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UNSAFE AT ANY SPEED “Insicura a qualsiasi velocità”: a “qualsiasi”, questo è da sottolineare. Così recitava il titolo di un libro di trent’anni fa che ebbe l’effetto di una bomba sul sonnolento mondo dell’industria automobilistica americana. Sosteneva che un discreto numero di vetture americane, tra le più care e le più diffuse, erano pericolose a guidarsi. Comunque le si guidasse, e da parte di chiunque, perché la loro progettazione conteneva errori marchiani. Torna alla memoria quel libro (“Unsafe at any speed”, di Ralph Nader, Grossman Publishers, Inc. New York, 1965, tradotto in italiano da Gerolamo Boschi Breghelli, per Bompiani, 1967, con il titolo di “L’auto che uccide”) dopo la solita estate di incidenti, stragi del sabato sera e dell’esodo, controstragi del controesodo, “weekend di sangue” e vacanze distrutte per centinaia di italiani. Ad innescare questo movimento della memoria verso il già visto, anzi, il già letto, sono i titoli dei quotidiani, che riferivano delle misure politiche adottate. Esse sono state, nell’ordine, la demonizzazione della velocità, il divieto di sorpasso per i TIR su due tratti di autostrade italiane particolarmente trafficate, provvedimento che è stato subito revocato, l’aumento del prezzo della benzina, che non c’entrava nulla ma serve sempre, l’annunciato aumento delle pattuglie di polizia stradale, che numerosi giornalisti improvvisatisi pirati della strada non hanno mai incontrato, e ne hanno dato ampia notizia, così da rassicurare convenientemente gli italiani in macchina. La velocità, la grande imputata. Ha scritto Diego Eramo su “Auto” di settembre 1999: “…la velocità-killer, il mostro, la dea perversa che prima plagia poi falcia i suoi adepti. Facile, comodo, inquadrare nel mirino la velocità e sparare a raffica quando non si hanno argomenti…In realtà, la velocità non c’entra. O c’entra molto poco”. Ha scritto l’elzevirista che si firmava “Moto”, sull’”Automobile” del 15 agosto 1899, il Ferragosto di un secolo fa: “E’ la velocità che devesi paventare nelle automobili? Non crediamo. La velocità non è menomanente pericolosa; è pericolosa invece la impossibilità di fermarsi davanti ad un ostacolo impreveduto. Con un’automobile leggera, munita di freni potenti, che, si può dire, s’arresta di colpo, non c’è pericolo anche in città a camminare con una velocità di 20 o 25 km/h – mentre con un automobile pesante, la quale si frena più lentamente, diventa pericolosa una velocità di 15 km/h ed anche meno”. E l’argomento veniva ripreso nel numero del 15 dicembre 1899 dall’ing. Barras, con un lungo articolo dedicato alla prevenzione degli infortuni automobilistici. Barras sosteva infatti che “Le cadute, gli investimenti, gli scontri sono attribuibili ad una infinità di cagioni diverse, alcune casuali ed imprevedibili, altre colpose, dovute al conduttore od al costruttore del veicolo. E’ un fatto certo che molti “chauffeurs” improvvisati conducono a velocità eccessive il loro automobile senza possedere la conoscenza perfetta dello strumento ad essi affidato, e che solo una lunga esperienza può dare; molti ignorano che non tutte le vetture sono idonee a raggiungere le velocità ottenute da esperti corridori su veicoli appositi, di forza e stabilità eccezionali, e che lo stato delle strade non permette andature superiori ai 40 chilometri su carrozze ordinarie…(Ma) entra in campo anche il costruttore, il quale ha talvolta la sua porzione di responsabilità negli infortuni lamentati…Vi sono norme condannevoli in fatto di costruzioni di automobili, come il principio della forza e della controforza, cioè di un motore per spingere la vettura e di un freno per rattenerla…Né basta applicare un motore potente ad una vettura per spingerla a tutta forza: bisogna ancora che la carrozzeria sia adeguata…I meccanici dovrebbero pure, collaudando un nuovo veicolo, verificare attentissimamente…” Ralph Nader, il giovane avvocato americano uscito dall’Università di Harvard, che nel 1964 cominciò a mettere a frutto i risultati del lavoro della Sottocommissione senatoriale sulla Sicurezza del Traffico, nel cui staff lavorava anche, e non fu certo presenza di facciata, il senatore Robert Kennedy, non fa che portare a pieno sviluppo i semplici, banali enunciati dell’ing. Barras, ispirati ad un solido e pragmatico buon senso. Ralph Nader ha dunque un merito indubbio, quello di aver affrettato il processo di divulgazione del problema della sicurezza, rendendo familiare al pubblico il concetto di sicurezza passiva e attiva, e favorendo il prodigioso sviluppo del Movimento Consumatori, il principale, se non l’unico, baluardo che difende il cittadino americano dallo strapotere delle grandi società multinazionali e che si fa intermediario del suo rapporto con lo Stato. Il merito maggiore va però ascritto alla Sottocommissione, che interpretò il proprio compito come un’inchiesta che non doveva lasciare né tregua né vie d’uscita alle grandi industrie automobilistiche americane, Ford, Chrysler e General Motors. Quello che tale l’inchiesta fece emergere subito, con grande evidenza, è l’enorme, scandaloso divario, che separava gli utili di queste grandi società da quanto era destinato in bilancio agli studi per la sicurezza. In una requisitoria, che per il suo incalzare è passata alla storia quasi fosse una requisitoria penale, Robert Kennedy riuscì a far ammettere all’allora Presidente della General Motors (James Roche), che l’utile annuo ammontava a un miliardo e mezzo di dollari (corrispondente nel 1965 a mille miliardi di lire italiane). Solo un milione di dollari era stato però stanziato per uno studio approfondito sui problemi della sicurezza, e guarda caso soltanto una settimana prima della seduta del Sottocomitato, nonostante i 50.000 morti all’anno per incidenti stradali… Ci voleva coraggio per portare alla luce, e crearne scandalo, una situazione del genere, in un’aula del Senato di Washington. Ebbe coraggio, il giovane senatore, tanto da giustificare quello che scrisse di lui un settimanale a grandissima tiratura: “Bob si sta battendo per una nuova frontiera anche nel settore della sicurezza automobilistica”. Ed effettivamente ci riuscì, grazie anche alla enorme eco suscitata dal libro di Nader, che per la prima volta metteva sul banco degli imputati i “Three big”, che incitava i consumatori a ribellarsi al ruolo di vittime passive, che rivendicava al pubblico il diritto di affrontare un problema, quello della sicurezza e della progettazione, da cui finora era stato escluso in quanto riservato ai tecnici. Il caso perciò della Chevrolet Corvair, le cui ruote dovevano essere tenute ad una costante differenza di pressione tra le anteriori e le posteriori, pena l’immediata perdita di controllo della vettura e conseguente capottamento, diventò emblematico di una progettazione che non teneva nel dovuto conto il problema della sicurezza. Così quello della Buick Roadmaster, che poteva restare all’improvviso senza freni; delle vetture a cambio automatico dove, per ragioni di costo, la marcia indietro era posta accanto a quella avanti, creando i presupposti per rovinose confusioni; della esasperante tattica di dilazione che l’industria automobilistica mise in atto prima di applicare di serie le cinture di sicurezza. E’ con lo scandalo creato dal libro di Ralph Nader che le Case mutarono radicalmente atteggiamento. Divenne prassi normale il “richiamo” di centinaia di migliaia di vetture, nel caso emergesse la necessità di apportare delle modifiche. Nacque una legislazione specifica sul tema della sicurezza, grazie alla creazione della Traffic Safety Agency, che ebbe l’incarico di disciplinare l’elenco delle norme di sicurezza cui si dovevano adeguare i costruttori di autoveicoli. Le vetture furono rese effettivamente più sicure. Però… Succede ogni tanto qualcosa che ci impedisce di convincerci che la situazione sia poi cambiata tanto. Certo, è cambiata la consapevolezza del consumatore-cliente. Ma la sostanza assomiglia molto al passato. Ne è testimonianza il processo intentato recentemente alla General Motors, proprio lei, l’incarnazione dell’America, da una famiglia di colore che subì un tamponamento. Così si svolsero i fatti, per come ce li racconta Vittorio Zucconi sulla “Repubblica” dell’11 luglio 1999. Rientrando a casa dalla messa di mezzanotte, alla vigilia del Natale 1993, la signora Patricia Anderson, con i suoi quattro bambini e un’amica, fu tamponata mentre sostava al semaforo. Il guidatore che aveva tamponato risultò ubriaco. Non aveva neanche visto la Chevrolet Malibu della Anderson. Non tentò neppure di frenare. Investì l’auto ferma a 70 km all’ora, sbriciolò il paraurti di plastica, penetrò nel portabagagli, sfondando il serbatoio. Questo esplose, dalla Malibù in fiamme adulti e bambini uscirono con il viso e gli abiti avvolti dalle fiamme. Certo, non morì nessuno: ma due dei bambini affrontarono 62 operazioni di chirurgia plastica. Il caso in realtà sembrava non dovesse neanche aprirsi: il conducente era colpevole di ubriachezza, e questo sembrò sufficiente. Ma non fu considerato sufficiente dagli avvocati “ambulance chasers”, ossia a quegli avvocati che corrono dietro gli incidenti più atroci, offrendo gratuitamente la propria assistenza a patto di cedere loro la metà dell’eventuale risarcimento ottenuto. La vittima non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. Tantissimo da guadagnare, in certi casi: in questo, per esempio, novemila miliardi, perché tale fu il risarcimento-monstre a cui fu condannata la General Motors, nel processo che si è chiuso qualche settimana fa. Perché risultò che il serbatoio non avrebbe dovuto essere dove si trovava. Risultò che un dirigente della GM aveva segnalato ai suoi superiori la pericolosità di quella posizione del serbatoio e la necessità di allontanarlo di almeno dieci centimetri dal paraurti posteriori. Il costo aggiuntivo per tale modifica, a vettura, sarebbe stato di 15 mila lire. Troppo, sentenziarono i vertici della General Motors, che ignorarono la relazione, il “memorandum Ivey”. Troppo? constatò la giuria. Troppo una cifra così irrisoria (che facilmente poteva essere ribaltata sul costo d’acquisto della vettura), per adottare una elementare misura di sicurezza? Inaccettabile. E via con i novemila miliardi. E’ dunque vero che la vittima ha più strumenti per difendersi, ma pur sempre dopo che il disastro è avvenuto. Fino a qualche anno fa il libro di Ralph Nader sembrava aver insegnato ancora troppo poco. In questi ultimi tempi invece si è avvertita un’attenzione nuova da parte delle fabbriche automobilistiche, che se mai hanno cavalcato la carta della sicurezza con grande insistenza. Ora le nostre auto sembrano effettivamente più sicure. Però… Donatella Biffignandi Museo dell’Automobile