che in quella circostanza
si era rivelato tutt’altro. Le raccontò come si era svolto il
colloquio, di come si era presentato incerto con la paura di
essere licenziato e di come invece non solo aveva mantenuto
l’impiego, ma che con molta probabilità in breve tempo avrebbe
ricevuto una promozione. Continuando, le disse ancora che
dovevano accettare con serenità l’epilogo dal risvolto positivo
della vicenda, che a rafforzare questa serenità si aggiungeva il
fatto che grazie all’ictus, dal quale ne era uscito praticamente
indenne, non aveva varcato la soglia del carcere, cosa che
probabilmente, a dire dell’avvocato, non avrebbe dovuto fare
neanche in futuro considerato che era senza precedenti penali.
Le disse che il destino non era stato poi così maligno e che anzi
si ritrovavano in una posizione decisamente migliore rispetto alla
precedente.
Desiderio, fiero del suo lungo soliloquio, attese una risposta. Si
guardarono in faccia e per un istante Adele smise di piangere,
poi però, dopo essere ripiombata nello smarrimento più totale,
riprese a farlo nuovamente, più forte, più intensamente di prima.
Adesso piangeva e urlava nel pozzo scala che faceva da cassa di
risonanza e tutti, ma proprio tutti, poterono udire quello che
finalmente aveva da dire. Udirono una sola cosa, che Desiderio
era una grandissima testa di cazzo.
85
XXVI
Tornando a casa, Desiderio canalizzò l’attenzione unicamente
sul numero di deiezioni incontrate lungo il cammino. Terminò la
conta solo quando si ritrovò sotto il portico del palazzo e in quel
preciso istante la sua mente si mosse verso una strana
considerazione. Tutte le merde confluivano in quella via e quindi
viveva esattamente nell’epicentro di un enorme merdaio. In
quell’universo composto di soli escrementi stratificati tra di loro,
lui era semplicemente una merda qualsiasi, di specie umana,
forse la peggiore.
Era l’una passata e il suo stomaco brontolava per la fame.
Guardò tra gli scaffali, alla ricerca di qualcosa di commestibile,
ma la cucina non aveva molto da elargire, trovò degli spaghetti e
null’altro. Dopo mangiato si promise che appena possibile
sarebbe sceso a fare la spesa.
Erano le due, mentre girava per la camera da letto, trovò sul
ripiano del comodino la prescrizione medica che aveva riportato
dall’ospedale. Indicava la fisioterapia da fare presso un centro
convenzionato ASL e i farmaci da assumere. La ripose sul
comodino senza che esprimesse alcun pensiero in merito e andò
in sala. Prese il telefono e digitò sulla tastiera il numero di un
cellulare.
«Buliccio!».
«Cristo! Ma sei tu?».
«E chi sennò!».
«Come stai cazzo!».
«Sto…».
«Oh merda, però potevi farmi entrare in ospedale?».
«Non ero in vena».
«Beh posso immaginare, fa niente. Sei a casa buliccione?».
«Sì, che fai, passi?».
«C’è anche Adele?».
86
«No, sono solo».
«Ok, dammi mezz’ora e arrivo. Ciao buliccione!».
«T’aspetto, ma non fare il solito che arrivi tra due ore!».
«No, no, arrivo subito. Ciao!».
«Ciao!».
Erano le quattro, Desiderio sentì bussare alla porta e andò ad
aprire. Elia lo stava aspettando a braccia aperte. Quando furono
uno di fronte all’altro, si fece avanti e si abbracciarono.
«Arrivo subito eh?» disse Desiderio con sarcasmo.
«Hai ragione, ma non avevo più da fumare e allora ho fatto un
salto nei caruggi».
Terminarono la loro manifestazione d’affetto per guardarsi
nuovamente in faccia, studiandosi come due cani che
s’incontrano per la prima volta. Elia aveva l’aspetto di sempre,
trasandato ma ricercato. Rispetto all'ultima volta che si erano
visti era più magro e aveva i capelli più lunghi, leggermente
mossi fin sotto l’orecchio.
«Ti vedo bene!» disse Desiderio.
«Dici?».
«Sì, alla grande! Come stai?».
«Come sempre, Desiderio, come sempre. Tu piuttosto mi vuoi
dire che cazzo ti è successo una volta per tutte?».
«Cosa sai?».
«Non preoccuparti di quello che so io, ora voglio sapere tutto da
te».
«Dài vieni in cucina, ti faccio un caffè».
«No, l’ho già preso prima di venire qua. Però mi giro una canna».
Elia si sedette sul divano, prelevò dalla tasca dei jeans un piccolo
astuccio d’argento, lo aprì e prese un pezzo di hashish. Poi prese
le cartine, l’accendino, il tabacco da una sigaretta e si preparò lo
spinello.
Desiderio iniziò la sua storia, concentrandosi principalmente su
come era arrivato a tanto, trascurando il perché. Fu lento
87
nell’esprimersi, la fatica della mattinata trascorsa si faceva sentire,
ma riuscì ugualmente a inchiodare Elia sulla poltrona per due
ore ininterrotte. Terminò la narrazione proprio con gli ultimi
avvenimenti, l’incontro con Capurro e con Adele.
«Che storia!» sbottò Elia.
«Quando l’ho saputo sono rimasto di sasso e non tanto per il
fatto in se stesso, ma proprio perché in quei giorni mi frullava
per la testa un’idea simile, capisci? Cazzo, ma perché non me ne
hai parlato prima ti avrei aiutato!».
«Già, ultimamente sembra essere diventato un sogno collettivo.
A ogni modo ci sarebbe andata male» rispose Desiderio.
«Magari no!».
«Elia ho avuto un ictus, mi sono risvegliato in ospedale
piantonato dai secondini. Non avremmo avuto nessuna
possibilità, meglio sia finita così, fidati!».
Elia non rispose, si strofinò le mani sui jeans, asciugandole dal
sudore e riprese a rollarsi un altro spinello, il terzo. Quando ebbe
finito, lo mise in bocca e l’accese espirando delle grosse nuvole
di fumo dalla bocca.
«Fammi dare un tiro» disse Desiderio.
«Sicuro che puoi?» rispose con tono allarmato Elia.
«Dammi qua!» Desiderio lo prese e se lo mise in bocca.
Aspirò e subito l’aroma forte dell’hashish gli si imbullonò in gola,
facendolo tossire. Era tanto che non ne fumava uno e aveva
tirato con troppa avidità. Sputò nel portacenere un po’ di saliva,
attese qualche istante e riprovò con più accortezza. Un brivido
lo fece riscuotere sul divano, poi il senso di leggerezza lo avvolse
come una coperta che ripara dal freddo. Gustò quella piacevole
sensazione in silenzio, ricordandosi che da quando conosceva
Elia non avevano mai trascorso un giorno assieme senza fumare.
Sorrise al pensiero. Sorrise anche Elia. Poi pensò alle parole del
dottore prima di lasciare l’ospedale “niente stravizi,
alimentazione sana, fisioterapia almeno per altri due mesi e
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antitrombotico da qui all’eternità”. Aspirò lungamente lo
spinello e chiuse gli occhi, con forza soffiò via il fumo sperando
che l’ictus tornasse a prenderlo per sempre. Riaprì gli occhi
scoprendo di essere sempre nello stesso posto e per la delusione
il sorriso dal suo volto si dissolse nell’aria, mescolandosi con il
fumo.
«L’ictus ti ha fatto male?» disse Elia.
«No. Ma non ricordo nulla, solo un breve tratto della corsa e poi
buio totale».
«E il risveglio?».
«Un incubo. Non muovevo la parte sinistra e avevo difficoltà a
parlare, incredibile, come se mi avessero anestetizzato. Poi con il
tempo mi sono ripreso. In realtà ancora sono lento nei
movimenti, non riesco nemmeno a correre, ma col passare del
tempo mi hanno detto che dovrei tornare come prima».
«A me sembri già a posto».
«Sembro ma non lo sono».
Lo spinello era tornato in mano a Elia, mentre fumava si
guardava intorno.
«Bello l’arredamento, complimenti! L’ultima volta che sono
venuto a trovarti non c’era tutta questa roba».
Desiderio non rispose, il suo pensiero scivolò involontariamente
alle rate da pagare.
«Parliamo un po’ di te invece» disse Desiderio.
«Non ho molto da raccontarti».
«Proprio niente?».
«Niente di paragonabile a te».
«Di questo sono contento, altrimenti chissà dov’eri a quest’ora!».
«In galera».
«Probabilmente».
«I primi di maggio inizio a lavorare, ho già trovato un ristorante
a Santa Margherita. Sostituisco il cuoco, ha avuto un incidente in
moto e non rientra per tutta la stagione estiva».
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«Buono no?».
«Sì, non mi posso lamentare».
«Non t’imbarchi più?».
«Mi fermo per un po’, sono reduce da tredici mesi di
navigazione consecutiva e francamente non ne posso più».
«È così tanto che non ci vediamo?».
«Un anno e mezzo almeno».
«Com’è andata in giro per il mondo?».
«Come le altre volte. Fondamentalmente sto tra patate, cipolle e
fornelli».
«Vabbè, la testa fuori dall’oblò la metterai ogni tanto?».
«Sì, durante l’attracco in porto. Io e il resto dell’equipaggio per
andare nei bordelli».
«Cazzo di vita! Però ti ho sempre invidiato. Hai quel mestiere tra
le mani che ti permette di fare quello che vuoi».
«Quando sono dentro una cucina però mi spacco il culo».
«Sì, lo so. Spero ti possa permettere d’aprire un ristorante il
prima possibile, così farai lavorare gli altri».
«Vedremo!».
Decisero di passare la serata in casa. Elia andò al supermercato,
quando tornò con due buste piene di cibo, si mise subito a
cucinare. Già in altre occasioni Desiderio aveva avuto modo di
verificare che Elia fosse effettivamente un gran cuoco e senza
tradire le sue aspettative, lo dimostrò anche quella volta.
Parlarono della loro vita, risero, bevvero e fumarono altro
hashish. Quando si accorsero di essere andati troppo oltre con
tutto, si fermarono. Entrambi fecero la promessa di non lasciar
trascorrere un altro anno e mezzo prima di rivedersi e si
abbracciarono.
«Ho voglia di andarmene» disse Desiderio
«E chi non ce l’ha» rispose ridendo Elia.
«Cosa ne pensi?».
«Beh, non è che sia la persona più giusta a cui rivolgere questa
90
domanda. Io voglio essere sempre da un’altra parte. Ma non ho
nessun vincolo, mentre tu hai Adele incinta, che se permetti non
è poco».
«Adele non mi vuole più».
«Desiderio, è giusto che ti faccia sudare un po’, no?».
«Io vado via».
«Ovunque tu vada quello che hai fatto rimarrà con te».
«Vado via lo stesso!».
«Ciao buliccio».
«Ciao buliccione».
Si abbracciarono un’ultima volta, poi Elia se ne andò.
91
XXVII
L’ispettore Barbieri, nonostante fosse un poliziotto di navigata
esperienza, non riusciva a intravedere quali fossero i reali intenti
di Desiderio, se mai ne avesse avuti. Dalla lettura del fascicolo si
era immaginato tutto un altro uomo rispetto a quello che sedeva
adesso davanti a lui e mentre lo guardava meditava sulle parole
dette a riguardo, il giorno prima a Parodi, il collega di sezione.
«Seppur improvvisando, ha comunque dimostrato un’efferatezza
degna di chi è avvezzo alla violenza e se domani non si presenta,
andiamo noi da lui».
Quelle parole, col senno di poi, gli sembrarono eccessive per
uno come Desiderio, dall’apparenza innocua.
Desiderio, seduto su una sedia girevole, volgeva lo sguardo su i
muri tappezzati di attestati d’encomio assegnati a Barbieri. Li
guardava affascinato, per un attimo provò a invertire le parti,
facendo finta di trovarsi dall’altro lato della scrivania, pensando a
quanto potesse essere piena di brivido la vita di un poliziotto.
I due si guardavano e reciprocamente s’immedesimavano l’uno
nella vita dell’altro. Uno per deformazione professionale, perché
lo aiutava a comprendere meglio il nemico. L’altro per diletto.
«Cosa pensi di fare adesso?» Barbieri riprese a fare domande.
«Ancora sono in malattia per un altro mesetto, poi torno a
lavorare».
«Non ti hanno sollevato problemi?».
«No, nessuno».
«Bene, allora non ti ripeschiamo in giro a fare il bandito?».
«Assolutamente no».
«Non hai più bisogno di soldi?».
«Avrò sempre bisogno di soldi».
«E allora come farai?».
«Imparerò a convivere con questo bisogno».
«Te lo auguro, perché a fare il bandito non sei un granché».
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Barbieri perse tempo facendogli qualche altra domanda in
merito al suo avvenire, poi, rendendosi conto che quel gesto
sconsiderato, probabilmente sarebbe rimasto un caso isolato
nella sua vita, gli espose i provvedimenti adottati nei suoi
confronti.
Desiderio non poteva allontanarsi da Genova per un anno e in
più aveva l’obbligo di firma in Commissariato tutti i giorni alle
diciannove, per sei mesi.
«E il processo?» disse Desiderio.
«Ancora per quello c’è tempo. Ho visto che hai eletto il
domicilio presso l’avvocato, quindi ti farà sapere tutto lui».
«Non vado in carcere vero?».
«No, per tua fortuna siamo in Italia. Il tuo avvocato chiederà il
patteggiamento e avrai la riduzione di un terzo della pena, sei
incensurato… quindi niente galera».
Rinfrancato da quest’ultima conferma, Desiderio uscì dal
Commissariato e si diresse verso la casa dei genitori.
93
XXVIII
«Dio sia lodato!» esclamò d’un fiato la madre di Desiderio
quando lo vide entrare dalla porta. Corse subito ad abbracciarlo,
stringendolo forte a sé, come avrebbe fatto una bambina con la
sua bambola di pezza smarrita chissà dove e ritrovata dopo
infinite ricerche. Lo investì con teneri baci e con prese sempre
più strette, fino a quando si rese conto che i suoi deboli nervi
stavano cedendo a un pianto liberatorio. Allora mollò la presa, lo
allontanò leggermente e prima che i suoi occhi si sciogliessero in
un mare di lacrime si coprì la faccia con le mani. Dietro quella
maschera fatta di lunghe dita affusolate ritrovò forza e
convincimento, quindi le riallacciò sui fianchi e lasciò spazio a
un sorriso pieno di speranze.
«Dio sia lodato!» ribadì convinta, con il volto fiero per aver
rispedito indietro le lacrime.
Da sempre si rivolgeva a Dio, ma in quei giorni terribili divenne
il suo unico interlocutore. Lo pregava e lo esortava affinché
questa storia si concludesse senza devastanti ripercussioni nei
confronti di Desiderio.
«È solo una pecorella smarrita, bisognosa d’amore» questo
diceva a Dio. Chiusa ermeticamente in se stessa, non faceva
parola con nessuno tranne che con il suo Signore. Con suo
marito non parlava quasi mai, giusto il minimo indispensabile.
Aveva provato a condurlo in quel viaggio spirituale, ma non
volle seguirla. Le disse che tra lui e il suo Dio c’era un abisso e
che se Desiderio si trovava in quella situazione, probabilmente la
colpa era soltanto la loro. Le disse che la soluzione non era in
Dio, ma nella ricerca del perché di quanto accaduto. Forse fin
dal principio non erano stati in grado di trasmettergli il senso del
bene e del male o forse dovevano impuntarsi di meno sul senso
del sacrificio ed elargire qualcosa in più rispetto a quanto
avevano dato fino ad allora. Forse troppo spesso avevano fatto
94
appello alle loro esperienze passate di miseria e di stenti,
inorgogliendosi per i risultati alla fine ottenuti con le loro uniche
forze, tanto da farli presupporre che un percorso simile di vita
sarebbe stato utile anche a Desiderio, per lo sviluppo di un
solido senso di responsabilità. Stupidaggini. Il loro figlio
rischiava il carcere per soldi. Soldi che in casa Ottonello non
mancavano. Erano stati così fottutamente ottusi a non capirlo
che adesso serviva a loro un Dio che li perdonasse. Un Dio
molto meno avido di loro e con un’apertura di vedute molto più
ampia.
«Don Luigi vuole vederti» disse improvvisamente lei.
«Vuole vedermi… e perché?» rispose Desiderio sorpreso.
«Deve parlarti».
«Mamma, io non devo parlare con nessuno, l’ho già fatto fin
troppe volte e ora di questa storia non ne posso più».
«Sì, lo so amore, ma lui può aiutarti».
«E in cosa mamma?».
«A chiedere perdono al Signore».
«Mamma…» Desiderio lasciò perdere sconfortato.
Se solo avesse completato quello che aveva da dire in merito al
Signore, avrebbe sicuramente offeso l’integrità morale nonché
religiosa di sua madre e quella era l’ultima cosa che voleva farle.
«Papà dov’è?».
«In camera».
«Vado a salutarlo».
«Va bene, ma promettimi che andrai a far visita a don Luigi!».
Desiderio non volle affrontare l’argomento e le rispose che
l’avrebbe fatto non appena possibile, poi la lasciò sola al suo
stordimento mistico per andare in camera da suo padre.
Lo trovò a dormire sdraiato sul letto, con un libro di Steinbeck
appoggiato sul petto. Lo faceva ondeggiare con un moto lento
che seguiva il suo respiro. Era Pian della Tortilla, un libro che
aveva letto in passato, e che lo aveva letteralmente infiammato.
95
Era il racconto di alcuni paisanos, abitanti in una squallida città
marinara del sud della California al confine con il Messico,
pronti a dormire a cielo aperto e mangiare alla meno peggio pur
di non lavorare. Una vita vissuta in emarginazione, dedita alla
continua ricerca di un gallone di vino da trangugiare. Capaci,
oltre ad abbandonarsi all’ozio più sregolato, anche di compiere
gesti di grande umanità. Insomma un libro pieno d’avventura in
grado di far trasognare chiunque lo leggesse, specialmente uno
come Desiderio, predisposto nell’io più intimo a quel tipo di vita
surreale.
Suo padre spalancò gli occhi. Quando vide Desiderio, con una
rocambolesca manovra balzò giù dal letto, stava quasi cadendo a
terra, ma con un colpo di reni riuscì a mantenersi in equilibrio.
Gli corse incontro e gli si gettò al collo come un combattente di
lotta greco-romana, poi lo stropicciò energicamente in segno
d’affetto, chiedendogli infine come stava. Desiderio lo rassicurò
sulle sue condizioni e lo ragguagliò in merito a quello che gli
avevano detto i dottori. Suo padre fu sorpreso di vederlo in
ottime condizioni, non s’auspicava tanto in così poco tempo. Poi
però lo ammonì in merito al suo comportamento in ospedale e
gli manifestò tutta la gran pena provata in quel periodo di
degenza senza poterlo vedere. Gli disse che per il momento non
gli avrebbe fatto alcuna domanda in merito alla vicenda, ma che
però, da adesso in poi, si sarebbe aspettato un atteggiamento più
corretto nei loro confronti. Si trasferirono in cucina, sua madre
stava mettendo una pentola piena d’acqua sui fornelli.
«Ti faccio un piatto di pasta al pesto e poi mangiamo gli affettati.
Non sapevo che saresti venuto, altrimenti andavo a fare un po’
di spesa. Magari per stasera facciamo qualcosa che ti piace!».
«Non preoccuparti mamma, va bene così. Per la cena però non
mi trattengo, faremo un’altra volta».
Suo padre mise in tavola un tagliere con del parmigiano. Con
l’apposito coltello ne prelevò una grossolana scaglia e la dette a
96
Desiderio. «Ti farà bene!» gli disse.
«Desiderio, vai da don Luigi oggi pomeriggio, anzi subito dopo
pranzo, a casa sua!».
«Mamma basta ti prego».
«Desiderio, di chi credi sia stato il merito se non sei andato dove
avresti dovuto andare?».
«Di don Luigi?».
«Certo, e di chi altrimenti?».
«Perché è andato a parlare con qualcuno?» Desiderio guardò suo
padre smarrito in cerca di conferma, ma lui scosse solo la testa
con un’espressione delusa.
«Ha parlato, ha parlato, eccome se lo ha fatto» disse sua madre
compiaciuta.
«Con chi mamma?» disse irritato questa volta Desiderio.
«Con il nostro Signore, con chi credevi? Sempre sia lodato».
Desiderio e suo padre rimasero lì a guardarsi per un po' come
due pesci lessi, poi sua madre riprese con la sua litania nei
confronti di don Luigi.
«Come ho saputo che eri finito in ospedale sono corsa subito da
lui. Gli ho spiegato in quale guaio ti eri cacciato e lui mi ha
calmata, mi ha detto di stare tranquilla e che avrebbe pensato a
tutto lui».
«Ti ha spiegato anche come avrebbe fatto?».
«Te l’ho detto, con l’aiuto del nostro Santissimo Signore, sempre
sia lodato».
«Ecchecazzo basta con questo sempre sia lodato!» Desiderio
sbottò, sbattendo un pugno sul tavolo.
«Sempre sia lodato! Sempre! E non essere volgare, non lo tollero
proprio!» intervenne ancora sua madre con tono minaccioso.
«Ha pregato, lo ha fatto per tutta una notte intera. Capisci? Tutta
una notte a colloquio con il nostro Signore, sempre sia lodato.
Lo ha pregato per non farti andare in carcere e per guarirti il
prima possibile. Lo ha pregato per non farti perdere il lavoro e la
97
famiglia. Capisci ora quel che ha fatto per te?».
«Mamma, stai dicendo delle assurdità!» proruppe Desiderio
interrompendola.
«Allora non capisci! Sei tale e quale a tuo padre!» rivolse lo
sguardo a quest’ultimo e lo fulminò.
«Sarai fiero tu di questo, sempre a incalzare con i tuoi discorsetti
contro la chiesa. Guarda in quali acque oscure hai trascinato
nostro figlio. Vergogna!».
Suo padre non protestò, ma uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Desiderio e sua madre rimasero in silenzio, poco dopo sentirono
sbattere anche la porta d’ingresso.
«Brava mamma. Ora hai reso il quadretto familiare ancor più
gioioso di quanto lo era prima».
«Tuo padre sa di aver sbagliato, per questo se n’è andato.
Quando c’è un problema o se ne va o ti urla contro, non sa fare
altro, ormai dovresti saperlo».
«So tutto quello che c’è da sapere su di lui e anche su di te. Ma
almeno questa volta potevamo quietare o almeno provarci».
«Beh, ci abbiamo provato. Ma evidentemente il nostro Signore,
sempre sia lodato, vuole metterci alla prova».
«Alla prova?» Desiderio rise.
«E per che cosa?» disse ancora.
«Ci mette alla prova continuamente per vedere se un giorno
saremo in grado di camminare al suo fianco».
«Bell’affare! Una vita di merda, per poi camminare al fianco di
uno sconosciuto».
«Non dire queste cose Desiderio, avere un po’ di fede non ha
mai fatto male a nessuno».
«Va bene, scusami!».
«Non a me, a lui!» puntualizzò lei, drizzando l’indice all’insù, poi
prese il barattolo del pesto e lo versò sulla pasta.
«Adele l’hai vista?» disse, mentre adagiava ora le porzioni sui
piatti.
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«Sì, ed è la nota dolente di tutta la storia. Insensibile a qualsiasi
preghiera».
«Non vuole vederti?».
«No, non vuole. Almeno per il momento».
«Dopo tutto è comprensibile. È necessario che tu vada da don
Luigi, solo lui può aiutarti e fai quel che ti dice, mi raccomando!».
«Certo mamma» rispose, mentre mangiava rassegnato.
99
XXIX
Desiderio lasciò sua madre alle faccende domestiche e uscì
pensando di fare un salto al dopolavoro che frequentava
costantemente suo padre da quando era in pensione, con la
speranza di trovarlo a giocare a carte. Il dopolavoro si trovava
nelle vicinanze di via Sampierdarena, a poche centinaia di metri
sia dalla casa dei suoi genitori che dalla sua.
Dopo aver oltrepassato la soglia d’ingresso del locale, lo vide al
banco di mescita assieme a un altro, intento a tracannarsi un
bianchetto. Loro invece, si accorsero della sua presenza solo
quando se lo videro sbucare alle spalle attraverso lo specchio
inserito nella boiserie oltre il banco, al di sotto di un mobiletto
pensile contenente bicchieri di vetro.
«Salve!» disse Desiderio rivolgendosi alla persona che
accompagnava suo padre.
«Questo scommetto è tuo figlio, Carlo».
«In carne e ossa» rispose suo padre.
«Si nota troppo la somiglianza, chissà che strage di cuori allora!».
«Veramente io sono sposato» rispose Desiderio.
«Già, si dice sempre così». L’uomo attese inutilmente una replica
che non arrivò e quando si accorse che la sua era stata
un’affermazione fuori luogo, dette rapidamente una benevola
pacca sul collo al padre di Desiderio e si diresse verso un gruppo
di persone riunite attorno a un tavolo verde, assorbite dalle
giocate di chi era seduto.
«Chi è quello?» chiese Desiderio a suo padre.
«Ma, un cretino che viene sempre qua».
«Come mai non sei a giocare?».
«Non è un periodo fortunato e allora me ne sto un po’
tranquillo».
«Che vuoi, sfortunato al gioco, fortunato in amore!».
«Fai lo spiritoso? Con tua madre è così da sempre, ormai
100
dovresti saperlo, anzi dopo la tua bravata è diventata ancora più
insopportabile di prima» ribatté suo padre con una smorfia a
quello stupido proverbio.
«Si è avvicinata ancor di più al nostro Signore, sempre sia lodato.
Se le fai causa per adulterio non devi pagarle nemmeno gli
alimenti» finì di parlare con un sorriso malizioso.
«Porca miseria Desiderio, adesso basta!».
«No veramente, mi preoccupa. Tutto questo gran parlare di Dio,
di don Luigi, non mi sembra tanto normale».
«Cosa vuoi che ti dica? Adesso devo stare attento anche a
scoreggiare, perché è peccato» continuò guardando il figlio. «Ti
va uno di questi?» e gli mostrò il bicchiere che teneva in mano.
«No, grazie. Semmai un caffè, visto che dalla mamma non l’ho
preso per uscire via alla svelta».
Suo padre fece l’ordine al barista, poi riprese il discorso. «Un
paio di settimane fa è tornata dalla messa pomeridiana, perché
adesso ci va tutti i giorni, con una pila incredibile di opuscoli
sotto braccio. Uno di Papa Giovanni Paolo II, uno di Papa
Benedetto XVI, uno di massime eterne, un altro intitolato
Liberaci dal male e poi altri ancora di cui non ricordo
assolutamente i titoli».
«E cosa se ne fa?» disse Desiderio.
«Li studia. Li legge continuamente e ne ripete il contenuto
predicando ad alta voce. La dovresti vedere, fa paura. E poi nei
suoi occhi scorgi una luce diversa. Lei dice che è la fede, ma
secondo me è invasata. Voglio dire, non fa niente di così
veramente pauroso, ma è diversa. Non mi parla mai e quando lo
fa utilizza termini da prelato».
Il barista mise la tazzina di caffè fumante sul bancone e la spinse
verso Desiderio. Lui prese una bustina di zucchero, l’aprì e versò
nel caffè tutto il suo contenuto, poi cominciò a girarlo con il
cucchiaino.
«A me non è parso si esprimesse con un linguaggio evangelico.
101
Più che altro ha nominato Dio innumerevoli volte».
«Perché dopo l’ennesima volta che ha ripetuto sempre sia lodato,
l’hai sgridata. Altrimenti vedi se partiva in quarta».
Desiderio assaporò il caffè, poi lo bevve con soddisfazione e
ripose la tazzina sul piattino.
«Papà, forse dovresti parlare con don Luigi, così solo per avere
una sua opinione in merito a quello che le sta accadendo, magari
stiamo esagerando?».
«Sì, in effetti sarebbe opportuno. Però dovresti farlo tu».
«Come io? Sei tu il marito?».
«E tu il figlio. Senti, in quell’ambiente non mi sento a mio agio e
non ho confidenza con lui, tu invece lo conosci bene. E poi
dopo quello che hai fatto ti farà bene parlargli».
«Certo, come no! A te farebbe male! Non posso crederci anche
tu con questa storia, ma ti sei messo d’accordo con la mamma?».
«Desiderio forse non hai capito, io e lei non ci parliamo
praticamente più!».
«E devo rimediare io ai vostri problemi? E ai miei chi ci pensa?
Anche Adele non mi parla più. Meglio, è andata via da casa e
non vuole vedermi. Mi ha lasciato insomma, cazzo!».
«In qualche modo doveva fartela pagare! Ma è incinta, dove vuoi
che vada? E poi, quella figliola ti ama ancora, fidati!».
«Fidati un corno! Avresti dovuto vedere come mi ha trattato
l’ultima volta che ci siamo incontrati, era un’altra».
«Dio buono volevi ti facesse gli occhi dolci? Aspetta e vedrai che
prima o poi si calmerà! Dopo tutto ha ragione Desiderio, hai
fatto una gran cazzata!».
«Senti, avevamo detto di non parlarne più, quindi argomento
chiuso. Con Adele vada come vada. Con don Luigi vado a
parlarci io, così siete tutti più tranquilli».
102
XXX
Nel cielo rosso, appannato da una miriade di nuvole rigonfie
d’oscurità, il sole stava per coricarsi. Sotto quella livida luce, un
uomo dal passo lento, si aggirava nei caruggi stretti del porto
antico senza una meta precisa. Scivolava tra la gente come un
granellino di sabbia tra i restanti granellini di una clessidra,
giunta allo scadere del tempo, in attesa di essere ribaltata.
L’uomo, destinato a un’eterna vita di lenti scivolamenti e
inesorabili ribaltamenti, osservava i volti della gente cercando di
scoprirne gli esatti umori.
103
XXXI
Don Luigi aveva mosso i primi passi con l’abito talare a Busalla,
un paese dell’entroterra genovese. Aveva circa vent’anni ed era
appena terminata la seconda guerra mondiale. Fu un periodo
lungo, trascorso tra le difficoltà di un paese che aveva voglia di
ricominciare da capo, senza avere i mezzi per poterlo fare. La
guerra aveva spremuto tutti, dentro e fuori. Dopo il fuggi fuggi
generale verso la città, Busalla si ritrovò povera della materia
prima di cui un prete necessita quotidianamente per onorare la
santa causa: le famiglie, ma soprattutto gli uomini delle famiglie
che avevano deciso di restare. Uomini che uscivano all’alba per
tornare al tramonto mortificati dalla fatica di una giornata
dedicata al lavoro o alla ricerca del lavoro stesso e che la
domenica non smaniavano per assistere alla messa. Don Luigi
iniziò da lì, con il recupero della massa per la messa. Tutti dentro,
uno dopo l’altro. Con le donne fu semplice, non aveva dovuto
far altro che aprire le porte e loro, con estrema umiltà, si erano
subito accodate per entrare nella casa di Dio, invece con i loro
mariti indolenti fu diverso. All’inizio pensò che con la sola opera
di convincimento compiuta dalle rispettive consorti prima o poi
avrebbe avuto la meglio. Ma questi, sordi alle tante parole, in
chiesa non si facevano vedere, vanificando la possibilità di
irrobustire la piccola comunità cristiana. Allora agì d’astuzia. Pur
essendo inesperto in fatto di donne, sapeva tuttavia che tutto
ruotava intorno al loro universo, pertanto con il loro aiuto iniziò
a organizzare dei festeggiamenti in parrocchia in onore del
riposo domenicale. Festoni, cibo e donne, il resto venne da sé.
Da allora di anni ne erano trascorsi parecchi, quasi sessanta, ma
don Luigi non era invecchiato in quella curia, no, in quel luogo si
era solo fatto le ossa, per una decina d’anni. Poi la diocesi, viste
le sue enormi qualità comunicative, decise di inviarlo nella curia
di Sampierdarena, ritenendo che il suo lavoro in quella sede
104
urbana sarebbe stato più importante. Don Luigi piacque alla
gente fin da subito e negli anni, continuava a piacere, come un
vestito sempre alla moda, perché da Busalla, oltre all’esperienza,
si era portato dietro anche l’aria del prete da sagre e questo
ingentiliva la sua figura, rendendolo più accessibile a tutti.
Desiderio aveva conosciuto don Luigi casualmente durante il
primo anno delle elementari, nel corridoio della scuola. Quel
mattino il maestro della sua classe, aveva organizzato una gara di
lettura in cui gli alunni si dovevano affrontare a coppie di due
alla volta, leggendo un brano tratto da un libro di favole dei
fratelli Grimm ad alta voce. Il primo che terminava la lettura
vinceva, guadagnandosi lo scontro successivo, fino alla
premiazione del più veloce. Desiderio manco a dirsi era il lettore
meno bravo della classe, lo sapeva lui, lo sapevano gli altri e la
cosa più terribile lo sapeva anche il maestro che non fece
assolutamente nulla per allentare la tensione che lo stava
avviluppando. Quando arrivò il suo turno, fu un’inevitabile
tortura. Desiderio si piantò subito dopo le prime parole, i
compagni sentendolo in difficoltà alimentarono la sua agonia
schernendolo senza alcuna pietà. Il maestro dal canto suo gli
urlava di tutto, che era un rammollito e che senza saper leggere
nella vita non sarebbe arrivato da nessuna parte. Desiderio non
resistette a lungo e scoppiò a piangere, poi sotto gli occhi di tutti,
si alzò e fuggì da quell’aula di maligni in festa per aver calpestato
l’orgoglio di una povera creatura. Fu allora che s’imbatté in don
Luigi. Durante la corsa per raggiungere l’uscita della scuola
inciampò, cadendo lungo il corridoio. Il prete, trovandosi a due
passi da lui, lo sollevò da terra e lo consolò come un figlio.
Legarono subito e in quell’occasione presero la decisione di
vedersi ancora per perfezionare la lettura. Così Desiderio andò
per tutto il mese successivo a casa sua, fino a quando, come in
una storia dal lieto epilogo, il difetto svanì e le sue
preoccupazioni di leggere davanti alla classe pure. Mantennero
105
l’amicizia per molto tempo ancora. Don Luigi lo seguì per tutto
il suo percorso cristiano, dal catechismo per la prima comunione
fino a quello della cresima, poi Desiderio crebbe e i suoi
interessi lo portarono altrove. Dopo la lunga parentesi, fu grazie
al matrimonio che ebbero nuovamente l’occasione di rivedersi
nelle serate in cui si svolgeva il corso prematrimoniale. Poi,
contrariamente alle promesse fatte, il giorno della cerimonia
nuziale aveva sigillato l’ultimo loro incontro.
106
XXXII
Fuori perdurava uno stato di calma innaturale, come se d’un
tratto qualcuno avesse abolito i giorni feriali dal calendario e la
vita procedesse a forza di oziose domeniche. Erano trascorsi già
dei minuti da quando Desiderio era uscito di casa e ancora non
aveva incontrato una macchina. Solo un uomo esisteva
contemporaneamente a lui. Si trovava dall’altra parte della strada
e camminava nella sua stessa direzione. Nel lento incedere, lo
seguiva con lo sguardo. All’inizio solo furtivamente, poi, vista la
naturale indifferenza di costui, lo sguardo si fece più pressante.
Camminarono paralleli per circa duecento metri, dopodiché il
bisogno di ricevere un segno d’intesa si fece spazio
arrogantemente in Desiderio. Cominciò a fissarlo, credendo
impossibile che l’uomo potesse mantenere quell’austera
indifferenza ancora per molto, ma non cedeva, anzi camminava
come fosse stata l’unica cosa in grado di fare. Nella testa di
Desiderio s’inerpicò un pensiero riguardante lo strano
comportamento delle persone in alcune circostanze: ci sono
quelli che fermi al semaforo osservano il conducente dell’auto a
fianco e quelli che rimangono impassibili, in attesa che si
accenda la luce verde. Certe volte però, si verifica che i due
autisti fermi al semaforo, anche se solo per un istante, incrocino
lo sguardo, e allora cosa succede?
Niente. Un po’ d’imbarazzo, poi l’attenzione si sposta sul
semaforo e ognuno con la propria vita continua per la sua strada.
Al termine del pensiero l’uomo voltò fulmineo la testa
puntandola dritta su Desiderio. Questi rimase pietrificato, ormai
non si attendeva più alcuna reazione, così, abbassò desolato lo
sguardo e proseguì verso la chiesa. Prima di svoltare in via
Giacometti però, la curiosità prevalse caparbiamente e constatò
che l'uomo si era fissato su di lui, come fosse stato un miraggio
da raggiungere, da non perdere di vista. Per di più aveva spinto il
107
petto in fuori, come volesse rivelare al mondo intero tutto il suo
vigore.
Fu allora che Desiderio scoprì l’esistenza di persone alle quali
era bene non suscitare troppo interesse.
Il portone della parrocchia Santa Maria della Cella era chiuso.
Desiderio si recò a casa del prete, suonò più volte il campanello
a vuoto e tornò di nuovo all’ingresso della chiesa. Perlustrò la
zona, ma non vide nessuno. Poi dall’interno del portone udì la
voce di una donna seguita da quella di un uomo, apparteneva a
don Luigi. Desiderio batté il pugno sul portone e attese una
risposta. Dopo una manciata di secondi si presentò don Luigi
che senza scomporsi gli disse di attendere.
Più tardi dal portone uscì la donna con due bambini, entrambi
maschi, uno di circa due anni, l’altro di cinque. Lei era giovane,
non aveva più di ventiquattro anni, indossava una felpa azzurra
su cui era stampata una scritta bianca in stampatello: CRISTO
ESISTE. Le tre persone, sfilando davanti a Desiderio, salutarono
cordialmente, poi si allontanarono verso via Sampierdarena dove,
a pochi metri di distanza, altre due donne con cinque bambini
stavano aspettando il loro arrivo. Erano ecuadoriani e
appartenevano alla parrocchia di don Luigi.
A Sampierdarena esisteva una grossa comunità ecuadoriana. Il
loro insediamento era iniziato circa dieci anni prima, sostenuto
molto discretamente dalla curia territoriale. Era il suo modo di
aiutare i bisognosi. Destava solo qualche sospetto il fatto che i
bisognosi fossero sempre sudamericani, gli altri sembrava non
avessero alcun diritto d’aiuto. Col passare del tempo, dal dolce
sussurrare dei sampierdarenesi, era emersa una considerazione
purtroppo rivelatasi veritiera riguardo alla Chiesa. Ossia, per
incrementare la popolazione cattolica doveva assistere i
sudamericani trascurando gli altri. I cinesi infatti, ufficialmente
un popolo ateo, predicavano solo delle dottrine filosofiche come
il taoismo, il buddhismo, il confucianesimo e la Chiesa
108
intransigente non poteva assolutamente occuparsi di coloro che
non erano interessati ad un dio come il loro e poi durante i soliti
incontri cristiani, i prelati vociferavano che in loro aiuto
interveniva sempre la mafia cinese. Quindi troppo pericolosi.
Anche per i russi, nonostante fossero cristiani, ma di un altro
ordine, quello ortodosso, più di tanto non potevano fare. E poi
anche loro venivano considerati troppo pericolosi, visto come si
muoveva sul territorio la mafia russa. Questo dichiaravano i preti
cattolici. Per i mussulmani invece, il distacco della Chiesa era
proprio abissale e l’undici settembre in questo l'aveva agevolata
di non poco. Comunque l’imam si adoperava fin troppo bene
per integrare al meglio il suo popolo. Ultimamente, con la
battaglia in corso su tutto il ponente genovese per la costruzione
della moschea, aveva disseminato panico in tutta la curia
diocesana e la probabilità che il progetto divenisse realtà non era
affatto remota.
Desiderio seguì don Luigi all’interno della chiesa, la percorsero
tutta, poi, arrivati all’altezza dell’altare, entrarono in sagrestia.
Don Luigi oltrepassò la scrivania situata al centro della stanza, si
sedette e fece accomodare Desiderio sulla sedia di fronte.
«Poveri figli che crescono!» esordì don Luigi, rompendo il
silenzio che aleggiava intorno a loro. «Per quanto mi sia sforzato
di dare una logica interpretazione a quello che hai fatto, ancora,
a distanza di tanto tempo, non ci sono riuscito».
Desiderio non disse niente, decise di limitarsi ad ascoltare,
lasciando al prete la possibilità di sfogarsi.
«Perché? mi chiedo, perché?».
Desiderio continuò a guardarlo senza dire niente.
«Perché l’hai fatto?» disse don Luigi più moderatamente,
aspettando questa volta una risposta.
Desiderio si chiese per quanto tempo ancora la gente lo avrebbe
martellato sul perché di questa faccenda, poi, dopo aver
girovagato con lo sguardo per tutta la stanza, lo soffermò di
109
nuovo sul prete.
«Perché non sono soddisfatto di me stesso» rispose alla fine
rassegnato.
«Cristo! Ma cosa significa?». Don Luigi scattò in piedi, poi,
accorgendosi di aver ecceduto oltre il consentito, si ricompose
sedendosi nuovamente. Dal ripiano della scrivania prese una
Bibbia, iniziò a sfogliarla alla ricerca di un segno. La sfogliò
abbondantemente, per tutta la sua completezza, poi si arrese.
Quel segno non c’era più. Rimase perplesso domandandosi chi
mai l’avesse tolto. Probabilmente si stava sbagliando e il segno
che stava cercando era su un’altra Bibbia, magari in quella tenuta
sopra il comodino della camera da letto. Non ricordava. Spostò
allora il pensiero su ciò che quel segno doveva evidenziare. Non
importava il contenuto esatto, d’altronde non aveva più la
memoria di una volta e poi era proprio quello il compito del
segno, lasciare l’indicazione per una successiva lettura
d’approfondimento. Ma niente, non ricordava, tutto svanito.
Assorto ormai in uno stato d’ansia, a un certo punto ebbe la
piena percezione di quello che era. Un vecchio stanco, molto
stanco e infine, avvilito, lasciò cadere lo sguardo a terra.
Desiderio vide subito che qualcosa non andava nel prete, ma
rimase al suo posto, attendendo una sua autonoma ripresa.
I due restarono a lungo prigionieri di un cavernoso silenzio, poi
don Luigi rialzò la testa.
«Non li capisco più gli abitanti di questo mondo e forse quando
pensavo di capirli, non lo facevo affatto».
«Forse non c’è nulla da capire, siamo così e basta» rispose
Desiderio.
«E dove andremo a finire di questo passo? È una vita che ripeto
le stesse parole. Vuoi la felicità? Cercala in Dio, non nel gratta e
vinci!».
Desiderio si sentì messo in imbarazzo da quelle inaspettate
parole. Non potendo fare a meno di accostare quello che aveva
110
fatto lui, con l’atteggiamento di coloro che ogni volta tentano la
sorte grattando quelle insulse cartoline, alla ricerca di una facile
vincita di denaro.
«Gestisco una comunità di stolti!» proruppe don Luigi,
riconquistando ancora una volta l’attenzione di Desiderio.
«Un gregge di pecore stolte e inebetite!» precisò.
Restò in silenzio un momento, poi riprese il discorso e si lasciò
andare a una sfilza di raccomandazioni che provenivano da un
estratto delle omelie che un tempo utilizzava durante le messe.
Tutte cose trite e ritrite, che ormai al popolo inebetito, come
insisteva nel definirlo lui, non infondevano più alcun vigore. Si
dichiarò oltremodo stanco di avere a che fare con vecchi
prossimi alla morte in cerca di un’ultima raccomandazione per
l’aldilà, arrabbiato con i giovani che promettevano tanto e
concludevano poco, furibondo con i sudamericani che lo
cercavano solo per assicurarsi gli appartamenti della curia a
modici canoni d’affitto, evitando peraltro di farsi vedere la
domenica in chiesa.
«Proprio come quella che hai visto uscire prima! Io non posso
esimermi d’aiutarla, ordini superiori!» tuonò. «D’altronde gli
italiani non fanno più figli! E la comunità necessita di cristiani.
Che non intendano la nostra lingua poco importa, i loro figli
saranno italiani a tutti gli effetti. Ma almeno, venite alla messa
dico io! No, la domenica è fiesta! Pecoroni… siete tutti dei
pecoroni. Compreso tu Desiderio, tua madre, tuo padre, dei
pecoroni inebetiti!».
Quest’ultima affermazione non piacque granché a Desiderio e
osservò il prete seccato.
«Cosa siamo, don?».
«Hai capito benissimo».
«Oh, può darsi. Può darsi, almeno ho avuto la risposta che
andavo cercando».
«Quale risposta?».
111
«Su mia madre. Non sono venuto qui per me, ma per lei. Da un
po’ di tempo si è fissata su Dio e volevo sapere cosa ne pensavi.
Ma come hai già detto, siamo tutti inebetiti, quindi il caso è
risolto».
«Tua madre ha perso ogni speranza di trascorrere una vita
serena, per questo cerca rifugio in Dio. Ormai sono decenni che
viene a dirmi le solite cose, lei e tuo padre non si amano, non si
sono mai amati e questo l’ha distrutta».
«È sempre a pregare, non sopporto di vederla così. Parlale. Dille
che così non si risolvono tutti i problemi. Crede che tu mi abbia
salvato dall’ictus e dalla prigione a forza di preghiere».
«E chi ti dice il contrario?».
«Tu don, tanto l’ho capito. Non preghi più per nessuno».
«E anche se fosse? Lasciamole credere che siano state le mie
preghiere, perché dobbiamo crearle nuovi dispiaceri?».
«Perché non è giusto, ecco perché! Finzione, false speranze
questa è la religione? Prendere in giro i più deboli?».
«No, si tratta solo di serenità. Prova per una volta a mettere da
parte Dio e ad analizzare solo l’aspetto psicologico della
religione. La chiesa è un luogo di raccoglimento. Senza rumori,
senza oppressioni. È l’unico luogo terrestre dove puoi ritrovarti,
dove puoi stare in pace con te stesso. È una bolla di sapone che
fluttua sulla terra afflitta da malumori e risentimenti, dentro la
quale puoi trovare serenità e silenzio. Non lo sottovalutare mai il
silenzio Desiderio, fuori dalla chiesa non esiste silenzio e quindi
non esiste raccoglimento. Vai in chiesa tutti i giorni e capirai di
cosa sto parlando!».
Mentre le parole ancora calde, uscite dalla bocca di don Luigi, si
stavano raffreddando nel silenzio di Desiderio, dall’alto di una
parete della stanza il Cristo crocifisso ridestatosi da chissà dove,
puntò lo sguardo su entrambi. Questo ben presto originò un
vortice di fraintendimenti in cui Desiderio, ignaro di essere
osservato di soppiatto dal Cristo, pensava di essere venuto nel
112
posto sbagliato a cercare delle risposte; il prete, anch’esso ignaro
di essere osservato dal medesimo Cristo, pensava che in quel
luogo non vi fosse più alcun motivo per rimanervi; infine il
Cristo, dopo aver ascoltato i loro discorsi, non comprendeva più
la volontà di chi lo obbligava a quella posizione faticosa, segno
di un sacrificio che a nulla era valso, vista l’incapacità umana di
comprendere la vita. Poi all’improvviso un colpo sordo risuonò
nella stanza. Il Cristo era caduto a terra con la sua croce.
Probabilmente spinto dall’urto di una martellata assestata contro
la parete dal diacono, che, nella stanza attigua alla sagrestia, stava
effettuando dei lavori di manutenzione. Forse, molto più
semplicemente, era stato spinto dalla voglia di tornarsene nel
territorio celestiale da cui proveniva. Desiderio voltò lo sguardo
nella direzione da cui era giunto il rumore e vide il Cristo a terra.
Si alzò dalla sedia, lo raccolse e lo ripose sulla scrivania, poi, in
silenzio, uscì dalla stanza. Don Luigi rimase solo, con il Cristo
che lo fissava. Lo prese e cominciò a rigirarselo tra le mani,
proprio come avrebbe fatto un gioielliere con la sua pietra
preziosa. Provò a valutarne il grado di purezza, ma dopo un
attento esame, vi rinunciò, comprendendo quanto fosse arduo
essere fedeli alla propria religione e ai suoi dogmi.
113
XXXIII
Desiderio passeggiava incupito nel volto e nell’animo dalla
conversazione appena avuta con don Luigi. Ritornò con la
mente al sacerdote che in qualche modo si era snaturato
enormemente rispetto a come era un tempo e ora somigliava più
ad un buon samaritano deluso. Forse il troppo prodigarsi nei
confronti del prossimo lo aveva sfinito a tal punto da ritrovarsi
completamente demotivato; sembrava avesse smarrito la via,
come capita a un uomo qualunque.
Intanto si spinse in una porzione di spazio in cui il quartiere
esprimeva il peggio dell’architettura moderna. Si trovava
all'interno del complesso di San Benigno, sotto un nero
grattacielo, accerchiato da altri edifici commerciali. La loro
posizione, ricordava tanto un insieme di mattoncini Lego
abbandonati da un bimbo annoiato per averci giocato troppo a
lungo. Allo sconforto dei suoi pensieri si aggiunse il senso di
oppressione che gli suscitava quell’ambiente sterile e
d’improvviso sentì forte la necessità di posare lo sguardo su un
orizzonte libero da ostacoli visivi. Proseguì verso il mare, verso
la Lanterna, simbolo di Genova. Affrettando il passo raggiunse il
piazzale in cui si trovava l’accesso pedonale che portava al faro.
Era a un passo dal mare, non lo vedeva ancora, ma provò subito
un brivido di sollievo. Appena s’introdusse nella passeggiata, lo
cercò con lo sguardo. Lo trovò. Maestoso di una tonalità blu
scuro, leggermente increspato, rassicurante nella sua eterna
posizione orizzontale, come l’abbraccio robusto di un padre
saggio e maturo. Lo amava il mare, tutti i ricordi più sereni lo
riconducevano a lui. Un rapporto duraturo il loro, che non
conosceva stagioni, estate o inverno, non faceva alcuna
differenza. Camminò fino ad arrivare alla terrazza sottostante il
faro e puntò lo sguardo dritto alla linea di confine che separava il
cielo dal mare.
114
Quante volte aveva compiuto quel gesto. Quante volte si era
soffermato a guardare quella linea, pensando a ciò che
nascondeva. Miglia e miglia marine, oltre il Mediterraneo, oltre
l’Atlantico fino al raggiungimento della terra tanto ambita,
l’Argentina. Un richiamo il suo, impossibile da non ascoltare,
prepotente come il pianto originato dal pentimento di una
madre che ha appena abbandonato il proprio figlio.
Una zaffata di fuliggine lo riportò sulla terra, quella vera, che
stava calpestando. Rivolse lo sguardo più in basso e vide
l’enorme mostro di ferro. La centrale a carbone. Distesa tra il
meraviglioso mare e le falde del promontorio su cui si reggeva la
Lanterna. Un obbrobrio, che aveva contribuito a incrementare la
richiesta di manodopera nel territorio, ma che allo stesso tempo
aveva inferto un danno irreparabile alla natura circostante.
Quanto era costata l’industrializzazione a Genova?
In termini naturalistici, tanto, un’infinità. La Superba era stata
inconfutabilmente desublimizzata.
Per quelli che, trovandosi in alto mare, avvistavano la Lanterna,
la centrale si poneva dinanzi come un macabro teatro, celante al
suo interno l’interprete dietro una spessa cortina.
Permetteva solo la vista della cima del faro, con il suo sistema
illuminante ed era talmente integrata nell’ambiente, che a una
certa distanza, non appariva come la Lanterna, ma come una
ciminiera che spurgava fumi tossici. Soltanto grazie al suo
occhio luminescente, ricordava chi fosse realmente.
Desiderio si era incantato a osservare le operazioni di prelievo
del carbone da una nave. Il carbone, tramite un apparecchio
simile a un’enorme pompa aspirante, veniva risucchiato e poi
rilasciato su un nastro trasportatore, che si allungava per tutto il
parco di stoccaggio fino a spingersi nel gruppo termoelettrico,
contenente il bruciatore. Di lì a poco, per effetto di numerosi
procedimenti, quel carbone sarebbe diventato elettricità per tutta
Genova.
115
Intanto, una portacontainer battente bandiera cinese, stava
attraversando la rada del molo san Giorgio trainata da un
rimorchiatore. L’intero carico, costituito di soli container, era
stato scientificamente allineato e sovrapposto verticalmente sul
ponte della nave, in modo tale da assicurare il miglior
galleggiamento in mare, anche nelle condizioni metereologiche
più avverse. Intorno alle navi già attraccate nel terminal merci, si
stavano movimentando carrelli elevatori, carriponti e gru,
tramite i quali venivano trasferiti i container sulle banchine, per
poi essere depositati su treni pronti a dirigersi verso nuove
destinazioni.
Lentamente lo sguardo di Desiderio scivolò sulla distesa di
parallelepipedi di metallo sistemati lungo le banchine. La loro
verniciatura, con i colori delle compagnie marittime, restituiva al
panorama uno strano effetto cromatico, come se il tutto fosse
ricoperto da un gigantesco mantello patchwork. Il mare a tal
proposito, nel periodo d’espansione del porto commerciale,
aveva intrapreso una dura battaglia contro quella scogliera
innaturale, lanciando contro di essa onde anomale impensabili
per un mare chiuso come il Mediterraneo, ma alla fine,
allontanato da banchine artificiali e arginato da barriere
frangiflutti, si era arreso battendo in ritirata.
In termini economici, per il porto di Genova, modificare
ulteriormente l’aspetto naturale dell’ambiente in un carnevalesco
territorio, era equivalso a ottenere il primato italiano per la
movimentazione del maggior numero di teu1 all’anno.
1
Twenty-Foot Equivalent Unit – misura standard di volume dei container
116
XXXIV
«… Pronto».
«Oh, Adele sta partorendo, non voleva dirti nulla ma… corri
dài!».
«Cazzo!».
«Allora?».
«Sì… hai fatto bene Giulio, grazie! Arrivo subito».
«Al San Martino, secondo padiglione».
«Ok».
117
XXXV
Giulio indossava la sua tuta verde da lavoro, con tanto di gilet
giallo a bande retroriflettenti. Si trovava nella sala d’attesa, al di
fuori del padiglione. Oltre a lui non c’era nessun altro e ne
approfittò subito per accendersi l’ultima sigaretta del pacchetto.
Quando vide Desiderio, fece appena in tempo a chiamarlo, che
aveva già mosso un piede oltre l’ingresso del padiglione.
«Ho fatto prima che potevo» disse Desiderio, tornando indietro.
«Ti ho telefonato appena l’hanno portata su» rispose Giulio,
dopo aver espirato una nuvola di fumo.
«Non è qua?».
«Sì, ma la sala parto è al piano superiore».
«Perché così presto? Manca un mese».
«Lo so. Ma la piccola ha deciso così».
«Ma sta bene?».
«Sì, sta bene».
«Le si sono rotte le acque?».
«No, mi ha detto la mamma che ha avuto una perdita di sangue.
Credo fosse il tappo mucoso. Credo».
«Ma sta bene?».
«Sì, sì, sta bene».
«Quindi partorisce questa notte?».
«Credo, o in mattinata, forse tarda mattinata».
«E non posso entrare dentro?».
«C’è la mamma».
«Già, che stupido! Anzi che stronzo. Sono proprio uno stronzo»
e restò in silenzio alcuni secondi.
«Che situazione di merda!» esclamò Desiderio.
«Ha domandato di me?» disse ancora.
«Voleva che non ti chiamassi».
«Nient’altro?».
«Ha detto che sei una merda».
118
«Giusto. Grazie per avermelo ricordato».
Restarono un po’ in silenzio.
«Tuo papà non c’è?».
«È sopra anche lui».
«Eri a lavoro?» chiese Desiderio, indicando con lo sguardo la
tuta di Giulio.
«Già».
Giulio spense la sigaretta nel portacenere.
«Cosa pensi di fare adesso?» disse Giulio.
«Bella domanda! Cosa penso di fare? Non lo so. Aspetto».
«Cosa?».
«Non lo so Giulio, non lo so».
«Desiderio, sta per nascere tua figlia, fai qualcosa! Vai da lei».
«Ma non mi vuole, ci ho già provato sai quante volte?».
«Quante? Una, forse due al massimo. Da quando sei tornato,
saresti dovuto andare da lei tutti i giorni, a implorare il suo
ritorno, invece dove sei stato?».
«Giulio, non mi vuole vedere, è inutile! Non più!».
«Ma cosa avrebbe dovuto dirti? Desiderio non preoccuparti,
vedrai che si aggiusterà tutto!».
«Senti, è tua sorella e non vuoi che soffra. Mi sta bene. Ma ormai
è andata e per porre rimedio a quel che ho fatto ci vuole tempo.
Ci vuole tempo».
«Ma che tempo e tempo! Ci vuole la tua presenza, ci vuole
insistenza! Non sperare che tutto s’aggiusti senza vedersi, tanto
meno parlarsi. Desiderio ma cos’hai?».
«Porca troia, ora basta! Tutti che vogliono sapere. Tutti che mi
rompono i coglioni, cazzo! Non me la sento di stare qui adesso,
passo più tardi».
«Desiderio aspetta… la perderai per sempre!».
«Torno più tardi Giulio, torno più tardi».
119
XXXVI
Desiderio parcheggiò la macchina vicino alla cattedrale di San
Lorenzo e si recò in un locale di piazza delle Erbe. Seduto a un
tavolo ad attenderlo c’era Elia. Parlava con una cameriera, tanto
bella da poter rientrare tranquillamente nel suo target. Quelle
con cui aveva una storia, si assomigliavano tutte: more, capelli
lunghi, possibilmente lisci e culo a mandolino. Lei era molto più
giovane e probabilmente lui, di ormai trent’anni, vissuto com’era
un po’ ovunque, non avrebbe avuto problemi a strapparle un
invito entro la fine della serata. Quando Desiderio si sedette al
tavolo, lei stava scrivendo qualcosa sul blocchetto delle
ordinazioni. Appena terminò di scrivere, fece un sorriso e
consegnò un foglietto a Elia.
«Chiamami lunedì, siamo chiusi» disse maliziosamente, poi
assunse un’espressione d’obbligata cortesia, simile a quella di
tante cameriere e chiese l’ordine a Desiderio.
«Una lanterna» rispose, poi lei rivolse ancora un sorriso a Elia e
si allontanò con il suo bel culo a mandolino.
«Che è successo?» domandò Elia.
«Adele è in ospedale, sta partorendo».
«E non vai?».
«Vengo da lì. Ero abbastanza tranquillo, però suo fratello ha
cominciato a farmi un monte di domande e…».
«Hai sbroccato!».
«… Lo sai come sono fatto!».
«Sei fatto male!».
«Dài, non rompermi il cazzo anche tu. Torno subito, prima però
volevo parlarti di una cosa».
Desiderio alzò lo sguardo in alto con aria meditabonda, come
volesse riordinare le idee.
«Sentiamo» lo esortò Elia.
«Beh, ci ho pensato su parecchio e… le cose non mi stanno
120
girando affatto bene e… beh insomma ho deciso di
andarmene!».
«E dove?».
«Lo sai dove».
«In Argentina?».
Desiderio confermò con un cenno della testa.
«Perché?».
Ecco un altro insolubile perché, uno dei tanti che tediava
Desiderio da una vita. Ma quanti erano?
A ogni azione, ambizione, riflessone, coincideva un perché e
non si presentava mai nelle vesti di un semplice avverbio
grammaticale, quale in fin dei conti era, ma come un inossidabile
movente, possibilmente il più razionale e il più relativo alla logica.
Sempre. Pena l’esclusione. Da cosa? Dall’ordine della vita
stabilito dall’uomo, in cui ciascuno deve impegnarsi affinché sia
abile, capace, esperto, competente, valente, praticamente bravo
in tutto. Bravo come figlio, bravo come alunno, bravo come
dipendente o indipendente, ma soprattutto bravo come
contribuente. E poi bravo ancora come marito, bravo come
padre, bravo come amico di altri bravi padri, distanti dalle loro
vere amanti. E ancora bravo come pensionato, bravo come
nonno. Bravi tutti, fino alla fine. Bravi, proprio bravi! E falsi,
come ideatori di questa brava esistenza.
«Sono rimasto al buio!» imperversò Desiderio dopo la lunga
riflessione. «Al buio, capisci? Brancolo nel buio alla ricerca di un
pulsante, un interruttore che mi restituisca luminosità intorno,
che mi restituisca una strada da percorrere. Ma non c’è, oppure
non lo vedo… e devo andare a cercarlo».
Elia rimase sconcertato quando vide l’amico con gli occhi pieni
di lacrime. Nonostante avessero toccato l’argomento esistenziale
un migliaio di volte, questa era la prima che lo vedeva in balia di
un’emozione tanto intensa, tale da farlo piangere. Sentì un
pizzicore agli occhi anche lui, come per un improvviso attacco
121
allergico stagionale. Li chiuse, sperando che la sparizione
momentanea di Desiderio alleviasse in qualche modo il fastidio,
ma non fu così e le lacrime uscirono lo stesso. Così decise di
riaprirli, mostrandosi com’era, profondamente addolorato.
La cameriera giunse al tavolo, guardò Elia, ma quando lo vide in
lacrime, accelerò il servizio senza porre domande, mise la
lanterna davanti a Desiderio e si allontanò silenziosamente.
Il grosso boccale da un litro di birra, conteneva immerso nel
fondo, un piccolo bicchiere colmo di Porto rosso. Il giallo
lievemente ambrato della birra riproduceva l’effetto luminoso,
mentre il rosso del vino liquoroso, riproduceva la piccola
fiaccola di fuoco immessa all’interno della lanterna di vetro.
Oltre a essere originale da vedersi e buona da bersi, aveva una
particolarità: i due liquidi non si mescolavano e il Porto, dopo il
litro di birra, aggiustava il palato lasciando una sicura sbornia.
Desiderio prese il boccale per il manico e iniziò a ingollare birra
con lunghe sorsate. Quando l’anidride carbonica si faceva
insostenibile smetteva, attendeva un attimo, poi riprendeva.
Bevve così più di mezzo litro di birra. Gli occhi già umidi, per
effetto della fredda miscela gassosa, avevano ripreso a lacrimare,
fece un rutto insonoro ed emise aria dalla pancia gonfia.
«In Argentina ho due cugini di primo grado, figli del fratello di
mia madre, lui ormai è morto da anni. Francisco e Alvaro.
Francisco lavora in una grande estancia nelle Pampas, non molto
lontano da Buenos Aires ed è un allevatore di bestiame, mentre
Alvaro vive proprio a Buenos Aires ed è un impiegato delle
poste. Gente comune, niente di speciale, però ricorderò sempre i
racconti di mio zio sull’Argentina, quando veniva a trovarci per
le feste di Natale, erano così coinvolgenti, pieni d’avventura!
Partì a diciannove anni da Genova e quando arrivò a Buenos
Aires non si fermò neanche una settimana, tanto sapeva che la
comunità italiana era già forte negli anni cinquanta e una
sistemazione prima o poi l’avrebbe trovata. Decise di viaggiare,
122
attraverso la ruta 3, la strada che percorre tutta la costa argentina,
arrivò fino in Patagonia, poi oltrepassò lo stretto di Magellano e
raggiunse la Terra del Fuoco. Quelle sono terre di frontiera
abitate da immigrati di recente, persone che non si sentono
italiani, inglesi o tedeschi, nonostante le origini d’appartenenza e
che allo stesso tempo non riescono a fondersi insieme».
«Me l’hai raccontata mille volte questa storia, ma con te adesso
cosa c’entra? Tra qualche ora sarai papà!».
Desiderio bevve ancora, quando riposò il boccale sul tavolo,
l’orlo della birra si trovava al di sotto del bicchiere di Porto di
almeno un centimetro. Allungò la mano dentro il boccale e con
le dita arpionò il piccolo bicchiere di vetro, riposandolo a fianco
del boccale, poi riprese nuovamente quest’ultimo e trangugiò le
poche sorsate di birra rimaste. I suoi occhi ripresero a lacrimare,
ma non per effetto dell’anidride carbonica.
«Rimase a Ushuaia per un paio d’anni, la città più a sud del
mondo, li imparò lo spagnolo e anche un po’ di inglese, ebbe
fortuna perché per un anno lavorò in una estancia di un ex
maggiore dell’esercito inglese, veterano della prima guerra
mondiale, ritiratosi in quelle terre lontane dopo il congedo per
una grave ferita subita sul fronte occidentale, la scheggia di una
bomba gli aveva maciullato il braccio sinistro, rendendo
necessaria l’amputazione dell’arto. Lì imparò ad andare a cavallo
e a condurre il bestiame, i fondamentali per divenire un buon
allevatore insomma, il resto lo apprese quando tornò nelle
Pampas».
«Vai da Adele».
Desiderio si asciugò il viso bagnato dalle lacrime con il dorso
delle mani, poi prese il bicchiere e bevve tutto il Porto.
«Ushuaia è ai confini con la terra, diceva mio zio. Chiusa alle
spalle dalle ultime propaggini della catena andina. Con il freddo
mare davanti che non si sa se sia Atlantico o Pacifico e poco
oltre ancora con tutta l’immensa distesa dell’Antartico. In quegli
123
spazi immensi e selvaggi è ancora possibile sentire il respiro della
terra».
124
XXXVII
In balia dell’ebbrezza alcolica Desiderio impostava le curve della
città con la speranza che al termine di ognuna di essa vi fosse la
conclusione di tutto. S’immaginava un grande schianto, forte,
talmente forte da privarlo di qualsiasi spasmo di sofferenza, una
morte immediata, contro un muro, un’auto in sosta, non
importava quale fosse la causa della sua uscita di scena, purché
arrivasse in fretta, senza creare vittime al di fuori di lui. Spingeva
sull’acceleratore, le gomme perdevano aderenza sull’asfalto, ma
niente da fare, controsterzava e recuperava, controsterzava e
recuperava. Quale assurdità era mai quella, perché controsterzare
per poi essere obbligati a recuperare, soprattutto quando esiste
la fluidità della rettitudine? Perché si sceglie sempre di sbagliare?
Fa parte del gioco chiamato vita?
“Quando ripenserai a noi, a quello che avevi, te ne pentirai!”.
Queste erano le parole che sentiva pronunciare da Adele, come
lascito conclusivo della loro relazione. L’immagine del suo volto
scarno appariva oltre il parabrezza, scorreva alla stessa velocità
di Desiderio, precedendolo di pochi metri. Forse a ogni curva
era proprio lei che correggeva le sbandate, come un angelo
custode o uno spettro magico, per amore o per il gusto di
vederlo penare.
Arrivò al San Martino sano e salvo, ripercorse la strada di
qualche ora prima ed entrò nel padiglione in cui era ricoverata
Adele. Davanti a una porta verso la metà del corridoio vide
Giulio, stava parlando con qualcuno dentro la stanza, appena
sentì il rumore dei suoi passi, si voltò e si mosse per andargli
incontro.
«Come sta?».
«Non puoi vederla!».
«Come sta?».
«Bene, ma non vuole vederti».
125
Desiderio partì deciso verso la stanza di Adele, ma Giulio lo
prese per un braccio e lo spinse al muro.
«Non vuole vederti!» ripeté, mettendo il muso a un palmo dal
naso di Desiderio. «E sei venuto pure ubriaco, troppa realtà tutta
insieme, poverino, non ce la facevi a reggere?».
Desiderio tentò di divincolarsi, ma la presa era troppo stretta.
«La bambina?» disse debolmente.
Giulio si voltò indietro, i suoi genitori erano alla porta
visibilmente provati dal pessimo spettacolo, allora mollò la presa
e ritornò con lo sguardo su Desiderio.
«La bambina sta bene».
«Voglio vederla!».
«No, adesso non puoi, torna quando sarai meno sbronzo».
«Dimmi dov’è la bambina!» urlò furibondo.
Da una porta uscirono due infermiere. Domandarono cosa
diamine stesse accadendo. Desiderio rispose di essere il marito
di Adele e di voler assolutamente vedere sua figlia. Le due
infermiere si guardarono incerte, poi una rispose che la bambina
era all’ultimo piano, nell’incubatrice e che sarebbe rimasta lì un
paio di giorni, ma che per vederla sarebbe dovuto tornare per le
otto, quando riaprivano alle madri per l’allattamento. Desiderio
corse via dal padiglione, arrivò alle scale e invece di scenderle, le
risalì fino all’ultimo piano. Entrò da una porta e vide davanti a sé
una grossa veneziana chiusa, fu subito certo che da lì avrebbe
visto la figlia e confortato da quel pensiero si sdraiò su una fila
di sedie poste lungo il muro e si addormentò esausto.
126
XXXVIII
Seconda notte all’addiaccio. Le ossa umide si muovevano a fatica,
le articolazioni doloranti profetizzavano un futuro imbottito dei
peggiori reumatismi. Vagava ancora per le vie strette del centro
storico senza sosta, senza pace, come un randagio alla ricerca di
cibo, ma d’un appetito differente, fatto di mancanza di parole,
premure, sorrisi e felicità.
127
XXXIX
Come il diaframma di una fotocamera, la veneziana si aprì,
permettendo a due esseri fino ad allora sconosciuti d’incontrarsi
per la prima volta. Desiderio si affacciò. Le otto erano passate
da un pezzo. Adele a pochi passi da lui cingeva la figlia al petto.
Era di spalle, immobile, indossava la vestaglia e il copricapo
verde, completamente assorta nell’atto di concedere il primo
zampillo di colostro.
Desiderio bussò al vetro, Adele si voltò.
L’espressione priva di qualsiasi forma di sconcerto di lei.
Il pianto di lui.
Adele che porgeva la piccola creatura innanzi a Desiderio.
Lui con il palmo della mano sul vetro che imitava una carezza.
Lei che lo guardava come si guarda un estraneo.
Attimi lunghi, la luce copiosa attraversava il diaframma. Non
aveva più importanza su quale lato fosse il negativo, ormai
l’immagine aveva perduto tutto il suo incanto.
Adele con un seno scoperto si ritrasse di alcuni metri. Voltando
ancora le spalle si avvicinò a un’incubatrice. Un altro neonato
stava dormendo beato, lo esaminò a lungo, poi indirizzò lo
sguardo sulla sua creatura ed emise finalmente serena un sorriso.
Desiderio, con il volto nascosto tra le mani, abbandonò quel
luogo a lui impenetrabile e pieno di un’ inesplicabile senso
d’inquietudine lasciò l’ospedale, sua moglie, sua figlia e una parte
di sé.
128
XL
«Ma che ti piglia?».
«Perché?».
«Come perché! Ti ho dato la possibilità di rimanere quando altri
sicuramente al mio posto ti avrebbero già cacciato. Non solo, ti
ho anche promesso che una volta rientrato, comportandoti in un
certo modo, s’intende, avresti avuto buone possibilità di fare
carriera e tu che fai? Mi vieni a dire che te ne vuoi andare. Ma
allora sei proprio uno stronzo!».
«Può anche darsi, anzi sicuramente è come dice lei, ma non
posso rientrare».
«Scusa ma tua moglie non è incinta?».
«Sì, cioè… ha partorito. Stamattina».
«E la prima cosa che fai dopo essere diventato papà è di lasciare
il posto di lavoro?».
«Sì».
«Ne hai trovato un altro?».
«No».
«E allora?».
«È complicato da spiegare, tanto non capirebbe».
«Bene, allora fai il cazzo che vuoi. Puoi andare adesso». Capurro
prese la cornetta del telefono e premette un tasto della
pulsantiera.
«Signore, ci sarebbe un’ultima cosa che vorrei chiederle prima di
andare».
«Sentiamo?» ripose la cornetta e attese la domanda.
«Avrei bisogno della liquidazione il prima possibile».
«Cazzo te la puoi scordare, non ti do un centesimo! Con chi
credi di parlare con tuo padre, la mia offerta l’hai rifiutata,
adesso arrangiati».
«Ma sono soldi miei!».
«Ottonello, esci di qua!».
129
«Ma sono miei!».
«Sì? Allora fammi causa, forse tra dieci anni li rivedi!» Capurro
fece una grassa risata e riprese in mano la cornetta del telefono.
«Beh… quel caffè che fine ha fatto? Adesso Simonetta, non
domani, adesso!».
130
XLI
La notizia stava diffondendosi a macchia d’olio per tutta
Sampierdarena. La gente si domandava come potesse essere
accaduto. Con provvedimento immediato, don Luigi era stato
sospeso dalla Chiesa Cattolica per aver preso a calci una ragazza
ecuadoriana. Numerosi erano stati i testimoni del fatto, avvenuto
proprio in chiesa durante una funzione pomeridiana.
La malcapitata, a quanto sembrava, tentando di beneficiare della
consueta disponibilità dell’anziano prete, aveva insistito
tenacemente nel pretendere un locale in affitto, assegnato
secondo lei, a un’altra connazionale per errore. Durante tali
rimostranze il prete, in preda a uno slancio d’ira aveva perso
completamente le staffe e, impossessato da un profondo odio,
l'aveva travolta di calci fino a farla fuggire, poi, sotto gli sguardi
increduli dei parrocchiani, si era svestito dell’abito talare, lo
aveva lanciato a terra e con le sole mutande era uscito di chiesa.
Don Luigi si avviò verso un luogo che apparteneva alla memoria,
con il proposito d’intraprendere una nuova vita, lontana dai
vincoli religiosi che lo stavano terribilmente affliggendo. Quel
giorno don Luigi intraprese un cammino verso un luogo che
non esisteva più.
131
XLII
Desiderio aprì la porta, ai suoi piedi, oltre la soglia, vide un
foglio di carta piegato a metà, lo raccolse e lo aprì. Era un lungo
messaggio lasciato da sua madre.
Lo lesse:
Caro Desiderio,
spero proprio tu non sia andato da quel pazzo di don Luigi, io ero in
chiesa, ho visto quel che ha fatto! Poveretta quella ragazza, quanti calci si è
presa, da non credere. E quando se n’è andato? Quanti improperi, gridava
contro tutti noi, capisci! Pecoroni! Pecoroni!
Un vecchio prete in mutande che urlava come un ossesso.
Avevi ragione a non volerci andare, figuriamoci se pregava per te quello là!
Ti scrivo per un altro motivo, non sarei stata capace di dirtelo guardandoti
in faccia, perdonami.
Ho lasciato tuo padre, per sempre. Ne sono finalmente convinta e sono felice
di aver preso questa decisione. Non ci amavamo, non ricordo nemmeno se ci
siamo mai amati. Erano altri tempi Desiderio, ti sposavi il primo che
conoscevi, da veri incoscienti!
In questo momento sarò già in viaggio. Accompagnata da un uomo.
Andiamo a Sharm El Sheikh, con un last minute. Si chiama Edoardo è
vedovo ed è un brav’uomo, più giovane di me, ma non di molto. Credo di
amarlo sai, anche se forse è presto per dirlo. Lo conosco da due giorni.
Penserai sia pazza vero? Ma non è così.
Tuo padre non so come l’abbia presa, quando gliel’ho detto si è messo a
ridere ed è uscito di casa. Solo che questa volta non mi troverà ad aspettarlo.
Prenditi cura di te, se ti è ancora concesso anche di Adele, voglio bene a
quella figliola. Non so cosa ti sia preso quel giorno, ma vivere è talmente
complicato che… non so, mi vien da pensare che tutto sia lecito. La verità è
che ti voglio bene e soffro per te, soffro dannatamente, ora che sei diventato
papà capirai, eccome se capirai.
La pupa è bellissima, non vedo l’ora di poterla prendere in braccio, ti
132
assomiglia moltissimo, che bella!
Ma non dovevate chiamarla Agnese?
Bello anche Matilde, come tua suocera però, non è corretto! Naturalmente
sto scherzando.
Vai da loro Desiderio, corri subito, fai pace, fate pace e amatevi. Lo sapete
fare, per voi è naturale, vi viene dal cuore, fidati, certe cose le capisco.
Mi sono trasferita da Edo, abita a Quinto. Vedessi che appartamento!
Appena torniamo siete invitati a cena, sai anche lui non vede l’ora di
conoscervi.
Ma prima fate pace!
Ti amo figlio mio.
Desiderio, trascinato dalla nausea, sprofondò sul divano. Chiuse
gli occhi e il silenzio che custodiva all’interno pervase l’ambiente
circostante inghiottendo miracolosamente suoni e rumori. Svanì
il calpestio della signora Lavinia, chiusa in casa a pulire,
combattendo le proprie ansie e amnesie. Svanirono dal cavedio
le robuste voci che mulinavano nell’aria come foglie d’autunno.
Sparì la televisione tenuta ad alto volume da Pastorino,
l’inquilino del quinto piano e lo squillo amplificato del telefono
della sorda al secondo.
Il silenzio, man mano che il tempo scorreva, acquisiva nuova
energia e, ritenendo insufficiente il semplice occuparsi dei suoni
e dei rumori, decise d’intervenire sugli odori. Fu così che
inghiottì l’esalazione della varechina, utilizzata dalla donna delle
pulizie sull’impiantito del cavedio. Inghiottì l’odore di
minestrone e di fritto proveniente dalla cucina della Gaggero e il
buon odore d’aria salmastra che il vento spirava dal mare.
Il potere del silenzio aumentò ancora e il bisogno di esercitarlo
fu impellente. Rivolse la propria azione verso oggetti solidi e
opere murarie, non si fermò davanti a niente. Alla fine, dopo
aver inghiottito tutto, rimase solo Desiderio, con un grande
vuoto e il suo silenzio.
133
Quando si riebbe dallo svenimento, il senso di spossatezza che
aveva, rendeva il suo equilibrio instabile. Con estrema fatica
raggiunse il bagno, aprì un rubinetto e mise la testa sotto l’acqua
corrente. Il freddo scacciò la spossatezza e con essa anche la
paura di aver avuto un altro ictus. Guardò la propria immagine
allo specchio, con un distacco simile a quando si guarda una
persona per la prima volta. Era magro, molto più di quando era
in ospedale. Aveva il volto bianco come il latte e gli occhi lividi,
stanchi. Dormiva ma non riposava, mangiava, ma mai
abbastanza, non assumeva medicine, non effettuava la
fisioterapia prescrittagli e si sentiva depresso.
Entrò nel buio della camera da letto, accese la luce e contemplò
la stanza in ogni suo angolo. Senza un preciso sentimento la sua
attenzione si arrestò sulla cartolina donatagli da don Luigi, il
giorno del matrimonio. Era un cartoncino rettangolare recante
su un lato l’immagine di un angelo, mentre sull’altro c’era un
augurio scritto a penna dal prete. La cartolina era addossata sul
portafotografie in cui Adele aveva sistemato una foto del
matrimonio, a salvaguardia dei due neo sposini. Desiderio prese
la cartolina e la lesse:
A Desiderio e Adele
con fervidi voti perché
la loro famiglia
diventi giorno per giorno
Capolavoro di amore
vivificato dallo Spirito del Signore
e custodito dalla Madre Celeste
Aff.mo don Luigi Merello
Dopo aver accostato nuovamente la cartolina alla foto, pensò a
come le cose potessero essere uscite di controllo così
134
radicalmente. Da quanto non erano più felici? Lei forse lo era.
Almeno così sembrava. Ma lui? Come si determina la felicità di
una persona? Perché a un certo punto nella vita s’insinua questo
tarlo maledetto e tutto inizia a traballare? E don Luigi? Tutti
meno che lui potevano abbandonare il percorso intrapreso.
Cazzo era un prete!
Desiderio si trovava davanti ai resti di un gigantesco incendio e
invece di sporcarsi le mani per salvare il salvabile, prese una
valigia, la mise sul letto e la riempì di vestiti.
135
XLIII
Al bancomat Desiderio richiese il saldo. Lo scontrino sortì
lentamente dalla fessura ed emise il responso poco confortante.
Sul conto erano rimasti settecentosessanta euro, di cui
seicentoventi erano da sottrarre per la rata del mutuo che ancora
non era stata addebitata. L’Argentina era già di per sé lontana,
ma con centoquaranta euro era praticamente irraggiungibile.
Maledì i soldi, il tasso variabile, lo spred e l’euribor. In due anni e
mezzo la rata era aumentata più di duecento euro. Maledì le
banche, i banchieri e i bancari, maledì tutte le bussole che aveva
montato in difesa di quegli strozzini legalizzati. Pensò che in
Argentina ci sarebbe andato comunque, utilizzando la carta di
credito e il fido concessogli di duemilacinquecento euro. Pensò
anche alla vigliaccata che stava commettendo, andar via così,
lasciando ricadere tutto su Adele, ma ormai era deciso.
Entrò in una agenzia viaggi. Placido e sereno come se stesse
progettando una vacanza, chiese il volo più economico per
raggiungere Buenos Aires. L’impiegata digitò molto velocemente
dei dati sul computer e dopo alcuni secondi estrapolò un volo di
solo andata in classe turistica, con partenza prevista per
l'indomani da Milano Linate alle ore 15:00. La compagnia,
Aerolineas Argentinas, costava meno rispetto ad altre poiché
effettuava due scali, di cui uno a Fiumicino e uno a Madrid e
sarebbe giunto a destinazione alle 07:30 del mattino successivo.
Il tutto per la modica cifra di cinquecentotrentuno euro.
«Prenoto?» domandò l’impiegata.
«Sì» rispose Desiderio mettendosi la mano al portafoglio.
«Mi serve il suo passaporto».
«Il passaporto?».
«Sì, è necessario per la prenotazione».
«Ah, devo averlo dimenticato a casa».
«Spiacente, ma senza non posso».
136
«Vado a prenderlo».
137
XLIV
Benché il piantone avesse riconosciuto Desiderio, non lo fece
entrare subito. Lo lasciò ad attendere per una buona decina di
minuti sull’ingresso rivolto verso la guardiola, mentre scriveva
indisturbato una mail dal suo portatile contenente la formazione
del fantacalcio. Fu lo sguardo fisso e decisamente innervosito di
Desiderio a convincerlo di allungare finalmente la mano sul
pulsante apriporta.
«Del Piero domenica non gioca, ho messo Gilardino come unica
punta, anche se ultimamente segna meno…».
Desiderio emise uno sguardo perplesso e il piantone come se
nulla fosse glissò l’argomento.
«Non è presto per venire a firmare?».
«Cercavo Barbieri».
«L’ispettore Barbieri» puntualizzò.
«Sì, l’ispettore Barbieri».
«Un attimo».
Il piantone digitò sulla pulsantiera il tasto del telefono
corrispondente all’interno di Barbieri, ma il telefono squillò a
vuoto.
«Non è in ufficio».
«Non sa se è uscito?».
«Mica posso sapere tutto io?».
Desiderio rimase allibito dall’atteggiamento dell’uomo in divisa,
ma non potendo fare altro si congedò e si avviò nuovamente alla
porta. Quando afferrò la maniglia sentì chiamare il suo cognome.
Si voltò e vide Barbieri.
«Salve ispettore, possiamo parlare?».
«Andiamo nel mio ufficio».
Desiderio lo seguì per le scale che conducevano al secondo
piano, poi presero per un corridoio e raggiunta la metà di esso
entrarono nell’ufficio.
138
«Avanti, sono tutto orecchie».
Desiderio esitò prima di professare la sua richiesta. Di fatto non
sapeva come annunciarla e non aveva la minima idea di come
Barbieri avrebbe potuto reagire.
«Voglio andarmene».
«Scusa ma non ti seguo».
«Dall’Italia».
«Ma non puoi, sei in attesa di giudizio e non hai documenti
validi ai fini dell’espatrio».
«È per questo che mi trovo qui, mi restituisca il passaporto la
prego».
«Sì e io perdo il posto di lavoro per te. Ma scherzi?».
«Mi trovo in una situazione imbarazzante e l’unica via per
uscirne è scappare, il più lontano possibile. Sperando poi, che
con l’aiuto del tempo, tutto si rimetta a tacere nella mia testa,
perché ora ispettore c’è un gran casino!».
«Hai fatto indubbiamente una cazzata, ma tutto si rimetterà a
posto, tanto in galera non ci va più nessuno».
«Io e mia moglie ci siamo lasciati».
«Anch’io con la mia, all’inizio si sta male, ma poi ti riprendi e
torni a vivere con un’esperienza in più e vaccinato aggiungerei».
«Ha partorito due giorni fa e ieri ho perso definitivamente il mio
lavoro».
«Cristo santo, ma avevi detto che non ti avevano fatto storie!».
«Le cose sono cambiate».
«E come?».
«Me le hanno fatte» Desiderio si fermò a riflettere, non poteva
dire la verità sul suo incontro con Capurro.
«Mi vogliono trasferire in un’altra sede, giù in Toscana. Mi
hanno messo al muro. O accetto o mi licenzio. Io giù non vado,
non ho motivo d’andarci, vorrebbe dire ugualmente separarsi
dalla famiglia, che non ho più. Non ha senso capisce?».
«Lo ha per lo stipendio».
139
«Tolga l’affitto per l’abitazione che sarei costretto a prendere, i
soldi del mutuo della casa a Genova e gli alimenti per la bambina.
Cosa ne resta?».
«Poco, non ci vuole un commercialista. Beh che cazzo, almeno la
nostra amministrazione in questi casi un posto letto in caserma
ce lo riserva» commentò Barbieri con un tono ironico.
«Mi dia il passaporto ispettore».
«Non posso proprio e poi…» s’interruppe un istante. «E poi, è
tardi...».
«E non ci sono altre soluzioni?».
«Che tu resti a ingoiare merda come fan tutti».
«Non ne posso più».
«E dove vorresti andare?».
«A Buenos Aires dapprima, comunque restare in Argentina».
«Hai dei parenti laggiù?».
«Due cugini di primo grado».
Barbieri scosse la testa mentre lo stava guardando.
«Non può fingere uno smarrimento?».
«Sei completamente ammattito».
«Non capita anche a voi poliziotti di perdere qualcosa ogni tanto?
Lei potrebbe aver perso il passaporto proprio in questo ufficio,
magari durante il passaggio della donna delle pulizie che
erroneamente lo ha gettato nella spazzatura, non è un’ipotesi
inverosimile».
«Sei fuori strada credimi…».
La porta si spalancò con uno schianto. Entrò un omone grosso
con barba e capelli lunghi, teneva in una mano un mitra e
nell’altra un giubbotto antiproiettili.
«Luciano corri, rapina in gioielleria, piazza Montano, sono
ancora dentro!».
Barbieri scattò in piedi.
«Dài, esci ragazzo!» l’ispettore prese per un braccio Desiderio e
lo accompagnò fuori dall’ufficio, poi proseguì la corsa con l’altro
140
uomo dimenticandosi di lui.
Desiderio fu lasciato solo nel corridoio, proseguì verso le scale
senza incrociare nessuno, le raggiunse e ancora non sentiva
movimento su tutto l’intero piano. Si fermò. Ascoltò il silenzio
per molti secondi e si convinse di essere solo. Tornò indietro,
aprì la porta e osservò l’ufficio. Degli armadietti metallici erano
disposti su di un lato e avevano le chiavi nella serratura. Aprì il
primo, era pieno di faldoni. Ne prelevò uno a caso, lo aprì e
cercò di capirne il contenuto. Estratti di legge sull’immigrazione.
Ne prese un altro. Estratti di legge sulle armi. Un altro ancora.
Niente. Chiuse l’armadio e aprì quello a fianco. Anche lì faldoni
contenente leggi. L’armadietto dopo, ancora leggi. Una stanza
piena di leggi pensò. Dove poteva essere il passaporto? Guardò
nei cassetti della scrivania, niente. Uscì dalla stanza e si ritrovò
nel corridoio, lo ripercorse a destra, si fermò davanti una porta,
sulla targhetta era impressa una scritta. Misure di prevenzione.
Impugnò la maniglia, era aperta. Entrò e come nell’altro ufficio
vide una scrivania e un lato tappezzato di armadi anch’essi con
chiavi nelle serrature. Il terzultimo da destra aveva l’adesivo
incollato con le lettere scritte a mano O P Q R. L’aprì, i faldoni
della lettera O erano in alto, ne prese uno e iniziò a sfogliarlo:
OTTAVI Giorgio 23/7/1964 Torino, OTTAVIANI Silvio
03/9/1969 Genova, OTTONELLO Desiderio 13/02/1975
Genova. Prelevò dal faldone il suo fascicolo e lo aprì. Tra i vari
incartamenti c’era il suo passaporto, lo prese. Richiuse il
fascicolo, lo rimise nel faldone, richiuse anch’esso e lo rimise al
suo posto. Chiuse l’armadio e uscì dalla stanza. Percorse tutto il
corridoio con passo felpato, sapendo però di non correre alcun
rischio perché quel piano era vuoto, scese le scale e arrivò alla
guardiola, aprì il portone e uscì. Si voltò verso il piantone, ma
era ancora immerso nel mondo del fantacalcio e non si accorse
minimamente del suo passaggio.
141
XLV
Il Cortese dei colli tortonesi non mancava mai in casa Ottonello.
Il papà di Desiderio andava a prenderlo direttamente dal
produttore, un amico di gioventù che si era ammogliato con la
figlia di un coltivatore del basso Piemonte. Quando Desiderio
entrò in cucina trovò suo padre seduto a tavola. Tracannava
proprio quel vinello dal fiasco che solitamente conservava con
cura per i giorni di festa. Aveva tutta l’aria di essere lì già da
tempo, con la faccia rubiconda e lo sguardo perso nello schermo
del televisore spento. Poteva tranquillamente essere scambiato
per uno dei tanti vecchi avvinazzati che ricorrono al bianchetto
del bar per alleviare le angherie della vita.
Desiderio si soffermò a guardarlo. Lui senza che nemmeno si
accorgesse di essere osservato riprese a bere. Nella monotonia
del gesto, questa volta tirò su il fiasco con fatica e appena lo
ebbe accostato sulle labbra, la mano traballò per via del peso,
finendo per irrigarsi il collo di vino.
«Sono uno spettacolo o no?» parlò, guardandosi sullo schermo
del televisore.
Desiderio non capì se le parole furono indirizzate a lui oppure
erano state frutto di una riflessione momentanea.
«Siedi!» ordinò, facendogli cenno con una mano.
Desiderio si sedette, suo padre invece con un notevole sforzo si
alzò per prelevare dalla piattaia un bicchiere, poi tornò al suo
posto e versò del vino nel bicchiere che porse al figlio.
«Bevi» ordinò più cautamente.
Desiderio si portò il bicchiere alla bocca e bevve. Era fresco di
frigo, di un colore giallo paglierino con riflessi verdognoli e un
sapore brioso.
«Sempre buono il vinello di Flavio, vero papà?» commentò,
cercando di smussare l’umore spigoloso del padre. Lui però non
disse nulla, limitandosi a bere e, appena ebbe terminato, ripose il
142
fiasco sul tavolo aggiustando lo sguardo verso il figlio.
«Mamma…» s’interruppe per il senso di umiliazione che pensava
d’aver cancellato a forza di vino ma che invece si era riproposto
inaspettato come un singhiozzo. Scosse la testa rimuginando
indignato e bevve ancora. Bevve sentendosi schiacciare dal peso
dell’alcol, ma più beveva più si sentiva in grado di sfidare
qualsiasi forza di gravità che lo voleva ridurre a terra, così
continuò a tracannare vino sempre più incazzato, più
determinato a contrastare la spinta contraria. Non sarebbe mai
caduto da quella sedia, si diceva, avrebbe continuato a bere per
tutta la notte.
«Mamma è andata veramente con quello là?» alla fine domandò
teso e a denti serrati.
«Temo di sì papà».
Ecco che la risposta del figlio si associò come spinta contraria al
peso dell’alcol. Tutto quel peso in una notte non era facile da
sorreggere. Ma dopotutto pensò, che male c’era a crollare,
insomma, la vita è dura per chiunque e se a un certo punto uno
si arrende è umano, è comprensibile, e poi in fin dei conti si
trattava solo di una notte. Allora chiuse gli occhi, strinse forte il
fiasco nella mano e iniziò a bere grosse sorsate, come se volesse
annegare nel vino e si accorse, mentre succhiava ingordamente,
che non era poi tanto male quello che gli stava accadendo,
sapeva di dolce abbandono, di onesto stop. La mano ebbe un
cedimento, il fiasco cadde a terra e lui perse i sensi afflosciandosi
sul tavolo.
Desiderio lo guardò deluso, gli si avvicinò esaminandolo
attentamente, pensando che non si sarebbe mai immaginato di
vederlo in una simile condizione. Era assurdo. Assurdo che i
suoi si fossero lasciati dopo trentasei anni di matrimonio, che
sua madre fosse partita con uno sconosciuto, assurdo che molto
probabilmente avesse covato occultamente questa esigenza di
fuga, di scomparire dalla realtà proprio come esigeva lui. Vedere
143
che suo padre ne soffriva proprio come ne soffriva Adele. E
allora a chi attribuire le colpe, i fallimenti di tutto ciò? A chi
restava o a chi partiva? Verso chi pendeva l’ago della bilancia?
Era venuto a parlargli, a dirgli come stavano le cose, ma non fu
possibile, come con sua madre. Adesso ognuno per la sua strada.
Meglio. Chissà se avrebbe capito, in fin dei conti questo episodio
era da intendersi come un'ulteriore conferma di quanto fosse
giusta la decisione di partire. Suo padre avrebbe potuto
impedirglielo, invece il destino era intervenuto appianando
inconvenienti e impedimenti.
144
XLVI
«Sei felice?» urlò Beppe, balzando alle spalle dell’uomo nero.
L’uomo bianco spaventato fuggì, l’altro, quello nero, s’irrigidì
innervosito per aver perso un’ottima occasione di rifilare la sua
dose. Imprecò rabbiosamente nella sua lingua, calciò una
bottiglia di vetro infrangendola sul muro, poi si voltò verso
Beppe, lo prese per il bavero, lo strattonò per un po’ e alla fine
lo colpì con una testata sul naso. Beppe cadde a terra. L’uomo
nero dominava al disopra di lui, con lo sguardo di un cacciatore
che ha appena abbattuto la sua preda. Circospetto, guardò
attentamente l’ambiente attorno a sé, appurando che non vi
fosse nessuno, poi si chinò e introdusse le mani nelle tasche di
Beppe alla ricerca di denaro o di quant’altro potesse avere un
minimo di valore. Beppe si agitava disteso al suolo senza
opporre resistenza, con le mani sul volto cercando di tamponare
il sangue fluente dal naso. L’uomo nero non trovò niente, stava
per rialzarsi quando la sua faccia spuntò fuori tra le mani
insanguinate aperte a libro ed emise un sorriso gioviale, come se
nulla fosse accaduto.
«Sei felice?» ripeté.
L’uomo nero s’infuriò, senza esitare centrò con un pesante
pugno il volto di Beppe e si dileguò tra i caruggi.
Il sangue stillava a fiotti dal naso di Beppe, in un attimo la
sagoma della sua testa fu attorniata da un’aureola densa e
purpurea. Immobile e silente, le palpebre chiuse non gli
permettevano la vista del cielo buio e segreto che difendeva
Genova dal tentativo di penetrazione dei bagliori di una luna che
sembrava avesse assorbito il sole da quanto era piena di luce e
bellezza. Il sorriso rimase stampato sulle sue labbra in segno di
benevola amicizia nei confronti di chi lo avesse rinvenuto nel
vico stretto e poco frequentato in cui giaceva assieme a un ratto
morto, anch’esso steso a un metro dai suoi piedi a ventre in su,
145
nascosto tra le varie sfumature nere della notte.
146
XLVII
Desiderio tornò a casa sua. In testa portava ancora l’immagine
avvilente del padre. Era rimasto particolarmente impressionato
nel vederlo così malconcio, non era mai accaduto da che lui
ricordasse. Aveva pure tentato di accompagnarlo in camera, ma
il suo stato d’incoscienza era talmente profondo da non riuscire
a ridestarlo neanche per un attimo e aveva potuto quindi solo
coprirlo con un plaid, proteggendolo da una sicura congestione.
Prima di andarsene però, aveva lasciato un messaggio che sapeva
molto d’addio. Non trovando carta per scrivere, aveva utilizzato
la copertina di Pian della Tortilla.
Vado in Argentina.
Riceverai mie notizie regolarmente, te lo prometto.
Ti voglio bene e non stare in pena per me.
Desiderio
Il libro lo aveva riposto sul tavolo, innanzi la sua testa calva, con
la consapevolezza matematica che una volta ripresosi, distratto
dai postumi della sbornia, non l’avrebbe notato. Solo l’attenuarsi
del mal di testa sarebbe stato in grado di riaccendere in lui
l’attenzione verso ciò che lo circondava, restituendogli infine il
messaggio, che con tutta probabilità lo avrebbe indotto ad
assumere un atteggiamento scellerato come quello di attaccarsi
nuovamente ai fiaschi di Cortese dei colli tortonesi.
Il patema d’animo di Desiderio era come un dirigibile che stava
per esplodere da quanto era rigonfio. Non aveva un attimo di
fermezza, girava per la casa senza un preciso intento, sapeva di
dover riposare, ma gli risultava impossibile farlo. Sul televisore si
trovava il biglietto aereo di solo andata per Buenos Aires, lo
prese e lo ricontrollò per l’ennesima volta in tutte le sue parti:
147
orari, scali intermedi e destinazione finale, poi prese anche
l’opuscolo con gli orari dei treni, controllando quello che da
Genova Principe lo avrebbe portato a Milano Centrale, era delle
11:19, con arrivo previsto alle 12:50. Tutto invariato, orari e
destinazioni. Rimaneva solo da dormire, ma come? Troppa era
l’ansia, la paura opprimente. Doveva contenerla. La notte
sarebbe stata lunga da trascorrere insonne. Finalmente giunse
alla soluzione. Assopimento indotto da hashish. Elia, quando era
venuto a trovarlo, gli aveva lasciato un pezzo da un paio di
grammi. Andò a prenderlo da una calza all’interno di un cassetto
dell’armadio, poi prese il restante necessario per rollare. Era
tanto che non ne preparava una e il risultato fu abbastanza
imbarazzante, quello che ne derivò infatti, dopo un’attenta
preparazione manuale, sembrò essere un piccolo carciofo
afflosciato. Con la successiva invece andò decisamente meglio,
assomigliava a uno di quegli spinelli che vendono già preparati
nei coffee shop di Amsterdam. La fumò molto velocemente come
la precedente per dedicarsi alla creazione della terza che
finalmente, dimezzando anche i tempi, lo soddisfece a pieno sia
per la forma che per la sostanza.
L’effetto desiderato non tardò a sopraggiungere e l’ansia in poco
tempo si tramutò in pacifica indifferenza. Flemmatico come un
bradipo, Desiderio si adagiò sul letto e si addormentò.
148
XLVIII
«Sei felice?».
«Noi, voi, essi… sono felici?».
«Noi, voi…».
«Noi, voi…».
«Sei felice?».
Beppe muoveva i suoi passi con una tale morbidezza da
sembrare quasi che accarezzasse il selciato di via Prè, come se
camminasse su un qualcosa di vivo e avesse paura di disturbarlo.
I passanti che da lontano lo guardavano incuriositi, vedevano
una figura somigliante a uno dei tanti clochard che popolano le
strade delle grandi metropoli e solo chi lo incrociava più da
vicino vedeva veramente quello che in realtà era. Un ragazzo,
poco più che ventenne dal volto stralunato e incrostato di
sangue che parlava al mondo di cose che solo lui poteva
intendere. Nessuna delle persone che si era accorta di quei
dettagli però aveva impugnato un cellulare o urlato a coloro che
avrebbero potuto aiutarlo. E Beppe, da quando si era alzato
dopo aver trascorso la notte esanime a terra, di persone ne aveva
incrociate tante.
«Noi, voi, essi…».
«Noi, voi…».
«Essi…».
Era il mattino di un giorno lavorativo, l’aria fresca si abbatteva
per le strade senza riuscire a intorpidire il passo di Beppe, che
aveva appena superato la Commenda avviandosi verso via
Gramsci. Le auto accodate in entrambe le direzioni formavano
due lunghi serpentoni. I loro conducenti dopo il solito percorso
sarebbero dovuti scendere per recarsi in ufficio o in ditta. Gli
attraversamenti pedonali erano invasi da studenti di ogni età e
razza, inconsapevoli che un giorno sarebbe spettato proprio a
loro di sedersi in quelle auto, nel monotono percorso lungo fino
149
al raggiungimento della quiescenza. Forse trentacinque anni per i
più fortunati, quaranta per i restanti.
«Noi, voi, essi…».
«Noi, voi…».
«Essi… sono felici?».
150
XLIX
Tra ponente e levante
una misera pluralità.
Odori e sapori aleggiano ammutoliti
cercando spazio a ridosso di un Belvedere2 inesistente.
Il gabbiano troppo goffo non volteggia
propenso ormai a nutrirsi di ciò che straborda dal cassonetto.
Infinita è la scala cromatica del grigio
dal più tenue al canna di fucile.
Canna di fucile fumante
fragore di uno scoppio latente
l’ogiva s’introduce veloce nella mente.
Autoflagellazione avvenuta tra mura domestiche immemori di
momenti sereni.
L’uomo giace.
Frammenti di cervello intrisi di sangue, sgocciolati come su una
tela di Pollock.
La scientifica interviene.
Le foto scattate, sul tavolo nessun biglietto.
Il magistrato non legge, non si diverte.
Tra ponente e levante
San Pier d’Arena.
Misera la fine di un vecchio sopravvissuto ad un’immensità di
mali,
la guerra calda e fredda
la spagnola e il carcinoma.
Due giorni passati senza di lei.
Due giorni di nulla, a braccare il coraggio per raggiungerla.
2
Zona situata sulle alture di Sampierdarena, così denominata dagli antichi
genovesi per la folta vegetazione.
151
La resa dell’ultimo uomo di Sampierdarena.
Tra ponente e levante non c’è più niente.
152
L
Fu come un chiodo conficcato da qualche parte in testa. Un
dolore acuto ed enigmatico, dato che non capiva l’esatto punto
in cui aveva avuto la sua genesi. Si era alzato di scatto con le
mani premute sulla nuca, come volesse tamponare la perdita
improvvisa della propria memoria. Dalle persiane penetravano
deboli lame di luce, indicando gli albori del nuovo giorno.
Desiderio andò davanti allo specchio, quando un altro chiodo
s’incuneò clandestinamente tra i tessuti molli contenuti nella sua
scatola cranica. Socchiuse le palpebre per il dolore, perdendosi
di vista per un attimo. Il dolore fu breve, remoto, come se non
volesse lasciar traccia di sé. Probabilmente l’ultimo pensò, come
la scossa di un terremoto che ne rilascia una più lieve prima di
scomparire. Si stropicciò dolcemente la testa con una mano e
sorrise rasserenato per il pensiero confortante, poi gettò di
nuovo lo sguardo sullo specchio. Forse la luce era poca, forse la
vista era ancora smorzata dal sonno, ma davanti a sé non c’era
un uomo che sorrideva. Protese il busto in avanti, al di sopra del
comò, con la fronte a pochi centimetri della superficie riflettente
e si osservò.
Urlò. Urlò parole incomprensibili al suo udito. Pianse. Si gettò
sul letto disperandosi, imprecando il porco mondo e colui che lo
aveva creato, popolandolo di esseri simili ma non uguali così da
poter decidere le sorti di ognuno di essi, soddisfacendo i propri
istinti sadici. Forse anche il creatore del porco mondo aveva
subito le tirannie di un altro creatore ancora più potente. Sì. Era
stato chiuso al buio lasciato solo con una sfera in mano, il porco
mondo con il quale poteva sfogarsi. Desiderio, bestemmiando,
s’immaginò tutto questo, poi con le mani si prese la faccia e
tentò di strapparsela per non somigliare a quella creatura. Ma
quella era la sua faccia e non veniva, non cedeva d’un millimetro,
come un parassita che vive ancorato sulla superficie esterna della
153
cellula ospite, in attesa che si indebolisca per porre in essere la
sua penetrazione e moltiplicazione. Restò a combattere sul letto,
cambiando la posizione delle dita, schiacciando le unghie nella
pelle, ma non ottenne nulla, tranne delle abrasioni lungo la
circonferenza del viso. Si disperò a lungo e a lungo rimase
supino a fissare il soffitto. Rivide il pennello pregno di vernice
impugnato dalla sua mano, il movimento dall’alto verso il basso
e poi da destra verso sinistra, ricordò la fatica accumulata dal
braccio nel mantenerlo allungato verso il muro e i piccoli
quadrati di bianco che man mano si stringevano sul soffitto fino
a quando l’ultima pennellata concludeva l’opera. Quelle mura
trasudavano fatica, l’arredo che decorava quelle mura trasudava
fatica, la vita vissuta tra quelle mura trasudava fatica e poi la vita
vissuta al di fuori di quelle mura trasudava ancora fatica.
Perché? si domandò. Tornò allo specchio e in quello che vide
non si riconobbe. Sentiva bruciare le ferite, il sangue macchiava
il suo volto proprio come fosse il Cristo dopo l’incoronazione di
spine, la bocca e il mento spostati su di un lato rifiutavano la
loro collocazione originale, restituendo un’immagine plastica alla
faccia. Piangeva. E mentre piangeva capì che l’Argentina non
aveva più alcun senso, capì che anche lei dopo tutto faceva parte
del porco mondo, schiava della volontà superiore del dio
frustrato. Indossò gli abiti che aveva preparato il giorno prima
per il viaggio, poi tornò allo specchio.
Per evitare d’impressionarsi nell’udire il rumore distorto della
sua voce, ne modulò un sottile filo, si guardò attentamente e con
il più alto convincimento possibile disse: “Fanculo”!
Poi uscì.
Le auto in via Buranello erano incolonnate come al solito e il
treno sul viadotto procedeva lento con i suoi vagoni spogli
d’utenti, facendo supporre palesemente che al treno venisse
ancora preferita l’auto.
Le persone passeggiavano abbandonate ai propri pensieri.
154
Desiderio appena uscito dal portone le osservò nel loro
zigzagare senza senso, come fossero delle mosche libere nello
spazio, poi con una calma glaciale, quasi mistica, si infilò tra di
loro inseguendo un’inconsueta cognizione del suo stato d’essere.
A metà della via, un uomo lo precedeva di poco rallentandolo
sul marciapiede, troppo stretto per consentire il cammino di due
pedoni appaiati. Erano quasi le nove, non poteva perdere tempo,
quindi, dopo aver atteso a lungo il momento propizio al
sorpasso, si lanciò senza troppe formalità. Nella manovra la sua
spalla urtò quella dell’uomo e fu come aver azionato un
detonatore perché l’uomo esplose in un movimento convulso e
si voltò strillando: «Sei felice?».
Desiderio saltò in aria dallo spavento.
Guardò chi fosse, ma fu subito certo di non averlo mai
incontrato prima. Era un giovane trasandato dal volto emaciato
e incrostato di sangue, incomprensibilmente sorridente per il
modo in cui andava a giro. Desiderio, senza darci troppo peso
ripartì, ma venne bloccato saldamente per le spalle dal ragazzo.
Ebbe allora una reazione istintiva: le braccia si alzarono e
rotearono all’indietro come se nuotasse sul dorso. Una volta
sgusciato via dalla presa, scagliò contro di lui uno sguardo molto
eloquente. Il ragazzo restò sorridente, come se non fosse in
grado di osservare più in profondità di quanto potesse offrire la
sua semplice vista, come se non comprendesse i chiari segni sul
volto di Desiderio. Desiderio scosse la testa, lo guardò ancora,
poi, come unica risposta al sorriso, decise di offrire la sua faccia,
anch’essa insanguinata, anch’essa provata e in più deturpata da
un attacco di ictus. L’avvicinò a pochi centimetri da quella del
ragazzo e finalmente sembrò recepire che non c’era niente da
ridere, mostrando un volto nuovo, più coscienzioso e profondo.
Desiderio riprese la sua strada, mentre il ragazzo rimase lì fermo
con l’espressione nuovamente mutata in quella precedente, solo
quando si accorse della lontananza che lo separava da Desiderio
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decise d'incamminarsi dietro di lui.
«Sei felice?».
«Noi… voi, essi…».
«Sono felici?».
«Noi… voi…».
Desiderio non lo udiva neanche, si limitò soltanto a guardare
l’ora e ad accelerare l’andatura. Dal ricovero in poi non godeva
più delle solite energie e la fatica si fece subito sentire, indurendo
le gambe. Quando si ritrovò di fronte al vico, quello della
disgrazia, ebbe una sensazione strana, come se l’esperienza
vissuta la dentro fosse attribuibile a un sogno e non fosse mai
accaduta. Soffermò lo sguardo sulle pareti dei palazzi che
costituivano il passaggio pedonale, erano tutte scritte, ma non da
graffiti che comunque potevano avere un significato, ma da
insignificanti scritte del cazzo, fatte da persone che non avevano
nulla da dire. Le stava leggendo tutte mentre camminava senza
trovarne una che potesse soddisfare il suo interesse. Poi lo
sguardo puntò verso la fine del vico e ne trovò una. Era in
stampatello nero. Produci Consuma Crepa. Se la ripeté nella testa
che già gli doleva al solo pensiero. Bastardo quello che l’aveva
scritta, proprio un bastardo. Mentre gli saliva la rabbia, il
chiodino era tornato a fargli visita. Graffiava dolcemente da
qualche parte nel suo cervello.
Un uomo s’introdusse all’interno del vico e aveva un sacchetto
di nylon in mano. Era ancora lui. Pittaluga. Allora non era stato
un sogno, era accaduto veramente. Lui era l’uomo che viaggiava
con quindicimila euro, che tutti i giorni viaggiava con
quindicimila euro e che la sola e unica volta in cui un disgraziato
aveva tentato di portarglieli via, si era dato tanto da fare per
trattenerli, quando sapeva benissimo che l’indomani ne avrebbe
avuti altri ancora, perché tutti i giorni incassava quindicimila
euro. Quindicimila euro. Cosa poteva rappresentare per lui
quella cifra? Desiderio li guadagnava in un anno e lui in un
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giorno. Desiderio non si accorse neanche che mentre stava
elaborando pensieri di frustrazione nei confronti di un uomo di
successo, le sue mani erano già attaccate a quella busta. Le sue
mani e la busta unite in un perfetto déjà vu. La sua bocca storta
urlava rumori incomprensibili, mentre Pittaluga, caparbiamente,
la tratteneva con tutta la forza di cui disponeva. Fu un tira e
molla estenuante, nessuno dei due voleva cedere. Entrambi
avevano le vene del collo ingrossate per la fatica, tiravano, poi
mollavano brevemente per recuperare fiato, sembrava stessero
facendo della pesca d’altura nel tentativo di catturare un grosso
pesce spada.
Fu come un chiodo conficcato da qualche parte in testa. Di una
foggia diversa rispetto ai precedenti, di un acciaio robusto, più
appuntito e lungo, perché Desiderio chiuse improvvisamente gli
occhi, mollò la presa e cadde di schiena, emettendo un tonfo
sordo. Pittaluga si ritrovò seduto sul fondo schiena con il
sacchetto in mano. Si alzò e si avvicinò a Desiderio. Lo guardò
bene, non sapeva se fosse vivo o morto. Prese il cellulare,
compose il 118, mise il pollice sul tasto per inviare la chiamata,
ma ebbe un attimo di esitazione. E se quel bastardo una volta
guarito fosse tornato? Tolse il dito dal tasto, rimise in tasca il
cellulare, si guardò intorno e vide soltanto un uomo che stava
arrivando dalla parte opposta, che certamente non poteva aver
visto nulla. Si sistemò il nodo alla cravatta e andò via.
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LI
«Sei felice?» urlò Beppe dal fondo del vico.
Era almeno un giorno che non possedeva più il suo sguardo
profondo da indagatore dell’anima. Lo aveva smarrito durante il
suo pellegrinaggio, in qualche strada del centro storico, affisso su
qualche muro ammuffito come un cartellone pubblicitario o
magari abbandonato proprio sul volto di uno dei tanti passanti,
sfiancato dalla lunga ricerca e dalla continua mancanza di
risposte.
Percorse lo stretto passaggio interrogando colui che stava
disteso a terra, sotto la scritta lapidaria: Produci Consuma Crepa.
Il breve riassunto di una vita.
«Sei felice?» domandò ancora al corpo esanime.
Un lungo silenzio.
«Noi… voi, essi…».
«Noi…».
«Voi…».
«Voi siete felici?».
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