1 L`ULTIMO UOMO DI SAMPIERDARENA di Marco Burchi
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1 L`ULTIMO UOMO DI SAMPIERDARENA di Marco Burchi
L’ULTIMO UOMO DI SAMPIERDARENA di Marco Burchi 1 I L’esile corpo, intriso di sudore, dipinse una sindone astratta sul lenzuolo che lo ricopriva. Tre secondi di panico resero l’uomo inerme, incapace d’agire. Tentò di dischiudere gli occhi per svegliarsi, ma qualcosa impedì il compiersi di quella semplice azione. Attese alcuni minuti, lasciando che i battiti cardiaci riprendessero il normale ritmare, poi ristabilita la calma, con una concentrazione simile a quella di un religioso raccolto in preghiera, recuperò tutte le energie di cui poteva disporre e le confluì sulle palpebre degli occhi, inducendole ad aprirsi. Vide un soffitto bianco, di modeste dimensioni, poteva appartenere a una stanza che non superava i quattro metri per quattro. Osservò i suoi confini con il solo movimento degli occhi, senza muovere la testa né a destra né a sinistra. Al centro un neon interrompeva la geometria piatta della superficie bianca, era spento e la poca luce che penetrava attraverso le vetrate della finestra apparteneva a un sole incerto. Sentì il lato sinistro del suo corpo assopito, insicuro di voler comunicare nuovamente col mondo esterno. Sollevò allora la mano destra e constatò con una certa meraviglia la totale obbedienza di questa agli ordini impartiti. Iniziò a farla mulinare nell’aria circostante al volto, come una farfalla vola attorno al suo fiore e dopo aver sbattuto le ali e ripreso vigore, si posò tra il naso e la fronte, creando una sorta di ponte immaginario. Con una carezza perlustrò tutta l’epidermide facciale senza avvertire escoriazioni o mutazioni varie, la mano poi scorrazzò tra i capelli, saggiando accuratamente il rotondo territorio, scoprendo con sollievo la totale integrità della testa. Con l’aiuto della solita mano, imperterrito proseguì nella ricerca. Scrupoloso, lento nello spostamento, prese il lenzuolo che lo ricopriva in parte, lo alzò e vide che aveva indosso una vestaglia ospedaliera lunga fino a metà coscia. Non ancora soddisfatto, 2 lanciò il lenzuolo più in basso, in fondo ai piedi, riuscendo ad avere in questo modo una più ampia visuale di se stesso. Sempre determinata nei suoi movimenti, la mano, scivolò giù verso il lembo di tessuto più estremo della vestaglia. Lo afferrò e lo tirò su. Per agevolare la vista allungò anche la testa sul petto e così facendo poté osservare il suo molle pene incanalato dal catetere. Costernato, riappoggiò la testa sul cuscino. Bloccò lo sguardo sul soffitto per diversi minuti, durante i quali emise solo un lamento laconico, fatto unicamente per udire se stesso. Al lato opposto della finestra c’era una porta chiusa laccata in bianco, oltre di essa proveniva la quiete assoluta. Non gli occorse una particolare lucidità per comprendere che si trattava di un ricovero ospedaliero, mentre invece si prospettò più complicato capire quando fosse avvenuto. Probabilmente era ancora febbraio, ricordava infatti di aver festeggiato il suo compleanno il tredici di quello stesso mese. In supporto alla sua considerazione intervennero alcune immagini della serata trascorsa al ristorante. Rivide sua moglie Adele e gli amici presenti quella sera. Poi ipotizzò che non potevano essere trascorsi molti giorni dal suo risveglio in quella stanza e fu per lui una strana sensazione scoprire come dei ricordi risultassero chiari e ben decifrabili, mentre, facendo appello a uno sforzo maggiore, per mettere in risalto ricordi poco più recenti, la memoria non concedesse più nulla di quanto fornito. Entrò un’infermiera, bassa, tarchiata, aveva il viso ricoperto da una spessa maschera di trucco. Alla destra del suo faccione, poco al di sopra del labbro superiore, le spuntava evidente un neo, grosso come la capocchia di un porcino. Sul camice bianco teneva appuntata una spilla riportante il nome e la funzione che ricopriva in ospedale. Si chiamava Ida ed era un assistente di sala. «È molto che hai aperto gli occhi?» domandò. «Sssaran sarannoo…» l’uomo non riuscì a esprimersi e, pieno di sgomento, guardò l’infermiera supplicandola di una spiegazione. 3 «Hai avuto un ictus, adesso fai fatica a parlare, ma con una buona riabilitazione tornerai ad essere quello di prima». «Un ii… iictus?». «Sì, ma non sforzarti e cerca di riposare, comunque vado a chiamare il dottore». Ida gli rimboccò la coperta, dopodiché uscì dalla stanza, lasciandolo nuovamente solo. I vetri della finestra vibravano per gli spostamenti d’aria generati da un cantiere in continuo movimento. Sentiva bene le urla degli operai mescolate alle percussioni dei martelli pneumatici, mentre le continue accelerate degli autocarri e delle ruspe in manovra, provocavano nuvole nere di gas di scarico che si levavano in aria fino a raggiungere la finestra. La porta si riaprì, era Ida accompagnata dal medico. «Come va?» chiese il medico. L’uomo non rispose, fece solo una smorfia facendo intendere che aveva visto giorni migliori. «È stato colpito da un ictus ischemico, in forma piuttosto lieve…». Il medico s’interruppe, pensando che l’uomo volesse porre una domanda, ma restò in silenzio, al suo posto. «Il flusso sanguigno diretto al cervello è stato ostacolato da un improvviso restringimento di un’arteria, questo le ha causato l’insorgenza di un'emiplegia, cioè di questa debolezza che prova nel muovere metà del suo corpo, accompagnata dal disturbo dell’uso della parola e della deglutizione. Non ha dovuto subire interventi ed è molto positivo visto che le consentirà di ristabilirsi più rapidamente, ovviamente sottoponendosi a un’adeguata riabilitazione». Nel fluire della spiegazione, l’uomo si discostò completamente dalla realtà, confondendo l’immagine del medico con quella di un professore avuto a scuola. Una persona infinitamente innamorata di se stessa e del proprio linguaggio dotto, al quale 4 non interessava coinvolgere gli alunni durante le lezioni, limitandosi a insegnare per contratto senza un minimo di passione. Fu una sorta d’allucinazione istantanea, dalla quale si riprese subito, che aveva trovato spazio nella sua mente più per la somiglianza fisica dei due uomini che per il modo d’esprimersi del medico che in fondo era fin troppo chiaro. «In qqualle ospedale sssiamo?» domandò l’uomo in sincero affanno. «Al Centro Ictus del Galliera» rispose il medico. «Che ggiornno è oggi?». «È martedì venticinque febbraio, è stato portato qui in ambulanza questa mattina verso le nove e trenta. Le dico subito che sua moglie è stata avvertita ma…» fece una breve pausa scontrando lo sguardo dell’infermiera «diciamo che in questo momento è sotto un regime ospedaliero restrittivo e quindi non può assolutamente vedere nessuno. Comunque sono le undici e quaranta, più tardi avrà ulteriori notizie in merito. Ora cerchi di riposare. Tornerò a fine mattinata per visitarla nuovamente, buongiorno». L’uomo contraccambiò al saluto con un cenno della mano, poi, quando fu solo, si adagiò sul letto mettendosi alla ricerca del riposo tanto raccomandato. 5 II Un cumulo di pensieri s’introdusse disordinatamente nella sua testa. Chiuse gli occhi, cercando di riordinarli, ma il senso di scoramento che provava rendeva l’operazione praticamente impossibile. Pensò a sua moglie e al fatto che lui fosse lì, in quel non luogo, solo come un cane e in breve sentì riaffiorare la tensione provata durante il risveglio. Si stava liberando nel suo corpo, lasciando intuire chiaramente la forza del suo imminente dominio e a un certo punto essa si manifestò attraverso un improvviso cedimento di nervi che lo condusse a un pianto isterico, dal quale gli sembrò fin da subito impossibile uscire. La bufera durò a lungo e, dopo che l’ultima lacrima sgorgata si deterse, rimase bloccato su di un unico pensiero, rivolto alla ricerca di una spiegazione plausibile a quello stato di solitudine a cui era stato abbandonato. Ripercorse mentalmente gli eventi, fin dove la sua mente poteva arrischiarsi: la mattina era uscito per andare a lavoro, come del resto faceva sempre. Sveglia alle sette, lui a preparare il caffè, sua moglie in bagno a confezionarsi il bel faccino, terminata la colazione, bacio in bocca e ognuno per la sua strada. Lei a piedi verso l’ufficio e lui verso il parcheggio, dove teneva la sua Mini Minor. La ricostruzione non valse a nulla e divagò ampiamente. Desiderio Ottonello. Senza indugi ricordava come si chiamava. Il nome di battesimo era stato scelto dai sui genitori il giorno stesso della sua nascita, al Gaslini di Genova, in omaggio al desiderio avverato di avere un figlio dopo cinque anni di tentativi, in cui si potevano annoverare due aborti spontanei, una gravidanza spenta, infinite richieste di esami e relative umilianti analisi, eseguite sia dalla madre che dal padre. Ormoni, malumori, dissapori, false speranze e infine una gioia, Desiderio. Aveva trent’anni e da circa dieci, lavorava alle dipendenze della “Sicur-Tex”, un’importante azienda di Bolzaneto, specializzata in 6 sistemi di sicurezza. Questa produceva porte antirapina per le banche di mezza Italia, tecnicamente erano definite bussole e non erano altro che porte girevoli poste all’entrata di ogni banca, munite di un sistema capace di rilevare oggetti metallici della dimensione di una pistola, o di un cutter. A un tratto Desiderio sentì bisogno di voltarsi a pancia in giù, ma il catetere e altri tubi collegati al braccio gli impedirono qualsiasi movimento. Riprese a navigare tra i ricordi e ripensò alla prima bussola che aveva visto, a come era stato tratto in inganno dalla sua forma. Era in officina, assieme all’ingegnere che lo aveva assunto, mentre gli stava mostrando tutto lo stabilimento. Era entrato grazie a delle conoscenze, senza sapere nemmeno cosa facessero in quell’azienda, tantomeno quali sarebbero stati i suoi compiti. La vide appoggiata su un bancale di legno, già imballata con del nylon trasparente pronta per la spedizione. Si presentava come un grosso parallelepipedo, la cui struttura in acciaio, verniciata in nero, con una finitura goffrata, comprendeva due grossi vetri antisfondamento posti su due lati, mentre su ciascuno degli altri due lati liberi da impedimenti fissi, si reggeva una porta sempre in vetro massiccio ma di forma curvilinea, che poteva scorrere su di una rotaia, offrendogli così la possibilità di aprirsi e di richiudersi. A primo acchito, confuse il parallelepipedo per un ascensore e questa sua convinzione l’accompagnò per quasi tutta la prima giornata di lavoro, fino a quando non prese parte all’assemblaggio di una di queste. All’inizio della sua avventura lavorativa Desiderio fu affiancato a Oreste Piana. Un ometto gracile, dalle enormi mani callose, di sessantadue anni, in pensione ormai da quattro. Continuava a presentarsi regolarmente in officina tutte le mattine, trattenendosi fino alla pausa pranzo. Con l’azienda aveva stipulato un accordo secondo il quale percepiva una retribuzione al nero per le sue quotidiane prestazioni. Questo offriva un duplice vantaggio alla dirigenza della “Sicur-Tex”, di non versare 7 contributi e di avere un dipendente di navigata esperienza, rimasto ancora uno dei pochi in grado di fronteggiare qualsiasi tipo d'inconveniente nell’ambito costruttivo di una bussola e che finalmente poteva trasmettere agli altri i trucchi del mestiere. I rapporti tra i due erano altalenanti, Oreste non era capace di gestire il proprio umore, a momenti scontroso e irritante, a momenti spiritoso e di buona compagnia. Sapeva di questi suoi sbalzi d’umore e per giustificarli tirava sempre in ballo una maledetta andropausa. Amava parlare di politica e non passava giorno che non ricordasse quanto fosse importante per un operaio essere di sinistra ed essere al contempo solidale con le cause del sindacato. Come s’infuriava poi quando parlava degli “altri”, quelli di destra! Parola questa che non utilizzava mai, la sostituiva semplicemente con un “vai di là”, “gira dall’altra parte” o “al lato opposto della sinistra”. La convivenza lavorativa tra i due comunque durò poco più di un anno, s’interruppe bruscamente a causa di un incidente sul lavoro, un inconveniente che Oreste non seppe fronteggiare. Più che altro fu una leggerezza commessa per la troppa confidenza che aveva nel manovrare il muletto. Quel giorno infatti, a bordo di uno di quei mezzi, effettuò una sterzata troppo rapida per il peso che stava trasportando, il muletto s’imbarcò su se stesso e la bussola che stava trasportando cadde rovinosamente a terra fracassandosi completamente. Impietrito, in faccia gli si dipinse un’espressione simile all’uomo dell'Urlo di Munch. Tutti cercarono di sdrammatizzare, dagli operai agli ingegneri di reparto, ma in cuor suo sapeva di aver fatto un danno da ventiduemila euro e non solo, sapeva anche che in quarant’anni di mestiere questa era la prima volta che il suo curriculum si macchiava d’un orrore simile, così, mortificato nel più profondo dell’animo, prese la decisione di non tornare mai più. Negli anni a seguire Desiderio riuscì a capitalizzare gli insegnamenti di Oreste in modo tale da ritagliarsi un briciolo 8 d’indipendenza all’interno dell’azienda. Questo privilegio gli venne attribuito dalla dirigenza non solo per le sue doti, ma anche per quel suo atteggiamento d’astensionismo nei confronti delle agitazioni sindacali, comportamento contrario al pensiero del suo primo mentore, ma certamente più proficuo. Come dazio da pagare per l’agio ottenuto, doveva sopportare l’indifferenza di un gran numero di colleghi rimasti infastiditi per la prevaricazione subita da parte di un giovane arrivato da poco, che si era messo in evidenza, a loro avviso, solo per il semplice fatto che evitava gli scioperi. Non solo, ogni giorno, intorno a lui girava uno sciame di sindacalisti determinati a ottenere una tessera da lui sottoscritta, talvolta anche tentando d’imporsi con toni minatori, ma lui in modo subdolo si mostrava sempre interessato all’argomento e allo stesso tempo incerto su chi potesse essere il miglior garante per la tutela dei suoi diritti. Temporeggiava e allontanava eternamente così il giorno di un’eventuale iscrizione, senza destare troppi dubbi sulla vera natura delle sue intenzioni. L’indipendenza di cui poteva beneficiare, corrispondeva alla qualifica d’installatore, quindi, invece di occuparsi della fase costruttiva, doveva provvedere alla sistemazione delle bussole direttamente nelle banche. La mattina, quando usciva dalla “Sicur-Tex” con l’auto aziendale, raggiungeva il posto di lavoro che mutava in base alla durata e al tipo di prestazione da effettuare, considerato che, oltre a installare, svolgeva anche servizi di manutenzione itineranti su tutto il territorio ligure e toscano. Una posizione invidiabile la sua, svincolato da qualsiasi legame diretto con i superiori e dal resto dei colleghi, doveva semplicemente seguire una tabella di marcia che gli veniva fornita prima dell’uscita. Libero di scegliere il momento in cui farsi una pausa caffè, fumarsi una sigaretta, libero d’intrattenersi al telefono quanto voleva. 9 III I martelli pneumatici cessarono di lamentarsi e con loro svanirono anche i brusii degli operai impegnati nel cantiere. L’improvvisa assenza di rumori catapultò Desiderio nella realtà della stanza, sradicandolo da ogni suo pensiero. Si guardò attorno, alla ricerca di particolari che ancora non aveva rilevato. Vide uno strano contrasto creato tra l’inesistente arredo e l’angolo tecnologico posto a fianco del suo letto. Un monitor e una matassa di fili che andavano ad attorcigliarsi su di lui, proprio come fossero i tentacoli di un polpo, posizionati appositamente per controllare le sue funzioni cardio-respiratorie. Nient’altro, né una sedia dove potersi sedere, né un comodino dove poter poggiare un bicchiere o un libro, tanto meno un armadietto dove poter mettere degli indumenti. Niente di niente, come se prima di allora quella stanza non fosse mai stata utilizzata. Troppo dimessa per far parte di un padiglione ospedaliero, troppo lontana dal via vai frenetico degli infermieri, dei degenti o dei visitatori. Per la terza volta si aprì la porta, questa volta però a entrare furono due uomini distinti in giacca e cravatta. Uno giovane di circa trentacinque anni, l’altro molto più attempato. «Desiderio Ottonello?» domandò l’ultimo. «Sss sì sono io». «Bene! Sono il giudice Ferrando e questo è l’avvocato Priano, suo difensore d’ufficio. Premetto che ho parlato con il medico e sono quindi a conoscenza della sua situazione clinica. Mi ha anche informato che al momento non ricorda nulla di quanto ha fatto, ma vede, viste le circostanze è fondamentale stabilire se effettivamente è in grado o meno di sottoporsi a interrogatorio in merito all’episodio criminoso che l’ha vista coinvolta». Desiderio aggrottò la fronte accogliendo la notizia come si conviene di fronte a un’assurdità, dando prova di una sincera 10 estraneità a quanto aveva appena detto il giudice. «Qqualle ep… eepisoodio, iio non sso niente?» balbettò lentamente. «Glielo dico io cos’è successo. Tanto per chiarire la sua posizione, visto che è in stato di arresto e non lo sa, o fa finta di non saperlo, ma lo valuteremo in seguito se lei è uno che dice la verità… mi capisce Ottonello?». «Dd… di quale aaarresto sta parlando?» replicò nervosamente Desiderio. «Questa mattina, alle ore nove circa, lei si è reso responsabile di una rapina ai danni di un cittadino italiano, un commerciante, magari questo particolare può aiutarla a ricordare. Ha tentato prima di scipparlo di un sacchetto di nylon, quello della spesa per intenderci, poi, vista la resistenza prodotta dalla vittima, ha iniziato a colpirla a pugni in faccia fino a quando non ha mollato la presa. Una volta entrato in possesso del sacchetto si è dato alla fuga… solo che la sua corsa è durata sì e no venti metri, perché, colto da malore, si è accasciato a terra senza più muoversi. La vittima, - si ricordi bene la vittima - ha chiamato immediatamente il 118 e se le sue condizioni non si sono aggravate lo deve anche a questo lodevole comportamento, perché, parliamoci chiaro, un altro probabilmente le avrebbe ripreso il sacchetto e poi chissà, magari se ne sarebbe andato senza chiamare nessuno, lasciandolo in balia degli eventi. A questo punto giova ricordare che in concomitanza dell’arrivo dell’ambulanza sul luogo della rapina, interveniva una volante della polizia, e nella circostanza gli agenti procedevano all’arresto nonché all’assunzione delle dichiarazioni rilasciate da un passante, testimone dei fatti avvenuti. Questo è il quadro della situazione e se le viene in mente qualcosa gradirei saperlo». Quelle parole spinsero Desiderio fuori dal buio nel quale si era rifugiato dopo la perdita di coscienza, tutto d’un tratto l’occhio della sua memoria rivide chiaramente l’esitazione avuta prima di 11 approssimarsi all’uomo, i colpi sferrati con una freddezza inimmaginabile, il primo passo verso la fuga conclusasi con la caduta a terra. Crebbe in lui rapidamente l’ansia e a essa si unì un forte moto di dolore, le lacrime gli sgorgarono copiose da un pianto silenzioso, come di rassegnazione. «Non ci crredo, quello non sssono iio… no!» disse, interrompendo per un attimo il pianto. «Era proprio lei… eccome se era lei. Invece di dormire questa notte faccia mente locale, provi a sforzarsi di ricordare. Per la convalida dell’arresto francamente le sue dichiarazioni non sono necessarie, ma se vuole patteggiare per una riduzione di pena dovrà dichiararsi colpevole. Certo questo lo deciderà con l’avvocato, ma credo non esistano soluzioni migliori». «Giunti a questo punto, credo sia meglio lasciar riposare il mio cliente, visto che per la convalida c’è ancora tempo. Se vuole potremmo tornare domani, cosa ne pensa?» intervenne l’avvocato. «Potremmo tornare domani, ma ritengo sia inopportuno. Si ricordi anche lei, avvocato, che c’è una testimonianza che avvalora l’esposizione della parte lesa. Però in realtà c’è una cosa che vorrei sapere dal suo cliente - visto che lo considera tale dando per scontato che il signore qui non abbia un avvocato di fiducia - e cioè se lo scippo, tramutato poi in rapina, era destinato effettivamente a quell’individuo o se la scelta è stata occasionale. Sa perché le dico questo Ottonello? - il giudice si rivolse a Desiderio - perché nel sacchetto di nylon c’erano quindicimila euro in banconote di vario taglio e ho l’impressione, come dire, che la vittima sia frutto di una scelta premeditata. Comunque, considerato che al momento non può ricordare, questo particolare emergerà sicuramente in fase processuale». «Facciamolo riposare» intervenne in difesa l’avvocato. «E visto che il giudice è entrato nell’argomento, volevo precisarle che l’ispettore responsabile del turno delle volanti 12 della Questura, dovendo assegnarle le garanzie difensive secondo le norme vigenti per la difesa d’ufficio, mi ha contattato informandomi dell’arresto. Quindi al momento io la rappresento legalmente, sempre che lei sia d’accordo e non abbia già un avvocato di fiducia». «Nnon ho mmai avuto bisogno di un llegale di fiducia pprrima d’ora». «Allora le lascio il mio biglietto da visita con numeri di telefono e indirizzo dello studio, ci aggiorneremo nei prossimi giorni con la speranza che le sue condizioni migliorino». I due uomini si liquidarono. Alla loro uscita Desiderio intravide oltre la porta, due agenti in divisa della polizia penitenziaria, addetti alla sua sorveglianza. Avevano dato da poco il cambio ai colleghi del turno smontante, si era accorto della loro presenza durante il passaggio delle consegne, quando uno dei due si era affacciato dalla porta per vedere chi fosse l’arrestato. 13 IV «Così, così. Ci siamo, è in bolla. Ora possiamo fissarla al pavimento» disse Ruggero guardando in faccia Desiderio pieno di soddisfazione. «Fai vedere anche a me». «Guarda… il tassello che ho messo nell’angolo ha bilanciato il peso». «Sì, è vero, hai ragione. Grande Ruggero!». Erano le nove e la banca ormai costipata di clienti, ospitava al suo interno un fiume in piena di persone che si diramava su più colonne tra l’ingresso e le casse. Il via vai di gente non facilitava il lavoro dei due installatori alle prese con Ciclope 3000, fiore all’occhiello della “Sicur-Tex”. Quella bussola possedeva un meccanismo antiostaggio programmato per impedire il passaggio nei locali di due persone contemporaneamente, utilizzando un sistema di controllo del peso del vano di transito, con una soglia di sicurezza regolabile fino a un massimo di 120 kg. Ma ciò che in assoluto faceva di Ciclope 3000 un sistema di sicurezza innovativo, era l’accesso tramite lettore biometrico delle impronte digitali, in grado di memorizzare quelle delle persone che accedevano per la prima volta nella porta antirapina, unitamente all’immagine del viso ripresa da una telecamera. Studiato in modo tale da non violare la privacy dei clienti della banca, dato che il sistema non associava il nome della persona né alla sua immagine né alla sua impronta. Eseguiva semplicemente delle registrazioni, trasmettendole a un elaboratore centrale, oppure stampandole se la situazione lo richiedeva, come in caso di rapina o di un tentativo di scasso. Comunque gli istituti di credito che intendevano avvalersi di quel tipo di tecnologia ed evitare inutili querelle, aggirando in modo definitivo la legge sulla privacy, facevano firmare ai clienti una riserva in cui risultava l’esplicita 14 volontà del contraente a rilasciare l’impronta digitale e a rendere possibile il trattamento dei dati personali. Desiderio era in ginocchio, stava lavorando sulla pedana interna della bussola, quando un uomo in cima alla coda, prossimo a raggiungere uno dei cassieri, iniziò a salutare tutti i dipendenti della banca per nome, ostentando una cordiale amicizia di circostanza. Parlava ad alta voce, impettito, fiero della sua esistenza, consapevole di essere al centro dell’attenzione. Vestiva abiti eleganti. Un gessato marrone a righe scure, con camicia bianca e cravatta rossa cangiante, scarpe traforate marroni di chiaro stile britannico, con un cappotto di cammello di alta sartoria tenuto in braccio. Alto, ben messo, di circa quarant’anni, un volto abbronzato dalle lampade e una folta chioma di capelli rosso prugna fissati all’indietro con abbondante gel. Desiderio aveva smesso di lavorare per seguirlo con lo sguardo, un gesto involontario prodotto dal senso di fastidio che quell’uomo suscitava in lui. «Ma guarda quello là! Ruggero l’hai visto quello?». «Chi?». «Quello là…» Desiderio lo indicò. «Quello che si dà un monte di arie, il fenomeno che sta urlando davanti al cassiere piccoletto coi baffi… lo vedi?». «Ah sì, che ha fatto?». «Niente ha fatto, che deve fare. Ma non ti urta i nervi? Senti! Senti come grida!». «Sì, è di un’arroganza esteriore impressionante. Il mondo è pieno di gente così… sarà ricco. Dannatamente ricco». «Sì lo è, ce l’ha stampato in faccia. Guarda la malevolenza nei suoi occhi, non ha certamente lo sguardo di uno che ha il mutuo da pagare. Cazzo che faccia di merda!» Desiderio lo stava osservando nuovamente. Era davanti al cassiere, intento questa volta a svuotare il contenuto di un sacchetto di plastica sul bancone. 15 «Ma dimmi te oh!» sbottò ancora Desiderio. «Che c’è adesso?» gli rispose Ruggero spazientito. «Ma no… niente, niente». Desiderio gli aveva visto tirare fuori dal sacchetto tre mazzette di banconote, ognuna legata da un elastico. Le tre mazzette erano suddivise in base al taglio della banconota e quindi una era composta di banconote da cento, una da cinquanta e una da venti euro. Tanti soldi, ma proprio tanti pensò subito Desiderio. «E il grande Genoa?» urlò l’uomo al cassiere. «Belin! Non parlarmi del Genoa altrimenti mi emoziono e sbaglio a contare!» rispose il cassiere, con un marcato accento da orgoglioso cittadino di Zena, mentre contava i soldi consegnatigli. «Quest’anno siamo grandi, meriteremmo troppo la Champions League!» aveva pure smesso di contare per parlare del Genoa, poi, dopo aver dato uno sguardo alla fila di gente, capì che non era il momento adatto per distrarsi e proseguì nel suo lavoro. Dopo la consegna del denaro, l’uomo ritirò la contabile che gli spettava, salutò tutto il personale presente con le stesse modalità di quando si era presentato e si diresse, compiaciuto per l’operazione ben riuscita, verso la bussola d’ingresso. Desiderio era ancora in ginocchio, questa volta preso dal lavoro, quando se lo trovò davanti in attesa che liberasse il passo. «Bellissima questa porta che state montando, un po’ alla Star Trek! ». «È la migliore che abbiamo» rispose Desiderio senza entusiasmo. «Mi piace che in difesa del castello ci sia un portone simile, lo metterei anche a casa!». «Sì, se vuole possiamo farle anche la fossa con i coccodrilli!». «E perché no! Questa è proprio buona… la saluto, buona giornata». L’uomo se ne andò senza che Desiderio facesse in tempo a ricambiare il saluto. 16 «Un amore a prima vista il tuo! Vero Desiderio?» se ne uscì Ruggero ridendo. «Sì! Epidermico!». «E chissà quante volte dovrai incontrarlo ancora!». «Poco importa, tanto qui ho quasi finito». «E no! Ho già chiesto a Marcenaro di farti restare anche per il censimento dei clienti, questa banca ne ha molti». «Non l’ho mai fatto». «T’insegno io, sei qui per questo. L’azienda ti vuole a tutto tondo, altrimenti che installatore sei?». «Non sapevo di godere di tutta questa fiducia» rispose sorpreso Desiderio. «È un buon momento questo per loro e dovranno formare altro personale, tanto vale che inizino da te». 17 V Il sole apparso al mattino in veste primaverile era divenuto pallido, gelido, uniforme al biancore omogeneo del cielo che emetteva ormai fioche radiazioni luminose. La penombra creatasi dall’assenza di luce avvolgeva l’interno della stanza, contribuendo a esaltare il triste umore di Desiderio. Stava sul letto corrucciato, sconvolto dall’incontro con il giudice, i filmati del suo futuro più prossimo scorrevano all’impazzata nella sua testa, dalla probabile reazione di Adele, al sicuro licenziamento con le conseguenti malelingue dei colleghi una volta venuti a conoscenza dell’arresto. Un groviglio di immagini avvilenti che testimoniavano una paura agghiacciante per la situazione creatasi. Ida e il medico fecero il loro ingresso proprio come avevano promesso per un controllo. «Ottonello, direi che possiamo togliere il catetere, così se deve andare al bagno può farlo liberamente. Adesso è necessario che poco per volta riprenda confidenza nello stare in piedi, sempre con l’aiuto dell’infermiera ovviamente, non si alzi mai da solo». «Il bbagnno ddovv’è?». «È qua fuori, dove sono le guardie, non potevamo metterla con altre persone e allora abbiamo dovuto optare per questa sistemazione». «Se non lle ddisspiace allora uutillizzerò il pappag il pappagallo». «Fa lo stesso, comunque sia faccia un po’ di moto con l’infermiera, per quanto riguarda le analisi non sono emerse novità, però dovrà essere monitorato per una decina di giorni ancora e poi vedremo. Salvo complicazioni noi ci rivedremo domani». Il medico uscì lasciandolo solo con Ida. «Allora come va?» ruppe il ghiaccio lei. «Ccome ddeve andare…» Desiderio fece un profondo sospiro. «Cerca di riposare, qua dentro è l’unica cosa che puoi fare». «Sssono a un ppasso dd dalla galeraa... come posso ripossare?». 18 «Ma quale galera! A meno che tu non sia recidivo in galera non ci vai». «Cossa ne ssai tu di queste cose?». «Ho una certa esperienza in materia… fidati. Avevo un figlio tossicodipendente, entrava e usciva dal carcere. Non ce l’ha fatta a smettere ed è morto per un’overdose di eroina. Ma tu sei diverso, non ti fai vero?». «No, nonn mi ffaccio» rispose Desiderio seccato dalla domanda. «Sì lo so, ho controllato le analisi del sangue e poi si capisce subito che non sei una persona cattiva». «Ma ccosa ne ssai ddi mee!» rispose Desiderio questa volta, turbato dalla conversazione. «Di te niente, ma so come gira il mondo, specialmente in certi ambienti». «Qqualli ambienti?». «Quelli in cui finirai se non ti fermi in tempo, le guardie mi hanno detto perché sei qui e se non l’hai fatto per farti una dose allora l’hai fatto per i soldi…» continuò determinata nella sua esposizione. «Anche a mio figlio piacevano i soldi facili, ha cominciato quando aveva quattordici anni rubando i motorini per strada, li smontava nel garage di suo padre e poi rivendeva i pezzi agli amici… amici, parola grossa… ho scoperto più tardi che alcuni lo ripagavano con pezzi di hashish o pasticche, quelle che ti fanno vedere i mostri!». Desiderio era stufo di ascoltare le frustrazioni di una donna che non conosceva, ma Ida era incontenibile, parlava con una verve espositiva impossibile da placare. «Poi un giorno di tanti anni fa, mentre ero in casa telefonò un maresciallo dei carabinieri dicendomi che avevano arrestato mio figlio assieme a un altro, perché a bordo di uno scooter rubato, avevano scippato una vecchietta a Brignole… lo incarcerarono. Aveva altri precedenti per rissa e reati di stadio così quella volta il giudice non fu per niente clemente. Scontò una pena di nove 19 mesi, aveva diciannove anni, era solo un ragazzino…». Il volto di Ida assunse un’espressione sofferente, Desiderio in quel momento avrebbe voluto fermarla ma era ancora troppo lanciata nel racconto del figlio. «… Gianni si chiamava, quando uscì era cambiato, non parlava mai, dava subito in escandescenza se gli chiedevi qualcosa, se sospettava di essere controllato. Una volta picchiò addirittura suo padre, solo perché gli disse di non uscire di casa. Aveva iniziato a bucarsi e non era più in grado di auto-controllarsi, rubava perfino in casa, un periodo umiliante quello!» fece una smorfia esprimendo tutto il disgusto che provava per le cose che diceva. «Ricordo come fosse adesso quando un giorno, in preda a una crisi d’astinenza, entrò in casa e… io ero sola, mio marito non c’era… mi aggredì con un furia impressionante, picchiò anche me. Mentre lo faceva mi dava della puttana, urlando a squarciagola, chiedendomi soldi e io… gli detti tutto quello che avevo, contribuendo alla sua fine. Prima di uscire dalla porta scoppiò in lacrime, tornò da me abbracciandomi, chiedendomi perdono per quello che aveva fatto. Urlava isterico, gridava che era colpa di quei bastardi di quei figli di puttana se si era ridotto così… colpa di chi, Gianni! Gli dicevo io, colpa di chi? Urlavo isterica anch’io…! Mi rispose che era colpa di quei figli di puttana in carcere, dei tossici che c’erano là, dei detenuti, dei magrebini, dei negri, dei secondini, di tutto quel sistema corrotto che ruotava intorno a quel maledetto carcere» fece una pausa, riprese fiato e proseguì ancora imperterrita. «Mi disse che alcuni secondini smerciavano la droga all’interno del carcere, era risaputo, sapeva anche chi fossero, ma nessuno faceva niente per fermarli, la corruzione era estesa a un livello ampio, ci mangiavano tutti insomma! La droga veniva consegnata ad alcuni detenuti che si prestavano per lo spaccio in ogni settore del carcere. I primi tempi gliela regalavano, poi, una 20 volta certi che non potesse farne più a meno, gli chiedevano soldi, che non aveva quasi mai e quindi capitava spesso che dovesse contraccambiare in natura. Lo iniziarono con violenza, col tempo invece divenne una pratica normale per ottenere una dose. Quando terminò di vomitarmi in faccia tutto questo uscì di casa, senza farsi più rivedere. Dopo un anno e mezzo circa morì per overdose, fu trovato da una pattuglia della polizia con la siringa ancora attaccata al braccio dentro un’auto abbandonata in via Sampierdarena, nei parcheggi dove ci sono tutti quei locali a luci rosse». Ida distolse lo sguardo da quello di Desiderio, socchiuse gli occhi e aggiunse «… È la prima volta che ne parlo con qualcuno che non sia mio marito, con te è stato molto spontaneo, forse mi ricordi Gianni, grazie per avermi ascoltata». Desiderio, visibilmente turbato, non proferì parola, lasciando sempre a Ida il compito di prendere la situazione in mano per risollevare la pesante atmosfera piombata nella stanza. «Ora caro mio, togliamo il catetere e poi ti porto il pranzo, oggi menù tipico… minestrina, pollo lesso con purè di patate e una mousse di mela verde». L’estrazione del catetere mise Desiderio ancor più a disagio di quanto non lo fosse già, era tanto che non mostrava le vergogne a una donna che non fosse sua moglie e pensò allora in quell’istante di aver pareggiato i conti con Ida. 21 VI «L’impronta del dito e l’immagine del viso delle persone che passano dalla porta antirapina viene memorizzata sull’hard-disk per alcuni giorni, sino alla saturazione del disco che poi si autorigenera» spiegò Ruggero al direttore della banca. «E in caso di necessità è possibile visionare il materiale mantenuto in memoria» precisò ancora. «Iniziamo a censire i clienti, se non ricordi qualcosa chiedi pure» disse questa volta rivolgendosi al collega. «Sì, ma penso di aver capito» rispose Desiderio. Le lancette dell’orologio al polso di Desiderio segnavano le undici e dieci minuti, in realtà erano le undici in punto, aveva preso l’abitudine di tenere l’orologio avanti dieci minuti per contrastare il suo fisiologico stato di ritardo. Completarono l’istallazione dell’hard-ware nella bussola proprio in quel momento, i clienti sarebbero giunti soltanto nel pomeriggio, con la riapertura della banca alle quindici e avevano quindi un’ora di libertà anticipata. Ruggero e Desiderio decisero di servirsi di quel tempo per un pranzo come si doveva. Si trovavano a Genova, la banca era proprio nello stesso quartiere in cui risiedeva Desiderio, all’inizio di Via Avio, angolo Piazza Vittorio Veneto, a Sampierdarena. Era quello un quadrilatero che accoglieva numerose banche, pieno di palazzi storici e loggiati, abitati un tempo dalla borghesia sampierdarenese. Negli ultimi decenni lo scenario era cambiato notevolmente, il degrado era palpabile al primo sguardo. Muri incrostati e anneriti dallo smog, traffico incessante, spazzatura parcheggiata a ridosso di cassonetti sempre ricolmi di sporcizia, deiezioni di cani costretti a vivere nel cemento sparse ovunque. Per riqualificare la zona, alle porte del quadrilatero, proprio dove si concludeva Via Avio, ormai da almeno sette anni esisteva un immenso centro servizi nato dalle ceneri di un altrettanto 22 immenso centro industriale. Comprendeva negozi, ristoranti, bar, cinema multisala, palestre, piscine, grattacieli residenziali, bassi edifici adibiti a ufficio, vie pedonali con giardini, palme, fontane e tutto quello che i geni addetti alla vivibilità avevano ritenuto indispensabile inserire allo scopo di creare un’isola felice. Ma malgrado lo sforzo, l’isola non era felice e ogni giorno veniva menzionata nella cronaca locale dei quotidiani genovesi per episodi di violenza, risse tra bande, scippi o furti avvenuti all’interno del centro commerciale. L’appartamento di Desiderio invece era in un palazzo degli anni trenta, anch’esso un tempo signorile, con loggiato e negozi, collocato in via Buranello, una lunga via fiancheggiata da un viadotto ferroviario che attraversava longitudinalmente tutto il centro storico di Sampierdarena, da Piazza Barabino a Piazza Vittorio Veneto, quella vicino la banca in cui stavano effettuando i lavori. Lo aveva acquistato con sua moglie un anno prima del matrimonio con un solido mutuo trentennale. Ben strutturato, anche se poco luminoso, con un soffitto alto decorato a stucchi, pavimento rivestito con parquet e arredato in stile classico mescolato sapientemente con pezzi contemporanei. Desiderio e Adele, ancor prima di acquistare, riflettendo sulle sorti future della zona, erano giunti alla conclusione che un giorno non troppo lontano, qualche assessore dei piani alti del Comune avrebbe sicuramente dato vita al restyling, se non di tutto il quartiere, almeno della zona a cui erano interessati. Ma a distanza di anni purtroppo la realtà faceva ben altro che sperare, e l’ipotesi formulata si stava preannunciando come un vero e proprio azzardo, dato che la ristrutturazione di quel posto non garantiva lucro sistematico all’amministrazione locale. I due colleghi attraversarono Piazza Vittorio Veneto, dirigendosi in Via Cantore, nel cuore di Sampierdarena, decisero di fare due passi a piedi prima di fermarsi in una trattoria e ammazzare il 23 tempo fino alla riapertura della banca. 24 VII «Sei felice?». «Basta con questo sei felice, ti rendi conto che me lo chiedi ogni giorno? Sei una tortura!». «Perché non posso chiedertelo, sei la persona che mi è più vicina in questo momento, avrò pur diritto di sapere se sei felice, non credi?». «No, non credo proprio, cosa dovrei risponderti? Da quando me l’hai chiesto ieri non è successo niente, non ho fatto niente, quindi la risposta la conosci già». «No, non la conosco affatto la risposta, il concetto del mio sei felice è ben più esteso di quanto tu creda, non è vincolato a un semplice episodio di vita vissuto nell’arco di una giornata, ma allo stato d’animo interiore». «Sei pesante da digerire quando fai così, sono solo le undici, abbiamo appena iniziato e la notte è ancora lunga». «È proprio per questo che ne dobbiamo parlare e non solo per ingannare il tempo, ma proprio per rendere costruttivo il nostro stare insieme». «Costruttivo! Ma ti senti! Beppe, tutti i giorni con questa storia, non è costruttivo te lo posso assicurare, ma distruttivo! Distruttivo con la D maiuscola!». «No non è vero, non conosci nessun altro con cui tu possa parlare di certi argomenti e lo sai benissimo, i tuoi amici sono tutti dei superficiali». «E meno male, altrimenti sarei in depressione sai da quanto! Cazzo ma non lo vedi dove siamo! Qui soli come due coglioni a spazzare via la merda dalla città! E ancora te ne vieni con la felicità!». «Siamo due operatori ecologici e allora? Se ti dà tanto fastidio, perché non ti cerchi di meglio, sei un geometra no? Vai a fare il geometra così non ti sporchi le mani!». 25 «Lo sai che non ho mai fatto praticantato, mi sono diplomato, ho fatto il militare e poi ho iniziato a svuotare i cassonetti di Genova. Sono cinque anni che lo faccio, felicemente? Non lo so, però stipendio sicuro, pensione sicura e tutte quelle cazzate là. Ripeto, il problema è che da due anni a questa parte, cioè da quando facciamo coppia fissa, non fai altro che tormentarmi. Non te ne rendi conto ma sei una goccia che scava nella roccia, nuoci alla salute di chi ti sta intorno!». «Va bene, va bene, messaggio ricevuto, con te non si può parlare. Se proprio non mi sopporti, puoi sempre chiedere di lavorare con qualcun altro». «Non è possibile, già chiesto!». «Ah bene! Questa non me l’aspettavo, sei pure un infame che colpisce a tradimento». «Beppe falla finita stavo scherzando! Se non ci sto io con te ma chi ci sta?». «Dici così solo per rimediare, tanto lo so che ti sei stancato di sentirmi, ma non posso farci niente, per me non è tutto così semplice. Casa, lavoro, divertimento, scopare… no non fa per me, sono convinto che ci sia dell’altro». «Beppe, abbiamo solo venticinque anni, ma cosa ci deve essere… fai riposare un po’ il cervello, il giorno invece di stare chiuso in casa ad ascoltare quella musica angosciante o a leggere quei mattoni, prova a uscire, vai in centro a svagarti e senza chiedere al primo che passa se è felice». «Lo sai che non posso farne a meno di chiederlo». «Lo so e infatti tutti ti evitano, ma la solitudine fa male, divora la consapevolezza che uno ha di se stesso. Dammi retta, esci e alleggerisci il fardello che ti porti appresso, ubriacati magari che ne so, fumati una canna, una volta ogni tanto puoi lasciarti andare, non essere sempre così rigido con te stesso. Dai sali su… vai Dante!». «Vai Dante!». 26 «Vaiiii!». «Oh… si è addormentato un’altra volta, ma proprio con noi deve lavorare quello. Vado a bussargli alla porta». Giulio scese dal predellino posto sul retro dell’autoimmondizie e si diresse verso Dante. «Sveglia! Se continui così a mezzogiorno siamo sempre in strada!». Giunto all’altezza della portiera, vide che l’interno dell’abitacolo era vuoto. «Ma dove si è cacciato quello stordito! Beppe! Dentro non c’è, te lo vedi in giro da qualche parte?». «Sì eccolo là a parlare con quella prostituta, vado a chiamarlo io!». Erano in via Sampierdarena, strada dell’omonimo quartiere che di notte si trasformava in un bordello. Quando Beppe si avvicinò ai due, vide che stavano discorrendo amichevolmente, pareva si conoscessero da tempo, quindi con discrezione si mantenne a una ragionevole distanza per non essere troppo invadente e lo chiamò. Dante, sentito il proprio nome risuonare alle sue spalle, non prolungò la conversazione, dette un bacio sulla guancia alla prostituta e tornò sul camion. Beppe invece esitò, colpito dal sorriso di quella bionda in abiti succinti, si sentì come incoraggiato ad avvicinarsi. Mostrando il migliore dei sorrisi di cui poteva disporre, si fece avanti. «Ciao». «Ciao, gioia come stai?» rispose lei gioviale con un marcato accento slavo. Lui, non potendo trattenersi, dette libero sfogo al suo vezzo psicotico. «Sei felice?». «Amore io sono triste, ma tra le mie gambe ho un distributore automatico di felicità, vuoi vederlo?». Beppe, inorridito dalla risposta, fece ritorno immediato al camion, salì sul predellino e gridò. «Vaiii!». 27 Giulio avvertì subito lo stato d’agitazione dell’amico. «Cosa vi siete detti?». «Niente, niente». «Hai chiesto anche a lei se è felice, vero? La devi smettere Beppe, la devi smettere, è un’ossessione la tua, mi fai star male». «Sì, sì… basta, basta». Il camion riprese la marcia, lento nella via verso altri cassonetti da svuotare. «Credi di essere nato per soffrire, ecco qual è il tuo problema! Sempre in cerca di risposte a quella cazzo di felicità! Ti rovinerai l’esistenza, vedrai!» sbottò ancora Giulio. Il camion si fermò nuovamente dopo poche decine di metri percorsi nella stessa via, davanti alla porta d’ingresso di un night club in cui si era radunato un gruppetto di sud americani alticci, immersi in un’animata discussione nella loro lingua. Beppe, avviandosi verso i cassonetti, si avvicinò al gruppetto di persone, questa volta con aria di sfida si piazzò di fronte a uno di loro e guardandolo dritto negli occhi urlò: «Sei felice? Sei felice? Rispondi, dài, rispondi!». L’uomo forse in preda ai fumi dell’alcool, non comprese neanche il significato di quelle parole, comunque non perse tempo, vistosi aggredire verbalmente consegnò subito alla persona più vicina la bottiglia di birra che teneva in mano e si avvicinò minacciosamente a Beppe senza proferire parola. Dall’altra parte, Giulio, che aveva visto tutta la scena, raggiunse Beppe con una corsa rapida, lo prese per la giacca e lo riportò indietro scusandosi con l’uomo per l’atteggiamento assunto dall’amico. «Ma vuoi farti ammazzare? Ma cos’hai in testa stasera me lo dici?». Beppe guardò Giulio con un volto stralunato e poi gridò ancora: «Dante! Dante!… E tu sei felice?». «Ma allora sei fuori! La smetti o no…! La smetti o no!» riprese 28 Giulio questa volta preoccupato. «Va bene, va bene, stavo solo scherzando! Fidati, non sono pazzo!» replicò, ridendo con uno sguardo tornato alla normalità. «È uno scherzo del cazzo, quelli potevano spaccarti la testa, lo sai!». «Scusa, ma veramente stavo solo giocando». «Vaffanculo!» Giulio prese il cellulare in mano e compose un numero di telefono. «Chi stai chiamando adesso?» domandò Beppe. «Mia sorella, sento se è a casa e se ci fa salire un attimo, così ti prendi una camomilla e ti dai una calmata». «Ma non voglio una camomilla io!». «Allora la prendo io, visto che mi hai fatto cagare addosso, brutta testa di cazzo che non sei altro!». «Pronto… Adele, ciao sono Giulio…». «Ciao Giulio…». «Che voce hai?… È successo qualcosa?». «Papà e mamma non ti hanno detto niente?». «No, cosa avrebbero dovuto dirmi?». «Desiderio…». «Cosa?». «Desiderio è stato arrestato questa mattina!». «Oh ma… stai scherzando!». «No Giulio non sto scherzando, è tutto vero». 29 VIII Fu un sogno insolitamente lungo quello realizzato da Desiderio sul letto d’ospedale, un’illusione rivelatasi beffarda, durata gran parte della notte e ricordata al risveglio solo nella sua parte finale. Con un amico che non vedeva ormai da anni contemplava un muro, su questo muro era dipinta una tavola geografica della terra. Un enorme quadrato blu, raffigurante l’oceano, con all’interno i cinque continenti colorati di un tenue marrone. I confini terrestri erano imprecisi, ricordavano quelli di un atlante storico, con le Americhe e l’Africa più strette e più lunghe di quanto lo fossero realmente e l’Europa più larga e schiacciata. Tra l’oceano e la terra scorreva una linea nera che separava il blu dal tenue marrone. Il nero utilizzato per demarcare le linee frastagliate dei continenti era stato usato anche per scrivere una frase in corsivo, eseguita probabilmente dalla mano di un bambino. La frase tagliava orizzontalmente a metà il corno meridionale del sud America, proprio dove si trovava l’Argentina. «Sei un buono a nulla». Desiderio e l’amico lessero la scritta senza darci troppa importanza, poi salirono su un’auto allontanandosi dal muro. Poco dopo, durante il viaggio, l’amico irruppe nel silenzio urlando: «Sono felice!». Desiderio, guardò l’amico alla guida. «Lo vedo, anch’io lo sono» rispose. Consapevoli che quelle parole non corrispondevano al loro reale stato d’animo, si guardarono ancora, cercando reciproca convinzione, ma niente da fare, passarono pochi istanti e furono assaliti dall’angoscia, un'angoscia talmente intensa che svegliò Desiderio dal sogno. Ancora mattino, ancora in ospedale, aveva dormito di filata per tutta la giornata precedente, saltando la cena e svegliandosi una sola volta durante la notte per orinare nel pappagallo, era dai 30 tempi della scuola che non dormiva così tanto. I crampi allo stomaco per la fame si facevano sentire, si mise seduto sul letto rivolto verso l’apparecchiatura, cercando una posizione che attenuasse gli spasmi. Trovata la giusta posizione, si mise a fissare la parete bianca come nel sogno, un muro quello della stanza senza dipinti, senza segni che conciliassero il distorcersi dello sguardo capace di originare figure immaginarie. Con la vista immersa nel bianco, il pensiero ricadde sull’Argentina, la terra per antonomasia, luogo ideale in cui scomparire. I vagabondaggi mentali di Desiderio la utilizzavano da sempre come unica meta d’evasione, approdando sulle sue coste per poi addentrarsi nelle immense distese di splendida desolazione, alla ricerca dell’habitat naturale. Quella terra era divenuta l’unico cantuccio in cui nascondersi nei momenti di tristezza. Lui a cavallo come un gaucho, tra i ricchi pascoli, confortato dal quotidiano vivere alla giornata e dall’annullamento di quei sensi di responsabilità che inducono a una vita monotona e spenta. Tutto d’un tratto Desiderio si ritrovò a ridere come un cretino, in preda a un’esaltazione mai provata prima. Rideva, felice di sentirsi finalmente vivo. Nel più violento dei modi aveva rotto con il sistema, aveva ucciso la noia, se non fosse stato per quel fottuto ictus, chissà fin dove sarebbe arrivato. Miracolosa quell’Argentina, sempre capace di entusiasmare, mai stata così vicina. Si sentiva come il fuori legge Butch Cassidy, quando la scelse in alternativa al nord America di fine Ottocento per sfuggire a un sicuro ergastolo. 31 IX «Cognome e nome» disse Desiderio concentrato sulla tastiera. «Pittaluga Ernesto» rispose l’altro. «Può darmi il suo codice fiscale?». «Sì… ecco qua». «Professione?». «Commerciante, in realtà sono il direttore generale di una catena di negozi, però temo sia troppo lungo da scrivere, quindi… va bene commerciante». L’uomo sventolava fastidiosamente un sacchetto della spesa tenuto nel pugno stretto di una mano, l’oscillazione provocava un lieve strepitio echeggiante per l’ufficio. Quel sacchetto, probabilmente pieno di banconote, era lo stesso che aveva consegnato al cassiere qualche giorno prima. In un attimo la mente di Desiderio fu attraversata dal pensiero di possedere quei soldi. Soldi che equivalevano ad una boccata d’ossigeno, niente di più, lo sapeva, ma l’idea gli si era ficcata prepotentemente in testa. Odiava quel figlio di puttana fin dal primo momento che lo aveva notato in banca e questo non faceva altro che alimentare quel pensiero malsano. «Adesso deve posizionare il polpastrello dell’indice destro su questa piastrina». «Così va bene?» disse l’uomo. «Sì… lo tenga immobile… così». «Okay, la registrazione è fatta, quando si troverà di fronte alla nuova bussola non dovrà far altro che riposizionare il dito, come ha fatto adesso, sulla piastrina posta al lato dell’ingresso e attendere l’apertura». «Sembra facile!». «Lo è!» rispose Desiderio. «Allora vi aspetto a casa mia, così ne mettiamo una!». «Perché no! Anche due!» Desiderio si alzò dalla sedia e 32 accompagnò l’uomo alla porta, lo seguì per un po’ con lo sguardo e come supponeva si era diretto dal cassiere per depositare il denaro. Mentre faceva entrare un altro cliente per compiere la solita operazione, il pensiero viaggiava su un altro binario. Cercò di capire perché adoperasse quel banale sacchetto per trasportare le banconote e, dopo una veloce analisi, considerò che una ventiquattrore non sarebbe passata inosservata agli occhi di un balordo incontrato durante il tragitto per raggiungere la banca. Diversamente la decisione di metterli nel sacchetto era in qualche modo spiazzante, visto che nessuno avrebbe mai potuto immaginare che contenesse dei soldi. 33 X «Ma cosa ha fatto?». «Ha rapinato un uomo fuori da una banca!». «Ma chi, Desiderio? Non ci credo neanche se lo vedo con i miei occhi!». «Giulio, ti dico che ha rapinato un uomo, è la verità! Questa mattina a Sampierdarena…». «Come a Sampierdarena?». «Sì, sì, vicino via Avio, a due passi da casa! Non so cosa gli sia preso, proprio non riesco a capirlo! E non è finita qua!». «Perché, cosa c’è ancora?». «C’è che è in ospedale!». «L’hanno pestato?». «No, no, è che durante la fuga gli è preso un ictus e si è accasciato a terra dopo pochi metri». «Cazzo! Un castigo divino! Ma ci hai parlato almeno?». «Non è possibile, fuori dalla stanza ci sono le guardie e non fanno entrare nessuno. Però nel pomeriggio ci sono tornata per portargli della biancheria e nel mezzo ho nascosto il suo cellulare, ma ancora non mi ha chiamata». «Sì, ma almeno sai come sta?». «Ho parlato con un dottore, mi ha detto che ha subito una lieve paresi del braccio e della gamba sinistra e una provvisoria limitazione dell’uso della parola, però tutto risolvibile con farmaci e fisioterapia». «Mi lasci senza parole, non so cosa dire». «Giulio, io me ne sono andata da casa!». «Dove sei ora?». «Da papà e mamma. Non ci torno a casa con lui!». «Non lo so, forse dovresti parlarci prima. Ma avete problemi di soldi?». «Come tutti Giulio! Ma non per questo uno si sveglia la mattina 34 e va a fare una rapina!». «Magari è stressato dal lavoro, chi lo sa!». «No, credo anch’io che il problema siano i soldi, ma sono incinta e non ci sono giustificazioni per quello che ha fatto!». «Senti ora ti devo lasciare, sto lavorando…». «Va bene, va bene, ma perché mi hai chiamato?». «Sono quasi sotto casa tua e volevo fare un salto a farvi un saluto, ma visto come stanno le cose… Domani appena mi sveglio passo a trovarti almeno ne parliamo meglio. Senti, forse sarà superfluo dirtelo, ma cerca di stare tranquilla, tutto si risolverà per il meglio. Un bacio, ciao». «Ci proverò… ciao Giulio». Giulio messo via il telefono guardò sbigottito Beppe. «Ma hai sentito la telefonata?». «Sì, è stata un vero godimento, da adesso in poi tuo cognato sarà il mio mito sfigato! Ti rendi conto cosa ha fatto? Ha assecondato il suo lato oscuro!». «Sì e hai visto dov’è finito! Oh ma te stasera proprio non ci sei con la testa!». «Perché dici così, pensaci… in quanti, almeno una volta nella vita, avranno avuto un pensiero simile in testa, scippare la pensione alla vecchietta, rubare la moto al tizio più ricco, a tutti è capitato di voler fottere il prossimo, ma poi il raziocinio vince sempre!». «Ma stai solo dicendo che il fine giustifica i mezzi!». «Sto dicendo che…». «Basta Beppe! Stasera ne hai già dette troppe di stronzate, non mi va di ridicolizzare questa faccenda, c’è di mezzo mia sorella!». «Sì, sì… Per me resta sempre un mito! Magari un po’ sfigato, quello sì. Ma perché è finito in ospedale, che non sono riuscito a capire?». «Durante la fuga è stato colto da un ictus ed è caduto a terra!». «Però è stato proprio sfigato!». 35 «Si vede che era destino, non doveva farlo!». «Certo che la sfiga non la pianifichi!». «Vai Dante!». 36 XI «Alla buonora, credevo non volessi svegliarti più!» disse Ida, andando verso la finestra. «Ho ffame» rispose Desiderio ancora con le pieghe del cuscino sul viso. «Lo immagino, i colleghi mi hanno detto che hai saltato pure la cena». Spalancò finestra e persiane, poi, accorgendosi di aver esagerato, socchiuse la finestra riducendo l’ingresso d’aria fredda nella stanza. «Intanto che facciamo cambiare un po’ l’aria vado a prenderti la colazione, c’è anche una sorpresa per te questa mattina…». «Cosa?» rispose Desiderio senza indugiare. «Vedrai… vedrai!» disse Ida, liquidandosi sbrigativamente. Il periodo d’assenza di Ida nella stanza fu talmente breve che non permise a Desiderio di formulare alcuna ipotesi sulla sorpresa che stava per ricevere, pareva quasi che Ida si fosse preparata tutto dietro la porta per ridurre al minimo l’attesa. Riapparse con un carrello su cui era sistemata la colazione, sul ripiano inferiore del carrello invece c’era un pacco abbastanza grande, imballato con della carta marrone, simile a quella che usano i fornai per incartare il pane. Il pacco era stato aperto, visto che lo scotch con il quale era stato chiuso era staccato. «Vuoi fare colazione prima?» chiese Ida. «No» si limitò a dire Desiderio allungando le mani verso l’infermiera, facendole cenno di consegnargli il pacco. Ida allora lo prese e lo passò nelle mani di Desiderio. «Lo hanno aperto le guardie qua fuori per controllarne il contenuto, hanno trovato dentro un cellulare e se lo sono tenuto senza dare spiegazioni». «Qquanndo è stato pportato?» s’informò Desiderio. «Ieri, mentre tu stavi dormendo… ti lascio solo, quando hai finito chiamami con il campanello». 37 Desiderio non rispose, appena rimase solo scartò il pacco e vedendone il contenuto comprese all’istante la sua provenienza, avvertendo una lieve commozione. Tolse la carta, ne fece una palla e la lanciò verso il cestino posto vicino la porta, centrando il canestro. Seduto sul letto, con la schiena poggiata sulla testiera e le gambe distese sul materasso, prese a osservare meglio il presente. Il pacco racchiudeva un pigiama nuovo, quattro t-shirt nuove, quattro slip nuovi e un beauty-case contenente uno spazzolino da denti un dentifricio e quant’altro fosse necessario per un lungo soggiorno fuori casa. La cosa più importante fu però il rinvenimento di una busta da lettere occultata all’interno della maglia del pigiama ripiegato. Questa, come il pacco era già stata aperta e probabilmente era finita lì per caso dopo che le guardie avevano perquisito tutto il materiale. La busta ovviamente conteneva una lettera, era un foglio di una pagina a quadretti strappata da un quaderno che Desiderio e Adele tenevano a casa per prendere appunti, la riconosceva perché era gialla proprio come tutte le altre pagine di quel quaderno. La lettera era stata scritta a penna proprio da Adele, la sua calligrafia era inconfondibile, frettolosa, svogliata, storta, lei detestava scrivere, preferiva piuttosto la tastiera di un computer. Sono sconcertata, ancora non riesco a credere come tu possa aver fatto una cosa simile. Penso a tutto quello che abbiamo condiviso insieme e a tutto quello che stavamo per fare. Penso a cosa ne sarà di noi adesso, della nostra bimba quando nascerà. Eri la realizzazione di un sogno. Eri la mia vita. Ora ho paura, sto male. Dove sono finite le mie certezze! Vado a vivere dai miei, quando uscirai, se uscirai, potrai stare a casa solo 38 per un breve periodo di tempo, lo stretto necessario che ti consenta di trovare un’altra sistemazione. Cosa ti ha spinto Desiderio, cosa ti ha spinto? I soldi! Li volevi così fortemente da fare del male ad un’altra persona. Io proprio non ti riconosco! Finito di leggere guardò il cestino, appallottolò la lettera, prese la mira, tirò, canestro. Due su due. 39 XII Erano le otto e trenta quando risuonò nella camera la melodia di Smells like teen spirit dei “Nirvana”, Adele fece un sobbalzo sul letto e dopo aver spalancato gli occhi, istintivamente abbracciò la pancia di ormai sei mesi, un gesto materno eseguito spesso durante le giornate. Dopo lo scambio di effusioni con la piccola in grembo, Adele prese a pizzicare il sedere di Desiderio fino a svegliarlo e a tirarlo giù dal letto. «Mi scuote i nervi svegliarmi la mattina con quel casino ormai dovresti saperlo, cambia quella suoneria ti prego!». «Sì, sì, poi la cambio» Desiderio, sbadigliando, spense la sveglia dal cellulare. «Che ore sono?» riprese lei. «Le otto e mezza». «Ma è presto, l’appuntamento con la ginecologa l’abbiamo fra tre ore!». «Sì lo so, ma devo fare un salto in banca, quella in cui sto lavorando in questi giorni, per controllare una cosa, a ogni modo torno subito». «Ma non avevi preso festa oggi?». «Sì, sono in festa, infatti, torno subito». «Allora io dormo un altro po’, mi svegli quando ritorni?». «Va bene… ci vediamo tra un po’». Desiderio uscì dall’appartamento, dette uno sguardo all’ascensore ma come al solito era al sesto piano, scese le scale a piedi, a passo svelto per essere in banca almeno cinque minuti prima delle nove. In Via Buranello ad attenderlo c’era già una lunga colonna di auto. L’ideale per affrontare il traffico genovese era sicuramente l’utilizzo di uno scooter, come del resto facevano in tanti, un mezzo di locomozione strategico per la città, visto i continui sali scendi impossibili a farsi con una bicicletta e di gran lunga meno 40 impegnativo da parcheggiare rispetto a qualsiasi veicolo dotato di quattro ruote. Lo scooter però non rientrava assolutamente nelle possibilità di Desiderio a meno che non decidesse di farsi carico di altre piccole rate da aggiungere a quelle già in suo possesso, riducendo ulteriormente il potere d’acquisto del suo stipendio. Scartata l’ipotesi macchina, la scelta fu obbligata, guardò l’ora e capì che, se voleva rispettare l’orario prefissato, doveva fare una corsettina. Col fiatone giunse di fronte all'obiettivo, decise di stare sull’altro lato di Via Avio, sotto un loggiato. Per non dare l’impressione di essere lì senza far niente si comprò anche un giornale, sfogliandolo di tanto in tanto con aria interessata. Erano le nove e dodici minuti, ora di Desiderio, il che equivaleva alle nove e zero due, il motivo della sua spedizione stava passando proprio in quel momento, aveva un sacchetto della spesa in mano e si stava introducendo in banca. Da quando l’individuo ben vestito aveva fatto il suo ingresso nella banca, Desiderio non aveva tolto gli occhi di dosso dalla bussola che aveva montato due settimane prima. Trentacinque furono i minuti della sua permanenza all’interno, spesi in chiacchiere e deposito contanti. Pittaluga Ernesto, Desiderio ricordava perfettamente come si chiamava, uscì e prese a destra, senza dirigersi verso auto parcheggiate in doppia fila, proseguì la sua camminata verso Via Buranello, oltrepassò una banca e poi svoltò nuovamente a destra in Vico della Catena. Il fatto che ancora non fosse salito su un’auto parcheggiata facilitava sicuramente il compito di Desiderio, anche se al momento intendeva solo osservare le abitudini del suo uomo. Desiderio fino ad allora si era mantenuto sempre dalla parte opposta della via rispetto al Pittaluga, ma quando entrò in Vico della Catena, fu costretto ad attraversare Via Buranello e a 41 introdursi nel vico con lui. Nel vico stretto e buio, dove non passava mai nessuno aumentava la possibilità di essere scorto. Erano a circa dieci metri, si fermò e temporeggiò per qualche istante incrementando la distanza che li divideva. Quando Pittaluga giunse al fondo, Desiderio decise di allungare il passo per non perderlo d’occhio e recuperare quei metri perduti. Nella ritrovata luce furono in Piazza del Monastero, Pittaluga proseguì la camminata sull’asfalto mentre Desiderio salì sul marciapiede. All’intersezione della piazza con Via Sampierdarena, un grosso Suv nero della Mercedes sostava col motore acceso, Pittaluga ci salì a bordo e partì. Desiderio intravide una donna al posto del conducente, bionda con capelli lunghi lisciati alla piastra e un paio di occhiali da sole tipo mascherina; considerò che doveva trattarsi della moglie, poi soddisfatto della sua attività d’indagine fece ritorno a casa. Quella mattina con Adele sarebbero dovuti andare dalla “gina”, questo l’appellativo con cui erano soliti chiamare la ginecologa. Più la pancia aumentava, più le visite dalla “gina” si facevano frequenti. Le visite incidevano notevolmente sullo stress generale della coppia, poiché la dottoressa, si avvaleva sempre di numerose analisi da eseguire in altre strutture mediche da lei raccomandate. A questo si aggiungeva l'indubbio sforzo economico per sostenerle, già aggravato peraltro dalla spesa per l’allestimento della cameretta e dell’acquisto di tutti i vestitini che parevano di una Barbie, solo più grandi e costosi o dei prodotti per l’igiene intimo dei neonati, dei giochi interattivi, dei prodotti per l’allattamento, dei passeggini, delle navicelle per il trasporto del bebè in auto e di tutto ciò di cui ancora non erano minimamente a conoscenza. Spesso l’animo razionale di Desiderio frenava l’entusiasmo per la dolce attesa, era un meccanismo incontrollabile il suo, a un pro si contrapponeva sempre un contro di uguale proporzione. Alla 42 vita il costo della vita. Aveva provato a trarre conforto dalla lettura di riviste per donne incinte, vagliando i vari suggerimenti forniti in tal proposito, ma immancabilmente se ne uscivano sempre con suggerimenti scontati, tipo modificare l’ordine delle priorità, sicuramente il più gettonato e quello che mandava più in bestia Desiderio. 43 XIII Era ancora lanciato sulla sua colazione quando una raffica di vento e pioggia spalancò la finestra. Le gocce presero a cadere obliquamente sul pavimento, formando nel giro di pochi istanti una pozza d’acqua. Desiderio premette l'allarme e l’intervento di Ida fu immediato: chiuse la finestra, uscì dalla stanza per poi tornare con un secchio e uno straccio; strofinò lo straccio sul pavimento e asciugò tutta l’acqua depositata. Durante tali manovre Desiderio terminò la colazione e come per magia sentì tornare le energie di un tempo e la voglia irresistibile di rimettere i piedi a terra. Per facilitare la camminata, Ida lo sistemò all’interno di un deambulatore. Desiderio una volta dentro, studiò lo strano arnese, proprio come se avesse davanti la carpenteria di una bussola, osservando prima le saldature che tenevano assemblati i tubi, poi il movimento delle ruote. Dopo lo scrupoloso esame fece un’espressione d’approvazione, poi aggrappandosi alle impugnature del deambulatore, iniziò a girare per la stanza. Raggiunse la finestra. Vide la pioggia scendere giù con insistenza, le gocce fitte rendevano il paesaggio esterno sbiadito e cupo, gli operai al di sotto, fuggivano freneticamente dal cantiere, avvolto ormai da una spessa coltre di fango. Desiderio si voltò e posò gli occhi sulla buffa figura di Ida. Lei sentendosi osservata, abbozzò un mezzo sorriso, poi mosse il grosso labbro superiore, forse con l’intenzione di parlare, ma non fece a tempo. Desiderio ricambiò il mezzo sorriso senza modificare l’espressione triste dei suoi occhi e proseguì la sua camminata per la stanza. Avrebbe voluto dirle che non ne poteva più di quel tempo burrascoso là fuori, così in sintonia con il suo spirito. Avrebbe voluto esprimerle quanto urgente fosse il bisogno di muovere in cielo una mano per dipanare le 44 nuvole gravide di pioggia e restituire finalmente il sereno, ma non lo fece. 45 XIV Ultimato il lavoro con la banca di Via Avio, a Desiderio fu assegnato un itinerario di revisioni da eseguire in alcune banche nel savonese. Nonostante la lontananza dal suo principale interesse, non abbandonò mai il programma di sorveglianza iniziato quella mattina in cui aveva accompagnato Adele dalla ginecologa. Usciva dalla “Sicur-Tex” il prima possibile raggiungendo la banca alle nove in punto, osservava i movimenti di Pittaluga e poi riprendeva l’auto aziendale imboccando l’autostrada a Genova ovest; la deviazione non apportava un gran ritardo sulla tabella di marcia, dato che l’ingresso al casello autostradale non distava molto dalla banca. Passavano i giorni e in lui si fortificava l’idea che l’insano proposito fosse facilmente realizzabile. Aveva ormai appurato che il tragitto effettuato da Pittaluga per raggiungere la banca era sempre il medesimo. Travisando il volto con un berretto da baseball e un paio d’occhiali da sole, l'azione si sarebbe svolta nel vico, dove l'oscurità avrebbe contribuito a proteggere la sua figura. Si sarebbe impadronito del sacchetto, avrebbe corso rapidamente verso la fine del vico, avrebbe raggiunto, prima piazza del Monastero, poi piazza Modena, fino ad arrivare in via Ghiglione, una via poco frequentata, dove probabilmente avrebbe potuto disfarsi del berretto e degli occhiali, rallentare la corsa e rifiatare. Via Ghiglione era una parallela di via Buranello, la via di casa. Qui avrebbe avuto due possibilità: arrivarci tramite via della Cella oppure da via Giacometti, entrambe erano percorribili con una certa calma considerata la loro viabilità a senso unico e solo al momento avrebbe deciso quale fare. Anche via Buranello, essendo a senso unico, l’avrebbe percorsa in senso contrario a quello di marcia, con la possibilità di osservare il sopraggiungere di pattuglie della polizia e d’introdursi all’interno 46 di qualche negozio per non essere individuato. Restava solo da decidere come impadronirsi del sacchetto, mediante la minaccia di un oggetto contundente o con un banale scippo. Sicuramente una mano armata da un coltello lo avrebbe reso più convincente agli occhi della vittima, ma nella peggiore delle ipotesi, e cioè in caso di arresto, la pena che avrebbe dovuto scontare sarebbe stata più aspra di quella per lo scippo. Desiderio concretizzò di temere di più una permanenza prolungata nel carcere, quindi si convinse che la soluzione migliore fosse strappargli di mano quel sacchetto e scappare via. I soldi, per quello che ne sapeva lui, dovevano essere puliti, supponeva infatti che le banconote segnate venissero utilizzate solo nelle banche, necessarie agli investigatori per rintracciare la refurtiva in caso di una patita rapina, questo perlomeno, era quanto aveva appreso durante gli anni della sua giovinezza guardando film di genere. Vista l’ingente somma di cui avrebbe potuto disporre dopo lo scippo, per non destare sospetti, avrebbe evitato di depositarli nella sua banca, sapeva che anche a inventare la più astuta menzogna per giustificarne la provenienza lecita, sua moglie non ci avrebbe mai creduto. Quindi stabilì che i soldi sarebbero rimasti a casa, nascosti in dispensa all’interno di uno dei fusti di pittura per pareti, tenuti nello scaffale in alto, fuori dalla portata di sua moglie. Il punto saldo di questa iniziativa era che i soldi non servivano all’acquisto di beni che soddisfacessero esigenze di carattere personale, ma solo ed esclusivamente di carattere familiare, in pratica per la spesa di beni di prima necessità. Questo secondo lui era l’unico modo per trarre un reale beneficio da quei soldi, usarli con parsimonia nel tempo, allontanando così l’evenienza di dover ripetere un crimine. 47 XV «Sono sicura che sia stato vittima di un errore Carlo. Come puoi pensare che tuo figlio abbia fatto una cosa simile?». «Io non penso proprio niente, ma questi sono i fatti, adesso siamo in ospedale o no?». «Sì, ma…». «Oltre quella porta, controllata a vista dalle guardie, c’è tuo figlio o no?». «Sì, Carlo…». «Abbiamo parlato con l’avvocato sì o no?». Per qualche istante rimasero senza dire niente. «Carlo ti prego non fare così, è tuo figlio, lo conosciamo bene, vedrai che si risolverà tutto per il meglio». «Emma, io non sono così fiducioso, mi dispiace ma i fatti sono i fatti…». «Sì, ma almeno cerca di preoccuparti per la sua salute, quando lo vedremo, non aggredirlo com'è tuo solito, fagli capire che gli siamo vicini e che gli vogliamo bene!». «Certo, certo, come al solito tu fai la comprensiva e io lo stronzo della situazione!». «Carlo non è il momento adatto per discutere!». «Allora dimmi tu come devo gestire le mie emozioni, vuoi che la prenda a cuor leggero? Vuoi questo, vuoi che me ne freghi di quello che sta succedendo? Sono mortificato e arrabbiato! Con lui, con te, con me stesso per non avere capito quello che aveva in testa! Eppure mezzo discorso me l’aveva fatto, ma non gli potevo dare certamente importanza!». Carlo si bloccò con lo sguardo sul pavimento, ripensando all’ultima volta che aveva avuto l’occasione di stare assieme al figlio. Stavano passeggiando sotto i portici di Via Cantore, in un freddo sabato pomeriggio. «La vedi quella scritta papà?» Desiderio indicò con l’indice della 48 mano una scritta, fatta con dello spray nero, sulla facciata di un palazzo. «Quale… quella là! Produci Consuma Crepa». «Sì proprio quella. Credo sia il manifesto più ripetuto nel quartiere». «Può essere, in effetti te la ritrovi un po’ ovunque». «Chi credi l’abbia scritta?». «Ma… non saprei, forse un adolescente viziato, figlio di papà che frequenta i centri sociali». «Forse, sì». «O forse un adulto veramente incazzato». «Potrebbe essere… sì. Non saprei neanche io. Comunque, indipendentemente da chi l’abbia scritta, devo dire che mi ha sempre turbato. Sono cresciuto per le strade di Sampierdarena e su quella scritta ci ho sempre sbattuto il naso». «Beh, in effetti ora che mi ci fai pensare è da una vita che ci sono in giro, però se dovessi dirti con esattezza a quando risalgono non saprei proprio». «Danno l’impressione d’esserci sempre state». «Forse, ma perché ti inquieta?». «Non saprei di preciso, è che riduce tutto ai minimi termini, lavori e mangi per una vita e alla fine… poof! Muori». «Sì, la traduzione direi che è esattamente quella. È una maniera molto triste e cinica di intendere la vita». «Sì ed è la verità!». «Stai trascurando il contorno». «Cioè?». «La famiglia, gli affetti, l’amore che provi per certe persone, le esperienze in generale… positive o negative che siano. Tutto quello che va a comporre il vissuto». «Credo tu abbia sempre avuto un bell’atteggiamento nei confronti della vita, hai sempre sgobbato senza soste e non ti è mai pesato. Io non sono così, a me pesa e pesa tantissimo. 49 Arrivo a fine giornata, vado a letto e mi rialzo per ripetere la stessa cosa del giorno prima». «Desiderio, in mezzo a quelle giornate c’è qualcosa». «Cosa papà?». «Te l’ho detto… i rapporti con gli altri». «Non lo so, mi scivola via tutto e non mi resta niente». «Forse non ti trovi più bene al lavoro?». «No, no… al lavoro ho raggiunto la mia indipendenza, tutto sommato non posso lamentarmi». «Hai qualche problema a casa con Adele? Magari senti troppo il peso della gravidanza?». «No, a casa va tutto bene, sono io che sono un po’ così». «Ti sento triste direi, ma non hai motivo di esserlo te lo assicuro». «Triste no, forse un po’ sconfortato… o sconfitto». «Perché dici così Desiderio?». «Perché dentro mi sento esplosivo, però non vivo di conseguenza. Da anni non faccio qualcosa di diverso, qualcosa per me, sono entrato in quel circolo vizioso in cui ormai, preso dalle responsabilità, cammino a testa bassa senza guardarmi troppo intorno, perché non ho tempo, perché non ho soldi a sufficienza. Papà, io sono incazzato proprio come quell’adulto che potrebbe aver scritto quella frase sul muro!». Carlo stava fissando ancora il pavimento e solo quando tornò con lo sguardo su sua moglie si accorse che lo stava chiamando. «Carlo, mi stai ascoltando?». «Cosa hai detto scusa?». «Ho detto, quale mezzo discorso ti aveva fatto?». «Ora non ne vaglio parlare». 50 XVI Il forte acquazzone si tramutò in un leggero piovigginare, tutto il paesaggio al di fuori della finestra appariva plastificato da una patina grigia di micro particelle d’acqua che ondeggiava in base alle correnti d’aria. Desiderio stava ancora camminando per la stanza all’interno del deambulatore, sotto la stretta sorveglianza di Ida, quando dalla porta entrarono due agenti della polizia penitenziaria. Uno di loro, il più alto in grado, teneva tra le mani un fascicolo riportante le generalità di Desiderio, il numero di matricola e la motivazione dell’arresto. Ida, senza sapere ancora cosa fossero venuti a fare, accompagnò Desiderio sul letto, sistemandolo con la schiena appoggiata su un cuscino contro la testiera e liberò la stanza dalla sua presenza. «Buongiorno» dissero all’unisono i due agenti. «Buongiorno» rispose Desiderio senza storpiare la parola. «Siamo qui per procedere alla sua scarcerazione» questa volta parlò solo il più alto in grado. «Ah…» Desiderio, preso di sorpresa, non ebbe altro da aggiungere. «In altre circostanze avrebbe dovuto sostenere un processo per direttissima, ma viste le sue condizioni è stato convalidato l’arresto e messo in libertà in attesa di giudizio. Questo significa che non potrà allontanarsi da Genova, che una volta uscito di qua il giudice la sottoporrà all’obbligo di firma presso un Commissariato e che un giorno non troppo lontano sarà convocato presso il Tribunale per essere processato e condannato. Tutto chiaro?» l’agente, perentorio nella comunicazione, guardò secco Desiderio aspettando una sua risposta. Desiderio comprese chiaramente quello che gli era stato riferito, ma data l’importanza della notizia rimase talmente sorpreso che 51 non seppe cosa rispondere. «Giovane, ha inteso quello che ho appena detto o devo ripeterlo?» incalzò la guardia. «Sì» rispose Desiderio, confermando con il movimento della testa. «Allora deve firmare questi verbali». La guardia aprì il fascicolo che teneva in mano e prelevò alcuni fogli che sottopose all’attenzione di Desiderio. Desiderio lesse da cima a fondo le poche righe contenute nel primo verbale, lo fece più volte, perdendosi alla fine anche nel significato delle parole più semplici. Controllò gli altri e, quando si accorse che in realtà si trattava di un unico verbale con le relative copie, in lui si ristabilì un po’ di chiarezza. Fu semplicemente colto dalla paura, per un istante pensò anche che avrebbe voluto l’avvocato, ma non disse nulla e con la penna firmò tutto quello che andava firmato. L’agente ordinò al collega di andare a prendere il sacco contenente gli effetti personali di Desiderio. Quando fece rientro nella stanza con il sacco nero di nylon, lo porse a Desiderio dicendogli che all’interno avrebbe trovato gli indumenti che portava al momento dell’arresto, un mazzo di chiavi, una chiave d’auto con relativo portachiavi, il portafogli contenente tre banconote da venti euro, delle tessere cartacee, un bancomat e un cellulare fattogli pervenire dalla moglie insieme al pacco con la biancheria intima, trattenuto per ovvi motivi. Dopo che Desiderio terminò ebbe finito di firmare l’ultima copia di verbale, la guardia li sistemò all’interno del fascicolo nello stesso ordine originario. «Appena tornerà a casa sarà contattato dalla Giudiziaria del Commissariato, per le notifiche dei provvedimenti che già le ho esposto. Si presenti con carta d'identità o con un qualsiasi altro tipo di documento equipollente. Ah, un’ultima cosa, se le è 52 possibile contatti il suo avvocato e buona fortuna!». I due agenti uscirono dalla stanza lasciando Desiderio meditabondo. Stava contemplando le sue mani. Le guardava mentre le apriva e le richiudeva senza accusare dolore, senza accusare alcunché. Aveva appena firmato dei verbali inerenti la sua scarcerazione quando il pensiero gli scivolò sulle mani, poi dalle mani all’ictus, come se la sua mente saltasse di palo in frasca, senza un preciso ordine coerente a un vero stato d’animo. Sull’ictus finalmente indugiò a lungo, riflettendo su di esso e su quanto improvviso e inaspettato fosse pervenuto, chissà da dove poi e con quali intenti, per giunta senza precedenti nella sua famiglia. Al di là della porta qualcuno impugnò la maniglia, inclinandosi verso il basso produsse quel leggero cigolio tipico delle maniglie che necessitano di un goccio d’olio, dalla soglia si affacciò il papà di Desiderio. «Possiamo entrare? Sono con la mamma…». Desiderio li accolse con un sorriso incerto, temeva la loro reazione, per di più ancora non li aveva minimamente presi in considerazione dal momento in cui si era risvegliato in ospedale. Aveva riflettuto su Adele, sul lavoro, sul racconto di Ida, sulla rapina, ma mai sui suoi genitori. Sua madre si avvicinò al letto prendendo la situazione in pugno. Accarezzò il figlio candidamente sulla fronte poi fece scivolare la mano sul collo fino a raggiungere la spalla, la carezza terminò sul bicipite che palpò, constatandone la sua robustezza. «Come stai Desiderio?» mormorò infine, fermandosi con la faccia a pochi centimetri da quella del figlio. Aveva il volto pallido e scavato, reso ancor più magro da quella barba scura che solitamente portava incolta ma curata, divenuta ormai lunga e ispida; due occhi grandi, cerulei come quelli di un neonato allattato al seno della propria madre. Con un’espressione sconcertata prese a guardarsi attorno, 53 mentre sentiva gli occhi puntati dei genitori su di sé, osservava per l’ennesima volta quella stanza cupa che lo accoglieva ormai da più di ventiquattro ore. Tutto era rimasto al solito posto, come se il tempo non potesse avere nessuna influenza sul suo stato di conservazione, solo quando abbassò lo sguardo ai piedi del letto e vide sul materasso il sacco nero contenente i suoi vestiti appena consegnatigli dagli agenti comprese che il tempo là dentro per quanto potesse essere ingannevole e restio nel voler lasciare traccia del suo scorrimento, si consumava ineffabile proprio come nel paesaggio che poteva scorgere oltre la finestra. Finalmente trovò il coraggio di alzare lo sguardo, indirizzandolo verso quello della madre. Pensava a cosa dirle, ma tra le tante parole che gli balzavano alla mente, sembrava non riuscire a carpire quelle più consone alla situazione. Fragile, mutevole il suo umore, destinato a rimanere in balia degli eventi. La madre viste le difficoltà del figlio, capì che meglio delle molteplici parole esisteva un unico silenzio carico di comprensione. Inclinò allora la testa verso quella di Desiderio, lo baciò sulla fronte, poi si voltò verso il marito e, dopo averlo preso per mano, si avviarono alla porta. Raggiunta la soglia si voltarono un’ultima volta a guardare il loro unico e prezioso erede e uscirono. 54 XVII Nella notte che stava spingendosi al culmine della sua durata, Desiderio non era riuscito a chiudere occhio. A breve la sveglia del suo cellulare avrebbe suonato la nenia tanto disprezzata da Adele, annunciando il fatidico tempo di agire. Durante le ore trascorse in solitudine, aveva passato in rassegna ogni mossa da effettuare, scrupolosamente aveva sfoltito fino ad azzerare le incertezze e le paure che aleggiavano intorno al suo piano. Quando finalmente fu sicuro di sé, si alzò dal letto per disattivare la sveglia ancor prima che suonasse, evitando così d’infastidire Adele ancora addormentata al suo fianco. In cucina, mentre l’odore del caffè aveva pervaso tutto l’ambiente, Desiderio consumò la sua colazione a base di latte e cereali, poi passò nella stanza da bagno dove iniziò a prepararsi per l’uscita. Le nove erano ancora lontane, decise quindi di farsi una doccia. Dopo una breve insaponata, si sottopose a un risciacquo rigenerante. Prima con un robusto getto d’acqua cocente, poi rotando la leva del miscelatore dalla parte opposta, con acqua fredda, ottenendo un effetto lenitivo sul rossore della pelle. L’alternanza del caldo e del freddo lo risvegliò prepotentemente dal torpore accumulato durante la notte insonne. Al termine della doccia scozzese s’infilò l’accappatoio, si spostò davanti allo specchio appannato dal vapore che persisteva nell’aria e inspirò a pieni polmoni, dilatando il più possibile le narici. Trattene il fiato alcuni secondi, poi espirò via con forza, fino a estirpare l’ultimo alito d’aria calda che aveva dentro di sé. Ripeté l’operazione altre quattro volte e si sentì decisamente pronto a proseguire. Ancora in accappatoio prelevò i vestiti dall’armadio della camera da letto, facendo sempre attenzione a non svegliare Adele, li portò in sala e l’indossò dopo essersi completamente asciugato. Fermo, davanti alla libreria, prese in mano un porta fotografie 55 d’argento in cui era custodita una foto in bianco e nero che lo ritraeva da bambino. La guardò. Aveva circa cinque anni, era seduto a bordo di un’auto da formula uno a pedali, con uno sguardo incerto rivolto a chi in quel momento lo stava immortalando per l’eternità. Forse il fotografo aveva avuto troppa premura nello scattare, non accorgendosi che il suo soggetto non aveva assunto ancora quell’aspetto ridanciano di circostanza. Pensò allora alle foto che lo ritraevano in quel periodo, tutte così simili tra di loro, sfondo anonimo, espressione anonima di una vita anonima. Probabilmente anche al migliore dei fotografi non sarebbe risultato semplice rubare un sorriso a quel bambino. Si sorprese nel vedere l’ora riflessa dai diodi rossi della sveglia elettronica. Erano le otto, ancora troppo presto per uscire. Si sedette sul divano, prese il telecomando del televisore e lo accese. Fece un po’ di zapping, quando vide che non c’era nulla d’interessante lasciò su un canale musicale. Trascorsero alcuni minuti e si addormentò. Si svegliò con un sussulto e il cuore in gola per la sensazione di aver oltrepassato di gran lunga le nove, gettò lo sguardo sulla sveglia e constatò che questa volta segnava le otto e quarantatré minuti. In meno di venti secondi si allacciò le scarpe, s’infilò nella camera da letto accertandosi che Adele stesse ancora dormendo, poi tornò di corsa in sala. Indossò la giacca, prese il berretto da baseball, gli occhiali da sole e uscì di casa. Durante la corsa sul marciapiede di Via Buranello, riordinò mentalmente le idee su quello che si apprestava a fare. In realtà sapeva benissimo che non doveva fare molto, si trattava più che altro di cogliere di sorpresa e correre senza fermarsi, proprio come stava facendo in quel momento. Arrivò all’imbocco di Vico della Catena annaspando faticosamente. Il volto gli si dipinse di un colorito paonazzo. Sperò in quell’istante di poter 56 aspettare a intervenire, ma in fondo, nella penombra, intravide un uomo che stava avanzando con un sacchetto di nylon in mano. Si guardò intorno accertandosi che nessun’ altro stesse dirigendosi dalla loro parte, poi, consapevole di dover agire, proseguì con passo deciso verso l’uomo. Quella esigua distanza che li separava, fatta di una manciata di metri, sembrava non terminare mai. Una lunga marcia, interminabile anche nella sua mente, che già pregustava il sapore della rivalsa, di una vittoria nei confronti di quella vita ingiusta. Scoprì subito con trepidazione che il procedere generato dalla sua falcata lo avvicinava verso un nuovo mondo al quale non era mai appartenuto. Era un mondo perfetto, fatto apposta per lui. Restava l’ultimo metro da percorrere, prima dello scatto fulmineo. Osservò in faccia Pittaluga. Era assorto nei suoi pensieri, tanto da non accorgersi della presenza di un’altra forma di vita all’interno del vico oscuro. Sfruttò proprio quell’attimo di distrazione, ideale al suo bieco scopo, inquadrò il sacchetto, tenuto nella mano dall’uomo ignaro del suo futuro più imminente e si scagliò con la mano tesa, pronta ad agganciare e a strappare. In pochi secondi comprese che tutto quello che aveva immaginato su quel banale scippo si stava tramutando in qualcosa di ben diverso, in qualcosa che non aveva mai osato prendere in considerazione tanto era semplice da mettere in atto, tanto era scontata la sua riuscita. Il sacchetto era bloccato nella mano dell’uomo, come stretto in una morsa da un’impressionante forza. Come se quella mano, invece di appartenere a un innocente borghese, appartenesse a uno scaricatore di porto della darsena di Genova. Si rese conto della sua ingenuità, era talmente ovvio che avrebbe opposto resistenza per una tale somma di denaro che gli risultava pazzesco credere di non aver considerato una simile eventualità. Nella lentezza di quel volgersi di pensieri, la reazione esterna di 57 Desiderio fu rapida. Certo della sua stupidità, per non aver considerato bene tutte le reali e possibili reazioni di Pittaluga, contrariamente a quanto credeva di aver fatto, la collera si impadronì di lui. Lasciò la presa, strinse la mano destra in un pugno e iniziò a colpire ripetutamente il volto dell’uomo, fino a quando questo non lasciò cadere a terra il sacchetto per proteggersi dai fendenti che lo investivano. Desiderio raccolse il sacchetto e si lanciò in una precipitosa fuga, lasciando alle sue spalle Pittaluga in una maschera di sangue. Tutto lo sforzo servito fino ad allora rendeva la sua corsa imballata, la fatica lo stava annientando, sembrava che ogni passo allungato in avanti, invece di garantirgli la via verso la salvezza, lo facesse sprofondare a poco a poco in una melma fangosa porta d’accesso verso un oblio sempre più prossimo. Giunse quasi al termine del vico, dove la luce regnava incontrastata e cadde rovinosamente a terra senza più rialzarsi. 58 XVIII Desiderio, discinto in un luogo indefinito, teneva sul palmo aperto di una mano un verme. Lo guardava. “Vorrei essere come te. Uguale nella lunghezza, nel diametro, nel movimento”. Fece una pausa, osservandolo più attentamente. “Come te vorrei ingoiare chilometri e chilometri di terra umida e fertile, trasportato da un unico istinto di piacevole sopravvivenza”. Il molle invertebrato, fermo sulla mano, non accennava alcun movimento. “È proprio nella semplicità d’espressione che trasuda la verità e gli esseri umani, caparbi nel loro continuo sopravvalutarsi, non riescono neanche a immaginare che tu possa giungere soddisfatto al termine della tua esistenza, solo perché sei un verme!”. Il verme s’impennò nell’aria abbozzando un gesto d’intesa, come volesse confermare le parole udite. “Se così fosse la tua vita non avrebbe alcun senso!”. S’interruppe e, in rigoroso silenzio, scrutò l’orizzonte. Trascorsero alcuni secondi dopodiché con impeto riprese. “Invece l’uomo di tanto straordinario cosa fa? Ingoia chilometri e chilometri di merda spingendosi attraverso un labirinto di barriere immaginarie, fino a quando indebolito esala l’ultimo respiro e diviene nutrimento proprio per voi vermi”. Desiderio s’inginocchiò facendo scivolare sul terriccio argilloso l’amico, molto meno viscido di tante persone che conosceva, poi, spostandosi di poco, si tuffò con lui in quel mare solido solo esteriormente, fatto di terra sciolta e sostanze vegetali. Appena si riprese dall’insolito pensiero, cercò di anticiparne l’intendimento sviluppandone uno nuovo, ma colpito da una folgorazione illuminante ne colse subito il significato e per tale 59 motivo prese il cellulare, lo accese, inserì il codice pin, attese qualche istante affinché tutte le operazioni risultassero accessibili e compose un numero telefonico. «… Pronto…». «Adele…». «Desiderio…». Silenzio. «Perdd… perdonami. Perdonami Adele!». Silenzio. «Adele ti amo! Sssono sstato…». Silenzio. «Ssono… Un pazzo! Ma ti amooo! Nnon anndare via da casa ti pp… prego Adele!». Silenzio. «Nnon lasciarmi solo, ho bb… bisogno di tte». Un lungo silenzio. «Adele… ti prego dimmi qualcosa!». Silenzio. «Adele…». Adele interruppe la comunicazione. Desiderio sentì subito la necessità di rialzarsi in piedi, raggiunse claudicando il deambulatore e s’adagiò al suo interno. Poi, come se quella stanza non contenesse più ossigeno da respirare, si lanciò in penosa apnea verso la porta, l’aprì e prese una lunga boccata d’aria. Chiuse gli occhi e sbuffò con veemenza. All’atto di riposare lo sguardo su ciò che non aveva ancora mai visto, ebbe la strana sensazione di trovarsi di fronte a una delle due guardie, un’istantanea che scomparve nell’attimo in cui realizzò di essere tornato libero. Davanti a sé vide la porta del bagno, entrò e si chiuse dentro. Dopo aver espletato il suo bisogno fisiologico uscì fuori. Si trovava alla fine di un lungo corridoio in cui l’andirivieni confusionario del personale medico era incessante, il brusio dei 60 loro dialoghi giungeva a lui mitigato dalla distanza che li separava. Il classico odore d’ospedale era particolarmente persistente, quasi nauseabondo. Tornò nella stanza, con molta calma raggiunse la finestra. L’aprì e una brezza d’aria gelida, tagliente come una lama affilata lo colpì al petto. Si spostò e permise al vento di penetrare all’interno per rimuovere l’aria avvizzita, poi richiuse. Andò a letto esausto e nel giro di pochi minuti si addormentò. Adele era ferma sulla porta, nel retro della stanza in cui si trovava Desiderio. Entrò e lo vide disteso sul letto, ancora addormentato. Lo fissò a lungo, tentando di scorgere in lui un dannato cambiamento, ma da quell’attento esame non emerse nulla. Allungò allora una mano sulla sua caviglia, la strinse e la scosse energicamente fino a quando non riuscì a svegliarlo. Lo smarrimento iniziale provocato dal brusco risveglio costrinse Desiderio a strizzare gli occhi più volte per mettere a fuoco la figura bruna posta al suo fianco e solo quando la scorse in modo inequivocabile emise un debole sorriso. Lei di rimando rimase impassibile. Aveva un volto stanco, macerato dal dolore, sicuramente l’ambasciata di quei giorni non aveva giovato alla sua gravidanza. «Nnon andare vvia da ccasa…» spiccicò lui in visibile affanno. «Perché non dovrei dopo quello che hai fatto?». «Perché ti amo, perché ssei inn incinta». «E tu vorresti fare il padre, certo come no!». «Adele avevamo bbisogno di soldi». «No, tu avevi bisogno di soldi, tu avevi bisogno di qualcosa in più e sei sempre stato abbastanza chiaro in questo, ma io come una stupida ho sempre fatto finta di niente!». «Di cccosa sstai parlando?». «Di noi Desiderio. Sto parlando di noi. Hai escogitato questa assurdità per uscire dalla mia vita, dal nostro mondo che ti opprime chissà da quanto tempo ormai». 61 «Nnon è così! Ti sbagli… Cristo! Ma nnon mmi chiedi nneaanche come sto!». «Sei vivo. Ti dovrebbe bastare». Desiderio scosse la testa sdegnato. «Non vai in galera?» riprese stizzita Adele. Desiderio scosse nuovamente la testa assumendo un’espressione ancor più greve. «Come sstai?» riprese lui. «Secondo te?». «La pancia ssta bbene?». «Basta Desiderio, non ti dico un bel niente!» scoppiò in lacrime e prese a colpirlo con degli schiaffi sulla gamba. «Non ti dico un bel niente… un bel niente! Capito!». Adele si passò le mani in faccia, poi si voltò di scatto, corse verso la porta e uscì sbattendola con forza. 62 XIX «Come sta?». «Il dottore mi ha detto che va migliorando, lo terranno in osservazione per un po’ e credo non passerà molto che lo dimetteranno». «Già parlano di dimissioni?». «No Giulio, nessuno ha parlato di dimissioni, è solo una mia sensazione, visti i termini positivi con cui si è espresso il dottore». «Credevo fosse più complicato venirne fuori». «Lo è infatti, ma dipende anche da come si manifesta e lui sembrerebbe sia stato fortunato. Dovrà fare della riabilitazione e poi potrà tornare quello di prima». «Senza medicine?». «Dovrà prendere un antitrombotico». «Per sempre?». «Credo di sì, ma quello è il meno». Giulio si allungò con il braccio verso il giaccone, appoggiato sul bracciolo del divano su cui era seduto, rovistò nel suo interno e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ne prese una, la mise in bocca, poi sempre dal pacchetto prelevò anche l’accendino, l’accese e con esso accese anche la sigaretta. Adele teneva ancora la tazza del caffè in mano, era divenuto freddo ma non aveva smesso di sorseggiarlo. «Potresti evitare di fumarmi addosso?» disse, guardando il fratello. «Scusa, avevo dimenticato». Giulio si alzò dal divano e si diresse verso la finestra, l’aprì lasciandone solo uno spiraglio dal quale poteva soffiare il fumo. «Beh anche tu potresti evitare di bere il caffè!». Adele posò la tazzina sul piattino sopra il tavolino. «Hai ragione, ma ne avevo bisogno anche se il solo odore mi 63 disgusta» rispose lei. «E cosa vi siete detti?». «Non molto. Mi ha chiesto di non andarmene da casa perché mi ama». «È già qualcosa non credi?». «Tu cosa faresti al suo posto? Non credo abbia altre scelte nelle sue condizioni se non quella di tornare a casa, con me lì ad attenderlo». «Sì, ma cosa gli hai risposto?». «Praticamente niente. Mi sono messa a piangere e me ne sono andata». «Non vi siete detti altro?». «Mi ha detto che avevamo bisogno di soldi». «Allora è questo il motivo?». «Sembrerebbe di sì». «E tu?». «Niente, te l’ho detto, ero talmente sconvolta che me ne sono dovuta andare». «E adesso?». «Non ho idea. Devo metabolizzare il tutto, poi prenderò una decisione. Pensavo di lasciarlo per un periodo di tempo, magari fino a quando non si rimette. Lo so che è una cosa vile, ma tanto lo aiuteranno i suoi genitori». «Hai parlato con loro?». «Sì». «E cosa ti hanno detto?». «Anche loro sono completamente smarriti. Non sanno darsi una risposta per quello che è successo». «Per i soldi. Se lo dice lui!». «Sì, ma quando sono andati a trovarlo non hanno parlato un granché. Tutti troppo a disagio e poi credo che con loro Desiderio non tirerebbe mai fuori l’argomento soldi». «Perché?». 64 «Perché lui è fatto così! Guarda cosa ha fatto pur di non chiedere!». Giulio scosse la sigaretta e fece cadere la cenere fuori dalla finestra. «Non lo facevo così orgoglioso» disse. Per un attimo si guardò attorno, poi riposò lo sguardo sulla sorella. «Allora resti qua da papà e mamma?». Adele annuì. «Fai bene, adesso che sei incinta non puoi restare sola in casa tua». Restarono in silenzio alcuni minuti. Giulio fumava. «In azienda credi che se lo riprenderanno?» proseguì lui. «Non ho idea di come si comporteranno, però potrebbero licenziarlo in tronco». «Si è già fatto sentire qualcuno?». «Quella mattina mi chiamarono per avere sue notizie, visto che ancora non si era presentato al lavoro e non riuscivano a rintracciarlo al cellulare, ma io non sapevo niente ancora e dissi soltanto che probabilmente si trattava di un ritardo dovuto al traffico. Poi, quando mi hanno avvisato dall’ospedale, li ho chiamati e gli ho raccontato del ricovero». «Non dell’arresto?». «No, ancora non sapevo niente, dopo in ospedale ho saputo dell’arresto». «Quindi ancora loro non sanno niente?». «Di sicuro non da me, ma credo che le autorità provvederanno in merito». «Così potrebbe trovarsi anche senza lavoro, ci hai pensato?». «Sì e non è proprio il momento migliore direi». Giulio espirò l’ultima boccata di fumo, richiuse la finestra e spense la sigaretta in un portacenere sul tavolino, poi si rimise a sedere sul divano accanto alla sorella. «Giulio, ho paura che i soldi abbiano un’ importanza marginale in quello che ha fatto». 65 «Lui non dice questo». «È in una posizione scomoda te l’ho detto, non può dire molto o semplicemente ancora non ha trovato il coraggio per farlo. Credo sia stato sospinto da un insieme di motivazioni». «Quali? Ti sarai fatta un’idea…». «In tutta sincerità no, so soltanto che ultimamente era strano». «Ci credo, chissà da quanto tempo rimuginava su questa pazzia!». «Desiderio è una persona malinconica, ma questo non mi ha mai preoccupato perché lo è sempre stato e fondamentalmente lo sono anch’io. In fin dei conti ho sempre ritenuto fosse una peculiarità di chi è sensibile e poi ho sempre subito il fascino del tenebroso». «Ma se ha la macchina verde pisello!» Giulio sbottò in una risata. «Già e l’adoro, ma quando ci siamo conosciuti ne aveva una nera» ora rideva anche Adele. «Sì, sì ricordo bene aveva una Pallas. Certo che i suoi gusti in fatto di macchine sono proprio discutibili!». Risero ancora un po’, poi Adele s’incupì nuovamente e con lei anche Giulio. «Il fatto è che lo vedevo triste, quando rientrava a casa dal lavoro era un’anima in pena. Ho provato più d’una volta a chiedergli cosa diavolo avesse, ma niente. Più lo pungolavo e più si chiudeva in se stesso e quindi non sono mai venuta a capo di niente. Ho paura, ho un gran paura Giulio!». «Cerca di stare tranquilla. Adesso devi solo concentrarti su te stessa, altrimenti finirai per fare un torto alla piccola in grembo». «Sì, ma se mi lascia! Se non mi ama più! Cosa devo fare Giulio?». Erano ancora seduti a fianco, mentre Adele piangeva, Giulio pensava a una risposta rincuorante, ma non la trovò. Riuscì solo a pensare che se solo avesse potuto, avrebbe invertito le parti, allontanando sua sorella da quella pioggia di lacrime amare. 66 XX Complessivamente, furono ventisei i giorni trascorsi da Desiderio nell’ospedale. Un’eternità consumata in completa solitudine. Escludendo le visite ricevute all’inizio della sua degenza, solo l’avvocato era riuscito a incontrarlo la settimana dopo il giorno del ricovero, per dei chiarimenti inerenti la sua situazione penale. Durante il resto della permanenza aveva invece di fatto rifiutato d’incontrare qualsiasi visitatore che si presentasse, impedendo in più circostanze l’accesso anche ai genitori e concedendo unicamente qualche telefonata per rassicurare sulle sue condizioni. L’intervallo vissuto in quelle quattro mura lo tuffò in un processo d’estraniazione dalla vita esterna che non aveva mai sperimentato, alla fine della quale comprese che stare lontano da tutti fosse l’unica panacea contro la difficoltosa realtà che lo attendeva una volta tornato fuori. Quei giorni furono tutti simili tra di loro, differenziandosi solo nei miglioramenti delle condizioni fisiche che lui stesso poteva osservare nella sua persona, ottenuti sia per il semplice decorrere del tempo, in grado di rimarginare qualsiasi ferita, che per l’intensa attività fisioterapica cominciata dieci giorni dopo l’ictus. Gli unici diversivi di cui aveva potuto disporre furono le conversazioni con Ida, divenuta la sola persona in grado di penetrare quel vuoto che proteggeva Desiderio dalla realtà e l’ascolto di tutta la musica rock con il suo mp3, portatogli dai genitori, senza il quale lui non poteva vivere. Desiderio lasciò l’ospedale il mattino del ventidue marzo a bordo di un taxi e anche in quella circostanza preferì essere solo. Prima di andarsene però salutò Ida. La ringraziò infinite volte per essersi presa cura di lui e dopo averle chiesto il numero del cellulare e l’indirizzo di casa, le assicurò che di tanto in tanto sarebbe andato a trovarla. Ida ripagò l’affetto ricevuto con un 67 solido abbraccio, sussurrandogli confidenzialmente in un orecchio che sarebbe stato sempre il benvenuto. 68 XXI Nell’inoltrato secondo giorno di primavera, Genova era riscaldata da un sole tiepido. Desiderio la guardava incuriosito attraverso il finestrino del taxi. Il traffico era scorrevole, la gente che vedeva a bordo delle altre auto o che camminava per strada appariva sorprendentemente serena. Un giorno, uno dei tanti vecchi che abitava nel suo palazzo gli aveva parlato delle fiere origini del popolo genovese, armatori e bancari abituati a comandare, gente che sapeva il fatto suo. Poi arrivarono le guerre e i debiti derivanti dalle stesse guerre. Tutto a poco a poco cambiò. Gli armatori rimasero dei miseri figuranti nei loro stessi imperi, obbligati a lasciare la stanza dei bottoni a stranieri che nulla sapevano di quell’antico mestiere. Le banche costrette a chiudere vennero sostituite anch’esse da società estere. Fino ad arrivare a oggi, dove non esistono più o quasi, floride imprese genovesi e dove tutto è in mano agli altri. Nel decorso di quegli stessi anni il popolo genovese aveva tramutato l’umore. Da solare, tipico di chi subisce gli effetti benefici della vicinanza al mare, a ombroso. Il vecchio disse che probabilmente era proprio in virtù della vicinanza al mare che il popolo genovese soffriva. Ogni volta che lanciava uno sguardo verso l’immensa distesa blu ricordava i fasti di un tempo, della Repubblica Marinara madre di Cristoforo Colombo, scopritore di nuovi mondi e di tutte le ricchezze che non possedeva più e sopraffatto da quel pensiero negativo, mugugnava. Desiderio si mostrò contrariato a quell’assurda teoria e disse al vecchio che per un genovese il mare era un elemento necessario alla sopravvivenza e gli ricordò come la sua assenza si faceva martellante ogni volta che si tentava di allontanarsi da esso. Il vecchio sul momento non ebbe da replicare, ma congedandosi mugugnò qualcosa d’incomprensibile scuotendo la testa in segno di disapprovazione. 69 Il taxi giunse a destinazione. Desiderio pagò la corsa e scese dall’auto. Era davanti al portone d’ingresso del civico numero 6 di via Buranello. Entrò e svoltò verso la scala destra. L’ascensore era al sesto piano, il tempo che avrebbe dovuto attendere affinché scendesse e risalisse fino al terzo ammontava a due minuti, tempo addietro lo aveva cronometrato. Più che un ascensore pareva un montacarichi, infinitamente lento. Salì a piedi, sperando che il suo fisico reagisse bene allo sforzo. Come ogni martedì il pozzo scale aveva l’aria irrespirabile, satura di uno sgradevole odore di minestrone. Quando varcò la soglia l’appartamento era al buio, fu l’immediata conferma che Adele non era in casa. Aprì le persiane, senza ottenere un grande risultato, vista la pessima esposizione delle stesse nei confronti del sole, poi accese la luce in sala, prese il telefono e si buttò sul divano. Telefonò prima al cellulare di Adele, che trovò spento. Lasciò quindi un messaggio sulla segreteria telefonica, annunciando il suo ritorno a casa, poi telefonò a casa dei suoi genitori. Rispose il padre. Felice nel risentirlo, disse che sarebbe subito passato a prenderlo, ma Desiderio fu di diverso avviso e lo invitò a restarsene tranquillamente a casa, esortandolo a non preoccuparsi, perché stava meglio. Concluse la telefonata assicurandogli che si sarebbe fatto vivo lui nel giro di qualche giorno. Erano le undici e trenta e la signora Lavinia, al piano superiore, iniziò il suo spettacolo quotidiano. Calpestando il pavimento con un paio di scarpe in cuoio, spolverava, spazzava e sbatteva mobili a destra e a manca cantando a squarciagola una canzone famosa. «Aaancoraaa! Aaancoraaa! Aaancoraaa!» gridava. Inneggiando a un plurimo orgasmo consecutivo con una tale rabbia da far accapponare la pelle. Aveva circa sessant’anni, era vedova, sola e probabilmente quegli orgasmi, a cui ambiva con tanto clamore, sarebbero rimasti per sfortuna di tutti i 70 condomini, un lontano miraggio. Per coprire le urla di quella pazza, Desiderio accese il suo impianto hi-fi da milleseicento euro, pagato ovviamente in comode rate mensili. Premette il tasto play e senza sapere quale fosse il cd contenuto al suo interno, la musica partì. “The world is a vampire!”. L’opzione random che teneva sempre inserito scelse il sesto brano del cd. Billy Corgan, cantante degli “Smashing Pumpkins”, con la sola voce ingoiò l’assolo della signora Lavinia. “Sent to drain!”. Le potenti chitarre decollarono in sostegno del cantante dando vita a un pezzo rock di rara magnificenza. Desiderio, sicuro di aver coperto definitivamente i molesti rumori provenienti dal piano superiore, iniziò a ispezionare l’appartamento. Osservando le stanze vuote, immaginò Adele mentre scappava via in fretta, lasciando tutto in disordine dopo aver stipato i vestiti in due enormi valigie. L’appartamento manifestava effettivamente uno stato di noncuranza dovuto agli svariati giorni d’abbandono, ma il dettaglio più avvilente fu il ritrovamento dei rubinetti del gas e dell’acqua chiusi, una precauzione che veniva adottata solo quando si allontanavano per alcuni giorni ed era alquanto esplicativa riguardo le sue intenzioni. Billy Corgan intanto stava ancora cantando Bullet with butterfly wings e dopo l’ingresso in assolo, arrivò al ritornello. “Despite all my rage I am still just a rat in a cage”. Nonostante avesse perso elasticità nel tradurre al volo i testi delle canzoni che un tempo conosceva a memoria, quelle parole s’introdussero in maniera cristallina nella sua mente. Scorrevano una dopo l’altra, come titoli di coda al termine di un documentario televisivo, composte da lettere a caratteri cubitali e tutte incredibilmente tradotte in lingua italiana. 71 “MALGRADO TUTTA LA MIA RABBIA SONO SOLO UN TOPO IN GABBIA”. Billy Corgan sbraitava come un indemoniato, le sue parole ruggenti, parlavano chiaro, fin troppo e Desiderio le sentiva sue. Erano state scritte e cantate negli anni novanta, per gli anni novanta, probabilmente senza sapere che sarebbero rimaste attuali anche a inizio secolo e oltre. Billy Corgan iniziava la sua Razzo con ali di farfalla con un’affermazione. Il mondo è un vampiro mandato per dissanguare. Si riferiva sicuramente a un mondo plasmato dall’uomo che pare dalle infinite opportunità e che invece si rivela sempre a senso unico. Un mondo che quando tenti di capirlo ne esci inevitabilmente sconfitto. Un mondo che ti costringe in una gabbia. Conclusa l’analisi del testo della canzone, Desiderio fu investito da una vampata di disperazione che subì in silenzio, senza lottare. 72 XXII «In mezzo al futuro non ci sta niente!». Beppe esclamò d’improvviso, sbattendo una mano sul tavolo. Gli avventori nel locale si girarono tutti a guardarlo, ma lui, come se non avesse cognizione di tempo e di luogo, continuò a sbraitare. «Se sei felice devi esserlo adesso e non tra mezz’ora o tra cinque anni!». «Beppe, ma che cazzo dici! Stavamo parlando d’altro!». «Ah...! sì giusto». «Giusto? Ma sei fuori! Siamo a berci una birra in un pub, lo vedi anche tu vero?». «Sì, mi sono distratto un attimo, scusa. È che ultimamente ci penso un po’ più spesso del solito». «Quanto più spesso?». «Non saprei... spesso». «Spesso quanto? Tre, quattro volte al giorno, ogni ora o mezz’ora. Quanto?». Giulio distolse lo sguardo da Beppe per guardare l’ora al polso, erano le ventidue e tra non molto sarebbero andati al lavoro. «Allora quanto?» riprese Giulio. «Spesso, sempre. Non faccio altro che pensarci. In ogni minuto, in ogni istante della mia fottutissima esistenza penso, mi chiedo se sono felice. Non riesco più a riposare, quando torno a casa, dopo lavoro, sono esausto. Mi getto sul letto ubriaco di sonno e stanchezza, ma non dormo e mi domando, sei felice? Sei felice? Sei felice? Sotto la pesantezza delle coperte sudo per il caldo, allora mi scopro, prendo freddo e tremo come una foglia. Mi ricopro e sudo e così via, senza dormire, con quella domanda che mi perfora il cervello. Sto male Giulio, sto male!» Beppe appoggiò i gomiti sul tavolo e infilò la testa appesantita dal dolore placidamente esternato tra le mani unite a V. 73 «Non puoi andare avanti così. Non vorrei urtare la tua sensibilità, ma credo sia giunto il momento che tu vada a parlare con qualcuno» riprese Giulio dopo un breve silenzio. «Pensi sia arrivato al capolinea?». «Solo tu puoi sapere dove sei arrivato». «Come fosse facile saperlo! Tu piuttosto lo sai dove sei arrivato?». «Io sto andando». «Ah sì! E dove?». «Dove, dove… vivo alla giornata Beppe, non sono mai stato bravo a fare programmi per il futuro, però sto bene. Spero di trovare una persona con cui condividere felicemente il resto dei miei giorni». «Puttanate! Non esiste nessun rapporto felice!». «Cosa ne sai delle unioni e dell’amore se non hai mai avuto una fidanzata? Sei un disfattista! Ecco cosa sei e ti ripeto per l’ennesima volta, ti piace soffrire! Ti fa comodo soffrire perché così hai una scusa per non affrontare la vita». «Puttanate!». «Non sono puttanate, stai male e sei cosciente di questo malessere che ti porti dentro, quindi fai qualcosa!». Giulio dette una sorsata alla pinta, poi la riposò sul tavolo. «Fai qualcosa» ribadì guardando Beppe negli occhi, che nel frattempo si era rilassato nuovamente contro lo schienale della sedia. «Desiderio?» disse Beppe dopo un po’. «È tornato a casa». «Come sta?». «Credo bene, ma nessuno l’ha visto o meglio Adele ancora non vuole vederlo». «Loro non sono felici». «Bravo. Ti senti meglio ora che hai scoperto l’acqua calda?». «Scusa non volevo». 74 «Sei un caso patologico». «Ti ho chiesto scusa». «Dài andiamo, si sta facendo tardi» disse Giulio. Entrambi finirono la birra e si allontanarono verso l’uscita. Arrivati alla porta, Beppe si girò verso il bancone e rivolgendosi alla cameriera indaffarata urlò. «Sei felice?». La ragazza, con l’indice rivolto verso di sé, chiese se stesse parlando con lei. Beppe allora gridò nuovamente: «Sei felice?». Lei di rimando lo mandò letteralmente a fanculo. 75 XXIII Desiderio uscì dall’appartamento. Quando si ritrovò a costeggiare la lunga linea orizzontale di cassette postali in prossimità del portone d’ingresso, vide che la sua conteneva una cartolina bianca. La prelevò e ne lesse il contenuto. Si trattava di un invito a presentarsi urgentemente presso il Commissariato di Cornigliano innanzi l’Ispettore Capo Luciano Barbieri della Divisione Anticrimine. Dopo averla riposta nella tasca della giacca, andò fuori. Era il mattino seguente il ritorno dall’ospedale e doveva chiarire la sua posizione con alcune persone. In base al suo criterio di priorità, l’Ispettore di Polizia veniva per ultimo. Sotto il cielo azzurro via Buranello era ravvivata da un vivace corteo di manifestanti che stava dirigendosi verso piazza Vittorio Veneto. Erano circa un centinaio, scortati da due volanti e una camionetta della Polizia. Nell’insieme sembravano pacifici, alcuni di loro alzavano al cielo cartelli e striscioni di protesta con le frasi: “BASTA ALLA VIOLENZA” e “VOGLIAMO UN QUARTIERE PIU' SICURO”, altri fischiavano, con il solo intento di attirare l’attenzione degli estranei al corteo. Tutto questo si svolgeva mentre il loro leader urlava al megafono una lunga lista di “Non ne possiamo più”, facendo riferimento a una serie di episodi criminosi avvenuti negli ultimi tempi nel quartiere di Sampierdarena. Al megafono fu menzionata anche la rapina di Desiderio. Descritta nei minimi dettagli, fu messa in risalto la brutalità con cui era stata eseguita. Incisivo nella sua esternazione, l’uomo lo definì come una bestia feroce, un criminale socialmente pericoloso al di fuori di ogni controllo. Processato nella pubblica piazza, come accadeva nel Medioevo, Desiderio rallentò bruscamente il passo, aspettò che sfilasse il corteo fino al passaggio della camionetta della Polizia, tenendo la testa bassa per la paura improvvisa di essere riconosciuto. Poi 76 oltrepassò la strada gettandosi sotto un tunnel del passante ferroviario che portava in piazza Tre Ponti. Ormai distante dal corteo, si sentì al sicuro. Pensò se effettivamente avesse corso il rischio di essere riconosciuto, ma non seppe darsi una risposta. Sapeva che dopo il fatto erano usciti numerosi articoli con i suoi dati anagrafici, ma non sapeva se gli stessi articoli fossero stati accompagnati da una sua foto. Ci rimuginò sopra per alcuni minuti, poi si disse che era impossibile. Che nessuno poteva aver distribuito la sua foto, nemmeno la Polizia, visto che non era stato foto segnalato. Desiderio non si sentiva abbastanza in forza per guidare l’auto, così prese il 12 alla fermata di via Cantore. Raggiunse la casa dei suoceri in via G.B. Monti e suonò il campanello. Rispose il padre di Adele il quale, piuttosto imbarazzato, lo informò che sua figlia era fuori con la madre. Da quella voce incerta, impreparata nel dire un’inaspettata bugia, Desiderio capì subito che Adele era in casa. Pensò anche che, per quanto potesse essere indignata, doveva comunque dargli un’altra possibilità, ma non replicò, ringraziò cortesemente e si allontanò. Amareggiato da tale atteggiamento, prese di nuovo l’autobus e andò alla “Sicur-Tex”. La fermata era a pochi passi dalle sbarre poste all’ingresso del parcheggio prospiciente la fabbrica. Raggiunte le sbarre, salutò il guardiano ed entrò. Le auto dei dipendenti riempivano tutti gli spazzi demarcati dalle strisce bianche, erano tante e rosolavano sotto il sole. Attraversò il parcheggio fino a raggiungere il portone d’ingresso. Esitò un attimo, poi si fece coraggio. Nei meandri della direzione, sotto gli sguardi indiscreti degli impiegati, iniziò un incessante scimmiottare alle sue spalle che lo resero più nervoso di quanto si aspettasse. Procedendo per la sua strada, giunse fino a una porta, bussò e attese una risposta. «Avanti!». Desiderio entrò. «Buongiorno, sono Desiderio Ottonello e vorrei parlare con il 77 dottor Capurro, se è possibile». Desiderio fu squadrato da capo ai piedi. «Certo, attenda un attimo». La segretaria prese la cornetta del telefono e digitò un tasto. «Dottore c’è il signor Ottonello… sì, lo faccio entrare subito». Era la prima volta che entrava nella tana del lupo. Il lupo. Lo chiamavano così per la sua fame di potere. Era un pezzo d’uomo di un metro e novanta, sulla cinquantina. Sempre elegante nel vestire, ma non negli atteggiamenti. Tutti lo chiamavano dottore, ma non era laureato, tantomeno diplomato. Si era fatto da sé e a soli quarant’anni ricopriva già la carica di amministratore delegato. Attualmente guadagnava circa un milione di euro l’anno e se poteva non perdeva mai l’occasione per farlo pesare. La sua foto drappeggiava in ogni ambiente, come quella di un presidente di Stato nel Parlamento, ritratto a mezzo busto in abito blu scuro, ma con un’aria più severa e determinata. Non era noto come, ma nella foto era riuscito ad assumere lo stesso sguardo che aveva la Gioconda nel ritratto di Leonardo da Vinci, capace di osservare ovunque. Da buon dittatore quale era, aveva i suoi scagnozzi-spia, pagati oltre che per lavorare anche per mettere disordine generale tra i rapporti dei dipendenti. Secondo la sua politica, la frammentazione del personale in tanti piccoli gruppi assicurava più facilità gestionale rispetto a un unico raggruppamento compatto. Sapeva tutto di tutti ed era abile nel condire l’enorme insalatiera di profonde ingiustizie. Preceduto dalla segretaria, Desiderio era entrato nell’ufficio. Questa lo presentò, poi, con il petto in fuori e la schiena ben eretta, fece un dietro front marziale e se ne uscì. «Che fica!». Il dottor Capurro era in piedi davanti alla scrivania, con lo sguardo puntato verso la porta da dove era appena uscita la segretaria. «La Simonetta è proprio una gran fica, che ne pensi Ottonello?». 78 Desiderio, preso in contropiede non seppe cosa rispondere e abbozzò un timido sorriso. «Al colloquio d’assunzione non seppe dire un cazzo. Le dissi però che se fosse stata disposta a seguirmi ovunque il lavoro mi portasse e non avesse avuto nessun tipo di problema a indossare gonne sopra il ginocchio e tacchi alti, l’avrei subito presa con me. Ed eccola là! Pronta a eseguire ogni mio ordine, senza batter ciglio. È il sogno di ogni uomo no? Avere una segretaria fica!». Fece il giro della scrivania e si sedette. «Siedi Ottonello, prego». Desiderio avanzò di tre passi e si sedette anche lui su una delle due poltrone sistemate davanti alla scrivania. «Allora… cosa hai combinato eh?» disse Capurro con aria maliziosa. «Quello che ha sentito dire in giro, suppongo». «E ne è valsa la pena?». «Sembrerebbe proprio di no». «Ho sentito che ci sei andato giù pesante con quello là!». Desiderio scosse lievemente la testa e allargò le braccia facendo il gesto di chi non conosce la risposta. «Cosa hai provato nel compiere un azione simile?» continuò Capurro. «Non sono venuto a parlare di questo» rispose Desiderio, mostrandosi turbato per la domanda troppo impertinente. «Ah no? E di cosa sei venuto a parlare… di lavoro?». «Certamente non di quello che ho fatto fuori dal lavoro». «Però i giornalisti non hanno avuto scrupoli a parlare di te in qualità di dipendente della “Sicur-Tex” e spero tu riesca a comprendere che non è stata una gran pubblicità! Quindi se permetti, tutta questa storia, mi riguarda eccome!». Desiderio rimase in silenzio fissando Capurro. «Allora, cosa hai provato a colpire quel poveretto in faccia? E dopo? Dopo averlo fatto, cosa hai provato?». 79 «Non lo so». «Non lo sai? Mi vuoi dire che non hai avuto tempo di pensarci? È praticamente impossibile Ottonello!». «Rabbia!» sbottò Desiderio. «Solo rabbia?». «Solo rabbia». «E adesso? Adesso cosa provi?». «Voglia di rifarlo. Di rifarlo meglio. Di rifarlo a più persone. Vorrei farlo anche a lei!». «Vorresti pestarmi in questo momento?». Desiderio prima di rispondere, rimase interdetto alcuni istanti. Era talmente forte l’emozione che stava provando per quella verità esplosa fuori d’improvviso, senza paura di ripercussioni, da non credere fosse stato lui a parlare. Poi, con estrema tranquillità, si lasciò andare completamente. «Non può immaginarsi quanto!». «E perché non lo fai?». «Perché sarebbe uno sfogo liberatorio fine a se stesso. Non procurerebbe alcun cambiamento positivo alla mia vita». «Per quindicimila euro lo faresti però?». «Non l’ho fatto solo per i soldi. Forse inizialmente, poi mi sono convinto che stessi facendo la cosa giusta e basta, indipendentemente dai soldi». «Perché?». «Non lo so. Forse per placare la rabbia». «E da dove nasce tutta questa rabbia?». «Nasce dall’insicurezza, dalla continua sensazione di aver sbagliato o il dubbio di non aver preso la decisione giusta. È una rabbia che mi sta incollata addosso da una vita e che non si scorda mai di me. È una rabbia divenuta troppo dura da controllare». «Sapersi abbandonare alla propria rabbia è utile, spesso determinante per avere successo nella vita. Guarda me per 80 esempio, saprai come mi chiamano nell’ambiente? Eppure ti posso assicurare che mi aiuta, anzi mi aiuta molto. Meglio essere temuti che rispettati! Fidati!». Desiderio non obiettò. Dopo alcuni secondi, alzò una gamba e l’accavallò sopra l’altra, sistemandosi più comodamente sulla poltrona. «Nessuno si è interessato a te qua dentro» continuò Capurro. «Beh… non ho mai leccato il culo a nessuno io» replicò Desiderio. «E forse, cosa ancor più grave, non ti sei mai iscritto a un sindacato» rispose Capurro accennando un sorriso. «Non credevo che un giorno potesse tornarmi utile». «Non ho detto questo» disse scuotendo la testa. «Può tornarti utile la rabbia, non il sindacato. Certo… sempre se saputa controllare». «Ma a chi può tornare utile la mia rabbia, a me o a lei?». «Sei un ragazzo sveglio. Vedi, il fatto è che non solo non interessi a nessuno, ma indirettamente ci sono dei personaggi che stanno spingendo per ottenere al più presto il tuo licenziamento. Sai a chi mi riferisco vero?». «Ai sindacalisti?». «Bravo, vedo che hai capito benissimo. Hai la fortuna, forse in questo caso sfortuna, di ricoprire un posto ambitissimo all’interno dell’azienda e ti vogliono fare le scarpe. Perché dovrà essere assegnato a un altro, più accondiscendente nei loro confronti e molto meno nei miei. È come in una partita a scacchi in poche parole, muovono i loro alfieri contro il re». «E io cosa c’entro in tutto questo?» disse Desiderio. «Sarai un dispetto bello e buono per quei rompi coglioni. Resterai al tuo posto e se farai come ti dico, quando si saranno calmate le acque, ti ritroverai a dirigere qualche reparto dell’ufficio personale, a controllare proprio quei rompi coglioni che non ti vogliono più, ovviamente sempre a mia disposizione». 81 «Sarà un inferno per me». «Lo è già da molto, mi par di capire. Comunque, dalla tua hai la rabbia no? Non è da tutti e poi sai difenderti, anche troppo!». «Credevo mi avrebbe licenziato». «Sei troppo negativo. Poi ricordati che sto solo ribaltando questa situazione a mio favore». 82 XXIV Adele e sua madre fecero ritorno a casa. Suo padre stava piangendo in cucina mentre tritava con la mezzaluna una cipolla per il soffritto del ragù. «Papà ha telefonato qualcuno?» disse Adele dalla sala. «È passato Desiderio!» gridò, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. «Quando?» disse dalla soglia della cucina, raggiunta con una corsa. «Una mezzoretta fa». «E l’hai fatto salire?» chiese preoccupata. «No, gli ho detto che eri fuori con la mamma». «E lui?». «Penso non mi abbia creduto, l’ho sentito un po’ sconsolato. Comunque mi ha ringraziato e se n’è andato». «Dove?». «E cosa ne so io Adele! Non mi ha detto nient’altro». Adele guardò suo padre con gli occhi neri come due olive, gli si avvicinò e bloccò le sue mani che stavano lavorando ancora sulla cipolla. «Che faccio?» chiese, stringendosi la testa sulle spalle come un gattino indifeso. Lui si fermò, prese il tagliere su cui era cosparsa la cipolla e aiutandosi con la mezzaluna, la versò nel tegame al fuoco, su cui si stava già scaldando l’olio. Ripose il tagliere sul tavolo, prese il mestolo di legno e girò la cipolla nel tegame, dopodiché mise via il mestolo e alzò leggermente la fiamma. Solo allora rivolse l’attenzione alla figlia e le disse semplicemente di non saperlo. 83 XXV Tre. Quattro. Cinque. Desiderio contava le deiezioni dei cani che incontrava durante il suo cammino. “Che posto di merda è diventato!” si disse quando giunse alla fermata dell’autobus. Dopo otto minuti, come indicato sul monitor dell’AMT, giunse il 7 che lo riportò a Sampierdarena. Era sufficientemente tranquillo visto l’esito del tutto inaspettato dell’incontro avuto con Capurro, perciò decise di tornare dai suoceri per un nuovo tentativo di riconciliazione con Adele. Undici. Dodici. Tredici. Questo fu il numero di merde contate da quando era sceso dall’autobus, fino all’abitazione. Tredici merde -un numero fortunato!-. Suonò il campanello. Rispose Adele. «Dài vieni su!». Appena Adele vide uscire Desiderio dall’ascensore crollò in una disperazione incontenibile. Si chinò su se stessa abbracciando il pancione come volesse proteggerlo da un’imminente caduta. Poi allungò una mano sul muro e tastandolo, raggiunse il corrimano su cui si tenne aggrappata fino a quando non lo lasciò per abbandonarsi su un gradino delle scale. Da seduta piangeva, le colava il naso e non faceva nulla per ripulirsi. Vederla in quello stato fu una sofferenza anche per Desiderio, si trovava al cospetto di quella povera creatura senza scusanti. Le si avvicinò cautamente e le passò una mano tra i capelli, decidendo in quell’istante di essere tenero, come non lo era stato mai. 84 Mentre le accarezzava la testa disse di amarla profondamente e che niente era perduto. Le ricordò i giorni felici trascorsi assieme da quando avevano deciso di convivere e i momenti difficili che con estrema semplicità erano riusciti a superare. Adele però continuava a piangere. Le raccontò allora dell’incontro con Capurro, notoriamente un bastardo ma che in quella circostanza si era rivelato tutt’altro. Le raccontò come si era svolto il colloquio, di come si era presentato incerto con la paura di essere licenziato e di come invece non solo aveva mantenuto l’impiego, ma che con molta probabilità in breve tempo avrebbe ricevuto una promozione. Continuando, le disse ancora che dovevano accettare con serenità l’epilogo dal risvolto positivo della vicenda, che a rafforzare questa serenità si aggiungeva il fatto che grazie all’ictus, dal quale ne era uscito praticamente indenne, non aveva varcato la soglia del carcere, cosa che probabilmente, a dire dell’avvocato, non avrebbe dovuto fare neanche in futuro considerato che era senza precedenti penali. Le disse che il destino non era stato poi così maligno e che anzi si ritrovavano in una posizione decisamente migliore rispetto alla precedente. Desiderio, fiero del suo lungo soliloquio, attese una risposta. Si guardarono in faccia e per un istante Adele smise di piangere, poi però, dopo essere ripiombata nello smarrimento più totale, riprese a farlo nuovamente, più forte, più intensamente di prima. Adesso piangeva e urlava nel pozzo scala che faceva da cassa di risonanza e tutti, ma proprio tutti, poterono udire quello che finalmente aveva da dire. Udirono una sola cosa, che Desiderio era una grandissima testa di cazzo. 85 XXVI Tornando a casa, Desiderio canalizzò l’attenzione unicamente sul numero di deiezioni incontrate lungo il cammino. Terminò la conta solo quando si ritrovò sotto il portico del palazzo e in quel preciso istante la sua mente si mosse verso una strana considerazione. Tutte le merde confluivano in quella via e quindi viveva esattamente nell’epicentro di un enorme merdaio. In quell’universo composto di soli escrementi stratificati tra di loro, lui era semplicemente una merda qualsiasi, di specie umana, forse la peggiore. Era l’una passata e il suo stomaco brontolava per la fame. Guardò tra gli scaffali, alla ricerca di qualcosa di commestibile, ma la cucina non aveva molto da elargire, trovò degli spaghetti e null’altro. Dopo mangiato si promise che appena possibile sarebbe sceso a fare la spesa. Erano le due, mentre girava per la camera da letto, trovò sul ripiano del comodino la prescrizione medica che aveva riportato dall’ospedale. Indicava la fisioterapia da fare presso un centro convenzionato ASL e i farmaci da assumere. La ripose sul comodino senza che esprimesse alcun pensiero in merito e andò in sala. Prese il telefono e digitò sulla tastiera il numero di un cellulare. «Buliccio!». «Cristo! Ma sei tu?». «E chi sennò!». «Come stai cazzo!». «Sto…». «Oh merda, però potevi farmi entrare in ospedale?». «Non ero in vena». «Beh posso immaginare, fa niente. Sei a casa buliccione?». «Sì, che fai, passi?». «C’è anche Adele?». 86 «No, sono solo». «Ok, dammi mezz’ora e arrivo. Ciao buliccione!». «T’aspetto, ma non fare il solito che arrivi tra due ore!». «No, no, arrivo subito. Ciao!». «Ciao!». Erano le quattro, Desiderio sentì bussare alla porta e andò ad aprire. Elia lo stava aspettando a braccia aperte. Quando furono uno di fronte all’altro, si fece avanti e si abbracciarono. «Arrivo subito eh?» disse Desiderio con sarcasmo. «Hai ragione, ma non avevo più da fumare e allora ho fatto un salto nei caruggi». Terminarono la loro manifestazione d’affetto per guardarsi nuovamente in faccia, studiandosi come due cani che s’incontrano per la prima volta. Elia aveva l’aspetto di sempre, trasandato ma ricercato. Rispetto all'ultima volta che si erano visti era più magro e aveva i capelli più lunghi, leggermente mossi fin sotto l’orecchio. «Ti vedo bene!» disse Desiderio. «Dici?». «Sì, alla grande! Come stai?». «Come sempre, Desiderio, come sempre. Tu piuttosto mi vuoi dire che cazzo ti è successo una volta per tutte?». «Cosa sai?». «Non preoccuparti di quello che so io, ora voglio sapere tutto da te». «Dài vieni in cucina, ti faccio un caffè». «No, l’ho già preso prima di venire qua. Però mi giro una canna». Elia si sedette sul divano, prelevò dalla tasca dei jeans un piccolo astuccio d’argento, lo aprì e prese un pezzo di hashish. Poi prese le cartine, l’accendino, il tabacco da una sigaretta e si preparò lo spinello. Desiderio iniziò la sua storia, concentrandosi principalmente su come era arrivato a tanto, trascurando il perché. Fu lento 87 nell’esprimersi, la fatica della mattinata trascorsa si faceva sentire, ma riuscì ugualmente a inchiodare Elia sulla poltrona per due ore ininterrotte. Terminò la narrazione proprio con gli ultimi avvenimenti, l’incontro con Capurro e con Adele. «Che storia!» sbottò Elia. «Quando l’ho saputo sono rimasto di sasso e non tanto per il fatto in se stesso, ma proprio perché in quei giorni mi frullava per la testa un’idea simile, capisci? Cazzo, ma perché non me ne hai parlato prima ti avrei aiutato!». «Già, ultimamente sembra essere diventato un sogno collettivo. A ogni modo ci sarebbe andata male» rispose Desiderio. «Magari no!». «Elia ho avuto un ictus, mi sono risvegliato in ospedale piantonato dai secondini. Non avremmo avuto nessuna possibilità, meglio sia finita così, fidati!». Elia non rispose, si strofinò le mani sui jeans, asciugandole dal sudore e riprese a rollarsi un altro spinello, il terzo. Quando ebbe finito, lo mise in bocca e l’accese espirando delle grosse nuvole di fumo dalla bocca. «Fammi dare un tiro» disse Desiderio. «Sicuro che puoi?» rispose con tono allarmato Elia. «Dammi qua!» Desiderio lo prese e se lo mise in bocca. Aspirò e subito l’aroma forte dell’hashish gli si imbullonò in gola, facendolo tossire. Era tanto che non ne fumava uno e aveva tirato con troppa avidità. Sputò nel portacenere un po’ di saliva, attese qualche istante e riprovò con più accortezza. Un brivido lo fece riscuotere sul divano, poi il senso di leggerezza lo avvolse come una coperta che ripara dal freddo. Gustò quella piacevole sensazione in silenzio, ricordandosi che da quando conosceva Elia non avevano mai trascorso un giorno assieme senza fumare. Sorrise al pensiero. Sorrise anche Elia. Poi pensò alle parole del dottore prima di lasciare l’ospedale “niente stravizi, alimentazione sana, fisioterapia almeno per altri due mesi e 88 antitrombotico da qui all’eternità”. Aspirò lungamente lo spinello e chiuse gli occhi, con forza soffiò via il fumo sperando che l’ictus tornasse a prenderlo per sempre. Riaprì gli occhi scoprendo di essere sempre nello stesso posto e per la delusione il sorriso dal suo volto si dissolse nell’aria, mescolandosi con il fumo. «L’ictus ti ha fatto male?» disse Elia. «No. Ma non ricordo nulla, solo un breve tratto della corsa e poi buio totale». «E il risveglio?». «Un incubo. Non muovevo la parte sinistra e avevo difficoltà a parlare, incredibile, come se mi avessero anestetizzato. Poi con il tempo mi sono ripreso. In realtà ancora sono lento nei movimenti, non riesco nemmeno a correre, ma col passare del tempo mi hanno detto che dovrei tornare come prima». «A me sembri già a posto». «Sembro ma non lo sono». Lo spinello era tornato in mano a Elia, mentre fumava si guardava intorno. «Bello l’arredamento, complimenti! L’ultima volta che sono venuto a trovarti non c’era tutta questa roba». Desiderio non rispose, il suo pensiero scivolò involontariamente alle rate da pagare. «Parliamo un po’ di te invece» disse Desiderio. «Non ho molto da raccontarti». «Proprio niente?». «Niente di paragonabile a te». «Di questo sono contento, altrimenti chissà dov’eri a quest’ora!». «In galera». «Probabilmente». «I primi di maggio inizio a lavorare, ho già trovato un ristorante a Santa Margherita. Sostituisco il cuoco, ha avuto un incidente in moto e non rientra per tutta la stagione estiva». 89 «Buono no?». «Sì, non mi posso lamentare». «Non t’imbarchi più?». «Mi fermo per un po’, sono reduce da tredici mesi di navigazione consecutiva e francamente non ne posso più». «È così tanto che non ci vediamo?». «Un anno e mezzo almeno». «Com’è andata in giro per il mondo?». «Come le altre volte. Fondamentalmente sto tra patate, cipolle e fornelli». «Vabbè, la testa fuori dall’oblò la metterai ogni tanto?». «Sì, durante l’attracco in porto. Io e il resto dell’equipaggio per andare nei bordelli». «Cazzo di vita! Però ti ho sempre invidiato. Hai quel mestiere tra le mani che ti permette di fare quello che vuoi». «Quando sono dentro una cucina però mi spacco il culo». «Sì, lo so. Spero ti possa permettere d’aprire un ristorante il prima possibile, così farai lavorare gli altri». «Vedremo!». Decisero di passare la serata in casa. Elia andò al supermercato, quando tornò con due buste piene di cibo, si mise subito a cucinare. Già in altre occasioni Desiderio aveva avuto modo di verificare che Elia fosse effettivamente un gran cuoco e senza tradire le sue aspettative, lo dimostrò anche quella volta. Parlarono della loro vita, risero, bevvero e fumarono altro hashish. Quando si accorsero di essere andati troppo oltre con tutto, si fermarono. Entrambi fecero la promessa di non lasciar trascorrere un altro anno e mezzo prima di rivedersi e si abbracciarono. «Ho voglia di andarmene» disse Desiderio «E chi non ce l’ha» rispose ridendo Elia. «Cosa ne pensi?». «Beh, non è che sia la persona più giusta a cui rivolgere questa 90 domanda. Io voglio essere sempre da un’altra parte. Ma non ho nessun vincolo, mentre tu hai Adele incinta, che se permetti non è poco». «Adele non mi vuole più». «Desiderio, è giusto che ti faccia sudare un po’, no?». «Io vado via». «Ovunque tu vada quello che hai fatto rimarrà con te». «Vado via lo stesso!». «Ciao buliccio». «Ciao buliccione». Si abbracciarono un’ultima volta, poi Elia se ne andò. 91 XXVII L’ispettore Barbieri, nonostante fosse un poliziotto di navigata esperienza, non riusciva a intravedere quali fossero i reali intenti di Desiderio, se mai ne avesse avuti. Dalla lettura del fascicolo si era immaginato tutto un altro uomo rispetto a quello che sedeva adesso davanti a lui e mentre lo guardava meditava sulle parole dette a riguardo, il giorno prima a Parodi, il collega di sezione. «Seppur improvvisando, ha comunque dimostrato un’efferatezza degna di chi è avvezzo alla violenza e se domani non si presenta, andiamo noi da lui». Quelle parole, col senno di poi, gli sembrarono eccessive per uno come Desiderio, dall’apparenza innocua. Desiderio, seduto su una sedia girevole, volgeva lo sguardo su i muri tappezzati di attestati d’encomio assegnati a Barbieri. Li guardava affascinato, per un attimo provò a invertire le parti, facendo finta di trovarsi dall’altro lato della scrivania, pensando a quanto potesse essere piena di brivido la vita di un poliziotto. I due si guardavano e reciprocamente s’immedesimavano l’uno nella vita dell’altro. Uno per deformazione professionale, perché lo aiutava a comprendere meglio il nemico. L’altro per diletto. «Cosa pensi di fare adesso?» Barbieri riprese a fare domande. «Ancora sono in malattia per un altro mesetto, poi torno a lavorare». «Non ti hanno sollevato problemi?». «No, nessuno». «Bene, allora non ti ripeschiamo in giro a fare il bandito?». «Assolutamente no». «Non hai più bisogno di soldi?». «Avrò sempre bisogno di soldi». «E allora come farai?». «Imparerò a convivere con questo bisogno». «Te lo auguro, perché a fare il bandito non sei un granché». 92 Barbieri perse tempo facendogli qualche altra domanda in merito al suo avvenire, poi, rendendosi conto che quel gesto sconsiderato, probabilmente sarebbe rimasto un caso isolato nella sua vita, gli espose i provvedimenti adottati nei suoi confronti. Desiderio non poteva allontanarsi da Genova per un anno e in più aveva l’obbligo di firma in Commissariato tutti i giorni alle diciannove, per sei mesi. «E il processo?» disse Desiderio. «Ancora per quello c’è tempo. Ho visto che hai eletto il domicilio presso l’avvocato, quindi ti farà sapere tutto lui». «Non vado in carcere vero?». «No, per tua fortuna siamo in Italia. Il tuo avvocato chiederà il patteggiamento e avrai la riduzione di un terzo della pena, sei incensurato… quindi niente galera». Rinfrancato da quest’ultima conferma, Desiderio uscì dal Commissariato e si diresse verso la casa dei genitori. 93 XXVIII «Dio sia lodato!» esclamò d’un fiato la madre di Desiderio quando lo vide entrare dalla porta. Corse subito ad abbracciarlo, stringendolo forte a sé, come avrebbe fatto una bambina con la sua bambola di pezza smarrita chissà dove e ritrovata dopo infinite ricerche. Lo investì con teneri baci e con prese sempre più strette, fino a quando si rese conto che i suoi deboli nervi stavano cedendo a un pianto liberatorio. Allora mollò la presa, lo allontanò leggermente e prima che i suoi occhi si sciogliessero in un mare di lacrime si coprì la faccia con le mani. Dietro quella maschera fatta di lunghe dita affusolate ritrovò forza e convincimento, quindi le riallacciò sui fianchi e lasciò spazio a un sorriso pieno di speranze. «Dio sia lodato!» ribadì convinta, con il volto fiero per aver rispedito indietro le lacrime. Da sempre si rivolgeva a Dio, ma in quei giorni terribili divenne il suo unico interlocutore. Lo pregava e lo esortava affinché questa storia si concludesse senza devastanti ripercussioni nei confronti di Desiderio. «È solo una pecorella smarrita, bisognosa d’amore» questo diceva a Dio. Chiusa ermeticamente in se stessa, non faceva parola con nessuno tranne che con il suo Signore. Con suo marito non parlava quasi mai, giusto il minimo indispensabile. Aveva provato a condurlo in quel viaggio spirituale, ma non volle seguirla. Le disse che tra lui e il suo Dio c’era un abisso e che se Desiderio si trovava in quella situazione, probabilmente la colpa era soltanto la loro. Le disse che la soluzione non era in Dio, ma nella ricerca del perché di quanto accaduto. Forse fin dal principio non erano stati in grado di trasmettergli il senso del bene e del male o forse dovevano impuntarsi di meno sul senso del sacrificio ed elargire qualcosa in più rispetto a quanto avevano dato fino ad allora. Forse troppo spesso avevano fatto 94 appello alle loro esperienze passate di miseria e di stenti, inorgogliendosi per i risultati alla fine ottenuti con le loro uniche forze, tanto da farli presupporre che un percorso simile di vita sarebbe stato utile anche a Desiderio, per lo sviluppo di un solido senso di responsabilità. Stupidaggini. Il loro figlio rischiava il carcere per soldi. Soldi che in casa Ottonello non mancavano. Erano stati così fottutamente ottusi a non capirlo che adesso serviva a loro un Dio che li perdonasse. Un Dio molto meno avido di loro e con un’apertura di vedute molto più ampia. «Don Luigi vuole vederti» disse improvvisamente lei. «Vuole vedermi… e perché?» rispose Desiderio sorpreso. «Deve parlarti». «Mamma, io non devo parlare con nessuno, l’ho già fatto fin troppe volte e ora di questa storia non ne posso più». «Sì, lo so amore, ma lui può aiutarti». «E in cosa mamma?». «A chiedere perdono al Signore». «Mamma…» Desiderio lasciò perdere sconfortato. Se solo avesse completato quello che aveva da dire in merito al Signore, avrebbe sicuramente offeso l’integrità morale nonché religiosa di sua madre e quella era l’ultima cosa che voleva farle. «Papà dov’è?». «In camera». «Vado a salutarlo». «Va bene, ma promettimi che andrai a far visita a don Luigi!». Desiderio non volle affrontare l’argomento e le rispose che l’avrebbe fatto non appena possibile, poi la lasciò sola al suo stordimento mistico per andare in camera da suo padre. Lo trovò a dormire sdraiato sul letto, con un libro di Steinbeck appoggiato sul petto. Lo faceva ondeggiare con un moto lento che seguiva il suo respiro. Era Pian della Tortilla, un libro che aveva letto in passato, e che lo aveva letteralmente infiammato. 95 Era il racconto di alcuni paisanos, abitanti in una squallida città marinara del sud della California al confine con il Messico, pronti a dormire a cielo aperto e mangiare alla meno peggio pur di non lavorare. Una vita vissuta in emarginazione, dedita alla continua ricerca di un gallone di vino da trangugiare. Capaci, oltre ad abbandonarsi all’ozio più sregolato, anche di compiere gesti di grande umanità. Insomma un libro pieno d’avventura in grado di far trasognare chiunque lo leggesse, specialmente uno come Desiderio, predisposto nell’io più intimo a quel tipo di vita surreale. Suo padre spalancò gli occhi. Quando vide Desiderio, con una rocambolesca manovra balzò giù dal letto, stava quasi cadendo a terra, ma con un colpo di reni riuscì a mantenersi in equilibrio. Gli corse incontro e gli si gettò al collo come un combattente di lotta greco-romana, poi lo stropicciò energicamente in segno d’affetto, chiedendogli infine come stava. Desiderio lo rassicurò sulle sue condizioni e lo ragguagliò in merito a quello che gli avevano detto i dottori. Suo padre fu sorpreso di vederlo in ottime condizioni, non s’auspicava tanto in così poco tempo. Poi però lo ammonì in merito al suo comportamento in ospedale e gli manifestò tutta la gran pena provata in quel periodo di degenza senza poterlo vedere. Gli disse che per il momento non gli avrebbe fatto alcuna domanda in merito alla vicenda, ma che però, da adesso in poi, si sarebbe aspettato un atteggiamento più corretto nei loro confronti. Si trasferirono in cucina, sua madre stava mettendo una pentola piena d’acqua sui fornelli. «Ti faccio un piatto di pasta al pesto e poi mangiamo gli affettati. Non sapevo che saresti venuto, altrimenti andavo a fare un po’ di spesa. Magari per stasera facciamo qualcosa che ti piace!». «Non preoccuparti mamma, va bene così. Per la cena però non mi trattengo, faremo un’altra volta». Suo padre mise in tavola un tagliere con del parmigiano. Con l’apposito coltello ne prelevò una grossolana scaglia e la dette a 96 Desiderio. «Ti farà bene!» gli disse. «Desiderio, vai da don Luigi oggi pomeriggio, anzi subito dopo pranzo, a casa sua!». «Mamma basta ti prego». «Desiderio, di chi credi sia stato il merito se non sei andato dove avresti dovuto andare?». «Di don Luigi?». «Certo, e di chi altrimenti?». «Perché è andato a parlare con qualcuno?» Desiderio guardò suo padre smarrito in cerca di conferma, ma lui scosse solo la testa con un’espressione delusa. «Ha parlato, ha parlato, eccome se lo ha fatto» disse sua madre compiaciuta. «Con chi mamma?» disse irritato questa volta Desiderio. «Con il nostro Signore, con chi credevi? Sempre sia lodato». Desiderio e suo padre rimasero lì a guardarsi per un po' come due pesci lessi, poi sua madre riprese con la sua litania nei confronti di don Luigi. «Come ho saputo che eri finito in ospedale sono corsa subito da lui. Gli ho spiegato in quale guaio ti eri cacciato e lui mi ha calmata, mi ha detto di stare tranquilla e che avrebbe pensato a tutto lui». «Ti ha spiegato anche come avrebbe fatto?». «Te l’ho detto, con l’aiuto del nostro Santissimo Signore, sempre sia lodato». «Ecchecazzo basta con questo sempre sia lodato!» Desiderio sbottò, sbattendo un pugno sul tavolo. «Sempre sia lodato! Sempre! E non essere volgare, non lo tollero proprio!» intervenne ancora sua madre con tono minaccioso. «Ha pregato, lo ha fatto per tutta una notte intera. Capisci? Tutta una notte a colloquio con il nostro Signore, sempre sia lodato. Lo ha pregato per non farti andare in carcere e per guarirti il prima possibile. Lo ha pregato per non farti perdere il lavoro e la 97 famiglia. Capisci ora quel che ha fatto per te?». «Mamma, stai dicendo delle assurdità!» proruppe Desiderio interrompendola. «Allora non capisci! Sei tale e quale a tuo padre!» rivolse lo sguardo a quest’ultimo e lo fulminò. «Sarai fiero tu di questo, sempre a incalzare con i tuoi discorsetti contro la chiesa. Guarda in quali acque oscure hai trascinato nostro figlio. Vergogna!». Suo padre non protestò, ma uscì dalla stanza sbattendo la porta. Desiderio e sua madre rimasero in silenzio, poco dopo sentirono sbattere anche la porta d’ingresso. «Brava mamma. Ora hai reso il quadretto familiare ancor più gioioso di quanto lo era prima». «Tuo padre sa di aver sbagliato, per questo se n’è andato. Quando c’è un problema o se ne va o ti urla contro, non sa fare altro, ormai dovresti saperlo». «So tutto quello che c’è da sapere su di lui e anche su di te. Ma almeno questa volta potevamo quietare o almeno provarci». «Beh, ci abbiamo provato. Ma evidentemente il nostro Signore, sempre sia lodato, vuole metterci alla prova». «Alla prova?» Desiderio rise. «E per che cosa?» disse ancora. «Ci mette alla prova continuamente per vedere se un giorno saremo in grado di camminare al suo fianco». «Bell’affare! Una vita di merda, per poi camminare al fianco di uno sconosciuto». «Non dire queste cose Desiderio, avere un po’ di fede non ha mai fatto male a nessuno». «Va bene, scusami!». «Non a me, a lui!» puntualizzò lei, drizzando l’indice all’insù, poi prese il barattolo del pesto e lo versò sulla pasta. «Adele l’hai vista?» disse, mentre adagiava ora le porzioni sui piatti. 98 «Sì, ed è la nota dolente di tutta la storia. Insensibile a qualsiasi preghiera». «Non vuole vederti?». «No, non vuole. Almeno per il momento». «Dopo tutto è comprensibile. È necessario che tu vada da don Luigi, solo lui può aiutarti e fai quel che ti dice, mi raccomando!». «Certo mamma» rispose, mentre mangiava rassegnato. 99 XXIX Desiderio lasciò sua madre alle faccende domestiche e uscì pensando di fare un salto al dopolavoro che frequentava costantemente suo padre da quando era in pensione, con la speranza di trovarlo a giocare a carte. Il dopolavoro si trovava nelle vicinanze di via Sampierdarena, a poche centinaia di metri sia dalla casa dei suoi genitori che dalla sua. Dopo aver oltrepassato la soglia d’ingresso del locale, lo vide al banco di mescita assieme a un altro, intento a tracannarsi un bianchetto. Loro invece, si accorsero della sua presenza solo quando se lo videro sbucare alle spalle attraverso lo specchio inserito nella boiserie oltre il banco, al di sotto di un mobiletto pensile contenente bicchieri di vetro. «Salve!» disse Desiderio rivolgendosi alla persona che accompagnava suo padre. «Questo scommetto è tuo figlio, Carlo». «In carne e ossa» rispose suo padre. «Si nota troppo la somiglianza, chissà che strage di cuori allora!». «Veramente io sono sposato» rispose Desiderio. «Già, si dice sempre così». L’uomo attese inutilmente una replica che non arrivò e quando si accorse che la sua era stata un’affermazione fuori luogo, dette rapidamente una benevola pacca sul collo al padre di Desiderio e si diresse verso un gruppo di persone riunite attorno a un tavolo verde, assorbite dalle giocate di chi era seduto. «Chi è quello?» chiese Desiderio a suo padre. «Ma, un cretino che viene sempre qua». «Come mai non sei a giocare?». «Non è un periodo fortunato e allora me ne sto un po’ tranquillo». «Che vuoi, sfortunato al gioco, fortunato in amore!». «Fai lo spiritoso? Con tua madre è così da sempre, ormai 100 dovresti saperlo, anzi dopo la tua bravata è diventata ancora più insopportabile di prima» ribatté suo padre con una smorfia a quello stupido proverbio. «Si è avvicinata ancor di più al nostro Signore, sempre sia lodato. Se le fai causa per adulterio non devi pagarle nemmeno gli alimenti» finì di parlare con un sorriso malizioso. «Porca miseria Desiderio, adesso basta!». «No veramente, mi preoccupa. Tutto questo gran parlare di Dio, di don Luigi, non mi sembra tanto normale». «Cosa vuoi che ti dica? Adesso devo stare attento anche a scoreggiare, perché è peccato» continuò guardando il figlio. «Ti va uno di questi?» e gli mostrò il bicchiere che teneva in mano. «No, grazie. Semmai un caffè, visto che dalla mamma non l’ho preso per uscire via alla svelta». Suo padre fece l’ordine al barista, poi riprese il discorso. «Un paio di settimane fa è tornata dalla messa pomeridiana, perché adesso ci va tutti i giorni, con una pila incredibile di opuscoli sotto braccio. Uno di Papa Giovanni Paolo II, uno di Papa Benedetto XVI, uno di massime eterne, un altro intitolato Liberaci dal male e poi altri ancora di cui non ricordo assolutamente i titoli». «E cosa se ne fa?» disse Desiderio. «Li studia. Li legge continuamente e ne ripete il contenuto predicando ad alta voce. La dovresti vedere, fa paura. E poi nei suoi occhi scorgi una luce diversa. Lei dice che è la fede, ma secondo me è invasata. Voglio dire, non fa niente di così veramente pauroso, ma è diversa. Non mi parla mai e quando lo fa utilizza termini da prelato». Il barista mise la tazzina di caffè fumante sul bancone e la spinse verso Desiderio. Lui prese una bustina di zucchero, l’aprì e versò nel caffè tutto il suo contenuto, poi cominciò a girarlo con il cucchiaino. «A me non è parso si esprimesse con un linguaggio evangelico. 101 Più che altro ha nominato Dio innumerevoli volte». «Perché dopo l’ennesima volta che ha ripetuto sempre sia lodato, l’hai sgridata. Altrimenti vedi se partiva in quarta». Desiderio assaporò il caffè, poi lo bevve con soddisfazione e ripose la tazzina sul piattino. «Papà, forse dovresti parlare con don Luigi, così solo per avere una sua opinione in merito a quello che le sta accadendo, magari stiamo esagerando?». «Sì, in effetti sarebbe opportuno. Però dovresti farlo tu». «Come io? Sei tu il marito?». «E tu il figlio. Senti, in quell’ambiente non mi sento a mio agio e non ho confidenza con lui, tu invece lo conosci bene. E poi dopo quello che hai fatto ti farà bene parlargli». «Certo, come no! A te farebbe male! Non posso crederci anche tu con questa storia, ma ti sei messo d’accordo con la mamma?». «Desiderio forse non hai capito, io e lei non ci parliamo praticamente più!». «E devo rimediare io ai vostri problemi? E ai miei chi ci pensa? Anche Adele non mi parla più. Meglio, è andata via da casa e non vuole vedermi. Mi ha lasciato insomma, cazzo!». «In qualche modo doveva fartela pagare! Ma è incinta, dove vuoi che vada? E poi, quella figliola ti ama ancora, fidati!». «Fidati un corno! Avresti dovuto vedere come mi ha trattato l’ultima volta che ci siamo incontrati, era un’altra». «Dio buono volevi ti facesse gli occhi dolci? Aspetta e vedrai che prima o poi si calmerà! Dopo tutto ha ragione Desiderio, hai fatto una gran cazzata!». «Senti, avevamo detto di non parlarne più, quindi argomento chiuso. Con Adele vada come vada. Con don Luigi vado a parlarci io, così siete tutti più tranquilli». 102 XXX Nel cielo rosso, appannato da una miriade di nuvole rigonfie d’oscurità, il sole stava per coricarsi. Sotto quella livida luce, un uomo dal passo lento, si aggirava nei caruggi stretti del porto antico senza una meta precisa. Scivolava tra la gente come un granellino di sabbia tra i restanti granellini di una clessidra, giunta allo scadere del tempo, in attesa di essere ribaltata. L’uomo, destinato a un’eterna vita di lenti scivolamenti e inesorabili ribaltamenti, osservava i volti della gente cercando di scoprirne gli esatti umori. 103 XXXI Don Luigi aveva mosso i primi passi con l’abito talare a Busalla, un paese dell’entroterra genovese. Aveva circa vent’anni ed era appena terminata la seconda guerra mondiale. Fu un periodo lungo, trascorso tra le difficoltà di un paese che aveva voglia di ricominciare da capo, senza avere i mezzi per poterlo fare. La guerra aveva spremuto tutti, dentro e fuori. Dopo il fuggi fuggi generale verso la città, Busalla si ritrovò povera della materia prima di cui un prete necessita quotidianamente per onorare la santa causa: le famiglie, ma soprattutto gli uomini delle famiglie che avevano deciso di restare. Uomini che uscivano all’alba per tornare al tramonto mortificati dalla fatica di una giornata dedicata al lavoro o alla ricerca del lavoro stesso e che la domenica non smaniavano per assistere alla messa. Don Luigi iniziò da lì, con il recupero della massa per la messa. Tutti dentro, uno dopo l’altro. Con le donne fu semplice, non aveva dovuto far altro che aprire le porte e loro, con estrema umiltà, si erano subito accodate per entrare nella casa di Dio, invece con i loro mariti indolenti fu diverso. All’inizio pensò che con la sola opera di convincimento compiuta dalle rispettive consorti prima o poi avrebbe avuto la meglio. Ma questi, sordi alle tante parole, in chiesa non si facevano vedere, vanificando la possibilità di irrobustire la piccola comunità cristiana. Allora agì d’astuzia. Pur essendo inesperto in fatto di donne, sapeva tuttavia che tutto ruotava intorno al loro universo, pertanto con il loro aiuto iniziò a organizzare dei festeggiamenti in parrocchia in onore del riposo domenicale. Festoni, cibo e donne, il resto venne da sé. Da allora di anni ne erano trascorsi parecchi, quasi sessanta, ma don Luigi non era invecchiato in quella curia, no, in quel luogo si era solo fatto le ossa, per una decina d’anni. Poi la diocesi, viste le sue enormi qualità comunicative, decise di inviarlo nella curia di Sampierdarena, ritenendo che il suo lavoro in quella sede 104 urbana sarebbe stato più importante. Don Luigi piacque alla gente fin da subito e negli anni, continuava a piacere, come un vestito sempre alla moda, perché da Busalla, oltre all’esperienza, si era portato dietro anche l’aria del prete da sagre e questo ingentiliva la sua figura, rendendolo più accessibile a tutti. Desiderio aveva conosciuto don Luigi casualmente durante il primo anno delle elementari, nel corridoio della scuola. Quel mattino il maestro della sua classe, aveva organizzato una gara di lettura in cui gli alunni si dovevano affrontare a coppie di due alla volta, leggendo un brano tratto da un libro di favole dei fratelli Grimm ad alta voce. Il primo che terminava la lettura vinceva, guadagnandosi lo scontro successivo, fino alla premiazione del più veloce. Desiderio manco a dirsi era il lettore meno bravo della classe, lo sapeva lui, lo sapevano gli altri e la cosa più terribile lo sapeva anche il maestro che non fece assolutamente nulla per allentare la tensione che lo stava avviluppando. Quando arrivò il suo turno, fu un’inevitabile tortura. Desiderio si piantò subito dopo le prime parole, i compagni sentendolo in difficoltà alimentarono la sua agonia schernendolo senza alcuna pietà. Il maestro dal canto suo gli urlava di tutto, che era un rammollito e che senza saper leggere nella vita non sarebbe arrivato da nessuna parte. Desiderio non resistette a lungo e scoppiò a piangere, poi sotto gli occhi di tutti, si alzò e fuggì da quell’aula di maligni in festa per aver calpestato l’orgoglio di una povera creatura. Fu allora che s’imbatté in don Luigi. Durante la corsa per raggiungere l’uscita della scuola inciampò, cadendo lungo il corridoio. Il prete, trovandosi a due passi da lui, lo sollevò da terra e lo consolò come un figlio. Legarono subito e in quell’occasione presero la decisione di vedersi ancora per perfezionare la lettura. Così Desiderio andò per tutto il mese successivo a casa sua, fino a quando, come in una storia dal lieto epilogo, il difetto svanì e le sue preoccupazioni di leggere davanti alla classe pure. Mantennero 105 l’amicizia per molto tempo ancora. Don Luigi lo seguì per tutto il suo percorso cristiano, dal catechismo per la prima comunione fino a quello della cresima, poi Desiderio crebbe e i suoi interessi lo portarono altrove. Dopo la lunga parentesi, fu grazie al matrimonio che ebbero nuovamente l’occasione di rivedersi nelle serate in cui si svolgeva il corso prematrimoniale. Poi, contrariamente alle promesse fatte, il giorno della cerimonia nuziale aveva sigillato l’ultimo loro incontro. 106 XXXII Fuori perdurava uno stato di calma innaturale, come se d’un tratto qualcuno avesse abolito i giorni feriali dal calendario e la vita procedesse a forza di oziose domeniche. Erano trascorsi già dei minuti da quando Desiderio era uscito di casa e ancora non aveva incontrato una macchina. Solo un uomo esisteva contemporaneamente a lui. Si trovava dall’altra parte della strada e camminava nella sua stessa direzione. Nel lento incedere, lo seguiva con lo sguardo. All’inizio solo furtivamente, poi, vista la naturale indifferenza di costui, lo sguardo si fece più pressante. Camminarono paralleli per circa duecento metri, dopodiché il bisogno di ricevere un segno d’intesa si fece spazio arrogantemente in Desiderio. Cominciò a fissarlo, credendo impossibile che l’uomo potesse mantenere quell’austera indifferenza ancora per molto, ma non cedeva, anzi camminava come fosse stata l’unica cosa in grado di fare. Nella testa di Desiderio s’inerpicò un pensiero riguardante lo strano comportamento delle persone in alcune circostanze: ci sono quelli che fermi al semaforo osservano il conducente dell’auto a fianco e quelli che rimangono impassibili, in attesa che si accenda la luce verde. Certe volte però, si verifica che i due autisti fermi al semaforo, anche se solo per un istante, incrocino lo sguardo, e allora cosa succede? Niente. Un po’ d’imbarazzo, poi l’attenzione si sposta sul semaforo e ognuno con la propria vita continua per la sua strada. Al termine del pensiero l’uomo voltò fulmineo la testa puntandola dritta su Desiderio. Questi rimase pietrificato, ormai non si attendeva più alcuna reazione, così, abbassò desolato lo sguardo e proseguì verso la chiesa. Prima di svoltare in via Giacometti però, la curiosità prevalse caparbiamente e constatò che l'uomo si era fissato su di lui, come fosse stato un miraggio da raggiungere, da non perdere di vista. Per di più aveva spinto il 107 petto in fuori, come volesse rivelare al mondo intero tutto il suo vigore. Fu allora che Desiderio scoprì l’esistenza di persone alle quali era bene non suscitare troppo interesse. Il portone della parrocchia Santa Maria della Cella era chiuso. Desiderio si recò a casa del prete, suonò più volte il campanello a vuoto e tornò di nuovo all’ingresso della chiesa. Perlustrò la zona, ma non vide nessuno. Poi dall’interno del portone udì la voce di una donna seguita da quella di un uomo, apparteneva a don Luigi. Desiderio batté il pugno sul portone e attese una risposta. Dopo una manciata di secondi si presentò don Luigi che senza scomporsi gli disse di attendere. Più tardi dal portone uscì la donna con due bambini, entrambi maschi, uno di circa due anni, l’altro di cinque. Lei era giovane, non aveva più di ventiquattro anni, indossava una felpa azzurra su cui era stampata una scritta bianca in stampatello: CRISTO ESISTE. Le tre persone, sfilando davanti a Desiderio, salutarono cordialmente, poi si allontanarono verso via Sampierdarena dove, a pochi metri di distanza, altre due donne con cinque bambini stavano aspettando il loro arrivo. Erano ecuadoriani e appartenevano alla parrocchia di don Luigi. A Sampierdarena esisteva una grossa comunità ecuadoriana. Il loro insediamento era iniziato circa dieci anni prima, sostenuto molto discretamente dalla curia territoriale. Era il suo modo di aiutare i bisognosi. Destava solo qualche sospetto il fatto che i bisognosi fossero sempre sudamericani, gli altri sembrava non avessero alcun diritto d’aiuto. Col passare del tempo, dal dolce sussurrare dei sampierdarenesi, era emersa una considerazione purtroppo rivelatasi veritiera riguardo alla Chiesa. Ossia, per incrementare la popolazione cattolica doveva assistere i sudamericani trascurando gli altri. I cinesi infatti, ufficialmente un popolo ateo, predicavano solo delle dottrine filosofiche come il taoismo, il buddhismo, il confucianesimo e la Chiesa 108 intransigente non poteva assolutamente occuparsi di coloro che non erano interessati ad un dio come il loro e poi durante i soliti incontri cristiani, i prelati vociferavano che in loro aiuto interveniva sempre la mafia cinese. Quindi troppo pericolosi. Anche per i russi, nonostante fossero cristiani, ma di un altro ordine, quello ortodosso, più di tanto non potevano fare. E poi anche loro venivano considerati troppo pericolosi, visto come si muoveva sul territorio la mafia russa. Questo dichiaravano i preti cattolici. Per i mussulmani invece, il distacco della Chiesa era proprio abissale e l’undici settembre in questo l'aveva agevolata di non poco. Comunque l’imam si adoperava fin troppo bene per integrare al meglio il suo popolo. Ultimamente, con la battaglia in corso su tutto il ponente genovese per la costruzione della moschea, aveva disseminato panico in tutta la curia diocesana e la probabilità che il progetto divenisse realtà non era affatto remota. Desiderio seguì don Luigi all’interno della chiesa, la percorsero tutta, poi, arrivati all’altezza dell’altare, entrarono in sagrestia. Don Luigi oltrepassò la scrivania situata al centro della stanza, si sedette e fece accomodare Desiderio sulla sedia di fronte. «Poveri figli che crescono!» esordì don Luigi, rompendo il silenzio che aleggiava intorno a loro. «Per quanto mi sia sforzato di dare una logica interpretazione a quello che hai fatto, ancora, a distanza di tanto tempo, non ci sono riuscito». Desiderio non disse niente, decise di limitarsi ad ascoltare, lasciando al prete la possibilità di sfogarsi. «Perché? mi chiedo, perché?». Desiderio continuò a guardarlo senza dire niente. «Perché l’hai fatto?» disse don Luigi più moderatamente, aspettando questa volta una risposta. Desiderio si chiese per quanto tempo ancora la gente lo avrebbe martellato sul perché di questa faccenda, poi, dopo aver girovagato con lo sguardo per tutta la stanza, lo soffermò di 109 nuovo sul prete. «Perché non sono soddisfatto di me stesso» rispose alla fine rassegnato. «Cristo! Ma cosa significa?». Don Luigi scattò in piedi, poi, accorgendosi di aver ecceduto oltre il consentito, si ricompose sedendosi nuovamente. Dal ripiano della scrivania prese una Bibbia, iniziò a sfogliarla alla ricerca di un segno. La sfogliò abbondantemente, per tutta la sua completezza, poi si arrese. Quel segno non c’era più. Rimase perplesso domandandosi chi mai l’avesse tolto. Probabilmente si stava sbagliando e il segno che stava cercando era su un’altra Bibbia, magari in quella tenuta sopra il comodino della camera da letto. Non ricordava. Spostò allora il pensiero su ciò che quel segno doveva evidenziare. Non importava il contenuto esatto, d’altronde non aveva più la memoria di una volta e poi era proprio quello il compito del segno, lasciare l’indicazione per una successiva lettura d’approfondimento. Ma niente, non ricordava, tutto svanito. Assorto ormai in uno stato d’ansia, a un certo punto ebbe la piena percezione di quello che era. Un vecchio stanco, molto stanco e infine, avvilito, lasciò cadere lo sguardo a terra. Desiderio vide subito che qualcosa non andava nel prete, ma rimase al suo posto, attendendo una sua autonoma ripresa. I due restarono a lungo prigionieri di un cavernoso silenzio, poi don Luigi rialzò la testa. «Non li capisco più gli abitanti di questo mondo e forse quando pensavo di capirli, non lo facevo affatto». «Forse non c’è nulla da capire, siamo così e basta» rispose Desiderio. «E dove andremo a finire di questo passo? È una vita che ripeto le stesse parole. Vuoi la felicità? Cercala in Dio, non nel gratta e vinci!». Desiderio si sentì messo in imbarazzo da quelle inaspettate parole. Non potendo fare a meno di accostare quello che aveva 110 fatto lui, con l’atteggiamento di coloro che ogni volta tentano la sorte grattando quelle insulse cartoline, alla ricerca di una facile vincita di denaro. «Gestisco una comunità di stolti!» proruppe don Luigi, riconquistando ancora una volta l’attenzione di Desiderio. «Un gregge di pecore stolte e inebetite!» precisò. Restò in silenzio un momento, poi riprese il discorso e si lasciò andare a una sfilza di raccomandazioni che provenivano da un estratto delle omelie che un tempo utilizzava durante le messe. Tutte cose trite e ritrite, che ormai al popolo inebetito, come insisteva nel definirlo lui, non infondevano più alcun vigore. Si dichiarò oltremodo stanco di avere a che fare con vecchi prossimi alla morte in cerca di un’ultima raccomandazione per l’aldilà, arrabbiato con i giovani che promettevano tanto e concludevano poco, furibondo con i sudamericani che lo cercavano solo per assicurarsi gli appartamenti della curia a modici canoni d’affitto, evitando peraltro di farsi vedere la domenica in chiesa. «Proprio come quella che hai visto uscire prima! Io non posso esimermi d’aiutarla, ordini superiori!» tuonò. «D’altronde gli italiani non fanno più figli! E la comunità necessita di cristiani. Che non intendano la nostra lingua poco importa, i loro figli saranno italiani a tutti gli effetti. Ma almeno, venite alla messa dico io! No, la domenica è fiesta! Pecoroni… siete tutti dei pecoroni. Compreso tu Desiderio, tua madre, tuo padre, dei pecoroni inebetiti!». Quest’ultima affermazione non piacque granché a Desiderio e osservò il prete seccato. «Cosa siamo, don?». «Hai capito benissimo». «Oh, può darsi. Può darsi, almeno ho avuto la risposta che andavo cercando». «Quale risposta?». 111 «Su mia madre. Non sono venuto qui per me, ma per lei. Da un po’ di tempo si è fissata su Dio e volevo sapere cosa ne pensavi. Ma come hai già detto, siamo tutti inebetiti, quindi il caso è risolto». «Tua madre ha perso ogni speranza di trascorrere una vita serena, per questo cerca rifugio in Dio. Ormai sono decenni che viene a dirmi le solite cose, lei e tuo padre non si amano, non si sono mai amati e questo l’ha distrutta». «È sempre a pregare, non sopporto di vederla così. Parlale. Dille che così non si risolvono tutti i problemi. Crede che tu mi abbia salvato dall’ictus e dalla prigione a forza di preghiere». «E chi ti dice il contrario?». «Tu don, tanto l’ho capito. Non preghi più per nessuno». «E anche se fosse? Lasciamole credere che siano state le mie preghiere, perché dobbiamo crearle nuovi dispiaceri?». «Perché non è giusto, ecco perché! Finzione, false speranze questa è la religione? Prendere in giro i più deboli?». «No, si tratta solo di serenità. Prova per una volta a mettere da parte Dio e ad analizzare solo l’aspetto psicologico della religione. La chiesa è un luogo di raccoglimento. Senza rumori, senza oppressioni. È l’unico luogo terrestre dove puoi ritrovarti, dove puoi stare in pace con te stesso. È una bolla di sapone che fluttua sulla terra afflitta da malumori e risentimenti, dentro la quale puoi trovare serenità e silenzio. Non lo sottovalutare mai il silenzio Desiderio, fuori dalla chiesa non esiste silenzio e quindi non esiste raccoglimento. Vai in chiesa tutti i giorni e capirai di cosa sto parlando!». Mentre le parole ancora calde, uscite dalla bocca di don Luigi, si stavano raffreddando nel silenzio di Desiderio, dall’alto di una parete della stanza il Cristo crocifisso ridestatosi da chissà dove, puntò lo sguardo su entrambi. Questo ben presto originò un vortice di fraintendimenti in cui Desiderio, ignaro di essere osservato di soppiatto dal Cristo, pensava di essere venuto nel 112 posto sbagliato a cercare delle risposte; il prete, anch’esso ignaro di essere osservato dal medesimo Cristo, pensava che in quel luogo non vi fosse più alcun motivo per rimanervi; infine il Cristo, dopo aver ascoltato i loro discorsi, non comprendeva più la volontà di chi lo obbligava a quella posizione faticosa, segno di un sacrificio che a nulla era valso, vista l’incapacità umana di comprendere la vita. Poi all’improvviso un colpo sordo risuonò nella stanza. Il Cristo era caduto a terra con la sua croce. Probabilmente spinto dall’urto di una martellata assestata contro la parete dal diacono, che, nella stanza attigua alla sagrestia, stava effettuando dei lavori di manutenzione. Forse, molto più semplicemente, era stato spinto dalla voglia di tornarsene nel territorio celestiale da cui proveniva. Desiderio voltò lo sguardo nella direzione da cui era giunto il rumore e vide il Cristo a terra. Si alzò dalla sedia, lo raccolse e lo ripose sulla scrivania, poi, in silenzio, uscì dalla stanza. Don Luigi rimase solo, con il Cristo che lo fissava. Lo prese e cominciò a rigirarselo tra le mani, proprio come avrebbe fatto un gioielliere con la sua pietra preziosa. Provò a valutarne il grado di purezza, ma dopo un attento esame, vi rinunciò, comprendendo quanto fosse arduo essere fedeli alla propria religione e ai suoi dogmi. 113 XXXIII Desiderio passeggiava incupito nel volto e nell’animo dalla conversazione appena avuta con don Luigi. Ritornò con la mente al sacerdote che in qualche modo si era snaturato enormemente rispetto a come era un tempo e ora somigliava più ad un buon samaritano deluso. Forse il troppo prodigarsi nei confronti del prossimo lo aveva sfinito a tal punto da ritrovarsi completamente demotivato; sembrava avesse smarrito la via, come capita a un uomo qualunque. Intanto si spinse in una porzione di spazio in cui il quartiere esprimeva il peggio dell’architettura moderna. Si trovava all'interno del complesso di San Benigno, sotto un nero grattacielo, accerchiato da altri edifici commerciali. La loro posizione, ricordava tanto un insieme di mattoncini Lego abbandonati da un bimbo annoiato per averci giocato troppo a lungo. Allo sconforto dei suoi pensieri si aggiunse il senso di oppressione che gli suscitava quell’ambiente sterile e d’improvviso sentì forte la necessità di posare lo sguardo su un orizzonte libero da ostacoli visivi. Proseguì verso il mare, verso la Lanterna, simbolo di Genova. Affrettando il passo raggiunse il piazzale in cui si trovava l’accesso pedonale che portava al faro. Era a un passo dal mare, non lo vedeva ancora, ma provò subito un brivido di sollievo. Appena s’introdusse nella passeggiata, lo cercò con lo sguardo. Lo trovò. Maestoso di una tonalità blu scuro, leggermente increspato, rassicurante nella sua eterna posizione orizzontale, come l’abbraccio robusto di un padre saggio e maturo. Lo amava il mare, tutti i ricordi più sereni lo riconducevano a lui. Un rapporto duraturo il loro, che non conosceva stagioni, estate o inverno, non faceva alcuna differenza. Camminò fino ad arrivare alla terrazza sottostante il faro e puntò lo sguardo dritto alla linea di confine che separava il cielo dal mare. 114 Quante volte aveva compiuto quel gesto. Quante volte si era soffermato a guardare quella linea, pensando a ciò che nascondeva. Miglia e miglia marine, oltre il Mediterraneo, oltre l’Atlantico fino al raggiungimento della terra tanto ambita, l’Argentina. Un richiamo il suo, impossibile da non ascoltare, prepotente come il pianto originato dal pentimento di una madre che ha appena abbandonato il proprio figlio. Una zaffata di fuliggine lo riportò sulla terra, quella vera, che stava calpestando. Rivolse lo sguardo più in basso e vide l’enorme mostro di ferro. La centrale a carbone. Distesa tra il meraviglioso mare e le falde del promontorio su cui si reggeva la Lanterna. Un obbrobrio, che aveva contribuito a incrementare la richiesta di manodopera nel territorio, ma che allo stesso tempo aveva inferto un danno irreparabile alla natura circostante. Quanto era costata l’industrializzazione a Genova? In termini naturalistici, tanto, un’infinità. La Superba era stata inconfutabilmente desublimizzata. Per quelli che, trovandosi in alto mare, avvistavano la Lanterna, la centrale si poneva dinanzi come un macabro teatro, celante al suo interno l’interprete dietro una spessa cortina. Permetteva solo la vista della cima del faro, con il suo sistema illuminante ed era talmente integrata nell’ambiente, che a una certa distanza, non appariva come la Lanterna, ma come una ciminiera che spurgava fumi tossici. Soltanto grazie al suo occhio luminescente, ricordava chi fosse realmente. Desiderio si era incantato a osservare le operazioni di prelievo del carbone da una nave. Il carbone, tramite un apparecchio simile a un’enorme pompa aspirante, veniva risucchiato e poi rilasciato su un nastro trasportatore, che si allungava per tutto il parco di stoccaggio fino a spingersi nel gruppo termoelettrico, contenente il bruciatore. Di lì a poco, per effetto di numerosi procedimenti, quel carbone sarebbe diventato elettricità per tutta Genova. 115 Intanto, una portacontainer battente bandiera cinese, stava attraversando la rada del molo san Giorgio trainata da un rimorchiatore. L’intero carico, costituito di soli container, era stato scientificamente allineato e sovrapposto verticalmente sul ponte della nave, in modo tale da assicurare il miglior galleggiamento in mare, anche nelle condizioni metereologiche più avverse. Intorno alle navi già attraccate nel terminal merci, si stavano movimentando carrelli elevatori, carriponti e gru, tramite i quali venivano trasferiti i container sulle banchine, per poi essere depositati su treni pronti a dirigersi verso nuove destinazioni. Lentamente lo sguardo di Desiderio scivolò sulla distesa di parallelepipedi di metallo sistemati lungo le banchine. La loro verniciatura, con i colori delle compagnie marittime, restituiva al panorama uno strano effetto cromatico, come se il tutto fosse ricoperto da un gigantesco mantello patchwork. Il mare a tal proposito, nel periodo d’espansione del porto commerciale, aveva intrapreso una dura battaglia contro quella scogliera innaturale, lanciando contro di essa onde anomale impensabili per un mare chiuso come il Mediterraneo, ma alla fine, allontanato da banchine artificiali e arginato da barriere frangiflutti, si era arreso battendo in ritirata. In termini economici, per il porto di Genova, modificare ulteriormente l’aspetto naturale dell’ambiente in un carnevalesco territorio, era equivalso a ottenere il primato italiano per la movimentazione del maggior numero di teu1 all’anno. 1 Twenty-Foot Equivalent Unit – misura standard di volume dei container 116 XXXIV «… Pronto». «Oh, Adele sta partorendo, non voleva dirti nulla ma… corri dài!». «Cazzo!». «Allora?». «Sì… hai fatto bene Giulio, grazie! Arrivo subito». «Al San Martino, secondo padiglione». «Ok». 117 XXXV Giulio indossava la sua tuta verde da lavoro, con tanto di gilet giallo a bande retroriflettenti. Si trovava nella sala d’attesa, al di fuori del padiglione. Oltre a lui non c’era nessun altro e ne approfittò subito per accendersi l’ultima sigaretta del pacchetto. Quando vide Desiderio, fece appena in tempo a chiamarlo, che aveva già mosso un piede oltre l’ingresso del padiglione. «Ho fatto prima che potevo» disse Desiderio, tornando indietro. «Ti ho telefonato appena l’hanno portata su» rispose Giulio, dopo aver espirato una nuvola di fumo. «Non è qua?». «Sì, ma la sala parto è al piano superiore». «Perché così presto? Manca un mese». «Lo so. Ma la piccola ha deciso così». «Ma sta bene?». «Sì, sta bene». «Le si sono rotte le acque?». «No, mi ha detto la mamma che ha avuto una perdita di sangue. Credo fosse il tappo mucoso. Credo». «Ma sta bene?». «Sì, sì, sta bene». «Quindi partorisce questa notte?». «Credo, o in mattinata, forse tarda mattinata». «E non posso entrare dentro?». «C’è la mamma». «Già, che stupido! Anzi che stronzo. Sono proprio uno stronzo» e restò in silenzio alcuni secondi. «Che situazione di merda!» esclamò Desiderio. «Ha domandato di me?» disse ancora. «Voleva che non ti chiamassi». «Nient’altro?». «Ha detto che sei una merda». 118 «Giusto. Grazie per avermelo ricordato». Restarono un po’ in silenzio. «Tuo papà non c’è?». «È sopra anche lui». «Eri a lavoro?» chiese Desiderio, indicando con lo sguardo la tuta di Giulio. «Già». Giulio spense la sigaretta nel portacenere. «Cosa pensi di fare adesso?» disse Giulio. «Bella domanda! Cosa penso di fare? Non lo so. Aspetto». «Cosa?». «Non lo so Giulio, non lo so». «Desiderio, sta per nascere tua figlia, fai qualcosa! Vai da lei». «Ma non mi vuole, ci ho già provato sai quante volte?». «Quante? Una, forse due al massimo. Da quando sei tornato, saresti dovuto andare da lei tutti i giorni, a implorare il suo ritorno, invece dove sei stato?». «Giulio, non mi vuole vedere, è inutile! Non più!». «Ma cosa avrebbe dovuto dirti? Desiderio non preoccuparti, vedrai che si aggiusterà tutto!». «Senti, è tua sorella e non vuoi che soffra. Mi sta bene. Ma ormai è andata e per porre rimedio a quel che ho fatto ci vuole tempo. Ci vuole tempo». «Ma che tempo e tempo! Ci vuole la tua presenza, ci vuole insistenza! Non sperare che tutto s’aggiusti senza vedersi, tanto meno parlarsi. Desiderio ma cos’hai?». «Porca troia, ora basta! Tutti che vogliono sapere. Tutti che mi rompono i coglioni, cazzo! Non me la sento di stare qui adesso, passo più tardi». «Desiderio aspetta… la perderai per sempre!». «Torno più tardi Giulio, torno più tardi». 119 XXXVI Desiderio parcheggiò la macchina vicino alla cattedrale di San Lorenzo e si recò in un locale di piazza delle Erbe. Seduto a un tavolo ad attenderlo c’era Elia. Parlava con una cameriera, tanto bella da poter rientrare tranquillamente nel suo target. Quelle con cui aveva una storia, si assomigliavano tutte: more, capelli lunghi, possibilmente lisci e culo a mandolino. Lei era molto più giovane e probabilmente lui, di ormai trent’anni, vissuto com’era un po’ ovunque, non avrebbe avuto problemi a strapparle un invito entro la fine della serata. Quando Desiderio si sedette al tavolo, lei stava scrivendo qualcosa sul blocchetto delle ordinazioni. Appena terminò di scrivere, fece un sorriso e consegnò un foglietto a Elia. «Chiamami lunedì, siamo chiusi» disse maliziosamente, poi assunse un’espressione d’obbligata cortesia, simile a quella di tante cameriere e chiese l’ordine a Desiderio. «Una lanterna» rispose, poi lei rivolse ancora un sorriso a Elia e si allontanò con il suo bel culo a mandolino. «Che è successo?» domandò Elia. «Adele è in ospedale, sta partorendo». «E non vai?». «Vengo da lì. Ero abbastanza tranquillo, però suo fratello ha cominciato a farmi un monte di domande e…». «Hai sbroccato!». «… Lo sai come sono fatto!». «Sei fatto male!». «Dài, non rompermi il cazzo anche tu. Torno subito, prima però volevo parlarti di una cosa». Desiderio alzò lo sguardo in alto con aria meditabonda, come volesse riordinare le idee. «Sentiamo» lo esortò Elia. «Beh, ci ho pensato su parecchio e… le cose non mi stanno 120 girando affatto bene e… beh insomma ho deciso di andarmene!». «E dove?». «Lo sai dove». «In Argentina?». Desiderio confermò con un cenno della testa. «Perché?». Ecco un altro insolubile perché, uno dei tanti che tediava Desiderio da una vita. Ma quanti erano? A ogni azione, ambizione, riflessone, coincideva un perché e non si presentava mai nelle vesti di un semplice avverbio grammaticale, quale in fin dei conti era, ma come un inossidabile movente, possibilmente il più razionale e il più relativo alla logica. Sempre. Pena l’esclusione. Da cosa? Dall’ordine della vita stabilito dall’uomo, in cui ciascuno deve impegnarsi affinché sia abile, capace, esperto, competente, valente, praticamente bravo in tutto. Bravo come figlio, bravo come alunno, bravo come dipendente o indipendente, ma soprattutto bravo come contribuente. E poi bravo ancora come marito, bravo come padre, bravo come amico di altri bravi padri, distanti dalle loro vere amanti. E ancora bravo come pensionato, bravo come nonno. Bravi tutti, fino alla fine. Bravi, proprio bravi! E falsi, come ideatori di questa brava esistenza. «Sono rimasto al buio!» imperversò Desiderio dopo la lunga riflessione. «Al buio, capisci? Brancolo nel buio alla ricerca di un pulsante, un interruttore che mi restituisca luminosità intorno, che mi restituisca una strada da percorrere. Ma non c’è, oppure non lo vedo… e devo andare a cercarlo». Elia rimase sconcertato quando vide l’amico con gli occhi pieni di lacrime. Nonostante avessero toccato l’argomento esistenziale un migliaio di volte, questa era la prima che lo vedeva in balia di un’emozione tanto intensa, tale da farlo piangere. Sentì un pizzicore agli occhi anche lui, come per un improvviso attacco 121 allergico stagionale. Li chiuse, sperando che la sparizione momentanea di Desiderio alleviasse in qualche modo il fastidio, ma non fu così e le lacrime uscirono lo stesso. Così decise di riaprirli, mostrandosi com’era, profondamente addolorato. La cameriera giunse al tavolo, guardò Elia, ma quando lo vide in lacrime, accelerò il servizio senza porre domande, mise la lanterna davanti a Desiderio e si allontanò silenziosamente. Il grosso boccale da un litro di birra, conteneva immerso nel fondo, un piccolo bicchiere colmo di Porto rosso. Il giallo lievemente ambrato della birra riproduceva l’effetto luminoso, mentre il rosso del vino liquoroso, riproduceva la piccola fiaccola di fuoco immessa all’interno della lanterna di vetro. Oltre a essere originale da vedersi e buona da bersi, aveva una particolarità: i due liquidi non si mescolavano e il Porto, dopo il litro di birra, aggiustava il palato lasciando una sicura sbornia. Desiderio prese il boccale per il manico e iniziò a ingollare birra con lunghe sorsate. Quando l’anidride carbonica si faceva insostenibile smetteva, attendeva un attimo, poi riprendeva. Bevve così più di mezzo litro di birra. Gli occhi già umidi, per effetto della fredda miscela gassosa, avevano ripreso a lacrimare, fece un rutto insonoro ed emise aria dalla pancia gonfia. «In Argentina ho due cugini di primo grado, figli del fratello di mia madre, lui ormai è morto da anni. Francisco e Alvaro. Francisco lavora in una grande estancia nelle Pampas, non molto lontano da Buenos Aires ed è un allevatore di bestiame, mentre Alvaro vive proprio a Buenos Aires ed è un impiegato delle poste. Gente comune, niente di speciale, però ricorderò sempre i racconti di mio zio sull’Argentina, quando veniva a trovarci per le feste di Natale, erano così coinvolgenti, pieni d’avventura! Partì a diciannove anni da Genova e quando arrivò a Buenos Aires non si fermò neanche una settimana, tanto sapeva che la comunità italiana era già forte negli anni cinquanta e una sistemazione prima o poi l’avrebbe trovata. Decise di viaggiare, 122 attraverso la ruta 3, la strada che percorre tutta la costa argentina, arrivò fino in Patagonia, poi oltrepassò lo stretto di Magellano e raggiunse la Terra del Fuoco. Quelle sono terre di frontiera abitate da immigrati di recente, persone che non si sentono italiani, inglesi o tedeschi, nonostante le origini d’appartenenza e che allo stesso tempo non riescono a fondersi insieme». «Me l’hai raccontata mille volte questa storia, ma con te adesso cosa c’entra? Tra qualche ora sarai papà!». Desiderio bevve ancora, quando riposò il boccale sul tavolo, l’orlo della birra si trovava al di sotto del bicchiere di Porto di almeno un centimetro. Allungò la mano dentro il boccale e con le dita arpionò il piccolo bicchiere di vetro, riposandolo a fianco del boccale, poi riprese nuovamente quest’ultimo e trangugiò le poche sorsate di birra rimaste. I suoi occhi ripresero a lacrimare, ma non per effetto dell’anidride carbonica. «Rimase a Ushuaia per un paio d’anni, la città più a sud del mondo, li imparò lo spagnolo e anche un po’ di inglese, ebbe fortuna perché per un anno lavorò in una estancia di un ex maggiore dell’esercito inglese, veterano della prima guerra mondiale, ritiratosi in quelle terre lontane dopo il congedo per una grave ferita subita sul fronte occidentale, la scheggia di una bomba gli aveva maciullato il braccio sinistro, rendendo necessaria l’amputazione dell’arto. Lì imparò ad andare a cavallo e a condurre il bestiame, i fondamentali per divenire un buon allevatore insomma, il resto lo apprese quando tornò nelle Pampas». «Vai da Adele». Desiderio si asciugò il viso bagnato dalle lacrime con il dorso delle mani, poi prese il bicchiere e bevve tutto il Porto. «Ushuaia è ai confini con la terra, diceva mio zio. Chiusa alle spalle dalle ultime propaggini della catena andina. Con il freddo mare davanti che non si sa se sia Atlantico o Pacifico e poco oltre ancora con tutta l’immensa distesa dell’Antartico. In quegli 123 spazi immensi e selvaggi è ancora possibile sentire il respiro della terra». 124 XXXVII In balia dell’ebbrezza alcolica Desiderio impostava le curve della città con la speranza che al termine di ognuna di essa vi fosse la conclusione di tutto. S’immaginava un grande schianto, forte, talmente forte da privarlo di qualsiasi spasmo di sofferenza, una morte immediata, contro un muro, un’auto in sosta, non importava quale fosse la causa della sua uscita di scena, purché arrivasse in fretta, senza creare vittime al di fuori di lui. Spingeva sull’acceleratore, le gomme perdevano aderenza sull’asfalto, ma niente da fare, controsterzava e recuperava, controsterzava e recuperava. Quale assurdità era mai quella, perché controsterzare per poi essere obbligati a recuperare, soprattutto quando esiste la fluidità della rettitudine? Perché si sceglie sempre di sbagliare? Fa parte del gioco chiamato vita? “Quando ripenserai a noi, a quello che avevi, te ne pentirai!”. Queste erano le parole che sentiva pronunciare da Adele, come lascito conclusivo della loro relazione. L’immagine del suo volto scarno appariva oltre il parabrezza, scorreva alla stessa velocità di Desiderio, precedendolo di pochi metri. Forse a ogni curva era proprio lei che correggeva le sbandate, come un angelo custode o uno spettro magico, per amore o per il gusto di vederlo penare. Arrivò al San Martino sano e salvo, ripercorse la strada di qualche ora prima ed entrò nel padiglione in cui era ricoverata Adele. Davanti a una porta verso la metà del corridoio vide Giulio, stava parlando con qualcuno dentro la stanza, appena sentì il rumore dei suoi passi, si voltò e si mosse per andargli incontro. «Come sta?». «Non puoi vederla!». «Come sta?». «Bene, ma non vuole vederti». 125 Desiderio partì deciso verso la stanza di Adele, ma Giulio lo prese per un braccio e lo spinse al muro. «Non vuole vederti!» ripeté, mettendo il muso a un palmo dal naso di Desiderio. «E sei venuto pure ubriaco, troppa realtà tutta insieme, poverino, non ce la facevi a reggere?». Desiderio tentò di divincolarsi, ma la presa era troppo stretta. «La bambina?» disse debolmente. Giulio si voltò indietro, i suoi genitori erano alla porta visibilmente provati dal pessimo spettacolo, allora mollò la presa e ritornò con lo sguardo su Desiderio. «La bambina sta bene». «Voglio vederla!». «No, adesso non puoi, torna quando sarai meno sbronzo». «Dimmi dov’è la bambina!» urlò furibondo. Da una porta uscirono due infermiere. Domandarono cosa diamine stesse accadendo. Desiderio rispose di essere il marito di Adele e di voler assolutamente vedere sua figlia. Le due infermiere si guardarono incerte, poi una rispose che la bambina era all’ultimo piano, nell’incubatrice e che sarebbe rimasta lì un paio di giorni, ma che per vederla sarebbe dovuto tornare per le otto, quando riaprivano alle madri per l’allattamento. Desiderio corse via dal padiglione, arrivò alle scale e invece di scenderle, le risalì fino all’ultimo piano. Entrò da una porta e vide davanti a sé una grossa veneziana chiusa, fu subito certo che da lì avrebbe visto la figlia e confortato da quel pensiero si sdraiò su una fila di sedie poste lungo il muro e si addormentò esausto. 126 XXXVIII Seconda notte all’addiaccio. Le ossa umide si muovevano a fatica, le articolazioni doloranti profetizzavano un futuro imbottito dei peggiori reumatismi. Vagava ancora per le vie strette del centro storico senza sosta, senza pace, come un randagio alla ricerca di cibo, ma d’un appetito differente, fatto di mancanza di parole, premure, sorrisi e felicità. 127 XXXIX Come il diaframma di una fotocamera, la veneziana si aprì, permettendo a due esseri fino ad allora sconosciuti d’incontrarsi per la prima volta. Desiderio si affacciò. Le otto erano passate da un pezzo. Adele a pochi passi da lui cingeva la figlia al petto. Era di spalle, immobile, indossava la vestaglia e il copricapo verde, completamente assorta nell’atto di concedere il primo zampillo di colostro. Desiderio bussò al vetro, Adele si voltò. L’espressione priva di qualsiasi forma di sconcerto di lei. Il pianto di lui. Adele che porgeva la piccola creatura innanzi a Desiderio. Lui con il palmo della mano sul vetro che imitava una carezza. Lei che lo guardava come si guarda un estraneo. Attimi lunghi, la luce copiosa attraversava il diaframma. Non aveva più importanza su quale lato fosse il negativo, ormai l’immagine aveva perduto tutto il suo incanto. Adele con un seno scoperto si ritrasse di alcuni metri. Voltando ancora le spalle si avvicinò a un’incubatrice. Un altro neonato stava dormendo beato, lo esaminò a lungo, poi indirizzò lo sguardo sulla sua creatura ed emise finalmente serena un sorriso. Desiderio, con il volto nascosto tra le mani, abbandonò quel luogo a lui impenetrabile e pieno di un’ inesplicabile senso d’inquietudine lasciò l’ospedale, sua moglie, sua figlia e una parte di sé. 128 XL «Ma che ti piglia?». «Perché?». «Come perché! Ti ho dato la possibilità di rimanere quando altri sicuramente al mio posto ti avrebbero già cacciato. Non solo, ti ho anche promesso che una volta rientrato, comportandoti in un certo modo, s’intende, avresti avuto buone possibilità di fare carriera e tu che fai? Mi vieni a dire che te ne vuoi andare. Ma allora sei proprio uno stronzo!». «Può anche darsi, anzi sicuramente è come dice lei, ma non posso rientrare». «Scusa ma tua moglie non è incinta?». «Sì, cioè… ha partorito. Stamattina». «E la prima cosa che fai dopo essere diventato papà è di lasciare il posto di lavoro?». «Sì». «Ne hai trovato un altro?». «No». «E allora?». «È complicato da spiegare, tanto non capirebbe». «Bene, allora fai il cazzo che vuoi. Puoi andare adesso». Capurro prese la cornetta del telefono e premette un tasto della pulsantiera. «Signore, ci sarebbe un’ultima cosa che vorrei chiederle prima di andare». «Sentiamo?» ripose la cornetta e attese la domanda. «Avrei bisogno della liquidazione il prima possibile». «Cazzo te la puoi scordare, non ti do un centesimo! Con chi credi di parlare con tuo padre, la mia offerta l’hai rifiutata, adesso arrangiati». «Ma sono soldi miei!». «Ottonello, esci di qua!». 129 «Ma sono miei!». «Sì? Allora fammi causa, forse tra dieci anni li rivedi!» Capurro fece una grassa risata e riprese in mano la cornetta del telefono. «Beh… quel caffè che fine ha fatto? Adesso Simonetta, non domani, adesso!». 130 XLI La notizia stava diffondendosi a macchia d’olio per tutta Sampierdarena. La gente si domandava come potesse essere accaduto. Con provvedimento immediato, don Luigi era stato sospeso dalla Chiesa Cattolica per aver preso a calci una ragazza ecuadoriana. Numerosi erano stati i testimoni del fatto, avvenuto proprio in chiesa durante una funzione pomeridiana. La malcapitata, a quanto sembrava, tentando di beneficiare della consueta disponibilità dell’anziano prete, aveva insistito tenacemente nel pretendere un locale in affitto, assegnato secondo lei, a un’altra connazionale per errore. Durante tali rimostranze il prete, in preda a uno slancio d’ira aveva perso completamente le staffe e, impossessato da un profondo odio, l'aveva travolta di calci fino a farla fuggire, poi, sotto gli sguardi increduli dei parrocchiani, si era svestito dell’abito talare, lo aveva lanciato a terra e con le sole mutande era uscito di chiesa. Don Luigi si avviò verso un luogo che apparteneva alla memoria, con il proposito d’intraprendere una nuova vita, lontana dai vincoli religiosi che lo stavano terribilmente affliggendo. Quel giorno don Luigi intraprese un cammino verso un luogo che non esisteva più. 131 XLII Desiderio aprì la porta, ai suoi piedi, oltre la soglia, vide un foglio di carta piegato a metà, lo raccolse e lo aprì. Era un lungo messaggio lasciato da sua madre. Lo lesse: Caro Desiderio, spero proprio tu non sia andato da quel pazzo di don Luigi, io ero in chiesa, ho visto quel che ha fatto! Poveretta quella ragazza, quanti calci si è presa, da non credere. E quando se n’è andato? Quanti improperi, gridava contro tutti noi, capisci! Pecoroni! Pecoroni! Un vecchio prete in mutande che urlava come un ossesso. Avevi ragione a non volerci andare, figuriamoci se pregava per te quello là! Ti scrivo per un altro motivo, non sarei stata capace di dirtelo guardandoti in faccia, perdonami. Ho lasciato tuo padre, per sempre. Ne sono finalmente convinta e sono felice di aver preso questa decisione. Non ci amavamo, non ricordo nemmeno se ci siamo mai amati. Erano altri tempi Desiderio, ti sposavi il primo che conoscevi, da veri incoscienti! In questo momento sarò già in viaggio. Accompagnata da un uomo. Andiamo a Sharm El Sheikh, con un last minute. Si chiama Edoardo è vedovo ed è un brav’uomo, più giovane di me, ma non di molto. Credo di amarlo sai, anche se forse è presto per dirlo. Lo conosco da due giorni. Penserai sia pazza vero? Ma non è così. Tuo padre non so come l’abbia presa, quando gliel’ho detto si è messo a ridere ed è uscito di casa. Solo che questa volta non mi troverà ad aspettarlo. Prenditi cura di te, se ti è ancora concesso anche di Adele, voglio bene a quella figliola. Non so cosa ti sia preso quel giorno, ma vivere è talmente complicato che… non so, mi vien da pensare che tutto sia lecito. La verità è che ti voglio bene e soffro per te, soffro dannatamente, ora che sei diventato papà capirai, eccome se capirai. La pupa è bellissima, non vedo l’ora di poterla prendere in braccio, ti 132 assomiglia moltissimo, che bella! Ma non dovevate chiamarla Agnese? Bello anche Matilde, come tua suocera però, non è corretto! Naturalmente sto scherzando. Vai da loro Desiderio, corri subito, fai pace, fate pace e amatevi. Lo sapete fare, per voi è naturale, vi viene dal cuore, fidati, certe cose le capisco. Mi sono trasferita da Edo, abita a Quinto. Vedessi che appartamento! Appena torniamo siete invitati a cena, sai anche lui non vede l’ora di conoscervi. Ma prima fate pace! Ti amo figlio mio. Desiderio, trascinato dalla nausea, sprofondò sul divano. Chiuse gli occhi e il silenzio che custodiva all’interno pervase l’ambiente circostante inghiottendo miracolosamente suoni e rumori. Svanì il calpestio della signora Lavinia, chiusa in casa a pulire, combattendo le proprie ansie e amnesie. Svanirono dal cavedio le robuste voci che mulinavano nell’aria come foglie d’autunno. Sparì la televisione tenuta ad alto volume da Pastorino, l’inquilino del quinto piano e lo squillo amplificato del telefono della sorda al secondo. Il silenzio, man mano che il tempo scorreva, acquisiva nuova energia e, ritenendo insufficiente il semplice occuparsi dei suoni e dei rumori, decise d’intervenire sugli odori. Fu così che inghiottì l’esalazione della varechina, utilizzata dalla donna delle pulizie sull’impiantito del cavedio. Inghiottì l’odore di minestrone e di fritto proveniente dalla cucina della Gaggero e il buon odore d’aria salmastra che il vento spirava dal mare. Il potere del silenzio aumentò ancora e il bisogno di esercitarlo fu impellente. Rivolse la propria azione verso oggetti solidi e opere murarie, non si fermò davanti a niente. Alla fine, dopo aver inghiottito tutto, rimase solo Desiderio, con un grande vuoto e il suo silenzio. 133 Quando si riebbe dallo svenimento, il senso di spossatezza che aveva, rendeva il suo equilibrio instabile. Con estrema fatica raggiunse il bagno, aprì un rubinetto e mise la testa sotto l’acqua corrente. Il freddo scacciò la spossatezza e con essa anche la paura di aver avuto un altro ictus. Guardò la propria immagine allo specchio, con un distacco simile a quando si guarda una persona per la prima volta. Era magro, molto più di quando era in ospedale. Aveva il volto bianco come il latte e gli occhi lividi, stanchi. Dormiva ma non riposava, mangiava, ma mai abbastanza, non assumeva medicine, non effettuava la fisioterapia prescrittagli e si sentiva depresso. Entrò nel buio della camera da letto, accese la luce e contemplò la stanza in ogni suo angolo. Senza un preciso sentimento la sua attenzione si arrestò sulla cartolina donatagli da don Luigi, il giorno del matrimonio. Era un cartoncino rettangolare recante su un lato l’immagine di un angelo, mentre sull’altro c’era un augurio scritto a penna dal prete. La cartolina era addossata sul portafotografie in cui Adele aveva sistemato una foto del matrimonio, a salvaguardia dei due neo sposini. Desiderio prese la cartolina e la lesse: A Desiderio e Adele con fervidi voti perché la loro famiglia diventi giorno per giorno Capolavoro di amore vivificato dallo Spirito del Signore e custodito dalla Madre Celeste Aff.mo don Luigi Merello Dopo aver accostato nuovamente la cartolina alla foto, pensò a come le cose potessero essere uscite di controllo così 134 radicalmente. Da quanto non erano più felici? Lei forse lo era. Almeno così sembrava. Ma lui? Come si determina la felicità di una persona? Perché a un certo punto nella vita s’insinua questo tarlo maledetto e tutto inizia a traballare? E don Luigi? Tutti meno che lui potevano abbandonare il percorso intrapreso. Cazzo era un prete! Desiderio si trovava davanti ai resti di un gigantesco incendio e invece di sporcarsi le mani per salvare il salvabile, prese una valigia, la mise sul letto e la riempì di vestiti. 135 XLIII Al bancomat Desiderio richiese il saldo. Lo scontrino sortì lentamente dalla fessura ed emise il responso poco confortante. Sul conto erano rimasti settecentosessanta euro, di cui seicentoventi erano da sottrarre per la rata del mutuo che ancora non era stata addebitata. L’Argentina era già di per sé lontana, ma con centoquaranta euro era praticamente irraggiungibile. Maledì i soldi, il tasso variabile, lo spred e l’euribor. In due anni e mezzo la rata era aumentata più di duecento euro. Maledì le banche, i banchieri e i bancari, maledì tutte le bussole che aveva montato in difesa di quegli strozzini legalizzati. Pensò che in Argentina ci sarebbe andato comunque, utilizzando la carta di credito e il fido concessogli di duemilacinquecento euro. Pensò anche alla vigliaccata che stava commettendo, andar via così, lasciando ricadere tutto su Adele, ma ormai era deciso. Entrò in una agenzia viaggi. Placido e sereno come se stesse progettando una vacanza, chiese il volo più economico per raggiungere Buenos Aires. L’impiegata digitò molto velocemente dei dati sul computer e dopo alcuni secondi estrapolò un volo di solo andata in classe turistica, con partenza prevista per l'indomani da Milano Linate alle ore 15:00. La compagnia, Aerolineas Argentinas, costava meno rispetto ad altre poiché effettuava due scali, di cui uno a Fiumicino e uno a Madrid e sarebbe giunto a destinazione alle 07:30 del mattino successivo. Il tutto per la modica cifra di cinquecentotrentuno euro. «Prenoto?» domandò l’impiegata. «Sì» rispose Desiderio mettendosi la mano al portafoglio. «Mi serve il suo passaporto». «Il passaporto?». «Sì, è necessario per la prenotazione». «Ah, devo averlo dimenticato a casa». «Spiacente, ma senza non posso». 136 «Vado a prenderlo». 137 XLIV Benché il piantone avesse riconosciuto Desiderio, non lo fece entrare subito. Lo lasciò ad attendere per una buona decina di minuti sull’ingresso rivolto verso la guardiola, mentre scriveva indisturbato una mail dal suo portatile contenente la formazione del fantacalcio. Fu lo sguardo fisso e decisamente innervosito di Desiderio a convincerlo di allungare finalmente la mano sul pulsante apriporta. «Del Piero domenica non gioca, ho messo Gilardino come unica punta, anche se ultimamente segna meno…». Desiderio emise uno sguardo perplesso e il piantone come se nulla fosse glissò l’argomento. «Non è presto per venire a firmare?». «Cercavo Barbieri». «L’ispettore Barbieri» puntualizzò. «Sì, l’ispettore Barbieri». «Un attimo». Il piantone digitò sulla pulsantiera il tasto del telefono corrispondente all’interno di Barbieri, ma il telefono squillò a vuoto. «Non è in ufficio». «Non sa se è uscito?». «Mica posso sapere tutto io?». Desiderio rimase allibito dall’atteggiamento dell’uomo in divisa, ma non potendo fare altro si congedò e si avviò nuovamente alla porta. Quando afferrò la maniglia sentì chiamare il suo cognome. Si voltò e vide Barbieri. «Salve ispettore, possiamo parlare?». «Andiamo nel mio ufficio». Desiderio lo seguì per le scale che conducevano al secondo piano, poi presero per un corridoio e raggiunta la metà di esso entrarono nell’ufficio. 138 «Avanti, sono tutto orecchie». Desiderio esitò prima di professare la sua richiesta. Di fatto non sapeva come annunciarla e non aveva la minima idea di come Barbieri avrebbe potuto reagire. «Voglio andarmene». «Scusa ma non ti seguo». «Dall’Italia». «Ma non puoi, sei in attesa di giudizio e non hai documenti validi ai fini dell’espatrio». «È per questo che mi trovo qui, mi restituisca il passaporto la prego». «Sì e io perdo il posto di lavoro per te. Ma scherzi?». «Mi trovo in una situazione imbarazzante e l’unica via per uscirne è scappare, il più lontano possibile. Sperando poi, che con l’aiuto del tempo, tutto si rimetta a tacere nella mia testa, perché ora ispettore c’è un gran casino!». «Hai fatto indubbiamente una cazzata, ma tutto si rimetterà a posto, tanto in galera non ci va più nessuno». «Io e mia moglie ci siamo lasciati». «Anch’io con la mia, all’inizio si sta male, ma poi ti riprendi e torni a vivere con un’esperienza in più e vaccinato aggiungerei». «Ha partorito due giorni fa e ieri ho perso definitivamente il mio lavoro». «Cristo santo, ma avevi detto che non ti avevano fatto storie!». «Le cose sono cambiate». «E come?». «Me le hanno fatte» Desiderio si fermò a riflettere, non poteva dire la verità sul suo incontro con Capurro. «Mi vogliono trasferire in un’altra sede, giù in Toscana. Mi hanno messo al muro. O accetto o mi licenzio. Io giù non vado, non ho motivo d’andarci, vorrebbe dire ugualmente separarsi dalla famiglia, che non ho più. Non ha senso capisce?». «Lo ha per lo stipendio». 139 «Tolga l’affitto per l’abitazione che sarei costretto a prendere, i soldi del mutuo della casa a Genova e gli alimenti per la bambina. Cosa ne resta?». «Poco, non ci vuole un commercialista. Beh che cazzo, almeno la nostra amministrazione in questi casi un posto letto in caserma ce lo riserva» commentò Barbieri con un tono ironico. «Mi dia il passaporto ispettore». «Non posso proprio e poi…» s’interruppe un istante. «E poi, è tardi...». «E non ci sono altre soluzioni?». «Che tu resti a ingoiare merda come fan tutti». «Non ne posso più». «E dove vorresti andare?». «A Buenos Aires dapprima, comunque restare in Argentina». «Hai dei parenti laggiù?». «Due cugini di primo grado». Barbieri scosse la testa mentre lo stava guardando. «Non può fingere uno smarrimento?». «Sei completamente ammattito». «Non capita anche a voi poliziotti di perdere qualcosa ogni tanto? Lei potrebbe aver perso il passaporto proprio in questo ufficio, magari durante il passaggio della donna delle pulizie che erroneamente lo ha gettato nella spazzatura, non è un’ipotesi inverosimile». «Sei fuori strada credimi…». La porta si spalancò con uno schianto. Entrò un omone grosso con barba e capelli lunghi, teneva in una mano un mitra e nell’altra un giubbotto antiproiettili. «Luciano corri, rapina in gioielleria, piazza Montano, sono ancora dentro!». Barbieri scattò in piedi. «Dài, esci ragazzo!» l’ispettore prese per un braccio Desiderio e lo accompagnò fuori dall’ufficio, poi proseguì la corsa con l’altro 140 uomo dimenticandosi di lui. Desiderio fu lasciato solo nel corridoio, proseguì verso le scale senza incrociare nessuno, le raggiunse e ancora non sentiva movimento su tutto l’intero piano. Si fermò. Ascoltò il silenzio per molti secondi e si convinse di essere solo. Tornò indietro, aprì la porta e osservò l’ufficio. Degli armadietti metallici erano disposti su di un lato e avevano le chiavi nella serratura. Aprì il primo, era pieno di faldoni. Ne prelevò uno a caso, lo aprì e cercò di capirne il contenuto. Estratti di legge sull’immigrazione. Ne prese un altro. Estratti di legge sulle armi. Un altro ancora. Niente. Chiuse l’armadio e aprì quello a fianco. Anche lì faldoni contenente leggi. L’armadietto dopo, ancora leggi. Una stanza piena di leggi pensò. Dove poteva essere il passaporto? Guardò nei cassetti della scrivania, niente. Uscì dalla stanza e si ritrovò nel corridoio, lo ripercorse a destra, si fermò davanti una porta, sulla targhetta era impressa una scritta. Misure di prevenzione. Impugnò la maniglia, era aperta. Entrò e come nell’altro ufficio vide una scrivania e un lato tappezzato di armadi anch’essi con chiavi nelle serrature. Il terzultimo da destra aveva l’adesivo incollato con le lettere scritte a mano O P Q R. L’aprì, i faldoni della lettera O erano in alto, ne prese uno e iniziò a sfogliarlo: OTTAVI Giorgio 23/7/1964 Torino, OTTAVIANI Silvio 03/9/1969 Genova, OTTONELLO Desiderio 13/02/1975 Genova. Prelevò dal faldone il suo fascicolo e lo aprì. Tra i vari incartamenti c’era il suo passaporto, lo prese. Richiuse il fascicolo, lo rimise nel faldone, richiuse anch’esso e lo rimise al suo posto. Chiuse l’armadio e uscì dalla stanza. Percorse tutto il corridoio con passo felpato, sapendo però di non correre alcun rischio perché quel piano era vuoto, scese le scale e arrivò alla guardiola, aprì il portone e uscì. Si voltò verso il piantone, ma era ancora immerso nel mondo del fantacalcio e non si accorse minimamente del suo passaggio. 141 XLV Il Cortese dei colli tortonesi non mancava mai in casa Ottonello. Il papà di Desiderio andava a prenderlo direttamente dal produttore, un amico di gioventù che si era ammogliato con la figlia di un coltivatore del basso Piemonte. Quando Desiderio entrò in cucina trovò suo padre seduto a tavola. Tracannava proprio quel vinello dal fiasco che solitamente conservava con cura per i giorni di festa. Aveva tutta l’aria di essere lì già da tempo, con la faccia rubiconda e lo sguardo perso nello schermo del televisore spento. Poteva tranquillamente essere scambiato per uno dei tanti vecchi avvinazzati che ricorrono al bianchetto del bar per alleviare le angherie della vita. Desiderio si soffermò a guardarlo. Lui senza che nemmeno si accorgesse di essere osservato riprese a bere. Nella monotonia del gesto, questa volta tirò su il fiasco con fatica e appena lo ebbe accostato sulle labbra, la mano traballò per via del peso, finendo per irrigarsi il collo di vino. «Sono uno spettacolo o no?» parlò, guardandosi sullo schermo del televisore. Desiderio non capì se le parole furono indirizzate a lui oppure erano state frutto di una riflessione momentanea. «Siedi!» ordinò, facendogli cenno con una mano. Desiderio si sedette, suo padre invece con un notevole sforzo si alzò per prelevare dalla piattaia un bicchiere, poi tornò al suo posto e versò del vino nel bicchiere che porse al figlio. «Bevi» ordinò più cautamente. Desiderio si portò il bicchiere alla bocca e bevve. Era fresco di frigo, di un colore giallo paglierino con riflessi verdognoli e un sapore brioso. «Sempre buono il vinello di Flavio, vero papà?» commentò, cercando di smussare l’umore spigoloso del padre. Lui però non disse nulla, limitandosi a bere e, appena ebbe terminato, ripose il 142 fiasco sul tavolo aggiustando lo sguardo verso il figlio. «Mamma…» s’interruppe per il senso di umiliazione che pensava d’aver cancellato a forza di vino ma che invece si era riproposto inaspettato come un singhiozzo. Scosse la testa rimuginando indignato e bevve ancora. Bevve sentendosi schiacciare dal peso dell’alcol, ma più beveva più si sentiva in grado di sfidare qualsiasi forza di gravità che lo voleva ridurre a terra, così continuò a tracannare vino sempre più incazzato, più determinato a contrastare la spinta contraria. Non sarebbe mai caduto da quella sedia, si diceva, avrebbe continuato a bere per tutta la notte. «Mamma è andata veramente con quello là?» alla fine domandò teso e a denti serrati. «Temo di sì papà». Ecco che la risposta del figlio si associò come spinta contraria al peso dell’alcol. Tutto quel peso in una notte non era facile da sorreggere. Ma dopotutto pensò, che male c’era a crollare, insomma, la vita è dura per chiunque e se a un certo punto uno si arrende è umano, è comprensibile, e poi in fin dei conti si trattava solo di una notte. Allora chiuse gli occhi, strinse forte il fiasco nella mano e iniziò a bere grosse sorsate, come se volesse annegare nel vino e si accorse, mentre succhiava ingordamente, che non era poi tanto male quello che gli stava accadendo, sapeva di dolce abbandono, di onesto stop. La mano ebbe un cedimento, il fiasco cadde a terra e lui perse i sensi afflosciandosi sul tavolo. Desiderio lo guardò deluso, gli si avvicinò esaminandolo attentamente, pensando che non si sarebbe mai immaginato di vederlo in una simile condizione. Era assurdo. Assurdo che i suoi si fossero lasciati dopo trentasei anni di matrimonio, che sua madre fosse partita con uno sconosciuto, assurdo che molto probabilmente avesse covato occultamente questa esigenza di fuga, di scomparire dalla realtà proprio come esigeva lui. Vedere 143 che suo padre ne soffriva proprio come ne soffriva Adele. E allora a chi attribuire le colpe, i fallimenti di tutto ciò? A chi restava o a chi partiva? Verso chi pendeva l’ago della bilancia? Era venuto a parlargli, a dirgli come stavano le cose, ma non fu possibile, come con sua madre. Adesso ognuno per la sua strada. Meglio. Chissà se avrebbe capito, in fin dei conti questo episodio era da intendersi come un'ulteriore conferma di quanto fosse giusta la decisione di partire. Suo padre avrebbe potuto impedirglielo, invece il destino era intervenuto appianando inconvenienti e impedimenti. 144 XLVI «Sei felice?» urlò Beppe, balzando alle spalle dell’uomo nero. L’uomo bianco spaventato fuggì, l’altro, quello nero, s’irrigidì innervosito per aver perso un’ottima occasione di rifilare la sua dose. Imprecò rabbiosamente nella sua lingua, calciò una bottiglia di vetro infrangendola sul muro, poi si voltò verso Beppe, lo prese per il bavero, lo strattonò per un po’ e alla fine lo colpì con una testata sul naso. Beppe cadde a terra. L’uomo nero dominava al disopra di lui, con lo sguardo di un cacciatore che ha appena abbattuto la sua preda. Circospetto, guardò attentamente l’ambiente attorno a sé, appurando che non vi fosse nessuno, poi si chinò e introdusse le mani nelle tasche di Beppe alla ricerca di denaro o di quant’altro potesse avere un minimo di valore. Beppe si agitava disteso al suolo senza opporre resistenza, con le mani sul volto cercando di tamponare il sangue fluente dal naso. L’uomo nero non trovò niente, stava per rialzarsi quando la sua faccia spuntò fuori tra le mani insanguinate aperte a libro ed emise un sorriso gioviale, come se nulla fosse accaduto. «Sei felice?» ripeté. L’uomo nero s’infuriò, senza esitare centrò con un pesante pugno il volto di Beppe e si dileguò tra i caruggi. Il sangue stillava a fiotti dal naso di Beppe, in un attimo la sagoma della sua testa fu attorniata da un’aureola densa e purpurea. Immobile e silente, le palpebre chiuse non gli permettevano la vista del cielo buio e segreto che difendeva Genova dal tentativo di penetrazione dei bagliori di una luna che sembrava avesse assorbito il sole da quanto era piena di luce e bellezza. Il sorriso rimase stampato sulle sue labbra in segno di benevola amicizia nei confronti di chi lo avesse rinvenuto nel vico stretto e poco frequentato in cui giaceva assieme a un ratto morto, anch’esso steso a un metro dai suoi piedi a ventre in su, 145 nascosto tra le varie sfumature nere della notte. 146 XLVII Desiderio tornò a casa sua. In testa portava ancora l’immagine avvilente del padre. Era rimasto particolarmente impressionato nel vederlo così malconcio, non era mai accaduto da che lui ricordasse. Aveva pure tentato di accompagnarlo in camera, ma il suo stato d’incoscienza era talmente profondo da non riuscire a ridestarlo neanche per un attimo e aveva potuto quindi solo coprirlo con un plaid, proteggendolo da una sicura congestione. Prima di andarsene però, aveva lasciato un messaggio che sapeva molto d’addio. Non trovando carta per scrivere, aveva utilizzato la copertina di Pian della Tortilla. Vado in Argentina. Riceverai mie notizie regolarmente, te lo prometto. Ti voglio bene e non stare in pena per me. Desiderio Il libro lo aveva riposto sul tavolo, innanzi la sua testa calva, con la consapevolezza matematica che una volta ripresosi, distratto dai postumi della sbornia, non l’avrebbe notato. Solo l’attenuarsi del mal di testa sarebbe stato in grado di riaccendere in lui l’attenzione verso ciò che lo circondava, restituendogli infine il messaggio, che con tutta probabilità lo avrebbe indotto ad assumere un atteggiamento scellerato come quello di attaccarsi nuovamente ai fiaschi di Cortese dei colli tortonesi. Il patema d’animo di Desiderio era come un dirigibile che stava per esplodere da quanto era rigonfio. Non aveva un attimo di fermezza, girava per la casa senza un preciso intento, sapeva di dover riposare, ma gli risultava impossibile farlo. Sul televisore si trovava il biglietto aereo di solo andata per Buenos Aires, lo prese e lo ricontrollò per l’ennesima volta in tutte le sue parti: 147 orari, scali intermedi e destinazione finale, poi prese anche l’opuscolo con gli orari dei treni, controllando quello che da Genova Principe lo avrebbe portato a Milano Centrale, era delle 11:19, con arrivo previsto alle 12:50. Tutto invariato, orari e destinazioni. Rimaneva solo da dormire, ma come? Troppa era l’ansia, la paura opprimente. Doveva contenerla. La notte sarebbe stata lunga da trascorrere insonne. Finalmente giunse alla soluzione. Assopimento indotto da hashish. Elia, quando era venuto a trovarlo, gli aveva lasciato un pezzo da un paio di grammi. Andò a prenderlo da una calza all’interno di un cassetto dell’armadio, poi prese il restante necessario per rollare. Era tanto che non ne preparava una e il risultato fu abbastanza imbarazzante, quello che ne derivò infatti, dopo un’attenta preparazione manuale, sembrò essere un piccolo carciofo afflosciato. Con la successiva invece andò decisamente meglio, assomigliava a uno di quegli spinelli che vendono già preparati nei coffee shop di Amsterdam. La fumò molto velocemente come la precedente per dedicarsi alla creazione della terza che finalmente, dimezzando anche i tempi, lo soddisfece a pieno sia per la forma che per la sostanza. L’effetto desiderato non tardò a sopraggiungere e l’ansia in poco tempo si tramutò in pacifica indifferenza. Flemmatico come un bradipo, Desiderio si adagiò sul letto e si addormentò. 148 XLVIII «Sei felice?». «Noi, voi, essi… sono felici?». «Noi, voi…». «Noi, voi…». «Sei felice?». Beppe muoveva i suoi passi con una tale morbidezza da sembrare quasi che accarezzasse il selciato di via Prè, come se camminasse su un qualcosa di vivo e avesse paura di disturbarlo. I passanti che da lontano lo guardavano incuriositi, vedevano una figura somigliante a uno dei tanti clochard che popolano le strade delle grandi metropoli e solo chi lo incrociava più da vicino vedeva veramente quello che in realtà era. Un ragazzo, poco più che ventenne dal volto stralunato e incrostato di sangue che parlava al mondo di cose che solo lui poteva intendere. Nessuna delle persone che si era accorta di quei dettagli però aveva impugnato un cellulare o urlato a coloro che avrebbero potuto aiutarlo. E Beppe, da quando si era alzato dopo aver trascorso la notte esanime a terra, di persone ne aveva incrociate tante. «Noi, voi, essi…». «Noi, voi…». «Essi…». Era il mattino di un giorno lavorativo, l’aria fresca si abbatteva per le strade senza riuscire a intorpidire il passo di Beppe, che aveva appena superato la Commenda avviandosi verso via Gramsci. Le auto accodate in entrambe le direzioni formavano due lunghi serpentoni. I loro conducenti dopo il solito percorso sarebbero dovuti scendere per recarsi in ufficio o in ditta. Gli attraversamenti pedonali erano invasi da studenti di ogni età e razza, inconsapevoli che un giorno sarebbe spettato proprio a loro di sedersi in quelle auto, nel monotono percorso lungo fino 149 al raggiungimento della quiescenza. Forse trentacinque anni per i più fortunati, quaranta per i restanti. «Noi, voi, essi…». «Noi, voi…». «Essi… sono felici?». 150 XLIX Tra ponente e levante una misera pluralità. Odori e sapori aleggiano ammutoliti cercando spazio a ridosso di un Belvedere2 inesistente. Il gabbiano troppo goffo non volteggia propenso ormai a nutrirsi di ciò che straborda dal cassonetto. Infinita è la scala cromatica del grigio dal più tenue al canna di fucile. Canna di fucile fumante fragore di uno scoppio latente l’ogiva s’introduce veloce nella mente. Autoflagellazione avvenuta tra mura domestiche immemori di momenti sereni. L’uomo giace. Frammenti di cervello intrisi di sangue, sgocciolati come su una tela di Pollock. La scientifica interviene. Le foto scattate, sul tavolo nessun biglietto. Il magistrato non legge, non si diverte. Tra ponente e levante San Pier d’Arena. Misera la fine di un vecchio sopravvissuto ad un’immensità di mali, la guerra calda e fredda la spagnola e il carcinoma. Due giorni passati senza di lei. Due giorni di nulla, a braccare il coraggio per raggiungerla. 2 Zona situata sulle alture di Sampierdarena, così denominata dagli antichi genovesi per la folta vegetazione. 151 La resa dell’ultimo uomo di Sampierdarena. Tra ponente e levante non c’è più niente. 152 L Fu come un chiodo conficcato da qualche parte in testa. Un dolore acuto ed enigmatico, dato che non capiva l’esatto punto in cui aveva avuto la sua genesi. Si era alzato di scatto con le mani premute sulla nuca, come volesse tamponare la perdita improvvisa della propria memoria. Dalle persiane penetravano deboli lame di luce, indicando gli albori del nuovo giorno. Desiderio andò davanti allo specchio, quando un altro chiodo s’incuneò clandestinamente tra i tessuti molli contenuti nella sua scatola cranica. Socchiuse le palpebre per il dolore, perdendosi di vista per un attimo. Il dolore fu breve, remoto, come se non volesse lasciar traccia di sé. Probabilmente l’ultimo pensò, come la scossa di un terremoto che ne rilascia una più lieve prima di scomparire. Si stropicciò dolcemente la testa con una mano e sorrise rasserenato per il pensiero confortante, poi gettò di nuovo lo sguardo sullo specchio. Forse la luce era poca, forse la vista era ancora smorzata dal sonno, ma davanti a sé non c’era un uomo che sorrideva. Protese il busto in avanti, al di sopra del comò, con la fronte a pochi centimetri della superficie riflettente e si osservò. Urlò. Urlò parole incomprensibili al suo udito. Pianse. Si gettò sul letto disperandosi, imprecando il porco mondo e colui che lo aveva creato, popolandolo di esseri simili ma non uguali così da poter decidere le sorti di ognuno di essi, soddisfacendo i propri istinti sadici. Forse anche il creatore del porco mondo aveva subito le tirannie di un altro creatore ancora più potente. Sì. Era stato chiuso al buio lasciato solo con una sfera in mano, il porco mondo con il quale poteva sfogarsi. Desiderio, bestemmiando, s’immaginò tutto questo, poi con le mani si prese la faccia e tentò di strapparsela per non somigliare a quella creatura. Ma quella era la sua faccia e non veniva, non cedeva d’un millimetro, come un parassita che vive ancorato sulla superficie esterna della 153 cellula ospite, in attesa che si indebolisca per porre in essere la sua penetrazione e moltiplicazione. Restò a combattere sul letto, cambiando la posizione delle dita, schiacciando le unghie nella pelle, ma non ottenne nulla, tranne delle abrasioni lungo la circonferenza del viso. Si disperò a lungo e a lungo rimase supino a fissare il soffitto. Rivide il pennello pregno di vernice impugnato dalla sua mano, il movimento dall’alto verso il basso e poi da destra verso sinistra, ricordò la fatica accumulata dal braccio nel mantenerlo allungato verso il muro e i piccoli quadrati di bianco che man mano si stringevano sul soffitto fino a quando l’ultima pennellata concludeva l’opera. Quelle mura trasudavano fatica, l’arredo che decorava quelle mura trasudava fatica, la vita vissuta tra quelle mura trasudava fatica e poi la vita vissuta al di fuori di quelle mura trasudava ancora fatica. Perché? si domandò. Tornò allo specchio e in quello che vide non si riconobbe. Sentiva bruciare le ferite, il sangue macchiava il suo volto proprio come fosse il Cristo dopo l’incoronazione di spine, la bocca e il mento spostati su di un lato rifiutavano la loro collocazione originale, restituendo un’immagine plastica alla faccia. Piangeva. E mentre piangeva capì che l’Argentina non aveva più alcun senso, capì che anche lei dopo tutto faceva parte del porco mondo, schiava della volontà superiore del dio frustrato. Indossò gli abiti che aveva preparato il giorno prima per il viaggio, poi tornò allo specchio. Per evitare d’impressionarsi nell’udire il rumore distorto della sua voce, ne modulò un sottile filo, si guardò attentamente e con il più alto convincimento possibile disse: “Fanculo”! Poi uscì. Le auto in via Buranello erano incolonnate come al solito e il treno sul viadotto procedeva lento con i suoi vagoni spogli d’utenti, facendo supporre palesemente che al treno venisse ancora preferita l’auto. Le persone passeggiavano abbandonate ai propri pensieri. 154 Desiderio appena uscito dal portone le osservò nel loro zigzagare senza senso, come fossero delle mosche libere nello spazio, poi con una calma glaciale, quasi mistica, si infilò tra di loro inseguendo un’inconsueta cognizione del suo stato d’essere. A metà della via, un uomo lo precedeva di poco rallentandolo sul marciapiede, troppo stretto per consentire il cammino di due pedoni appaiati. Erano quasi le nove, non poteva perdere tempo, quindi, dopo aver atteso a lungo il momento propizio al sorpasso, si lanciò senza troppe formalità. Nella manovra la sua spalla urtò quella dell’uomo e fu come aver azionato un detonatore perché l’uomo esplose in un movimento convulso e si voltò strillando: «Sei felice?». Desiderio saltò in aria dallo spavento. Guardò chi fosse, ma fu subito certo di non averlo mai incontrato prima. Era un giovane trasandato dal volto emaciato e incrostato di sangue, incomprensibilmente sorridente per il modo in cui andava a giro. Desiderio, senza darci troppo peso ripartì, ma venne bloccato saldamente per le spalle dal ragazzo. Ebbe allora una reazione istintiva: le braccia si alzarono e rotearono all’indietro come se nuotasse sul dorso. Una volta sgusciato via dalla presa, scagliò contro di lui uno sguardo molto eloquente. Il ragazzo restò sorridente, come se non fosse in grado di osservare più in profondità di quanto potesse offrire la sua semplice vista, come se non comprendesse i chiari segni sul volto di Desiderio. Desiderio scosse la testa, lo guardò ancora, poi, come unica risposta al sorriso, decise di offrire la sua faccia, anch’essa insanguinata, anch’essa provata e in più deturpata da un attacco di ictus. L’avvicinò a pochi centimetri da quella del ragazzo e finalmente sembrò recepire che non c’era niente da ridere, mostrando un volto nuovo, più coscienzioso e profondo. Desiderio riprese la sua strada, mentre il ragazzo rimase lì fermo con l’espressione nuovamente mutata in quella precedente, solo quando si accorse della lontananza che lo separava da Desiderio 155 decise d'incamminarsi dietro di lui. «Sei felice?». «Noi… voi, essi…». «Sono felici?». «Noi… voi…». Desiderio non lo udiva neanche, si limitò soltanto a guardare l’ora e ad accelerare l’andatura. Dal ricovero in poi non godeva più delle solite energie e la fatica si fece subito sentire, indurendo le gambe. Quando si ritrovò di fronte al vico, quello della disgrazia, ebbe una sensazione strana, come se l’esperienza vissuta la dentro fosse attribuibile a un sogno e non fosse mai accaduta. Soffermò lo sguardo sulle pareti dei palazzi che costituivano il passaggio pedonale, erano tutte scritte, ma non da graffiti che comunque potevano avere un significato, ma da insignificanti scritte del cazzo, fatte da persone che non avevano nulla da dire. Le stava leggendo tutte mentre camminava senza trovarne una che potesse soddisfare il suo interesse. Poi lo sguardo puntò verso la fine del vico e ne trovò una. Era in stampatello nero. Produci Consuma Crepa. Se la ripeté nella testa che già gli doleva al solo pensiero. Bastardo quello che l’aveva scritta, proprio un bastardo. Mentre gli saliva la rabbia, il chiodino era tornato a fargli visita. Graffiava dolcemente da qualche parte nel suo cervello. Un uomo s’introdusse all’interno del vico e aveva un sacchetto di nylon in mano. Era ancora lui. Pittaluga. Allora non era stato un sogno, era accaduto veramente. Lui era l’uomo che viaggiava con quindicimila euro, che tutti i giorni viaggiava con quindicimila euro e che la sola e unica volta in cui un disgraziato aveva tentato di portarglieli via, si era dato tanto da fare per trattenerli, quando sapeva benissimo che l’indomani ne avrebbe avuti altri ancora, perché tutti i giorni incassava quindicimila euro. Quindicimila euro. Cosa poteva rappresentare per lui quella cifra? Desiderio li guadagnava in un anno e lui in un 156 giorno. Desiderio non si accorse neanche che mentre stava elaborando pensieri di frustrazione nei confronti di un uomo di successo, le sue mani erano già attaccate a quella busta. Le sue mani e la busta unite in un perfetto déjà vu. La sua bocca storta urlava rumori incomprensibili, mentre Pittaluga, caparbiamente, la tratteneva con tutta la forza di cui disponeva. Fu un tira e molla estenuante, nessuno dei due voleva cedere. Entrambi avevano le vene del collo ingrossate per la fatica, tiravano, poi mollavano brevemente per recuperare fiato, sembrava stessero facendo della pesca d’altura nel tentativo di catturare un grosso pesce spada. Fu come un chiodo conficcato da qualche parte in testa. Di una foggia diversa rispetto ai precedenti, di un acciaio robusto, più appuntito e lungo, perché Desiderio chiuse improvvisamente gli occhi, mollò la presa e cadde di schiena, emettendo un tonfo sordo. Pittaluga si ritrovò seduto sul fondo schiena con il sacchetto in mano. Si alzò e si avvicinò a Desiderio. Lo guardò bene, non sapeva se fosse vivo o morto. Prese il cellulare, compose il 118, mise il pollice sul tasto per inviare la chiamata, ma ebbe un attimo di esitazione. E se quel bastardo una volta guarito fosse tornato? Tolse il dito dal tasto, rimise in tasca il cellulare, si guardò intorno e vide soltanto un uomo che stava arrivando dalla parte opposta, che certamente non poteva aver visto nulla. Si sistemò il nodo alla cravatta e andò via. 157 LI «Sei felice?» urlò Beppe dal fondo del vico. Era almeno un giorno che non possedeva più il suo sguardo profondo da indagatore dell’anima. Lo aveva smarrito durante il suo pellegrinaggio, in qualche strada del centro storico, affisso su qualche muro ammuffito come un cartellone pubblicitario o magari abbandonato proprio sul volto di uno dei tanti passanti, sfiancato dalla lunga ricerca e dalla continua mancanza di risposte. Percorse lo stretto passaggio interrogando colui che stava disteso a terra, sotto la scritta lapidaria: Produci Consuma Crepa. Il breve riassunto di una vita. «Sei felice?» domandò ancora al corpo esanime. Un lungo silenzio. «Noi… voi, essi…». «Noi…». «Voi…». «Voi siete felici?». 158