file - Museo dell`automobile
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IL VIAGGIO. Da Marco Polo all’Itala di Scipione Borghese Quanti sono i viaggi possibili? Non parlando di destinazioni geografiche o di mete turistiche, ma di atteggiamento interiore e personale con cui si può affrontare il viaggio, o lo si affrontava in passato. Vi può essere (stato) il viaggio di esplorazione, da quello istituzionale (per esempio, alla scoperta delle Indie, con il sostegno economico di regnanti) a quello personale (avventurarsi in un paese sconosciuto), il viaggio scientifico (per studiare animali o piante lontane, per condurre ricerche archeologiche), il viaggio religioso (le crociate, i pellegrinaggi), il viaggio di espiazione (le vie Sacre), il viaggio di formazione (nell’Ottocento, il viaggio in Italia lo era per molti giovani benestanti, americani ed inglesi), di conquista (politica, o commerciale, per trovare nuovi mercati), di emigrazione (si intraprende un viaggio alla ricerca di un lavoro e di una vita migliore), di affermazione, il viaggio di piacere. Quest’ultima categoria è sicuramente la più recente: soltanto nel Novecento si inizia a viaggiare per il puro piacere di farlo, senza necessariamente esservi spinti da motivazioni d’altro tipo. Questo anche in virtù dei migliorati mezzi di trasporto: il treno, l’automobile, l’aereo hanno annullato distanze fino a cento anni fa quasi incolmabili, e reso possibile spostarsi con grande, apparente, facilità. La nascita del concetto di “tempo libero” (categoria mentale altrettanto recente del viaggio di piacere) ha poi ulteriormente contribuito a rendere fattibile ciò che era impensabile un secolo fa: andare a Parigi in un weekend, traversare gli Stati Uniti coast – to – coast nelle due settimane di vacanze estive, passare le festività di Natale sul Mar Rosso, è oggi alla portata di molti. Ma cosa intendiamo per viaggio? Cosa ci aspettiamo, oggi, quando partiamo per una meta, qualsiasi essa sia? Come ne torniamo? Sul tema del viaggio, e di cosa sia diventato in epoca moderna, il Museo dell’Automobile può dare un contributo significativo, in quanto, attraverso una delle sue vetture (la Itala 35-45 HP del 1907) è in grado di raccontarci uno dei primi viaggi della modernità. E’ quello compiuto nel 1907 dal Principe Scipione Borghese a bordo di un’Itala poi entrata a far parte della collezione permanente del Museo. L’occasione di tale viaggio era scaturita da un’idea lanciata dal quotidiano francese “Le Matin” il quale sfidò gli automobilisti dell’epoca a compiere il primo raid della storia dell’automobilismo: da Pechino a Parigi. Si iscrissero in una dozzina, partirono in cinque, arrivarono in tre, vinse Scipione Borghese sull’Itala: l’epopea di questo viaggio, raccontata da Luigi Barzini in corrispondenze quotidiane sul Corriere della Sera e su un quotidiano inglese, poi raccolte nel libro “La metà del mondo vista da un’automobile”, divenne di eco mondiale, e costituì fonte inesauribile e affascinante di racconti suggestivi ed intriganti. Perché lo consideriamo un viaggio moderno? Perché utilizza un mezzo di trasporto moderno, anzi rivoluzionario, come l’automobile. Scipione Borghese voleva vincere in nome dell’automobile, per dimostrare la superiorità dell’industria automobilistica italiana sulle altre industrie automobilistiche europee, prima fra tutte quella francese; per provare al mondo che l’auto era veramente il mezzo del trasporto del futuro, tanto che grazie ad essa si era riusciti in poche settimane a compiere un viaggio altrimenti impossibile, per lo meno con quei tempi e a quei costi; che perciò l’automobile non era soltanto un giocattolo per ricchi o uno strumento da competizione, ma un mezzo di comunicazione e scambio indispensabile per l’uomo moderno.. Un mezzo che cambiava radicalmente il modo di viaggiare. Fino all’inizio del Novecento, per spostarsi, l’uomo si era mosso a piedi, poi in carrozza, e soltanto nell’Ottocento in treno. Contemporaneamente all’apertura dei primi tronchi ferroviari, erano nati i primi viaggi organizzati per opera di un intraprendente inglese, il signor Cook, ed aveva cominciato il suo declino l’idea di viaggio come avventura intellettuale, un’idea che aveva fatto dire a Goethe che “non si viaggia per arrivare ma per viaggiare”. L’automobile aveva restituito al viaggiatore agi e comodità (scrisse un viaggiatore in auto all’inizio del secolo “E’ così che un tempo viaggiavano i sovrani nelle loro 1 carrozze, sulle vie reali. Noi tuttavia abbiamo il vantaggio di muoverci senza cortigiani, senza boria, senza seguito e, grazie al genio misterioso che crepita nel cuore di un magico apparecchio, di godere di una velocità di cui i sovrani di un tempo non avevano la minima idea”), e aveva incredibilmente velocizzato i tempi di spostamento. Ecco il concetto portante: l’inedita, straordinaria discriminante fra il vecchio e il nuovo modo di viaggiare è la velocità, la velocità unita all’agio e alla libertà. Naturalmente vi fu chi mise più l’accento sulla velocità, chi sulla libertà. Uno dei primi scrittori – viaggiatori, reduce da un viaggio compiuto in auto nel 1903, scrisse: “Voi, che considerate l’automobile il nostro sbuffante della strada, il macinino che scoppietta; voi che ne diffondete la pessima reputazione e lo spavento; voi che impaurite i cavalli, fate infuriare i vetturini, uccidete polli, cani e oche; voi che scorgete in essa il moloch su pneumatici che inghiottisce chilometri di strada per vomitarli in forma di nuvole di polvere satura di benzina; voi che considerate la macchina come l’incarnazione della modernità ossia della smania di correre, di gettarsi a precipizio…voi in realtà non la conoscete affatto. Il valore dell’automobile non è quello di superare la velocità della ferrovia, non è quello di conseguire un primato sportivo. Il valore dell’automobile è libertà, accortezza, autodisciplina, diletto. In essa risorge a nuova vita, infinitamente arricchito e nella pienezza del proprio empito, lo spirito della diligenza”1. 1 Otto Julius Bierbaum, Eine empfindsame Reise im Automobil, 1903 UN VIAGGIO LONTANO. Marco Polo Nulla si conosceva, in Occidente, dei mondi visitati dal mercante veneziano Marco Polo nel corso di più di venti anni, dal 1272 al 1295. L’Estremo Oriente era un “buco nero”, tanto quanto tutto ciò che, dalla parte opposta, stava al di la’ delle Colonne d’Ercole. Cinque secoli di dominio musulmano su gran parte delle zone comprese tra la Terra Santa e l’India avevano costituito una barriera insormontabile, rendendo desueta la “via della seta” che nell’antichità collegava l’Impero Romano alla Cina, via Damasco e Samarcanda. Quando, parecchi anni dopo i suoi viaggio, Marco Polo si trovò a dettare le sue memorie, in carcere, al suo compagno di cella Rustichello da Pisa, non pensava di stare scrivendo uno dei più grandi best seller della storia del mondo, “Il Milione”. Il suo libro destò meraviglia, perplessità, stupore, incredulità. Tutte quelle ricchezze, le stupefacenti città, il buon cuore dell’Imperatore, gli incredibili scenari, le strane usanze di cui Polo riferiva, senza spreco di aggettivi, ma con l’enfasi dovuta ad una perenne meraviglia, gli valsero la fama di fantasioso, se non di contastorie. Soltanto i cartografi gli credettero, e riuscirono a disegnare nuove carte geografiche del mondo conosciuto grazie al percorso da Polo descritto con precisione e scrupolosità quelle sì stupefacenti. Anche i mercanti e i missionari non misero mai in dubbio le descrizioni del Milione, utilizzando il libro quasi come una guida per affrontare viaggi in paesi sconosciuti. Maroc Polo aveva iniziato i suoi viaggi insieme al padre Niccolò e allo zio Matteo. Furono loro a portare l’olio del Santo Sepolcro al Gran Khan da parte del Papa Gregorio X. E il Gran Khan, smanioso di un contatto con il mondo Occidentale, li accolse con tutti gli onori, al termine di un viaggio lungo tre anni via terra, attraverso l’Armenia, la Persia, il Turkestan, Samarcanda, l’altopiano del Pamir, il deserto di Gobi. Il giovane Marco, svelto di parola, fu nominato ambasciatore e addirittura, per tre anni, governatore della città di Yangzhou. Niccolo e Matteo furono nominati consiglieri militari. E assai nicchiò Qubilai quando i tre veneziani manifestarono il desiderio di tornare in patria. L’occasione si presentò sotto regali vesti femminili. Il re di Persia aveva chiesto in sposa una principessa mongola in segno di pace e alleanza con il grande Impero. Il Gran Khan nominò i Polo a capo della scorta che l’avrebbe accompagnata: 14 navi e 600 uomini di equipaggio, di cui solo 18 arriveranno a destinazione. 2 Polo nel suo libro, archetipo dei libri di viaggio, riferisce le cose viste e le cose solo sentite, senza mai alcun riferimento autobiografico, solo osservazione “oggettiva” e impressionismo, entusiasmo e generosa ansia di riferire ogni scoperta e visione inedita per occhi europei: persone, costruzioni, abiti, utensili di lavoro, mezzi di trasporto, oggetti d’artigianato, cibi e bevande, manifestazioni pubbliche, credenze, tratti somatici, animali, evocando leggende e mitiche battaglie. UN VIAGGIO VICINO. Scipione Borghese Sul quotidiano parigino “Le Matin”, nel gennaio 1907, comparve questo annuncio: “C’è qualcuno che accetti di andare nell’estate prossima da Pechino a Parigi in automobile?” A rispondere furono in tanti, tantissimi che telegrafarono al giornale il giorno stesso dell’annuncio, chiedendo di essere ammessi. Tra coloro che accettarono la sfida sin dal primo momento e poi vi parteciparono effettivamente vi fu il marchese De Dion, presidente della casa francese De Dion Bouton e fondatore dell’Automobile Club di Francia. Egli scrisse a Le Matin: “Ho letto sul giornale l’invito ad una competizione da Pechino a Parigi. Le strade sono orribili e spesso esistono soltanto sulle carte. Sono tuttavia convinto che, se una macchina può farcela, la De Dion Bouton ce la farà. Stando così le cose e dato che questa grande prova riveste così grande interesse riguardo al significato mondiale dell’automobile, io raccolgo senz’altro la sfida, purché vi partecipi un’altra macchina competitrice. Questa è veramente un’impresa da Jules Verne…” Quindi si iscrisse, con due tricicli, una seconda marca francese, la Contal. Misurata fu l’adesione del Principe Scipione Borghese: “La macchina con la quale parteciperò alla vostra competizione Pechino – Parigi è un’Itala. Vi sarei molto grato se vorrete darmi altri particolari, di modo che io possa prendere le opportune decisioni organizzative”. L’Itala a cui faceva riferimento Borghese era una vettura da 40 CV, con un telaio in travi d’acciaio rinforzato rispetto al modello di serie, che si stava facendo costruire apposta per il raid (parola che fu usata per la prima volta per questa competizione; da notarsi che raider significa in inglese incursore, predatore, perciò raid è un’incursione, una scorribanda, un’irruzione). Borghese infatti pianificò il viaggio con una cura e una meticolosità incredibili. Innanzitutto studiò le carte dell’esercito imperiale russo, le carte tedesche della Cina e i rilevamenti delle navi meteorologiche di tutto il mondo (grazie ai quali seppe che si stava avvicinando un nubifragio e, anticipando i tempi, riuscì ad evitarlo). Contattò tutti i conoscenti che aveva sparsi per il mondo, per farsi dare suggerimenti e consigli in merito al percorso e all’equipaggiamento. Insieme alla macchina ordinò pezzi di ricambio, pneumatici, olio e benzina, che fece collocare nei punti più opportuni del percorso. Mai un posto di rifornimento distava più di 700 km dal successivo, e l’Itala aveva comunque una autonomia di 1000 km, grazie ai serbatoi supplementari di benzina (300 litri) e di olio (50 litri). Oltre al Principe l’Itala avrebbe ospitato altre due persone. La prima era Ettore Guizzardi, meccanico di fiducia di Borghese, personaggio dalle capacità eccezionali; e Luigi Barzini, inviato del Corriere della Sera e del Daily Telegraph, che già era stato in Cina per la rivolta dei boxer e che aveva seguito anche molto da vicino la guerra russo – giapponese. Alla linea di partenza a Pechino, il 10 giugno 1907, si schierarono, oltre all’Itala, anche una vettura olandese, la Spyker, affidata a Charles Godard (che pur di giungere al traguardo arrivò ad esibirsi in moto sul giro della morte al motovelodromo di Irkutsk in Siberia); un triciclo Contal, guidato da Pons (il secondo si era ritirato); e due vetture leggere De Dion Bouton, pilotate da Colignon e Cormier, accompagnati dai giornalisti Du Taillis e Longoni. Sulla carta queste ultime risultavano le favorite. A lungo infatti si era discusso se conveniva partecipare con vetture leggere e poco potenti, come pensavano i più, o con vetture più pesanti e più potenti, come pensava Scipione Borghese. Sin dai primi chilometri, comunque, fu chiaro che l’ipotesi di proseguire in gruppo non si sarebbe realizzata; l’Itala avrebbe fatto una corsa a sé. La prima difficoltà che si presentò fu quella rappresentata dal fango, onnipresente in Cina, Mongolia, Siberia, tanto da dover più volte ricorrere a volenterosi (ma sempre pagati) coolies (ossia manovali, facchini). Ma non era solo il fango a rendere faticosa e ardua la marcia: ci si misero anche rocce, ponti precari, sabbie mobili. Ogni volta 3 la Itala doveva essere alleggerita di tutto quello che si poteva togliere, e quindi trainata, spinta, sollevata a braccia. Non si ruppero pezzi importanti della vettura, ma una ruota sì, che fu possibile ricostruire grazie all’intervento di un bravissimo carradore russo di religione cristiana. Il particolare della religione fu tutt’altro che irrilevante, perché fu grazie al latino, la lingua con cui allora veniva officiate le messe, che Scipione Borghese riuscì ad intendersi con lui e a spiegargli ciò di cui aveva bisogno. Meno fortunato fu invece l’arrivo in un villaggio russo dove il pope, il capo religioso della comunità, si mise in testa che la rumorosa automobile non era altro che il diavolo, e che era suo stretto dovere cercare di scacciarlo in ogni modo, con il crocifisso in mano e un seguito di popolani urlanti. I paesaggi sono grandiosi, magnifici. Gli incontri lasciano spesso i viaggiatori sbalorditi. Uno di questi è un penitente con la testa rasa, dalla lunga tonaca, che pregando ed inginocchiandosi bacia la terra ogni tre passi. E’ diretto alla città santa di Urga e intende attraversare la Mongolia e il deserto dei Gobi: mille e trecento chilometri a piedi, baciando il suolo di continuo. Vi è poi l’incontro con la Grande Muraglia: “Vista da lontano – scrive Barzini – fusa e confusa alle montagne come una prodigiosa sagomatura delle loro stesse vette e dei loro fianchi, non da’ l’impressione di un’opera umana: è troppo vasta, e quel che se ne vede non è di essa che la millesima parte. Si direbbe piuttosto una fantastica bizzarria della terra emersa per il lavoro di immense e ignote forze naturali: il prodotto di un cataclisma creatore”. Anche il deserto di Gobi è immenso, incute spavento e rispetto. All’ufficio del telegrafo di Pong-Kiong l’impiegato appone in testa al telegramma di Barzini il n. 1. “E’ il primo della giornata?” chiede il giornalista. “No signore, il primo dell’ufficio.” “In quest’anno?” “No, signore, da quando l’ufficio esiste. Sono sei anni”. La Mongolia riserva altre sorprese alla spedizione italiana, la prima delle quali è la felicità del Governatore cinese a bordo dell’Itala; l’altra è un ennesimo impantanamento della vettura. L’auto è imprigionata nella mota, nulla serve a liberarla, finché intervengono tre volenterosi (pagati) che riescono a trarla d’impaccio. E’ l’ultimo guaio capitato in terra cinese: ora li aspetta l’impero russo. E qui, oltre alle accoglienze calorose, anche i banchetti meritano un cenno perché presentano enormi arrosti di bue, grandi pesci bolliti, quarti di agnello, cumuli di caviale, storione, salmone, uova e bottiglie di vini e liquori, frutta preziose, fatte venire apposta dall’Italia. Anche la lunga traversata siberiana presenta alti e bassi: le autorità locali vedono con sospetto la diabolica automobile e nella impossibilità di regolarsi diversamente controllano i documenti con esagerata pignoleria, nel tentativo di bloccare l’impresa o di farla fallire del tutto. Nello stesso tempo i fiumi, i pantani, costringono a manovre di ogni genere per non restare danneggiati o sommersi. L’Itala marcia addirittura sui binari ferroviari, cavandosela egregiamente, ma precipita da un ponte, rimanendo sospesa a mezz’aria tra il pelo del torrente e le assi del ponte. Anche da questo guaio riescono a liberarsi, grazie soprattutto alla prontezza di Guizzardi che non esita a gettarsi in acqua. La steppa è interminabile, sconfinata. Sembrano un miraggio quei pochi alberghi che riescono a scovare dopo centinaia e centinaia di chilometri, e settimane di viaggio. Alberghi per modo di dire: perché a disposizione del cliente vi è solo la stanza nuda, cosicché il viaggiatore siberiano deve portarsi dietro tutto, dalle coperte al cuscino alle lenzuola. Indimenticabili comunque le accoglienze a Mosca e a San Pietroburgo: tripudi, festoni, banchetti, ricevimenti, musiche, folle in delirio. A Verviers, in Belgio, l’ultimo intoppo: la macchina e gli occupanti destano il sospetto dell’unica guardia municipale che vorrebbe multare gli automobilisti italiani per eccesso di velocità…Lo sprint finale è elettrizzante: l’auto, coperta di firme di ammiratori e di esibizionisti, compie gli ultimi trecento, duecento chilometri a passo di record, in un corteo di altre vetture accompagnatrici. L’ingresso a Parigi avviene fra le note della marcia trionfale dell’Aida e grida, urla, evviva provenienti dalle finestre, dai tram, dalla folla assiepata sui marciapiedi, oltre trecentomila persone. I vincitori vennero portati in trionfo dalla folla; lo stesso accadde a Milano, dove Borghese volle giungere a bordo dell’Itala. La popolarità dei personaggi e della vettura fu tanto grande che la Itala venne addirittura esposta a New York. Durante il suo ritorno in Italia finì in mare, danneggiandosi gravemente, nel corso delle 4 operazioni di scarico nel porto di Genova. Biscaretti di Ruffia la ritrovò, abbandonata e polverosa, negli anni venti in un magazzino della Itala. La vettura andò dunque a far parte del primo nucleo della collezione del Museo dell’Automobile di Torino, fondato dallo stesso Biscaretti. Donatella Biffignandi Museo dell’Automobile 5