Per tante, quello di Luce Irigaray è un vero tradimento. È lei stessa a

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Per tante, quello di Luce Irigaray è un vero tradimento. È lei stessa a
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FONDAZIONE INSIEME onlus.
DA IO DONNA del 1/12/2007, pag.173 <<IL DESIDERIO è UN MULTIPLO DI DUE. ERA LA
FILOSOFA PIU’ RADICALE DEL FEMMINISMO DEGLI ANNI ‘70 >> di MARINA TERRAGNI,
GIORNALISTA E SCRITTRICE.
Per la lettura completa del pezzo si rinvia al settimanale citato.
Per tante, quello di Luce Irigaray è un vero tradimento. È lei stessa a
raccontarlo, nel suo ultimo libro <<OLTRE I PROPRI CONFINI. (Baldini Castoldi
Dalai)>>:
<<Parecchie donne –scrive- hanno deciso che il mio lavoro dedicato alla
causa femminile, alla liberazione della donna, si ferma a “Speculum” e “Questo
sesso che non è un sesso” vale a dire alla parte più critica della mia opera.
È già accaduto che in certe conferenze parlavo del mio lavoro attuale
mentre, in altre sale, donne impugnavano Speculum contro la stessa Luce
Irigaray, che avrebbe tradito il suo primo discorso>>.
Lei dice invece che tra la prima Irigaray e l’ultima, tra quella destruens, si
potrebbe dire, e questa construens, tra la pensatrice della differenza sessuale,
critica, radicale e geniale del “discorso fallocentrico”, l’Irigaray di oggi, che
parla di respiro, di energia e di felicità, di poesia, di desiderio, di condivisione e
d’amore, la continuità è assoluta.
Luce Irigaray è nata a Blaton, in Belgio, e vive a Parigi, dove dirige la
ricerca in filosofia del Centro nazionale della Ricerca scientifica.
Nella sua lunga vita si è occupata di filosofia, di psicoanalisi, di linguistica e
letteratura.
Tra i temi al centro della sua riflessione più recente, il rapporto con l’altro, il
“tempo delle nozze”, in cui le differenze possano finalmente e armoniosamente
convivere, a cominciare dalla differenza sessuale, <<chiave non sostituibile per
accedere a una cultura mondiale>>. È la democrazia-a-due: la nostra
conversazione comincia proprio di qui.
Parliamo di questa democrazia-a-due: il primo due che sperimentiamo è
l’essere nati uomini e donne. La donna, dice lei, deve avere una sua propria
identità civile, legata all’identità reale e naturale. Com’è una democrazia
adatta anche alle donne?
<<Per entrare da donne nella vita pubblica la prima regola necessaria è
essere rappresentate da diritti civili appropriati all’identità della natura
femminile. Per secoli le donne sono state ridotte alla pura naturalità, recluse
a custodire e rappresentare una parte repressa della nostra cultura, nascosta
nella casa familiare. Per uscire dalla loro reclusione le donne devono compiere
una svolta indispensabile sia per loro sia per la stessa democrazia: passare da
un’identità naturale ad una identità civile appropriata, acquisendo il diritto di
gestire loro stesse in modo responsabile la propria naturalità.
Un’identità al femminile è il primo statuto politico da ottenere: non si può
trattare alla pari con gli uomini al di fuori di un simile statuto. È anche il
mezzo per passare dalla natura alla cultura senza compromettere la propria
identità>>.
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Mi pare che le donne dell’emancipazione –lei scrive- non abbiano capito che,
anche se sono nate donne, devono ancora diventare le donne che sono per
nascita. Come si fa a diventare donne?
<<Le emancipate non hanno saputo ideare i cambiamenti culturali che si
rendevano necessari nella fuoriuscita da una servitù secolare. Volersi
accomodare in una società di uomini non poteva che raddoppiare la loro
esclusione in quanto donne, impedendo loro di porre i propri valori anziché
invidiare quelli dei maschi.
Purtroppo alcune delle emancipate condannano le donne che si amano in
quanto donne, e cercano perfino di danneggiarle. Il che distrugge la
possibilità di un futuro migliore non solo per le donne ma per l’intera umanità,
che ha bisogno di una cultura mondiale basata su nuovi rapporti di convivenza
fra i sessi, e non l’annullamento di questa differenza basilare universale>>.
Oggi per molte donne libertà ed autonomia coincidono con il successo
economico e professionale.
<<I soldi sono necessari. Un’indipendenza economica può aiutare ad
acquistare autonomia. È vero però che l’accento è stato, posto
sull’uguaglianza agli uomini nell’accesso al lavoro retribuito e al potere, a
discapito della necessità di una cultura al femminile e di una cultura al
femminile e di una coltivazione delle relazioni nella differenza, del desiderio e
dell’amore. La realizzazione economica e sociale dovrebbe servire a
un’acquisizione e a una cultura della propria identità, e non viceversa, come
questo capita. Il che non favorisce la liberazione delle donne, né lo fa
sbocciare della loro soggettività e felicità>>.
Per portarsi avanti in umanità, lei dice, è necessaria una cultura del
desiderio tra i sessi.
<<La necessità di una cultura del desiderio, -e non solo fra i sessi, anche se
soprattutto in questo ambito-, è il filo conduttore del mio libro.
Mi riferisco al desiderio di amare. Al desiderio che può unire in modo
concreto e vivo i cittadini. Al desiderio del desiderio, come mezzo di
coltivazione dell’energia. Alla condivisione del desiderio come fonte di felicità.
Troppo spesso nel nostro modo di vivere il desiderio non riesce a superare
una lacerazione fra istinto e ideale, il che lascia insoddisfatti. Il desiderio è
una dimensione propriamente umana, in cui corpo e parola si intrecciano. Il
problema è che questo intreccio avviene in maniera diversa per l’uomo e per la
donna: condividere il desiderio richiede la consapevolezza di questa differenza
e la capacità di rispettarla, anche nell’abbraccio più intimo.
Mantenere il due è necessario per conservare vivo il desiderio. Questo ci
costringe a rinunciare ad ogni forma di regressione alla prima infanzia,
all’abolizione di sé nella fusione, all’annullamento dell’altro nel possesso o di se
stessi nell’assoggettamento all’altro.
Per durare il desiderio deve diventare amore. Si potrebbe dire che l’amore
è un desiderio che dura, anzitutto grazie al rispetto delle due persone fra cui è
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nata l’attrazione. Il desiderio e l’amore vogliono l’assoluto, ma per durare
necessitano di una sapienza che sa rinunciare a raggiungere troppo presto
l’assoluto dell’Altro per continuare invece a convivere con l’altro>>.
Lei insiste molto sul respiro. Parla di una cultura del respiro, del respiro
come gesto con una ricaduta politica.
<<Il respiro regala vita e autonomia. Respirare da solo è il primo gesto di
autonomia del neonato dalla madre. Quando veniamo al mondo entriamo in
un’altra sorta di placenta, quello della cultura che ci circonda.
Sfortunatamente viviamo il più delle volte in questa placenta senza esserne
consapevoli, e ciò paralizza il nostro respiro più che darci ossigeno come fa la
madre.
Attraverso una coltivazione conscia del nostro respiro possiamo giungere
all’autonomia rispetto ad una cultura passata.
La cosa è particolarmente importante per le donne, che possono contribuire
alla loro liberazione in modo positivo e creativo, e non solo reattivo e critico.
Non è un caso che in certe tradizioni in cui si coltiva il respiro si parli di
“rinascita” (rebirthing, ndr).
Diventare le donne che siamo per nascita richiede una sorta di rinascita
rispetto alla cultura che ci ha imposto un’identità culturale che non è la
nostra>>.
Recriminazione, rabbia, violenza reattiva: lei dice che sono trappole per le
donne, tutti sintomi di scarsa autonomia. Come si arriva, invece, a una
autonomia autentica?
<<Come ho già detto, attraverso una coltivazione del desiderio e del
respiro. E anche mediante una coltivazione dell’energia, cosa non abbastanza
riconosciuta nella nostra tradizione.
Recriminazione, rabbia e violenza usano la nostra energia in una maniera
che più che liberarci ci aliena.
Sono sintomi di una mancanza di autonomia che l’aumentano, anziché
ridurla.
Vale anche per la “semplice” critica. La via per arrivare all’autonomia è
invece diventare coscienti della propria energia, essere capaci di conservarla, e
di farla crescere e sbocciare grazie alla sua condivisione.
Questo atteggiamento non è usuale per noi: siamo invece abituati a
scaricare l’energia appena la sentiamo crescere.
Di qui la nostra concezione del fare l’amore come una necessaria scarica di
energia, cosa che ci rende molto felici.
Dovremmo invece essere grati del fatto di avere in dono un di più di energia
attraverso il risveglio del desiderio.
Dovremmo imparare a coltivare questa energia per la nostra crescita e per
condividerla con l’altro.
L’arte, più della morale, appare come una via per conservare, coltivare e
condividere la nostra energia, perché è un linguaggio che esprime
integralmente in nostro essere –corpo sentimenti, ascolto e parola, pensiero- e
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contribuisce a trasformare un’energia solo virtuale e istintiva in una energia
davvero spirituale>>.