LA PECHINO – PARIGI DEGLI ALTRI
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LA PECHINO – PARIGI DEGLI ALTRI
LA PECHINO – PARIGI DEGLI ALTRI Non vi è stata una sola Pechino-Parigi. Vi è stata quella, celeberrima e celebratissima, del Principe Borghese, del giornalista Barzini e del meccanico Guizzardi sulla Itala, nel 1907; quella del 1989, allorché l’Itala, la stessa di ottantadue anni prima, venne fatta uscire sulle sue ruote dal Museo dell’Automobile di Torino, che la ospita da sempre, per rifare il raid, capofila di una carovana di moderni veicoli Fiat ed Iveco; quella del 2006, con itinerario inverso ed organizzata dalla Mercedes. Vi sarà quella del centenario, organizzata da Trekking International-Overland, di nuovo a percorso inverso da Parigi a Pechino, in programma a giugno 2007. E c’è stata la Pechino-Parigi di Cormier, di Collignon, di Pons, di Godard, di du Taillis, di Longoni. Nomi mai sentiti: i nomi dei compagni di viaggio di Borghese durante il primo raid, il vero: quello del 1907. Compagni di viaggio e di avventure, che a loro volte scrissero libri, come “Le raid Pékin – Paris. 4000 lieues en Automobile”, di Georges Cormier, pilota di una delle due De Dion Bouton partecipanti, e i resoconti di viaggio scritti dal giornalista Longoni, corrispondente del Secolo di Roma, e di Jean du Taillis, corrispondente del “Matin” di Parigi, un po’ il padrone di casa visto che era stato proprio il quotidiano parigino a lanciare l’idea e a organizzare la spedizione. Libri ben lontani dall’aver avuto lo strepitoso successo del racconto di Luigi Barzini, “La metà del mondo vista da un’automobile. Da Pechino a Parigi in 60 giorni”, un titolo alla Jules Verne, pubblicato già dalla prima edizione in undici lingue e dodici paesi, cosa mai avvenuta per un’opera italiana. Come le vicende vittoriose dell’Itala soverchiarono ed oscurarono la corsa degli altri, così successe alla voce degli altri, rimaste sullo sfondo, senza eco alcuna. Che fascino potevano esercitare i loro racconti, perennemente in ritardo sui dispacci telegrafici di Barzini? Come provare ansia per la loro traversata del deserto di Gobi, trepidare per l’arrancante triciclo Contal, come condividere la sete e la fatica e persino la tragedia di certi tratti, quando qualcuno vi era già passato, li aveva già superati, aveva avuto il tempo di telegrafare e ripartire? L’idea di far compiere a delle automobili l’incredibile traversata da Parigi a Pechino (così si sarebbe dovuto svolgere l’itinerario, inizialmente) era nata sul giornale parigino Le Matin del 31 gennaio 1907. “Si organizzano corse e concorsi di automobili in piccoli circuiti chiusi<(mentre) l’automobile è utile per i 1 lunghi percorsi e tende a render l’uomo padrone delle distanze. Racchiudere in circuiti delle vetture la cui ragion d’essere è di permettere le grandi e subitanee partenze per lontani orizzonti è un concetto la cui logica sfugge al grosso del pubblico. Noi abbiamo pensato che la migliore industria francese aveva il diritto di volere, per fare le sue prove in faccia al mondo, un campo più largo. Ebbene! Noi chiediamo ai costruttori francesi e stranieri. Vi è uno o più che accetti di andare da Parigi a Pechino in automobile?” Era una sfida impegnativa, ai limiti dell’incoscienza se non della follia. Si trattava di un percorso privo per lo più di strade, da fare in paesi poco conosciuti, lontani non solo geograficamente ma anche e soprattutto dall’organizzazione civile di cui l’Europa si stava dotando. Tutto si presentava come difficile, se non impossibile: organizzare i rifornimenti di benzina, ottenere i permessi di transito, studiare degli itinerari praticabili a dei mezzi a motore, scovare degli intermediari ed interpreti per il cinese, il mongolo, il tartaro, il russo, superare deserti, steppe, taighe, paludi, montagne, valichi, senza alcun appoggio. Però, certo, chi ci fosse riuscito si sarebbe ricoperto di gloria, anzi, di gloire, essendo tutto questo stato studiato a beneficio dell’industria automobilistica francese, della cui vittoria non si dubitava. Il giorno dopo, 1° febbraio, il giornale pubblicava la prima risposta. Proveniva dal conte Alberto De Dion, fondatore dell’Automobile Club de France e, insieme a Georges Bouton, dell’omonima casa costruttrice, all’epoca già grande industria tanto da dare lavoro a 3000 operai e sviluppare i suoi stabilimenti su un’area di oltre 50.000 metri quadri. “Vengo a cognizione di una prova-sfida da Parigi a Pechino. Le strade sono abominevoli, e spesso non esistono che sulla carta. Ma io credo che se un’automobile vi potrà passare, passerà la De Dion Bouton<”. Non restò solo a lungo: si fece avanti la marca olandese Spyker, una intraprendente piccola fabbrica di Trompenburg, guidata dai due fratelli Jacobus e Hendrik Spyker. Impetuoso ed inventivo, Jacobus fin dal 1900 aveva cercato di imporre la sua casa sul difficile mercato olandese, più propenso ad acquistare vetture di marche straniere. Avvalendosi del progettista belga Valentino Laviolette, inseguì il successo prima con uno strano motore circolare, poi con un carburatore magnetico, infine con una vettura a sei cilindri e quattro ruote motrici. La proposta del Matin poteva costituire un’imprevista e gradita ribalta: perché non tentare? Della stessa idea fu un oscuro costruttore parigino di tricicli, Camille Contal, che dichiarandosi pronto ad affrontare la sfida con due dei suoi tricar, o motori, fece scatenare la discussione: si sarebbero rivelate più adatte al difficilissimo 2 percorso delle pesanti vetture da 40 HP, potenti e robuste, o delle vetturette leggere da 10/15 HP, sollevabili al bisogno senza troppa fatica? Nel giro di due giorni la Pechino – Parigi (già al 2 febbraio infatti si era deciso di invertire l’itinerario, per evitare la stagione delle piogge) era diventata l’argomento del giorno, da tutti dibattuta, sviscerata, criticata, abbracciata con entusiasmo. Chi sosteneva che le vetture pesanti sarebbero affondate nella sabbia, inesorabilmente; chi invece era dell’opinione che automobili leggere non avrebbero avuto la potenza necessaria per inerpicarsi su valichi o altri tratti disagevoli. Chi era talmente convinto dell’impossibilità di affrontare in macchina un percorso del genere da essere sicuro che non si sarebbe neanche arrivati a far partire le macchine da Pechino; chi giudicava l’impresa un’americanata (termine che già allora designava qualcosa pensato più per il risvolto pubblicitario, reclamistico, che per altro); chi, come un certo Scipione Borghese, da Roma, si limitò a telegrafare al Matin, accettando di partecipare su una Itala da 40 CV. Nel giro di una settimana, avevano aderito in dieci. Sorprende questa rapidità e facilità di comunicazione tra diversi paesi d’Europa, un secolo fa. In mancanza di internet e di televisione, tutto era affidato al telegrafo e alla carta stampata: ma con quali risultati! In 24, 48 ore lo stesso argomento è sulla bocca di tutti. Il telegramma di Borghese trasformò l’idea in realtà: non ne parlava soltanto “le tout Paris”, un’adesione così importante rendeva impossibile tirarsi indietro, o accampare scuse. Il Principe Luigi Marcantonio Francesco Rodolfo Scipione Borghese era nato nel 1871 a Migliarino (PI) da una delle più nobili famiglie romane, e all’epoca si era già conquistato fama internazionale come viaggiatore ed esploratore scientifico, oltre che come diplomatico, alpinista, automobilista. Nel 1900 aveva compiuto un viaggio dal Golfo Persico al Pacifico, da cui sarebbe scaturito il libro “In Asia: Siria Eufrate, Babilonia”, pubblicato nel 1902. Compì anche un viaggio attraverso la Cina, che divenne un altro suo libro di gran successo. Alto, asciutto, glabro, precocemente calvo, di poche parole, aveva modi calmi e misurati: un pianificatore nato, di grande freddezza e dominio di sé, con molti mezzi a disposizione, e la capacità innata di disporne al meglio. Un personaggio che sembra quasi letterario, più che reale, studiato su misura per incarnare la Pechino-Parigi<e che fin dall’inizio si comportò in maniera molto diversa dagli altri partecipanti. A Parigi intanto fu costituito un Comitato, formato da esperti della Cina e dell’Estremo Oriente. Bisognava tracciare l’itinerario da seguire, ottenere tutti gli appoggi possibili, e studiare ogni problema nei minimi dettagli, se si 3 voleva ottenere qualche risultato. Tutti i partecipanti, a cui si chiedevano 2000 franchi di cauzione, con l’intesa di restituirli a Pechino al momento della partenza, furono invitati a partecipare alle riunioni. La Spyker mandò Godard, il personaggio più simpatico della Pechino-Parigi. “Ha doti eccezionalissime, è un caposcarico senza eguali, sempre in cerca di una partita da giocare, di un ballo da organizzare, di una serata o di un divertimento da offrire”, lo descrisse du Taillis, che con lui condivise una parte del viaggio sulla vettura olandese. Di professione fantino, con qualche esperienza da automobilista, era in realtà un avventuriero, perennemente alla ricerca di espedienti più o meno legali per campare e campare divertendosi: forse non l’ideale per affrontare un viaggio così tremendo, che imponeva grande organizzazione e<grandi mezzi. Godard, spiantato in canna, già a Parigi si venderà la riserva di pneumatici e di pezzi di ricambio di cui lo aveva fornito Jacobus; e per spedire la macchina via mare fino al porto di Tientsin, 3000 franchi, ricorse al porto assegnato, rimandando così il problema di saldare il conto <che sarà saldato da un altro. Du Taillis è affascinato da Godard, dal suo allegro coraggio, dal suo totale sprezzo del pericolo che rasenta l’incoscienza e la millanteria. Ma anche dalla sua lealtà, che dimostrò più volte, testardamente, nel corso del raid. L’Itala non mandò nessuno. La partecipazione del Principe Borghese era a titolo privato: da parte della casa torinese vi era un tale scetticismo sulle possibilità della vettura, ordinata in febbraio e consegnata ad aprile, da pregare il Principe di ritirare la sua adesione. Al che, Borghese ritirò la vettura e la consegnò nelle mani del suo fido meccanico-factotum Ettore Guizzardi, limitandosi a seguire i lavori del Comitato da Roma. Così, l’accordo che le case concorrenti firmarono a marzo non fu da lui sottoscritto. Si trattava di un documento che recava le firme della De Dion, Contal, Werner1, Métallurgique2, Spyker ed altre marche, e diceva cose molto interessanti. Per esempio (punto 1) che “il viaggio sarà compiuto in convoglio e i piloti promettono di aiutarsi reciprocamente fino al confine tedesco”; che “le case concorrenti constatano che hanno chiesto di partecipare al raid Pechino-Parigi sessantadue meccanici e piloti, molti dei quali disposti a pagare personalmente le spese”; che “nel caso di macchine iscritte ma assenti alla partenza, la quota di iscrizione di 2000 franchi non sarà restituita ma divisa fra i partenti”. Si riuscì anche ad ottenere da parte della Russia la rinuncia ai diritti doganali (significava poter spedire pezzi di ricambio e pneumatici dalla Francia senza balzelli troppo esosi); che in qualsiasi punto e momento del percorso i 4 partecipanti avrebbero potuto usufruire del servizio telegrafico; e che in caso di guasto grave sarebbe stato possibile viaggiare gratuitamente sulla ferrovia transiberiana. Inoltre si stabiliva che i rifornimenti di carburante in terra cinese sarebbero stati assicurati dalla Asiatic Petroleum Company; mentre ai rifornimenti in Siberia e in Russia avrebbe provveduto la Nobel Company. Quest’ultima società era titolare delle concessioni minerarie dell’intero impero zarista e detentrice del monopolio del mercato del petrolio in Russia. Anche l’Asiatic Petroleum Company era una compagnia petrolifera, sia pure più piccola, molto interessata a diffondere il consumo di petrolio, fino a quel momento limitato al lavaggio a secco. Era ovvio che un estendersi della meccanizzazione e della motorizzazione era negli auspici di entrambe le società. Ma questo documento è interessante anche per ciò che non dice: la mancata firma del concorrente italiano non è un caso. E’ un preciso segnale, sicuramente non colto (ancora) dagli altri. Da una parte l’Itala del Principe, dall’altra il resto del mondo. Così, mentre i lavori del Comitato procedevano in un senso (e diffondendo anche informazioni sbagliate, come quelle sulla stagione delle piogge), Borghese si preparava per conto proprio. Raccolse tutti i resoconti meteorologici degli 8.000 km di continente asiatico; si rivolse a quelle sue conoscenze in grado di fornirgli indicazioni sul percorso, cosa resagli facile dal fatto di essere imparentato con la nobiltà di mezzo mondo; allertò il fratello Livio, incaricato d’Affari a Pechino; si procurò le carte militari dei territori conosciuti; insomma mise in gioco la sua straordinaria capacità di pianificazione e di organizzazione, oltre che le sue possibilità di relazione affinate durante la carriera di diplomatico. Un esercizio anche intellettuale a cui è difficile credere fossero abituati con la stessa disinvoltura gli altri partecipanti. A Godard e Longoni si erano aggiunti i due piloti Georges Cormier e Victor Collignon, due dipendenti della casa De Dion Bouton, solidi ed affidabili, sicuramente coraggiosi e ed esperti, ma che furono “comandati” a partecipare, e che in questa prima fase ebbero un ruolo alquanto passivo. Contal invece scelse Auguste Pons, un giovane pilota audace ed ottimista. Si era fatto avanti un entusiasta conte italiano, Gropello, che aveva divisato di partecipare con una Fiat<ma siamo ben lontani dai sessantadue concorrenti sopra citati, svaporati come neve al sole al momento di versare la cauzione. Gli iscritti, a conti fatti, non erano più di sei. Il che significava che il comitato organizzatore a Parigi aveva ricevuto molti meno soldi di quelli previsti<e 5 che un certo scoramento cominciava a serpeggiare. Lo stesso documento sottoscritto dalle case terminava dicendo: “Le difficoltà di questa prova eccezionale, alla luce delle indagini condotte per parecchie settimane, risultano non meno serie di quanto pensassimo il primo giorno. Pechino-Parigi! Forse è un tentativo disperato”. A farla breve, appena un giorno dopo l’imbarco dell’Itala su una nave di linea del Norddeutscher Lloyd (mercoledì 10 aprile 1907) alla volta prima di Napoli e quindi dell’estremo Oriente, naturalmente da sola, naturalmente prima di tutte le altre vetture, da Parigi giunse a Borghese un telegramma firmato dai cinque compagni di avventure, che gli comunicava il loro ritiro dalla gara. Perché incaponirsi su una avventura dall’esito tanto incerto? Perché insistere a voler fare gli eroi solitari? Ma la risposta di Borghese condensata in quattro parole, “Salpo da Napoli domani”, li mise in estremo imbarazzo. E adesso, si saranno detti, che figura ci facciamo? Architettare una sfida per lanciare l’industria automobilistica francese e poi vederla sostenuta da un’unica vettura italiana, guidata da un principe italiano, accompagnato da un giornalista italiano? Impossibile. La grandeur francese non poteva accettarlo. Così la De Dion Bouton, seguita a< ruota dalla Contal, ritirarono il proprio ritiro. Godard, dal canto suo, e non chiedeva altro che di slanciarsi a traverso i continenti. Decisero allora di imbarcarsi sull’Océanien, della Compagnia delle Messageries Maritimes, che salpava da Marsiglia il 14 aprile. Sul piroscafo trovarono posto le due De Dion, il Contal, la Spyker, il meccanico per le De Dion Jean Bizac, il giornalista del Matin Jean du Taillis, Edgardo Longoni, che per il raid era incaricato di una corrispondenza con il Tribune di Londra ed era destinato a viaggiare sulla Fiat del conte Gropello; Charles Godard, subito improvvisatosi capocomico, Auguste Pons con il meccanico Octave Foucault. Cormier e Collignon invece dovevano raggiungere Pechino via treno, in modo da organizzare le scorte di carburante lungo l’itinerario. Partirono da Parigi il 25 aprile con il Nord Express per San Pietroburgo, e, dopo vari cambi, arrivarono a Pechino il 17 maggio. I francesi dell’Océanien sbarcarono a Shangai, emblematicamente, già in ritardo di quattro giorni su Borghese; e da lì, dopo abbondanti libagioni a conclusione di un viaggio a dir poco allegrissimo, dove lo champagne era scorso a fiumi, si recarono alla capitale cinese con il treno, insieme alle loro macchine (che da Shangai al porto di Tientsin era state imbarcate sull’Admiral von Tirpitz). Anche Barzini stava convergendo su Pechino, ma dal Giappone, dove il Corriere della Sera lo aveva incaricato di un servizio. Lì doveva incontrare Borghese, a cui il 6 giornale aveva offerto cinquemila lire per prendere in macchina il giornalista, oltre ad una diaria di venti lire per ogni giornata di corsa. Borghese accondiscese: non si può usare altro termine per definire un rapporto professionale che sessanta giorni di avventure e di convivenza forzata in mezzo a mille disagi non trasformarono mai in amicizia o confidenza. Così composto, l’equipaggio dell’Itala divenne l’archetipo dell’ Italia che si affacciava al nuovo secolo: un esemplare della più alta aristocrazia, insieme ad uno della borghesia e ad uno della classe lavoratrice, tutti e tre esprimenti il meglio della propria classe in quanto a coraggio, intraprendenza, dedizione, competenza, capacità di sopportazione e di sacrificio. Ma una volta radunati tutti i concorrenti a Pechino (con l’eccezione di Gropello, a cui non era stata consegnata in tempo la macchina dalla Fiat, forse non per caso, e che perciò aveva rinunciato; e di Borghese, che aveva deciso di partire in esplorazione del percorso che li attendeva subito usciti dalla capitale) i problemi, anziché svanire, si complicarono ulteriormente. Innanzitutto perché delle macchine caricate sul treno<ne arrivarono soltanto due. Panico assoluto tra i francesi, finché non si scoprì che le due macchine perse nelle nebbie erano semplicemente state spostate su un vagone fermo e lì lasciate. Recuperati a fatica tutti gli Chi-cho, i carri mossi dall’olio, nome cinese per automobili, consolato Longoni per essersi sobbarcato un viaggio fino a Pechino e poi non trovare la Fiat, fronteggiata l’immensa, impalpabile coltre di polvere gialla che ricopriva la città e rendeva molto sgradevole qualsiasi spostamento, occorreva misurarsi con il Wai Wu Pu, il Gran Consiglio del Celeste Impero. E furono dolori. I cinesi sospettavano che l’insistenza di questi occidentali per ottenere i visti necessari ad attraversare la loro terra nascondesse un complotto. E come si risponde al complotto? Con l’astuzia. Il Gran Consiglio decise perciò di rilasciare i visti. Per la Manciuria, esattamente in direzione opposta a quella prevista. Furono respinti. Dopo molto altro tempo, tazze di tè, riunioni, inchini, furono rilasciati altri visti. Che non contenevano alcun riferimento al diritto di transitare senza impedimenti. I concorrenti, riuniti nelle spaziose sale della Banca russocinese, che seguiva con molta simpatia le peripezie di questi intrepidi occidentali, li respinsero di nuovo. Ad infiammare i toni era sempre Godard, che si indignava ad ogni parola; Cormier e Collignon erano più dell’idea di lasciar perdere, convinti che senza passaporti non sarebbe stato possibile fare nulla. Presiedeva le riunioni, ovviamente, Borghese. Una foto è significativa: ritrae Collignon, Cormier, Guizzardi, Pons, Borghese, Foucault, Godard, 7 Bizac. Borghese è seduto al centro, col casco coloniale su un ginocchio, tutto vestito di bianco, composto ed elegante; gli altri, vestiti di scuro, o in abito da lavoro, hanno già l’aria provata e disorientata di chi si trova lì senza sapere bene perché e come. Sta di fatto che tre settimane di incessanti trattative non bastarono. “Confesso che ho passato dei brutti momenti – scrive du Taillis nel suo libro – Consideravo tutti i sacrifici già fatti e l’enorme opera compiuta, in pura perdita, se per disgrazia fosse compromesso non già l’arrivo a Parigi ma la partenza da Pechino. Non ho riacquistato il mio sangue freddo che quando ho inteso il Principe Scipione Borghese concludere con queste parole, con la sua voce sempre eguale e l’intonazione, vera o finta, di una grande modestia: Signori, qualunque cosa decidiate, io ho già preso la mia risoluzione: niente saprebbe cambiarla”. Ossia: io parto, voi fate quel che volete. Non esattamente quel che doveva dire come presidente della PechinoParigi. I problemi infatti non erano facilmente risolvibili per tutti: per esempio, il transito sulle tormentate montagne appena usciti da Pechino in direzione della Grande Muraglia, che Borghese aveva minuziosamente esplorato a cavallo portandosi un bastoncino di bambù tagliato della stessa larghezza dell’Itala per misurare la possibilità dei passaggi, sembrò essere superabile soltanto facendosi trainare dai “coolies” (facchini). Ma non gratuitamente. Il prezzo richiesto era di tremila franchi, equivalente alla tariffa del trasporto Marsiglia-Tientsin: una cifra che Godard, per esempio, non poteva certo permettersi (per la verità Godard non poteva permettersi neanche trenta franchi). Dopo lunghi conciliaboli, si decise che Collignon li avrebbe pagati per sé, per l’altra De Dion e per il Contal; e che du Taillis li avrebbe anticipati a Godard. Bisognò anche decidere come dividersi sulle macchine. Du Taillis decise di salire sulla Spyker, perché le due vetturette De Dion Bouton erano già gravate da 600 kg di provviste, di pezzi di ricambio, di pneumatici e di accessori. In compenso a Kalgan si sarebbe liberato un posto per Longoni, perché sarebbe scesa da una delle De Dion l’interprete della legazione francese. “Questa fu la nostra vigilia d’armi: l’indomani, alla una del mattino, a dispetto del governo cinese, che finalmente ci aveva mandato i passaporti scritti in cinese, mentre la nostra salvaguardia avrebbe dovuto consistere nell’essere scritti in mongolo4, le automobili sarebbero fuggite dalla capitale cinese, per andare alla conquista del continente” – è du Taillis che parla. A radunarsi nel cortile della caserma francese “Voiron”, lunedì 10 giugno, furono la Spyker, 15 CV, con Godard e du Taillis, 1400 kg a pieno carico; la De Dion Bouton, 10 CV, con Cormier e Longoni (da Kalgan), 1400 kg a pieno 8 carico; la seconda De Dion Bouton, con Collignon e Bizac; il triciclo Contal, ad un cilindro, con Pons e Foucault, 700 kg. Manco a dirlo, l’Itala (40 CV, con Borghese, Guizzardi, Barzini, la moglie di Borghese principessa Anna Maria e il fratello Livio, peso a pieno carico, ma senza passeggeri, 2000 kg) si dispose fuori dal cortile, a parte. Tre giorni prima, secondo il resoconto di Allen Andrews, riportato nel suo libro “I lupi solitari della Pechino-Parigi” (LEA, 1965), Barzini aveva confermato per cablo al Daily Telegraph, con cui teneva una corrispondenza per la gara, le regole che si era convenuto di rispettare: “Oggi i partecipanti alla grande corsa si sono riuniti e hanno fissato le norme da seguire fino a Irkutsk. Se una macchina subirà un guasto così grave da dover restare en panne, gli altri competitori gli presteranno tutto l’aiuto possibile; ma se i mezzi a loro disposizione non permetteranno di seguire una riparazione completa, la macchina sarà rimorchiata fino al successivo luogo di tappa oppure sarà abbandonata, secondo la scelta del proprietario. Se uno dei conducenti dovesse cadere ammalato, si provvederà a trasportarlo fino alla prima località dove possa trovarsi un medico, e se la guarigione fosse prevista entro tre giorni, l’infortunato potrà chiedere che gli altri lo attendano”. Sante parole, che trasformano la corsa in una dimostrazione; ma Barzini stesso, nel suo libro, non farà mai riferimento a questo accordo preliminare, come non fece accenno al regolamento stilato a Parigi. Ed è evidente, a leggere il libro di du Taillis, lo sconcerto dei partecipanti alla palese violazione da parte di Borghese di questi accordi. In questo senso, il primo giorno di viaggio, e a maggior ragione la prima settimana, fu assolutamente esemplare, e rese un quadro molto chiaro della situazione che si sarebbe creata nel prosieguo del raid. Alle 7,30 del mattino del giorno prestabilito per la partenza tutto era in gran fermento: intorno alle macchine si affannavano ministri dell’Olanda, della Russia, del Giappone, degli Stati Uniti, dell’Inghilterra; ambasciatori, diplomatici, mandarini, soldati, funzionari, dignitari, oltre ai piloti e ai meccanici, alle prese con bagagli, tende, arnesi di scorta, pezzi di ricambio, taniche di benzina, vettovaglie. Solo Pons e Foucault non si affannavano intorno ad alcunché: sul loro triciclo non c’era posto per nient’altro oltre a loro, e soltanto grazie alla generosità di Godard poterono sistemare un loro sacco di coperte, provviste e altre cose personali sulla Spyker. L’Itala invece esibiva con fierezza il telaio nudo: la carrozzeria, i sedili, i serbatoi di riserva e le parti di ricambio erano già in viaggio, su carri trainati da buoi e diretti a Kalgan. Un accorgimento non da poco: era ormai chiaro, grazie ai tanti sopralluoghi, che uno dei tratti più ardui sarebbe stato quello 9 immediatamente successivo all’uscita da Pechino, ossia i valichi di Nankù e di Kiming. Il traino a braccia, per mezzo di funi, era inevitabile, e faticosissimo. Meglio dunque alleggerirsi di tutto il possibile, sempre che si disponesse di mezzi per far viaggiare parallelamente quanto si era eliminato. Al proposito du Taillis osservò: “Il principesco conduttore della Itala non aveva creduto di poter tentare con successo il passaggio dei valichi con uno chassis sovraccarico di carrozzeria e di bagagli. Gli altri chauffeurs invece <avevano creduto che fosse più persuasiva la dimostrazione di resistenza che doveva consacrare il raid<caricando ogni vettura al suo partire nello stesso modo in cui avrebbe dovuto fare il percorso”. Ineccepibile. Comunque sia, alle otto, finalmente, fu data la partenza. Ma non erano passate neanche due ore che Godard e Cormier, all’inseguimento dell’Itala già ovviamente balzata in testa vista la sua maggiore potenza, si fermarono. Non per le difficoltà del percorso, ma perché avevano perso di vista Pons e Collignon. “E’ evidente – scrive du Taillis – che il principe Borghese arde d’impazienza di continuare la strada ad ogni costo, ma noi, cioè la Spyker e una De Dion, decidiamo di aspettare<La pioggia cade senza posa: in questo primo incidente di strada vi è una infinita tristezza. Appena usciti da Pechino, di cui si distinguono ancora le muraglie, doversi perdere d’occhio e passare un tempo considerevole a cercarsi e ad attendersi! Ed il principe Borghese che corre verso la tappa, senza preoccuparsi dei compagni lasciati indietro! Che sia questo un sintomo di quello che ci riserba l’avvenire? Un’istantanea in iscorcio di quello che sarà questo raid?” Recuperati i ritardatari, si profilarono gli spaventosi ponti del Cha-ho: enormi lastroni di pietra ammonticchiati in disordinata rovina, che l’Itala superò con il motore, le De Dion e la Spiker con due ore di lavoro con il paranco, e<il Contal, semplicemente, non ce la fece. L’unica soluzione, per non compromettere fin da subito il cammino del triciclo, parve quella di far tornare indietro Pons fino a Pechino, perché si avvalesse della ferrovia tra Pechino e Nankù, obiettivo della prima tappa. Uno strappo alla regola, certo, ma nessuno riuscì a trovare una soluzione migliore. Deciso anche questo, le tre vetture ripresero l’inseguimento della Itala, finché la Spyker, inspiegabilmente, si fermò. Per ore tutti e sei gli occupanti delle vetture si affannarono a trovare la causa. Era già buio quando Collignon ebbe un’intuizione: “Il silenzioso!” La sabbia e la melma del Cha-ho avevano ostruito il tubo di scappamento; facendo in fretta e furia un paio di buchi sulla marmitta il passaggio dei gas si ristabilì e la vettura riprese 10 istantaneamente a funzionare. Ma ormai era tardi, davvero tardi per raggiungere Nankù, dove la Itala era giunta a metà pomeriggio. Per usare un eufemismo, i successivi due giorni furono altrettanto duri. Il martedì 11 giugno le quattro vetture dei francesi affrontarono i venti chilometri della gola di Nankù, una scala di pietre quasi insormontabile che collegava la cittadina alla Grande Muraglia, mentre l’Itala, sia pure anche lei con estrema difficoltà, superava la Grande Muraglia e si fermava a Tchaa-too, che invece sarà raggiunta dai francesi soltanto il giorno dopo, mercoledì 12. Venerdì 14 giugno l’Itala arrivò a Kalgan, la tappa che segnava l’uscita dai passaggi più spaventosi. Lì la vettura italiana si fermò ad attendere gli altri, che arrivarono due giorni dopo, domenica 16 giugno. Era passata una settimana dalla partenza. Ed era già chiarissima una verità: il Contal non sarebbe mai arrivato a Parigi, anche se nessuno osava dirlo apertamente. Il fatto stesso di avere tre ruote costituiva un impaccio terribile, non riuscendo ad evitare i profondi solchi scavati da generazioni di carri. Mentre infatti per le vetture convenzionali era sufficiente tenere le ruote di sinistra sul terrapieno centrale e quelle di destra sul bordo della pista, o viceversa, il Contal non poteva spostarsi di mezza larghezza, da una parte o dall’altra, senza che la sua ruota posteriore finisse dentro un solco; né poteva, per la strettezza della carreggiata, tenersi completamente su uno dei bordi esterni della pista. Il triciclo era dunque perennemente costretto a ricorrere ai portatori, o alla forza fisica dei suoi conducenti. Con il risultato di stremarli a morte e di ritardare la marcia degli altri tre compagni di viaggio. Il giorno dopo, lunedì 17 giugno, tutte e cinque le vetture partirono insieme, alle quattro del mattino, dalla Banca russo-cinese di Kalgan. Il primo tratto era una salita di ventiquattro chilometri, che l’Itala percorse in prima, fermandosi ogni quarto d’ora, e affidando bagagli e carburante ai soliti portatori (in compenso la carrozzeria era stata infine rimontata). I francesi invece si attardarono ad aspettare il Contal: ancora una volta la terza ruota del mototri, incappando continuamente nei solchi, non riusciva ad assolvere la sua funzione motrice. Parigi, per il Contal, si allontanava ad ogni metro. Finalmente, a mezzogiorno, le macchine si riunirono al punto convenuto con i portatori, dove l’Itala recuperò i bagagli e gli altri le latte di benzina. In sette giorni, erano stati percorsi 300 chilometri, su circa 16.000. Ossia niente! Con questa media ci avrebbero impiegato 350 giorni. Bisognava prepararsi ad iniziare il viaggio vero e proprio, affrancandosi dai portatori cinesi, e utilizzando, finalmente, dopo tanti giorni di traino, il motore delle vetture. 11 Tutti non vedevano l’ora di farlo. L’equipaggio dell’Itala era il più indaffarato, mentre per le altre vetture, già partite da Pechino con il carico definitivo, si trattava soltanto di far posto ai carburanti. Godard si fece carico, grosso modo, anche di ciò che risultava fondamentale al Contal: la cassetta dei ferri, i pezzi di ricambio, viveri di scorta, riserve di benzina e di gomme. Ciò significava due cose: una, che la Spyker e il Contal avrebbero dovuto procedere da quel momento in poi affiancate; la seconda, che Godard, per far posto ai bagagli di Pons, doveva sacrificare qualcosa, e quel qualcosa fu, incoscientemente, della benzina. “Tanto – pensò - nessuno ce la rifiuterà, se ne avremo bisogno”. Fu data la partenza, direzione Udde, distante 600 chilometri, pari a circa due giorni e mezzo di viaggio nell’impietoso deserto di Gobi: era la prima stazione di collegamento telegrafico dove era stato possibile depositare un certo quantitativo di carburante. Strumento di orientamento: i pali telegrafici. Seguirli, o per lo meno non perderli di vista, era l’unico modo per non perdersi. Altri segni di vita, zero. Dopo sessanta chilometri di marcia si decise di accamparsi per la notte. L’Itala era equipaggiata con un’ingegnosa capotte di tela grossa che di giorno offriva riparo dal sole e di notte si trasformava in un grande tendone in grado di accogliere la macchina e gli uomini. Anche per questo motivo fu l’unica vettura, delle cinque, a non disporsi in cerchio, come invece fecero i francesi. Si trattò della prima notte in cui gli undici intrepidi automobilisti (Borghese, Godard, Cormier, Collignon, Pons, Barzini, Guizzardi, du Taillis, Longoni, Bizac, Foucault) riposarono insieme, sotto lo stesso cielo. Fu anche l’ultima. Si era deciso che all’indomani il primo a partire sarebbe stato il Contal: la sua andatura più lenta si sarebbe avvantaggiata di una partenza mattiniera (in effetti partì alle tre del mattino<) e inoltre gli altri avrebbero potuto più facilmente venirgli in soccorso, in caso di necessità. Alle quattro si mossero insieme la Spyker e le due De Dion. L’Itala, contrariamente al solito, tardò ancora, anche perché Borghese dovette procedere ad una drastica riduzione dei bagagli: furono eliminati senza pietà molti viveri, alcuni attrezzi, i montanti della cappotta (che dunque funzionò per una sola notte). Ma per le cinque anche l’Itala si incamminò. In breve tempo si portò a ridosso delle altre: prima del Contal, poi della Spyker. Fu proprio a Godard, sempre preoccupato per Pons, che Borghese urlò passando: “Ho appena sorpassato Pons. Vi segue da vicino e dice che per ora va tutto bene”. O così per lo meno Godard capì, tanto da proseguire rasserenato la sua strada, convinto di avere il triciclo alle calcagna. Poi per qualche ora Godard e Cormier furono troppo 12 occupati a ritrovare la strada segnata dai pali telegrafici, che avevano temporaneamente smarrito. Quando si ritrovarono sulla strada maestra, di Pons nessuna traccia. Ma forse li aveva superati mentre avevano imboccato la strada sbagliata<e ora li precedeva. “Da principio abbiamo atteso – racconta du Taillis – molto tempo. Più di un’ora. E poiché ci trovavamo su di un lato dal quale si scorgeva un vasto orizzonte, abbiamo interrogato ansiosamente la strada per parecchi km intorno; i cannocchiali non ci hanno lasciato scorgere altro che la strada polverosa e la pianura verde. Che cosa dobbiamo fare? Qualche minuto prima che sbagliassimo strada, Pons si trovava ai nostri calcagni<Riflettendo bene, la verità ci appare luminosa: Pons non è dietro a noi, ma ci precede di trenta o quaranta chilometri”. Così, decidono tutti insieme (a loro si è unito anche Collignon) di proseguire. La destinazione è Pong – Kong, trecento chilometri da Kalgan, dove arrivarono alle sei del pomeriggio, dopo quattordici ore di marcia. Borghese era già arrivato da cinque ore. Di Pons, nessuna notizia. I francesi sono costernati. Tornare indietro? Proseguire lo stesso? Mandare qualcuno a cercarlo? “Ed il principe Borghese, pregato da Cormier di venire ad esaminare insieme a noi la situazione, fa rispondere che ora riposa e che domani deciderà il da farsi”. Ma Borghese ha già deciso, è ovvio: partirà lo stesso. Proprio lui, che ha la macchina più potente e dunque impiegherebbe meno tempo ad andare e venire. Du Taillis annota: “Longoni non poteva spiegarsi il rifiuto del principe Borghese: il caso era sufficientemente grave<Alcuni pretesti e qualche altra ragione più plausibile forse, che io però ignoro, incitarono l’Itala a continuare la strada fin dalle prime ore dell’indomani”. Avendo rifiutato lui di fermarsi, gli altri ritengono di non avere scelta: bisogna proseguire, altrimenti il raid se lo fa da sola l’Itala. Ecco, questo è uno dei momenti cruciali della Pechino-Parigi: è il momento in cui da dimostrazione si trasforma in una corsa; in cui sparisce il cameratismo e la solidarietà. I francesi sanno di stare abbandonando Pons nel mezzo di un deserto, senza viveri e senza benzina, ma ritengono di non aver scelta. Il giorno dopo, sul Daily Telegraph, compare una corrispondenza di Barzini: “Il mototri Contal si è trovato nell’impossibilità di continuare il viaggio. I competitori sono perciò ridotti a quattro: i signori Cormier e Collignon sulle De Dion Bouton, il signor Godard sulla Spyker e il Principe Scipione Borghese sulla Itala. Si spera adesso di poter accelerare la marcia”. Epitaffio funebre per Pons, dato per morto ancora prima di sapere dove e perché si fosse fermato (si scoprirà che era rimasto fermo senza benzina ben prima del punto dove Godard e Cormier si erano smarriti). 13 Anche Godard, sia pure rodendosi l’anima, decide di partire. Ma lascia alla stazione telegrafica di Pong - Kong una parte della sua benzina per Pons: iniziativa generosa, e suicida. Infatti la Spyker si ferma in pieno giorno, a secco, per ben due volte. La prima volta ottiene quattro litri di benzina da Cormier; ma dopo un’ora e un quarto, sono di nuovo fermi. Quando le De Dion Bouton la raggiungono, stavolta non si fermano, rallentano soltanto. E Cormier butta là, oltrepassandoli: “Avete bisogno di niente? Appena arrivato ad Udde, vi farò mandare la benzina”. Come se Udde fosse dietro l’angolo, e mandare la benzina una faccenda di pochi minuti. Ed eccoli, anche loro senza benzina, in pieno deserto, con una temperatura che sfiora i 48°. Il resoconto che segue, nello scritto di du Taillis, è confuso. Passa lentamente il pomeriggio, arriva la notte, che trascorrono in preda agli incubi. Giungea il mattino, e con esso il caldo implacabile. Il pollo, che si erano tenuti da parte per il peggio, è un ammasso di larve. Nulla viene ad interrompere l’interminabile giornata, niente li distrae dall’inazione, dall’impotenza, dalla solitudine. Arriva la seconda notte nel deserto. E poi un’altra giornata, in cui tutto quel che mangiano è una tavoletta di cioccolato ridotta a pasta insipida, che aumenta a dismisura la sete. Finché, in preda ormai alle allucinazioni per la sete e la disperazione, vengono tratti in salvo da un gruppo di mongoli a cavalli, dei kungusi che pur a caro prezzo li trainano per alcuni chilometri e poi riescono a procurare loro della benzina. E con la benzina, la salvezza. Ma intanto, che era successo a Pons? Godard ne conoscerà la sorte soltanto ad Udde, grazie al telegrafo. Anche Pons ha rischiato la morte, e la follia. Dopo aver constatato, sulla strada segnata dai pali telegrafici, che gli resta soltanto mezzo litro di benzina ed aver atteso invano che qualcuno dei suoi compagni tornasse indietro, egli e il suo compagno si sistemano in una tenda di un accampamento cinese, dopo aver cercato di dissetarsi in una pozza di fango. Il mattino dopo abbandonano il triciclo e si mettono in marcia a piedi. Ma il caldo, la sete e la fame li spingono irragionevolmente a tornare sui propri passi. Vagano dunque nel deserto, come due pazzi, e ritrovano la vettura soltanto alle sette di sera (erano partiti alle cinque del mattino). Il giorno dopo, è la stessa desolazione, la stessa solitudine. “Percorremmo qualche chilometro – scrive Pons – per renderci ben conto se mai si scorgesse un accampamento mongolo. In quel momento non ci sarebbe importato nulla il cadere nelle mani di briganti che ci avessero maltrattato. Non avevamo che un solo pensiero, quello di vedere degli esseri umani, per non sentirci soli in quella immensa e incolta pianura, sotto il sole torrido che ci pesava sulla testa come una calotta di piombo”. 14 Furono anche loro salvati da morte certa da un gruppo di mongoli che li intravide da lontano, e decise di soccorrerli. Era il loro terzo giorno nel deserto. “Confesso che è umiliante il constatare che si riceve aiuto ed assistenza dai selvaggi quando la cosiddetta gente civilizzata vi ha odiosamente abbandonato nel deserto”, scrisse Pons. L’indomani egli e il suo compagno decidono di abbandonare il triciclo nel deserto e di tornare a Pechino. Era venerdì 21 giugno. A undici giorni dalla partenza, già due equipaggi si erano trovati abbandonati a se stessi, in una delle situazioni più pericolose e senza scampo, il deserto di Gobi. Godard e du Taillis furono più fortunati, più determinati e dotati di una macchina che funzionava in modo eccellente; perciò, raggiunta Udde sabato 22 giugno, ne ripartirono all’indomani per giungere a Urga alle cinque del mattino del lunedì 24 giugno, dopo aver percorso senza fermarsi 617 chilometri. L’Itala era già ripartita da Urga alla volta di Kiakta; ma le due De Dion Bouton, più lente, vi si trovavano ancora, e finalmente vi fu il ricongiungimento tra i francesi, o per lo meno tra quelli che restavano in gara. “Io ho stabilito – scrive amaramente du Taillis – di non chiedere nessuna spiegazione a Cormier. Apprendo ora che Borghese è già partito fin da ieri per Kiakta senza più curarsi né di noi, né di Pons, né degli altri”. La Pechino-Parigi, nella sostanza, finisce qui. La progressione dell’Itala è inarrestabile: arriva a Kiakta, al confine mongolo-siberiano, il 24 giugno; il 1° luglio è a Irkutsk, il 5 a Kansk, l’11 a Tomsk, il 14 a Omsk, da cui parte alla volta di Pietroburgo via Perm seguendo un tracciato un po’ diverso da quello stabilito dal Comitato parigino, in modo da evitare la parte più impervia degli Urali. Arriva a Kazan il 23 luglio, a Mosca il 27. Ormai è Europa: le successive tappe, Novgorod sul lago Ilmen il 31 luglio, Dvinsk sul fiume Duna il 2 agosto, Kovno sul confine russo-tedesco il 3, Berlino il 5, e poi Bielefeld, Liegi ed infine Parigi (10 agosto), sono trionfali, con festeggiamenti, brindisi, pranzi, discorsi, doni, fiori e felicitazioni ad ogni arrivo e ad ogni ripartenza. Davvero curioso seguire questa stessa progressione sul libro di du Taillis anziché su quello di Barzini. Il giornalista francese cita per l’ultima volta l’Itala quando ne racconta l’arrivo a Kazan, il 23 luglio; poi più nulla. Non ne segnala neanche l’arrivo a Parigi (di cui fu sicuramente informato telegraficamente durante il viaggio e che comunque sapeva allorché scrisse il libro). L’Itala, nelle sue parole, non esiste più. Mentre prendono corpo le peripezie davvero fuori dall’ordinario della coraggiosa Spyker. La vettura olandese si era comportata benissimo insieme alle due De Dion Bouton fino 15 alla tappa di Irkutsk, dove rimasero tre giorni (vi fu persino, il 3 luglio, una sfida in moto al velodromo tra Longoni e Godard, agevolmente vinta da quest’ultimo). Il 6 luglio la Spyker non riuscì a mettersi in moto. Dopo ore di tentativi e di ispezioni al motore, saltò fuori che risultava danneggiato il magnete: una avaria da niente, ma in quei paraggi quasi irreparabile. Godard decise di far trainare la vettura a Tcheremkovo, quindi il giorno dopo la caricò sulla ferrovia transiberiana e la portò a Tomsk, dove contava di trovare qualcuno in grado di sostituire il magnete. Nel frattempo du Taillis, che come corrispondente del Matin non poteva interrompere il viaggio, si alternava come compagno di viaggio sulla De Dion di Cormier, che non l’aveva molto in simpatia, e di Collignon. I giorni dunque passarono, con da una parte un lento avanzare in Siberia delle due vetture restate in gara e con Godard fermo a Tomsk fino al 24 luglio. Recuperata la piena efficienza della sua vettura, l’intrepido Godard la ricaricò sul treno e la riportò a Tcheremkovo, dove si era fermato: da lì iniziò una corsa spossante attraverso la Siberia all’inseguimento dei suoi compagni. Il 25 luglio percorse 217 km in un colpo; il 27 arriva a Krasnojarsk e poi ad Atchinsk (dove le due De Dion erano arrivate il 15), il 28, mentre le De Dion sono a Kurgan, la Spyker oltrepassa Tomsk, e arriva a Omsk il 30 luglio percorrendo 865 km in una tappa, un record straordinario (da considerare che nel frattempo è stato raggiunto da un giovane ingegnere della casa olandese, catapultato dalla sua scrivania alle durezze di un viaggio così disagevole: Bruno Stephan). Le due vetture francesi arrivano a Birsk il 2 agosto; Godard vi giunge il 6. Due giorni dopo Godard riesce a riprenderli, a Kazan. E’ talmente stremato che lo devono portare dentro un locanda di peso, rigido come morto, senza più neanche la forza di parlare o di rallegrarsi. Ma si riprende come l’Araba Fenice, e da quel momento in poi compiranno il viaggio insieme fino a Parigi (30 agosto). Anzi, diciamola tutta: Godard avrebbe potuto agevolmente distanziare le due vetture francesi, e concludere il tragitto ben prima del 30 agosto. Se non lo fece, fu probabilmente perché il suo carattere gli impediva di prendere in considerazione il lato sportivo e solitario dell’impresa. Per lui doveva essere una dimostrazione di eccellenza europea attraverso il mondo, non l’epica impresa individuale. In questo sicuramente non fu capito, né dal suo Jacobus Spyker, che si chiese perché non avesse approfittato della eccellenza e della superiorità della vettura, per un’occasione pubblicitaria sicuramente non ripetibile; né dai francesi del Matin e della De Dion Bouton, che guatarono le sue mosse terrorizzati dalla possibilità che potesse avvalersi del suo 16 vantaggio. Se Godard fosse risultato vincitore, il Matin avrebbe mancato ad uno dei due principali scopi del raid, ossia fare pubblicità all’industria automobilistica francese (l’altro era fare pubblicità al giornale, cosa riuscita perfettamente). Già l’Itala aveva messo molto in ombra, ovviamente, la riuscita francese, ma se la vettura olandese avesse inflitto un secondo smacco<la situazione sarebbe stata irrecuperabile. Du Taillis é francese fino al midollo, é corrispondente del giornale parigino organizzatore, eppure, con estrema lealtà, scrive nel suo libro: “Lo sfortunato ma valoroso conduttore non piloterà la sua vettura all’entrata in Parigi, perché il prestigio morale del Matin non permette di ricevere Godard, di cui l’incredibile odissea e la meravigliosa gesta non possono far dimenticare alla gente scrupolosa qualche espediente più o meno abile. Mi toccò lottare per ottenere che la Spyker ricevesse almeno gli onori che le erano dovuti anche più che agli altri veicoli concorrenti, perché è veramente una cosa straordinaria il vedere arrivare a Parigi questa automobile che non ha dovuto cambiare un solo pezzo, e che in ottanta giorni di tappe non ha nemmeno avuto bisogno che un meccanico visitasse le sue ruote o stringesse un bullone. Eccezion fatta per la ridicola panne del magnete, che un cambiamento degli spazzolini ha presto rimesso in azione, la marcia di quella vettura fu di una regolarità esemplare e di una resistenza e di una potenza ineguagliabili. Io salvai dunque la Spyker dall’ostracismo al quale sembrava volessero condannarla; ma ebbi un bell’intercedere a favore del mio compagno d’infortunio nel Gobi, il cui coraggio si era mantenuto senza debolezza al disopra di ogni elogio, non potei piegare la volontà del padrone”. E’ detto tutto. “Il vantaggio è dei più forti”, conclude il giornalista francese nel tirare le somme di questa straordinaria esperienza, e arriva a chiedersi “in cosa consista la gloria dell’Itala – non dico quella dell’emerito chauffeur, la cui pazienza e la cui maestria sono al di sopra di ogni elogio – essendo arrivate in buono stato le De Dion Bouton da 10 HP e la Spyker da 15 HP”. “Che non si dica dunque che questo giro, che non è stato una corsa, ma un raid di pazienza, consacra la superiorità delle marche straniere: ciò è falso”. Su questa definizione, “raid di pazienza”, anche i tre dell’Itala si troverebbero d’accordo, perché fu innanzitutto grazie a quella impareggiabile dote che si poterono superare rocce e fiumi, sabbie e foreste, fanghi e paludi, montagne e deserti, lingue incomprensibili, insetti, fame, sete, un’estate tormentata dal maltempo e da settimane e settimane di piogge continue, alternate a torride calure e geli improvvisi, pannes, fatiche e privazioni. Ma fu anche qualcos’altro, di cui i protagonisti, immersi nella loro quotidianità, non potevano accorgersi. Fu il trionfo della comunicazione giornalistica moderna, del racconto in diretta del 17 corrispondente protagonista anch’egli dei fatti che descrive, oggi si direbbe “embedded”. I dispacci telegrafici quasi quotidiani al Corriere della Sera di Milano, al Matin di Parigi, al Daily Telegraph e al Tribune di Londra, al Secolo di Roma, sono l’equivalente dei microfoni e delle telecamere di oggi. Milioni di lettori in Europa e in America si contendevano giorno dopo giorno le edizioni straordinarie dei giornali, e seguivano come sotto i loro occhi lo svolgersi, prima lentissimo poi sempre più veloce man mano che ci si avvicinava alla meta, del viaggio. Trionfò l’automobile? O l’uomo? O l’Itala ? Forse trionfò il meraviglioso, che diventa tale quando qualcuno, da molto lontano, ce lo racconta al posto nostro. Werner Frères et Cie, Societé Française d’Automobiles et d’aviation; Billancourt et Levallois sur Seine (1901 ca – 1915 ca) 2 Métallurgique Société Anonyme, Marchienne-au-Pont (Belgio), 1898-1928 3 in Mongolia il cinese era letto soltanto da alcuni alti funzionari 1 Donatella Biffignandi Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino 2007 BIBLIOGRAFIA “I lupi solitari della Pechino – Parigi”, di Allen Andrews, L’editrice dell’automobile, 1965 “La metà del mondo vista da un’automobile. Da Pechino a Parigi in 60 giorni”, Hoepli, Milano, 1908 “Da Pechino a Parigi in automobile” di Giovanni du Taillis, F.lli Treves, Milano, 1908 “Le raid Pékin – Paris”, par Georges Cormier, Librairie Ch. Delegrave, Paris, 1908 Georges Cormier : pilota, specializzato corse di durata. Circuito europeo, circuito europeo-africano (vittoria); dipendente della Dion-Bouton, delegato dei partecipanti ai rifornimenti Collignon, pilota, esperto in corse di resistenza e durata, dipendente della Dion-Bouton 18 Bizac, meccanico, dipendente della Dion-Bouton, specialista in montaggio di vetture nuove. Nativo di Bergerac, ex meccanico nella marina militare. Taciturno, gran lavoratore, insensibile al caldo, al freddo, alle intemperie, alla stanchezza. Du Taillis, giornalista, occhiali, barbetta bionda Longoni, giornalista sportivo 19