LA PECHINO – PARIGI DEGLI ALTRI

Transcript

LA PECHINO – PARIGI DEGLI ALTRI
LA PECHINO – PARIGI DEGLI ALTRI
Non vi è stata una sola Pechino-Parigi. Vi è stata quella, celeberrima e
celebratissima, del Principe Borghese, del giornalista Barzini e del meccanico
Guizzardi sulla Itala, nel 1907; quella del 1989, allorché l’Itala, la stessa di
ottantadue anni prima, venne fatta uscire sulle sue ruote dal Museo
dell’Automobile di Torino, che la ospita da sempre, per rifare il raid, capofila
di una carovana di moderni veicoli Fiat ed Iveco; quella del 2006, con
itinerario inverso ed organizzata dalla Mercedes. Vi sarà quella del
centenario, organizzata da Trekking International-Overland, di nuovo a
percorso inverso da Parigi a Pechino, in programma a giugno 2007. E c’è stata
la Pechino-Parigi di Cormier, di Collignon, di Pons, di Godard, di du Taillis,
di Longoni. Nomi mai sentiti: i nomi dei compagni di viaggio di Borghese
durante il primo raid, il vero: quello del 1907.
Compagni di viaggio e di avventure, che a loro volte scrissero libri, come “Le
raid Pékin – Paris. 4000 lieues en Automobile”, di Georges Cormier, pilota di
una delle due De Dion Bouton partecipanti, e i resoconti di viaggio scritti dal
giornalista Longoni, corrispondente del Secolo di Roma, e di Jean du Taillis,
corrispondente del “Matin” di Parigi, un po’ il padrone di casa visto che era
stato proprio il quotidiano parigino a lanciare l’idea e a organizzare la
spedizione. Libri ben lontani dall’aver avuto lo strepitoso successo del
racconto di Luigi Barzini, “La metà del mondo vista da un’automobile. Da
Pechino a Parigi in 60 giorni”, un titolo alla Jules Verne, pubblicato già dalla
prima edizione in undici lingue e dodici paesi, cosa mai avvenuta per
un’opera italiana. Come le vicende vittoriose dell’Itala soverchiarono ed
oscurarono la corsa degli altri, così successe alla voce degli altri, rimaste sullo
sfondo, senza eco alcuna.
Che fascino potevano esercitare i loro racconti, perennemente in ritardo sui
dispacci telegrafici di Barzini? Come provare ansia per la loro traversata del
deserto di Gobi, trepidare per l’arrancante triciclo Contal, come condividere
la sete e la fatica e persino la tragedia di certi tratti, quando qualcuno vi era
già passato, li aveva già superati, aveva avuto il tempo di telegrafare e
ripartire?
L’idea di far compiere a delle automobili l’incredibile traversata da Parigi a
Pechino (così si sarebbe dovuto svolgere l’itinerario, inizialmente) era nata
sul giornale parigino Le Matin del 31 gennaio 1907. “Si organizzano corse e
concorsi di automobili in piccoli circuiti chiusi<(mentre) l’automobile è utile per i
1
lunghi percorsi e tende a render l’uomo padrone delle distanze. Racchiudere in
circuiti delle vetture la cui ragion d’essere è di permettere le grandi e subitanee
partenze per lontani orizzonti è un concetto la cui logica sfugge al grosso del
pubblico. Noi abbiamo pensato che la migliore industria francese aveva il diritto di
volere, per fare le sue prove in faccia al mondo, un campo più largo. Ebbene! Noi
chiediamo ai costruttori francesi e stranieri. Vi è uno o più che accetti di andare da
Parigi a Pechino in automobile?” Era una sfida impegnativa, ai limiti
dell’incoscienza se non della follia. Si trattava di un percorso privo per lo più
di strade, da fare in paesi poco conosciuti, lontani non solo geograficamente
ma anche e soprattutto dall’organizzazione civile di cui l’Europa si stava
dotando. Tutto si presentava come difficile, se non impossibile: organizzare i
rifornimenti di benzina, ottenere i permessi di transito, studiare degli itinerari
praticabili a dei mezzi a motore, scovare degli intermediari ed interpreti per il
cinese, il mongolo, il tartaro, il russo, superare deserti, steppe, taighe, paludi,
montagne, valichi, senza alcun appoggio. Però, certo, chi ci fosse riuscito si
sarebbe ricoperto di gloria, anzi, di gloire, essendo tutto questo stato studiato
a beneficio dell’industria automobilistica francese, della cui vittoria non si
dubitava.
Il giorno dopo, 1° febbraio, il giornale pubblicava la prima risposta.
Proveniva dal conte Alberto De Dion, fondatore dell’Automobile Club de
France e, insieme a Georges Bouton, dell’omonima casa costruttrice, all’epoca
già grande industria tanto da dare lavoro a 3000 operai e sviluppare i suoi
stabilimenti su un’area di oltre 50.000 metri quadri. “Vengo a cognizione di una
prova-sfida da Parigi a Pechino. Le strade sono abominevoli, e spesso non esistono che
sulla carta. Ma io credo che se un’automobile vi potrà passare, passerà la De Dion
Bouton<”. Non restò solo a lungo: si fece avanti la marca olandese Spyker,
una intraprendente piccola fabbrica di Trompenburg, guidata dai due fratelli
Jacobus e Hendrik Spyker. Impetuoso ed inventivo, Jacobus fin dal 1900
aveva cercato di imporre la sua casa sul difficile mercato olandese, più
propenso ad acquistare vetture di marche straniere. Avvalendosi del
progettista belga Valentino Laviolette, inseguì il successo prima con uno
strano motore circolare, poi con un carburatore magnetico, infine con una
vettura a sei cilindri e quattro ruote motrici. La proposta del Matin poteva
costituire un’imprevista e gradita ribalta: perché non tentare? Della stessa
idea fu un oscuro costruttore parigino di tricicli, Camille Contal, che
dichiarandosi pronto ad affrontare la sfida con due dei suoi tricar, o motori,
fece scatenare la discussione: si sarebbero rivelate più adatte al difficilissimo
2
percorso delle pesanti vetture da 40 HP, potenti e robuste, o delle vetturette
leggere da 10/15 HP, sollevabili al bisogno senza troppa fatica? Nel giro di
due giorni la Pechino – Parigi (già al 2 febbraio infatti si era deciso di invertire
l’itinerario, per evitare la stagione delle piogge) era diventata l’argomento del
giorno, da tutti dibattuta, sviscerata, criticata, abbracciata con entusiasmo.
Chi sosteneva che le vetture pesanti sarebbero affondate nella sabbia,
inesorabilmente; chi invece era dell’opinione che automobili leggere non
avrebbero avuto la potenza necessaria per inerpicarsi su valichi o altri tratti
disagevoli. Chi era talmente convinto dell’impossibilità di affrontare in
macchina un percorso del genere da essere sicuro che non si sarebbe neanche
arrivati a far partire le macchine da Pechino; chi giudicava l’impresa
un’americanata (termine che già allora designava qualcosa pensato più per il
risvolto pubblicitario, reclamistico, che per altro); chi, come un certo Scipione
Borghese, da Roma, si limitò a telegrafare al Matin, accettando di partecipare
su una Itala da 40 CV. Nel giro di una settimana, avevano aderito in dieci.
Sorprende questa rapidità e facilità di comunicazione tra diversi paesi
d’Europa, un secolo fa. In mancanza di internet e di televisione, tutto era
affidato al telegrafo e alla carta stampata: ma con quali risultati! In 24, 48 ore
lo stesso argomento è sulla bocca di tutti. Il telegramma di Borghese
trasformò l’idea in realtà: non ne parlava soltanto “le tout Paris”, un’adesione
così importante rendeva impossibile tirarsi indietro, o accampare scuse. Il
Principe Luigi Marcantonio Francesco Rodolfo Scipione Borghese era nato nel
1871 a Migliarino (PI) da una delle più nobili famiglie romane, e all’epoca si
era già conquistato fama internazionale come viaggiatore ed esploratore
scientifico, oltre che come diplomatico, alpinista, automobilista. Nel 1900
aveva compiuto un viaggio dal Golfo Persico al Pacifico, da cui sarebbe
scaturito il libro “In Asia: Siria Eufrate, Babilonia”, pubblicato nel 1902.
Compì anche un viaggio attraverso la Cina, che divenne un altro suo libro di
gran successo. Alto, asciutto, glabro, precocemente calvo, di poche parole,
aveva modi calmi e misurati: un pianificatore nato, di grande freddezza e
dominio di sé, con molti mezzi a disposizione, e la capacità innata di
disporne al meglio. Un personaggio che sembra quasi letterario, più che reale,
studiato su misura per incarnare la Pechino-Parigi<e che fin dall’inizio si
comportò in maniera molto diversa dagli altri partecipanti.
A Parigi intanto fu costituito un Comitato, formato da esperti della Cina e
dell’Estremo Oriente. Bisognava tracciare l’itinerario da seguire, ottenere tutti
gli appoggi possibili, e studiare ogni problema nei minimi dettagli, se si
3
voleva ottenere qualche risultato. Tutti i partecipanti, a cui si chiedevano 2000
franchi di cauzione, con l’intesa di restituirli a Pechino al momento della
partenza, furono invitati a partecipare alle riunioni. La Spyker mandò
Godard, il personaggio più simpatico della Pechino-Parigi. “Ha doti
eccezionalissime, è un caposcarico senza eguali, sempre in cerca di una partita da
giocare, di un ballo da organizzare, di una serata o di un divertimento da offrire”, lo
descrisse du Taillis, che con lui condivise una parte del viaggio sulla vettura
olandese. Di professione fantino, con qualche esperienza da automobilista,
era in realtà un avventuriero, perennemente alla ricerca di espedienti più o
meno legali per campare e campare divertendosi: forse non l’ideale per
affrontare un viaggio così tremendo, che imponeva grande organizzazione
e<grandi mezzi. Godard, spiantato in canna, già a Parigi si venderà la
riserva di pneumatici e di pezzi di ricambio di cui lo aveva fornito Jacobus; e
per spedire la macchina via mare fino al porto di Tientsin, 3000 franchi,
ricorse al porto assegnato, rimandando così il problema di saldare il conto
<che sarà saldato da un altro. Du Taillis è affascinato da Godard, dal suo
allegro coraggio, dal suo totale sprezzo del pericolo che rasenta l’incoscienza
e la millanteria. Ma anche dalla sua lealtà, che dimostrò più volte,
testardamente, nel corso del raid.
L’Itala non mandò nessuno. La partecipazione del Principe Borghese era a
titolo privato: da parte della casa torinese vi era un tale scetticismo sulle
possibilità della vettura, ordinata in febbraio e consegnata ad aprile, da
pregare il Principe di ritirare la sua adesione. Al che, Borghese ritirò la
vettura e la consegnò nelle mani del suo fido meccanico-factotum Ettore
Guizzardi, limitandosi a seguire i lavori del Comitato da Roma. Così,
l’accordo che le case concorrenti firmarono a marzo non fu da lui sottoscritto.
Si trattava di un documento che recava le firme della De Dion, Contal,
Werner1, Métallurgique2, Spyker ed altre marche, e diceva cose molto
interessanti. Per esempio (punto 1) che “il viaggio sarà compiuto in convoglio e i
piloti promettono di aiutarsi reciprocamente fino al confine tedesco”; che “le case
concorrenti constatano che hanno chiesto di partecipare al raid Pechino-Parigi
sessantadue meccanici e piloti, molti dei quali disposti a pagare personalmente le
spese”; che “nel caso di macchine iscritte ma assenti alla partenza, la quota di
iscrizione di 2000 franchi non sarà restituita ma divisa fra i partenti”. Si riuscì
anche ad ottenere da parte della Russia la rinuncia ai diritti doganali
(significava poter spedire pezzi di ricambio e pneumatici dalla Francia senza
balzelli troppo esosi); che in qualsiasi punto e momento del percorso i
4
partecipanti avrebbero potuto usufruire del servizio telegrafico; e che in caso
di guasto grave sarebbe stato possibile viaggiare gratuitamente sulla ferrovia
transiberiana. Inoltre si stabiliva che i rifornimenti di carburante in terra
cinese sarebbero stati assicurati dalla Asiatic Petroleum Company; mentre ai
rifornimenti in Siberia e in Russia avrebbe provveduto la Nobel Company.
Quest’ultima società era titolare delle concessioni minerarie dell’intero
impero zarista e detentrice del monopolio del mercato del petrolio in Russia.
Anche l’Asiatic Petroleum Company era una compagnia petrolifera, sia pure
più piccola, molto interessata a diffondere il consumo di petrolio, fino a quel
momento limitato al lavaggio a secco. Era ovvio che un estendersi della
meccanizzazione e della motorizzazione era negli auspici di entrambe le
società.
Ma questo documento è interessante anche per ciò che non dice: la mancata
firma del concorrente italiano non è un caso. E’ un preciso segnale,
sicuramente non colto (ancora) dagli altri. Da una parte l’Itala del Principe,
dall’altra il resto del mondo.
Così, mentre i lavori del Comitato procedevano in un senso (e diffondendo
anche informazioni sbagliate, come quelle sulla stagione delle piogge),
Borghese si preparava per conto proprio. Raccolse tutti i resoconti
meteorologici degli 8.000 km di continente asiatico; si rivolse a quelle sue
conoscenze in grado di fornirgli indicazioni sul percorso, cosa resagli facile
dal fatto di essere imparentato con la nobiltà di mezzo mondo; allertò il
fratello Livio, incaricato d’Affari a Pechino; si procurò le carte militari dei
territori conosciuti; insomma mise in gioco la sua straordinaria capacità di
pianificazione e di organizzazione, oltre che le sue possibilità di relazione
affinate durante la carriera di diplomatico. Un esercizio anche intellettuale a
cui è difficile credere fossero abituati con la stessa disinvoltura gli altri
partecipanti. A Godard e Longoni si erano aggiunti i due piloti Georges
Cormier e Victor Collignon, due dipendenti della casa De Dion Bouton, solidi
ed affidabili, sicuramente coraggiosi e ed esperti, ma che furono “comandati”
a partecipare, e che in questa prima fase ebbero un ruolo alquanto passivo.
Contal invece scelse Auguste Pons, un giovane pilota audace ed ottimista. Si
era fatto avanti un entusiasta conte italiano, Gropello, che aveva divisato di
partecipare con una Fiat<ma siamo ben lontani dai sessantadue concorrenti
sopra citati, svaporati come neve al sole al momento di versare la cauzione.
Gli iscritti, a conti fatti, non erano più di sei. Il che significava che il comitato
organizzatore a Parigi aveva ricevuto molti meno soldi di quelli previsti<e
5
che un certo scoramento cominciava a serpeggiare. Lo stesso documento
sottoscritto dalle case terminava dicendo: “Le difficoltà di questa prova
eccezionale, alla luce delle indagini condotte per parecchie settimane, risultano non
meno serie di quanto pensassimo il primo giorno. Pechino-Parigi! Forse è un
tentativo disperato”. A farla breve, appena un giorno dopo l’imbarco dell’Itala
su una nave di linea del Norddeutscher Lloyd (mercoledì 10 aprile 1907) alla
volta prima di Napoli e quindi dell’estremo Oriente, naturalmente da sola,
naturalmente prima di tutte le altre vetture, da Parigi giunse a Borghese un
telegramma firmato dai cinque compagni di avventure, che gli comunicava il
loro ritiro dalla gara. Perché incaponirsi su una avventura dall’esito tanto
incerto? Perché insistere a voler fare gli eroi solitari? Ma la risposta di
Borghese condensata in quattro parole, “Salpo da Napoli domani”, li mise in
estremo imbarazzo. E adesso, si saranno detti, che figura ci facciamo?
Architettare una sfida per lanciare l’industria automobilistica francese e poi
vederla sostenuta da un’unica vettura italiana, guidata da un principe
italiano, accompagnato da un giornalista italiano? Impossibile. La grandeur
francese non poteva accettarlo. Così la De Dion Bouton, seguita a< ruota
dalla Contal, ritirarono il proprio ritiro. Godard, dal canto suo, e non
chiedeva altro che di slanciarsi a traverso i continenti. Decisero allora di
imbarcarsi sull’Océanien, della Compagnia delle Messageries Maritimes, che
salpava da Marsiglia il 14 aprile. Sul piroscafo trovarono posto le due De
Dion, il Contal, la Spyker, il meccanico per le De Dion Jean Bizac, il
giornalista del Matin Jean du Taillis, Edgardo Longoni, che per il raid era
incaricato di una corrispondenza con il Tribune di Londra ed era destinato a
viaggiare sulla Fiat del conte Gropello; Charles Godard, subito
improvvisatosi capocomico, Auguste Pons con il meccanico Octave Foucault.
Cormier e Collignon invece dovevano raggiungere Pechino via treno, in
modo da organizzare le scorte di carburante lungo l’itinerario. Partirono da
Parigi il 25 aprile con il Nord Express per San Pietroburgo, e, dopo vari
cambi, arrivarono a Pechino il 17 maggio. I francesi dell’Océanien sbarcarono
a Shangai, emblematicamente, già in ritardo di quattro giorni su Borghese; e
da lì, dopo abbondanti libagioni a conclusione di un viaggio a dir poco
allegrissimo, dove lo champagne era scorso a fiumi, si recarono alla capitale
cinese con il treno, insieme alle loro macchine (che da Shangai al porto di
Tientsin era state imbarcate sull’Admiral von Tirpitz). Anche Barzini stava
convergendo su Pechino, ma dal Giappone, dove il Corriere della Sera lo
aveva incaricato di un servizio. Lì doveva incontrare Borghese, a cui il
6
giornale aveva offerto cinquemila lire per prendere in macchina il giornalista,
oltre ad una diaria di venti lire per ogni giornata di corsa. Borghese
accondiscese: non si può usare altro termine per definire un rapporto
professionale che sessanta giorni di avventure e di convivenza forzata in
mezzo a mille disagi non trasformarono mai in amicizia o confidenza. Così
composto, l’equipaggio dell’Itala divenne l’archetipo dell’ Italia che si
affacciava al nuovo secolo: un esemplare della più alta aristocrazia, insieme
ad uno della borghesia e ad uno della classe lavoratrice, tutti e tre esprimenti
il meglio della propria classe in quanto a coraggio, intraprendenza,
dedizione, competenza, capacità di sopportazione e di sacrificio.
Ma una volta radunati tutti i concorrenti a Pechino (con l’eccezione di
Gropello, a cui non era stata consegnata in tempo la macchina dalla Fiat, forse
non per caso, e che perciò aveva rinunciato; e di Borghese, che aveva deciso
di partire in esplorazione del percorso che li attendeva subito usciti dalla
capitale) i problemi, anziché svanire, si complicarono ulteriormente.
Innanzitutto perché delle macchine caricate sul treno<ne arrivarono soltanto
due. Panico assoluto tra i francesi, finché non si scoprì che le due macchine
perse nelle nebbie erano semplicemente state spostate su un vagone fermo e lì
lasciate. Recuperati a fatica tutti gli Chi-cho, i carri mossi dall’olio, nome
cinese per automobili, consolato Longoni per essersi sobbarcato un viaggio
fino a Pechino e poi non trovare la Fiat, fronteggiata l’immensa, impalpabile
coltre di polvere gialla che ricopriva la città e rendeva molto sgradevole
qualsiasi spostamento, occorreva misurarsi con il Wai Wu Pu, il Gran
Consiglio del Celeste Impero. E furono dolori. I cinesi sospettavano che
l’insistenza di questi occidentali per ottenere i visti necessari ad attraversare
la loro terra nascondesse un complotto. E come si risponde al complotto? Con
l’astuzia. Il Gran Consiglio decise perciò di rilasciare i visti. Per la Manciuria,
esattamente in direzione opposta a quella prevista. Furono respinti. Dopo
molto altro tempo, tazze di tè, riunioni, inchini, furono rilasciati altri visti.
Che non contenevano alcun riferimento al diritto di transitare senza
impedimenti. I concorrenti, riuniti nelle spaziose sale della Banca russocinese, che seguiva con molta simpatia le peripezie di questi intrepidi
occidentali, li respinsero di nuovo. Ad infiammare i toni era sempre Godard,
che si indignava ad ogni parola; Cormier e Collignon erano più dell’idea di
lasciar perdere, convinti che senza passaporti non sarebbe stato possibile fare
nulla. Presiedeva le riunioni, ovviamente, Borghese. Una foto è significativa:
ritrae Collignon, Cormier, Guizzardi, Pons, Borghese, Foucault, Godard,
7
Bizac. Borghese è seduto al centro, col casco coloniale su un ginocchio, tutto
vestito di bianco, composto ed elegante; gli altri, vestiti di scuro, o in abito da
lavoro, hanno già l’aria provata e disorientata di chi si trova lì senza sapere
bene perché e come.
Sta di fatto che tre settimane di incessanti trattative non bastarono. “Confesso
che ho passato dei brutti momenti – scrive du Taillis nel suo libro – Consideravo
tutti i sacrifici già fatti e l’enorme opera compiuta, in pura perdita, se per disgrazia
fosse compromesso non già l’arrivo a Parigi ma la partenza da Pechino. Non ho
riacquistato il mio sangue freddo che quando ho inteso il Principe Scipione Borghese
concludere con queste parole, con la sua voce sempre eguale e l’intonazione, vera o
finta, di una grande modestia: Signori, qualunque cosa decidiate, io ho già preso la
mia risoluzione: niente saprebbe cambiarla”. Ossia: io parto, voi fate quel che
volete. Non esattamente quel che doveva dire come presidente della PechinoParigi. I problemi infatti non erano facilmente risolvibili per tutti: per
esempio, il transito sulle tormentate montagne appena usciti da Pechino in
direzione della Grande Muraglia, che Borghese aveva minuziosamente
esplorato a cavallo portandosi un bastoncino di bambù tagliato della stessa
larghezza dell’Itala per misurare la possibilità dei passaggi, sembrò essere
superabile soltanto facendosi trainare dai “coolies” (facchini). Ma non
gratuitamente. Il prezzo richiesto era di tremila franchi, equivalente alla
tariffa del trasporto Marsiglia-Tientsin: una cifra che Godard, per esempio,
non poteva certo permettersi (per la verità Godard non poteva permettersi
neanche trenta franchi). Dopo lunghi conciliaboli, si decise che Collignon li
avrebbe pagati per sé, per l’altra De Dion e per il Contal; e che du Taillis li
avrebbe anticipati a Godard. Bisognò anche decidere come dividersi sulle
macchine. Du Taillis decise di salire sulla Spyker, perché le due vetturette De
Dion Bouton erano già gravate da 600 kg di provviste, di pezzi di ricambio, di
pneumatici e di accessori. In compenso a Kalgan si sarebbe liberato un posto
per Longoni, perché sarebbe scesa da una delle De Dion l’interprete della
legazione francese. “Questa fu la nostra vigilia d’armi: l’indomani, alla una del
mattino, a dispetto del governo cinese, che finalmente ci aveva mandato i passaporti
scritti in cinese, mentre la nostra salvaguardia avrebbe dovuto consistere nell’essere
scritti in mongolo4, le automobili sarebbero fuggite dalla capitale cinese, per andare
alla conquista del continente” – è du Taillis che parla.
A radunarsi nel cortile della caserma francese “Voiron”, lunedì 10 giugno,
furono la Spyker, 15 CV, con Godard e du Taillis, 1400 kg a pieno carico; la
De Dion Bouton, 10 CV, con Cormier e Longoni (da Kalgan), 1400 kg a pieno
8
carico; la seconda De Dion Bouton, con Collignon e Bizac; il triciclo Contal, ad
un cilindro, con Pons e Foucault, 700 kg. Manco a dirlo, l’Itala (40 CV, con
Borghese, Guizzardi, Barzini, la moglie di Borghese principessa Anna Maria e
il fratello Livio, peso a pieno carico, ma senza passeggeri, 2000 kg) si dispose
fuori dal cortile, a parte. Tre giorni prima, secondo il resoconto di Allen
Andrews, riportato nel suo libro “I lupi solitari della Pechino-Parigi” (LEA,
1965), Barzini aveva confermato per cablo al Daily Telegraph, con cui teneva
una corrispondenza per la gara, le regole che si era convenuto di rispettare:
“Oggi i partecipanti alla grande corsa si sono riuniti e hanno fissato le norme da
seguire fino a Irkutsk. Se una macchina subirà un guasto così grave da dover restare
en panne, gli altri competitori gli presteranno tutto l’aiuto possibile; ma se i mezzi a
loro disposizione non permetteranno di seguire una riparazione completa, la
macchina sarà rimorchiata fino al successivo luogo di tappa oppure sarà abbandonata,
secondo la scelta del proprietario. Se uno dei conducenti dovesse cadere ammalato, si
provvederà a trasportarlo fino alla prima località dove possa trovarsi un medico, e se
la guarigione fosse prevista entro tre giorni, l’infortunato potrà chiedere che gli altri
lo attendano”. Sante parole, che trasformano la corsa in una dimostrazione; ma
Barzini stesso, nel suo libro, non farà mai riferimento a questo accordo
preliminare, come non fece accenno al regolamento stilato a Parigi. Ed è
evidente, a leggere il libro di du Taillis, lo sconcerto dei partecipanti alla
palese violazione da parte di Borghese di questi accordi.
In questo senso, il primo giorno di viaggio, e a maggior ragione la prima
settimana, fu assolutamente esemplare, e rese un quadro molto chiaro della
situazione che si sarebbe creata nel prosieguo del raid.
Alle 7,30 del mattino del giorno prestabilito per la partenza tutto era in gran
fermento: intorno alle macchine si affannavano ministri dell’Olanda, della
Russia, del Giappone, degli Stati Uniti, dell’Inghilterra; ambasciatori,
diplomatici, mandarini, soldati, funzionari, dignitari, oltre ai piloti e ai
meccanici, alle prese con bagagli, tende, arnesi di scorta, pezzi di ricambio,
taniche di benzina, vettovaglie. Solo Pons e Foucault non si affannavano
intorno ad alcunché: sul loro triciclo non c’era posto per nient’altro oltre a
loro, e soltanto grazie alla generosità di Godard poterono sistemare un loro
sacco di coperte, provviste e altre cose personali sulla Spyker. L’Itala invece
esibiva con fierezza il telaio nudo: la carrozzeria, i sedili, i serbatoi di riserva e
le parti di ricambio erano già in viaggio, su carri trainati da buoi e diretti a
Kalgan. Un accorgimento non da poco: era ormai chiaro, grazie ai tanti
sopralluoghi, che uno dei tratti più ardui sarebbe stato quello
9
immediatamente successivo all’uscita da Pechino, ossia i valichi di Nankù e
di Kiming. Il traino a braccia, per mezzo di funi, era inevitabile, e
faticosissimo. Meglio dunque alleggerirsi di tutto il possibile, sempre che si
disponesse di mezzi per far viaggiare parallelamente quanto si era eliminato.
Al proposito du Taillis osservò: “Il principesco conduttore della Itala non aveva
creduto di poter tentare con successo il passaggio dei valichi con uno chassis
sovraccarico di carrozzeria e di bagagli. Gli altri chauffeurs invece <avevano creduto
che fosse più persuasiva la dimostrazione di resistenza che doveva consacrare il
raid<caricando ogni vettura al suo partire nello stesso modo in cui avrebbe dovuto
fare il percorso”. Ineccepibile. Comunque sia, alle otto, finalmente, fu data la
partenza.
Ma non erano passate neanche due ore che Godard e Cormier,
all’inseguimento dell’Itala già ovviamente balzata in testa vista la sua
maggiore potenza, si fermarono. Non per le difficoltà del percorso, ma perché
avevano perso di vista Pons e Collignon. “E’ evidente – scrive du Taillis – che il
principe Borghese arde d’impazienza di continuare la strada ad ogni costo, ma noi,
cioè la Spyker e una De Dion, decidiamo di aspettare<La pioggia cade senza posa: in
questo primo incidente di strada vi è una infinita tristezza. Appena usciti da Pechino,
di cui si distinguono ancora le muraglie, doversi perdere d’occhio e passare un tempo
considerevole a cercarsi e ad attendersi! Ed il principe Borghese che corre verso la
tappa, senza preoccuparsi dei compagni lasciati indietro! Che sia questo un sintomo
di quello che ci riserba l’avvenire? Un’istantanea in iscorcio di quello che sarà questo
raid?”
Recuperati i ritardatari, si profilarono gli spaventosi ponti del Cha-ho: enormi
lastroni di pietra ammonticchiati in disordinata rovina, che l’Itala superò con
il motore, le De Dion e la Spiker con due ore di lavoro con il paranco, e<il
Contal, semplicemente, non ce la fece. L’unica soluzione, per non
compromettere fin da subito il cammino del triciclo, parve quella di far
tornare indietro Pons fino a Pechino, perché si avvalesse della ferrovia tra
Pechino e Nankù, obiettivo della prima tappa. Uno strappo alla regola, certo,
ma nessuno riuscì a trovare una soluzione migliore. Deciso anche questo, le
tre vetture ripresero l’inseguimento della Itala, finché la Spyker,
inspiegabilmente, si fermò. Per ore tutti e sei gli occupanti delle vetture si
affannarono a trovare la causa. Era già buio quando Collignon ebbe
un’intuizione: “Il silenzioso!” La sabbia e la melma del Cha-ho avevano
ostruito il tubo di scappamento; facendo in fretta e furia un paio di buchi
sulla marmitta il passaggio dei gas si ristabilì e la vettura riprese
10
istantaneamente a funzionare. Ma ormai era tardi, davvero tardi per
raggiungere Nankù, dove la Itala era giunta a metà pomeriggio.
Per usare un eufemismo, i successivi due giorni furono altrettanto duri. Il
martedì 11 giugno le quattro vetture dei francesi affrontarono i venti
chilometri della gola di Nankù, una scala di pietre quasi insormontabile che
collegava la cittadina alla Grande Muraglia, mentre l’Itala, sia pure anche lei
con estrema difficoltà, superava la Grande Muraglia e si fermava a Tchaa-too,
che invece sarà raggiunta dai francesi soltanto il giorno dopo, mercoledì 12.
Venerdì 14 giugno l’Itala arrivò a Kalgan, la tappa che segnava l’uscita dai
passaggi più spaventosi. Lì la vettura italiana si fermò ad attendere gli altri,
che arrivarono due giorni dopo, domenica 16 giugno. Era passata una
settimana dalla partenza. Ed era già chiarissima una verità: il Contal non
sarebbe mai arrivato a Parigi, anche se nessuno osava dirlo apertamente. Il
fatto stesso di avere tre ruote costituiva un impaccio terribile, non riuscendo
ad evitare i profondi solchi scavati da generazioni di carri. Mentre infatti per
le vetture convenzionali era sufficiente tenere le ruote di sinistra sul
terrapieno centrale e quelle di destra sul bordo della pista, o viceversa, il
Contal non poteva spostarsi di mezza larghezza, da una parte o dall’altra,
senza che la sua ruota posteriore finisse dentro un solco; né poteva, per la
strettezza della carreggiata, tenersi completamente su uno dei bordi esterni
della pista. Il triciclo era dunque perennemente costretto a ricorrere ai
portatori, o alla forza fisica dei suoi conducenti. Con il risultato di stremarli a
morte e di ritardare la marcia degli altri tre compagni di viaggio.
Il giorno dopo, lunedì 17 giugno, tutte e cinque le vetture partirono insieme,
alle quattro del mattino, dalla Banca russo-cinese di Kalgan. Il primo tratto
era una salita di ventiquattro chilometri, che l’Itala percorse in prima,
fermandosi ogni quarto d’ora, e affidando bagagli e carburante ai soliti
portatori (in compenso la carrozzeria era stata infine rimontata). I francesi
invece si attardarono ad aspettare il Contal: ancora una volta la terza ruota
del mototri, incappando continuamente nei solchi, non riusciva ad assolvere
la sua funzione motrice. Parigi, per il Contal, si allontanava ad ogni metro.
Finalmente, a mezzogiorno, le macchine si riunirono al punto convenuto con
i portatori, dove l’Itala recuperò i bagagli e gli altri le latte di benzina. In sette
giorni, erano stati percorsi 300 chilometri, su circa 16.000. Ossia niente! Con
questa media ci avrebbero impiegato 350 giorni. Bisognava prepararsi ad
iniziare il viaggio vero e proprio, affrancandosi dai portatori cinesi, e
utilizzando, finalmente, dopo tanti giorni di traino, il motore delle vetture.
11
Tutti non vedevano l’ora di farlo. L’equipaggio dell’Itala era il più
indaffarato, mentre per le altre vetture, già partite da Pechino con il carico
definitivo, si trattava soltanto di far posto ai carburanti. Godard si fece carico,
grosso modo, anche di ciò che risultava fondamentale al Contal: la cassetta
dei ferri, i pezzi di ricambio, viveri di scorta, riserve di benzina e di gomme.
Ciò significava due cose: una, che la Spyker e il Contal avrebbero dovuto
procedere da quel momento in poi affiancate; la seconda, che Godard, per far
posto ai bagagli di Pons, doveva sacrificare qualcosa, e quel qualcosa fu,
incoscientemente, della benzina. “Tanto – pensò - nessuno ce la rifiuterà, se ne
avremo bisogno”. Fu data la partenza, direzione Udde, distante 600 chilometri,
pari a circa due giorni e mezzo di viaggio nell’impietoso deserto di Gobi: era
la prima stazione di collegamento telegrafico dove era stato possibile
depositare un certo quantitativo di carburante. Strumento di orientamento: i
pali telegrafici. Seguirli, o per lo meno non perderli di vista, era l’unico modo
per non perdersi. Altri segni di vita, zero.
Dopo sessanta chilometri di marcia si decise di accamparsi per la notte.
L’Itala era equipaggiata con un’ingegnosa capotte di tela grossa che di giorno
offriva riparo dal sole e di notte si trasformava in un grande tendone in grado
di accogliere la macchina e gli uomini. Anche per questo motivo fu l’unica
vettura, delle cinque, a non disporsi in cerchio, come invece fecero i francesi.
Si trattò della prima notte in cui gli undici intrepidi automobilisti (Borghese,
Godard, Cormier, Collignon, Pons, Barzini, Guizzardi, du Taillis, Longoni,
Bizac, Foucault) riposarono insieme, sotto lo stesso cielo. Fu anche l’ultima.
Si era deciso che all’indomani il primo a partire sarebbe stato il Contal: la sua
andatura più lenta si sarebbe avvantaggiata di una partenza mattiniera (in
effetti partì alle tre del mattino<) e inoltre gli altri avrebbero potuto più
facilmente venirgli in soccorso, in caso di necessità. Alle quattro si mossero
insieme la Spyker e le due De Dion. L’Itala, contrariamente al solito, tardò
ancora, anche perché Borghese dovette procedere ad una drastica riduzione
dei bagagli: furono eliminati senza pietà molti viveri, alcuni attrezzi, i
montanti della cappotta (che dunque funzionò per una sola notte). Ma per le
cinque anche l’Itala si incamminò. In breve tempo si portò a ridosso delle
altre: prima del Contal, poi della Spyker. Fu proprio a Godard, sempre
preoccupato per Pons, che Borghese urlò passando: “Ho appena sorpassato
Pons. Vi segue da vicino e dice che per ora va tutto bene”. O così per lo meno
Godard capì, tanto da proseguire rasserenato la sua strada, convinto di avere
il triciclo alle calcagna. Poi per qualche ora Godard e Cormier furono troppo
12
occupati a ritrovare la strada segnata dai pali telegrafici, che avevano
temporaneamente smarrito. Quando si ritrovarono sulla strada maestra, di
Pons nessuna traccia. Ma forse li aveva superati mentre avevano imboccato la
strada sbagliata<e ora li precedeva. “Da principio abbiamo atteso – racconta du
Taillis – molto tempo. Più di un’ora. E poiché ci trovavamo su di un lato dal quale si
scorgeva un vasto orizzonte, abbiamo interrogato ansiosamente la strada per parecchi
km intorno; i cannocchiali non ci hanno lasciato scorgere altro che la strada polverosa
e la pianura verde. Che cosa dobbiamo fare? Qualche minuto prima che sbagliassimo
strada, Pons si trovava ai nostri calcagni<Riflettendo bene, la verità ci appare
luminosa: Pons non è dietro a noi, ma ci precede di trenta o quaranta chilometri”.
Così, decidono tutti insieme (a loro si è unito anche Collignon) di proseguire.
La destinazione è Pong – Kong, trecento chilometri da Kalgan, dove
arrivarono alle sei del pomeriggio, dopo quattordici ore di marcia. Borghese
era già arrivato da cinque ore. Di Pons, nessuna notizia. I francesi sono
costernati. Tornare indietro? Proseguire lo stesso? Mandare qualcuno a
cercarlo? “Ed il principe Borghese, pregato da Cormier di venire ad esaminare
insieme a noi la situazione, fa rispondere che ora riposa e che domani deciderà il da
farsi”. Ma Borghese ha già deciso, è ovvio: partirà lo stesso. Proprio lui, che ha
la macchina più potente e dunque impiegherebbe meno tempo ad andare e
venire. Du Taillis annota: “Longoni non poteva spiegarsi il rifiuto del principe
Borghese: il caso era sufficientemente grave<Alcuni pretesti e qualche altra ragione
più plausibile forse, che io però ignoro, incitarono l’Itala a continuare la strada fin
dalle prime ore dell’indomani”. Avendo rifiutato lui di fermarsi, gli altri
ritengono di non avere scelta: bisogna proseguire, altrimenti il raid se lo fa da
sola l’Itala. Ecco, questo è uno dei momenti cruciali della Pechino-Parigi: è il
momento in cui da dimostrazione si trasforma in una corsa; in cui sparisce il
cameratismo e la solidarietà. I francesi sanno di stare abbandonando Pons nel
mezzo di un deserto, senza viveri e senza benzina, ma ritengono di non aver
scelta. Il giorno dopo, sul Daily Telegraph, compare una corrispondenza di
Barzini: “Il mototri Contal si è trovato nell’impossibilità di continuare il viaggio. I
competitori sono perciò ridotti a quattro: i signori Cormier e Collignon sulle De Dion
Bouton, il signor Godard sulla Spyker e il Principe Scipione Borghese sulla Itala. Si
spera adesso di poter accelerare la marcia”. Epitaffio funebre per Pons, dato per
morto ancora prima di sapere dove e perché si fosse fermato (si scoprirà che
era rimasto fermo senza benzina ben prima del punto dove Godard e
Cormier si erano smarriti).
13
Anche Godard, sia pure rodendosi l’anima, decide di partire. Ma lascia alla
stazione telegrafica di Pong - Kong una parte della sua benzina per Pons:
iniziativa generosa, e suicida. Infatti la Spyker si ferma in pieno giorno, a
secco, per ben due volte. La prima volta ottiene quattro litri di benzina da
Cormier; ma dopo un’ora e un quarto, sono di nuovo fermi. Quando le De
Dion Bouton la raggiungono, stavolta non si fermano, rallentano soltanto. E
Cormier butta là, oltrepassandoli: “Avete bisogno di niente? Appena arrivato ad
Udde, vi farò mandare la benzina”. Come se Udde fosse dietro l’angolo, e
mandare la benzina una faccenda di pochi minuti. Ed eccoli, anche loro senza
benzina, in pieno deserto, con una temperatura che sfiora i 48°.
Il resoconto che segue, nello scritto di du Taillis, è confuso. Passa lentamente
il pomeriggio, arriva la notte, che trascorrono in preda agli incubi. Giungea il
mattino, e con esso il caldo implacabile. Il pollo, che si erano tenuti da parte
per il peggio, è un ammasso di larve. Nulla viene ad interrompere
l’interminabile giornata, niente li distrae dall’inazione, dall’impotenza, dalla
solitudine. Arriva la seconda notte nel deserto. E poi un’altra giornata, in cui
tutto quel che mangiano è una tavoletta di cioccolato ridotta a pasta insipida,
che aumenta a dismisura la sete. Finché, in preda ormai alle allucinazioni per
la sete e la disperazione, vengono tratti in salvo da un gruppo di mongoli a
cavalli, dei kungusi che pur a caro prezzo li trainano per alcuni chilometri e
poi riescono a procurare loro della benzina. E con la benzina, la salvezza.
Ma intanto, che era successo a Pons? Godard ne conoscerà la sorte soltanto ad
Udde, grazie al telegrafo. Anche Pons ha rischiato la morte, e la follia. Dopo
aver constatato, sulla strada segnata dai pali telegrafici, che gli resta soltanto
mezzo litro di benzina ed aver atteso invano che qualcuno dei suoi compagni
tornasse indietro, egli e il suo compagno si sistemano in una tenda di un
accampamento cinese, dopo aver cercato di dissetarsi in una pozza di fango.
Il mattino dopo abbandonano il triciclo e si mettono in marcia a piedi. Ma il
caldo, la sete e la fame li spingono irragionevolmente a tornare sui propri
passi. Vagano dunque nel deserto, come due pazzi, e ritrovano la vettura
soltanto alle sette di sera (erano partiti alle cinque del mattino). Il giorno
dopo, è la stessa desolazione, la stessa solitudine. “Percorremmo qualche
chilometro – scrive Pons – per renderci ben conto se mai si scorgesse un
accampamento mongolo. In quel momento non ci sarebbe importato nulla il cadere
nelle mani di briganti che ci avessero maltrattato. Non avevamo che un solo pensiero,
quello di vedere degli esseri umani, per non sentirci soli in quella immensa e incolta
pianura, sotto il sole torrido che ci pesava sulla testa come una calotta di piombo”.
14
Furono anche loro salvati da morte certa da un gruppo di mongoli che li
intravide da lontano, e decise di soccorrerli. Era il loro terzo giorno nel
deserto. “Confesso che è umiliante il constatare che si riceve aiuto ed assistenza dai
selvaggi quando la cosiddetta gente civilizzata vi ha odiosamente abbandonato nel
deserto”, scrisse Pons. L’indomani egli e il suo compagno decidono di
abbandonare il triciclo nel deserto e di tornare a Pechino.
Era venerdì 21 giugno. A undici giorni dalla partenza, già due equipaggi si
erano trovati abbandonati a se stessi, in una delle situazioni più pericolose e
senza scampo, il deserto di Gobi. Godard e du Taillis furono più fortunati,
più determinati e dotati di una macchina che funzionava in modo eccellente;
perciò, raggiunta Udde sabato 22 giugno, ne ripartirono all’indomani per
giungere a Urga alle cinque del mattino del lunedì 24 giugno, dopo aver
percorso senza fermarsi 617 chilometri. L’Itala era già ripartita da Urga alla
volta di Kiakta; ma le due De Dion Bouton, più lente, vi si trovavano ancora,
e finalmente vi fu il ricongiungimento tra i francesi, o per lo meno tra quelli
che restavano in gara. “Io ho stabilito – scrive amaramente du Taillis – di non
chiedere nessuna spiegazione a Cormier. Apprendo ora che Borghese è già partito fin
da ieri per Kiakta senza più curarsi né di noi, né di Pons, né degli altri”.
La Pechino-Parigi, nella sostanza, finisce qui. La progressione dell’Itala è
inarrestabile: arriva a Kiakta, al confine mongolo-siberiano, il 24 giugno; il 1°
luglio è a Irkutsk, il 5 a Kansk, l’11 a Tomsk, il 14 a Omsk, da cui parte alla
volta di Pietroburgo via Perm seguendo un tracciato un po’ diverso da quello
stabilito dal Comitato parigino, in modo da evitare la parte più impervia
degli Urali. Arriva a Kazan il 23 luglio, a Mosca il 27. Ormai è Europa: le
successive tappe, Novgorod sul lago Ilmen il 31 luglio, Dvinsk sul fiume
Duna il 2 agosto, Kovno sul confine russo-tedesco il 3, Berlino il 5, e poi
Bielefeld, Liegi ed infine Parigi (10 agosto), sono trionfali, con festeggiamenti,
brindisi, pranzi, discorsi, doni, fiori e felicitazioni ad ogni arrivo e ad ogni
ripartenza.
Davvero curioso seguire questa stessa progressione sul libro di du Taillis
anziché su quello di Barzini. Il giornalista francese cita per l’ultima volta
l’Itala quando ne racconta l’arrivo a Kazan, il 23 luglio; poi più nulla. Non ne
segnala neanche l’arrivo a Parigi (di cui fu sicuramente informato
telegraficamente durante il viaggio e che comunque sapeva allorché scrisse il
libro). L’Itala, nelle sue parole, non esiste più. Mentre prendono corpo le
peripezie davvero fuori dall’ordinario della coraggiosa Spyker. La vettura
olandese si era comportata benissimo insieme alle due De Dion Bouton fino
15
alla tappa di Irkutsk, dove rimasero tre giorni (vi fu persino, il 3 luglio, una
sfida in moto al velodromo tra Longoni e Godard, agevolmente vinta da
quest’ultimo). Il 6 luglio la Spyker non riuscì a mettersi in moto. Dopo ore di
tentativi e di ispezioni al motore, saltò fuori che risultava danneggiato il
magnete: una avaria da niente, ma in quei paraggi quasi irreparabile. Godard
decise di far trainare la vettura a Tcheremkovo, quindi il giorno dopo la
caricò sulla ferrovia transiberiana e la portò a Tomsk, dove contava di trovare
qualcuno in grado di sostituire il magnete. Nel frattempo du Taillis, che come
corrispondente del Matin non poteva interrompere il viaggio, si alternava
come compagno di viaggio sulla De Dion di Cormier, che non l’aveva molto
in simpatia, e di Collignon. I giorni dunque passarono, con da una parte un
lento avanzare in Siberia delle due vetture restate in gara e con Godard fermo
a Tomsk fino al 24 luglio. Recuperata la piena efficienza della sua vettura,
l’intrepido Godard la ricaricò sul treno e la riportò a Tcheremkovo, dove si
era fermato: da lì iniziò una corsa spossante attraverso la Siberia
all’inseguimento dei suoi compagni. Il 25 luglio percorse 217 km in un colpo;
il 27 arriva a Krasnojarsk e poi ad Atchinsk (dove le due De Dion erano
arrivate il 15), il 28, mentre le De Dion sono a Kurgan, la Spyker oltrepassa
Tomsk, e arriva a Omsk il 30 luglio percorrendo 865 km in una tappa, un
record straordinario (da considerare che nel frattempo è stato raggiunto da
un giovane ingegnere della casa olandese, catapultato dalla sua scrivania alle
durezze di un viaggio così disagevole: Bruno Stephan). Le due vetture
francesi arrivano a Birsk il 2 agosto; Godard vi giunge il 6. Due giorni dopo
Godard riesce a riprenderli, a Kazan. E’ talmente stremato che lo devono
portare dentro un locanda di peso, rigido come morto, senza più neanche la
forza di parlare o di rallegrarsi. Ma si riprende come l’Araba Fenice, e da quel
momento in poi compiranno il viaggio insieme fino a Parigi (30 agosto). Anzi,
diciamola tutta: Godard avrebbe potuto agevolmente distanziare le due
vetture francesi, e concludere il tragitto ben prima del 30 agosto. Se non lo
fece, fu probabilmente perché il suo carattere gli impediva di prendere in
considerazione il lato sportivo e solitario dell’impresa. Per lui doveva essere
una dimostrazione di eccellenza europea attraverso il mondo, non l’epica
impresa individuale. In questo sicuramente non fu capito, né dal suo Jacobus
Spyker, che si chiese perché non avesse approfittato della eccellenza e della
superiorità della vettura, per un’occasione pubblicitaria sicuramente non
ripetibile; né dai francesi del Matin e della De Dion Bouton, che guatarono le
sue mosse terrorizzati dalla possibilità che potesse avvalersi del suo
16
vantaggio. Se Godard fosse risultato vincitore, il Matin avrebbe mancato ad
uno dei due principali scopi del raid, ossia fare pubblicità all’industria
automobilistica francese (l’altro era fare pubblicità al giornale, cosa riuscita
perfettamente). Già l’Itala aveva messo molto in ombra, ovviamente, la
riuscita francese, ma se la vettura olandese avesse inflitto un secondo
smacco<la situazione sarebbe stata irrecuperabile. Du Taillis é francese fino
al midollo, é corrispondente del giornale parigino organizzatore, eppure, con
estrema lealtà, scrive nel suo libro: “Lo sfortunato ma valoroso conduttore non
piloterà la sua vettura all’entrata in Parigi, perché il prestigio morale del Matin non
permette di ricevere Godard, di cui l’incredibile odissea e la meravigliosa gesta non
possono far dimenticare alla gente scrupolosa qualche espediente più o meno abile. Mi
toccò lottare per ottenere che la Spyker ricevesse almeno gli onori che le erano dovuti
anche più che agli altri veicoli concorrenti, perché è veramente una cosa straordinaria
il vedere arrivare a Parigi questa automobile che non ha dovuto cambiare un solo
pezzo, e che in ottanta giorni di tappe non ha nemmeno avuto bisogno che un
meccanico visitasse le sue ruote o stringesse un bullone. Eccezion fatta per la ridicola
panne del magnete, che un cambiamento degli spazzolini ha presto rimesso in azione,
la marcia di quella vettura fu di una regolarità esemplare e di una resistenza e di una
potenza ineguagliabili. Io salvai dunque la Spyker dall’ostracismo al quale sembrava
volessero condannarla; ma ebbi un bell’intercedere a favore del mio compagno
d’infortunio nel Gobi, il cui coraggio si era mantenuto senza debolezza al disopra di
ogni elogio, non potei piegare la volontà del padrone”.
E’ detto tutto. “Il vantaggio è dei più forti”, conclude il giornalista francese nel
tirare le somme di questa straordinaria esperienza, e arriva a chiedersi “in
cosa consista la gloria dell’Itala – non dico quella dell’emerito chauffeur, la cui
pazienza e la cui maestria sono al di sopra di ogni elogio – essendo arrivate in buono
stato le De Dion Bouton da 10 HP e la Spyker da 15 HP”. “Che non si dica dunque
che questo giro, che non è stato una corsa, ma un raid di pazienza, consacra la
superiorità delle marche straniere: ciò è falso”. Su questa definizione, “raid di
pazienza”, anche i tre dell’Itala si troverebbero d’accordo, perché fu
innanzitutto grazie a quella impareggiabile dote che si poterono superare
rocce e fiumi, sabbie e foreste, fanghi e paludi, montagne e deserti, lingue
incomprensibili, insetti, fame, sete, un’estate tormentata dal maltempo e da
settimane e settimane di piogge continue, alternate a torride calure e geli
improvvisi, pannes, fatiche e privazioni. Ma fu anche qualcos’altro, di cui i
protagonisti, immersi nella loro quotidianità, non potevano accorgersi. Fu il
trionfo della comunicazione giornalistica moderna, del racconto in diretta del
17
corrispondente protagonista anch’egli dei fatti che descrive, oggi si direbbe
“embedded”. I dispacci telegrafici quasi quotidiani al Corriere della Sera di
Milano, al Matin di Parigi, al Daily Telegraph e al Tribune di Londra, al
Secolo di Roma, sono l’equivalente dei microfoni e delle telecamere di oggi.
Milioni di lettori in Europa e in America si contendevano giorno dopo giorno
le edizioni straordinarie dei giornali, e seguivano come sotto i loro occhi lo
svolgersi, prima lentissimo poi sempre più veloce man mano che ci si
avvicinava alla meta, del viaggio. Trionfò l’automobile? O l’uomo? O l’Itala ?
Forse trionfò il meraviglioso, che diventa tale quando qualcuno, da molto
lontano, ce lo racconta al posto nostro.
Werner Frères et Cie, Societé Française d’Automobiles et d’aviation;
Billancourt et Levallois sur Seine (1901 ca – 1915 ca)
2 Métallurgique Société Anonyme, Marchienne-au-Pont (Belgio), 1898-1928
3 in Mongolia il cinese era letto soltanto da alcuni alti funzionari
1
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
2007
BIBLIOGRAFIA
“I lupi solitari della Pechino – Parigi”, di Allen Andrews, L’editrice
dell’automobile, 1965
“La metà del mondo vista da un’automobile. Da Pechino a Parigi in 60
giorni”, Hoepli, Milano, 1908
“Da Pechino a Parigi in automobile” di Giovanni du Taillis, F.lli Treves,
Milano, 1908
“Le raid Pékin – Paris”, par Georges Cormier, Librairie Ch. Delegrave, Paris,
1908
Georges Cormier : pilota, specializzato corse di durata. Circuito europeo,
circuito europeo-africano (vittoria); dipendente della Dion-Bouton, delegato
dei partecipanti ai rifornimenti
Collignon, pilota, esperto in corse di resistenza e durata, dipendente della
Dion-Bouton
18
Bizac, meccanico, dipendente della Dion-Bouton, specialista in montaggio di
vetture nuove. Nativo di Bergerac, ex meccanico nella marina militare.
Taciturno, gran lavoratore, insensibile al caldo, al freddo, alle intemperie, alla
stanchezza.
Du Taillis, giornalista, occhiali, barbetta bionda
Longoni, giornalista sportivo
19