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LESSICO FAMIGLIARE Una grande scrittrice italiana del Novecento, Natalia Ginzburg, radunò in un libro, all'inizio degli anni sessanta, tutte le parole, le espressioni, i modi di dire, le frasi, che nel corso della sua infanzia aveva sentito ripetere da genitori, fratelli, amici, e che avevano fatto da contrappunto musicale alla sua crescita. Era "Lessico Famigliare", un libro di memorie originale e struggente, che, senza mai cadere nel sentimentalismo o nell'agiografia, ricostruisce, proprio attraverso le parole, le "loro" parole, la vita per venti anni circa di un gruppo familiare visto dagli occhi dell'ultima nata, Natalia appunto. Se la memoria è anche un modo per far rivivere e riappropriarsi di ciò che ci accomuna ad altri, vi è un'immagine folgorante, a metà del racconto, che è tra le più belle definizioni di memoria e di appartenenza. "Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse…Quando c'incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia…per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi, o parole, ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo". Viene in mente questo senso di comunanza ad un mondo scomparso, che vive solo più nella memoria di chi gli è sopravvissuto, leggendo il libro di Elena Fornero "Gli automobili. Lessico delle prime quattro-ruote tra Ottocento e Novecento" (Saggi Marsilio, 1999). E' un "Lessico famigliare" affettuoso, serrato e documentatissimo, dove la storia delle parole, più che raccontarci tecniche ormai dimenticate, rinsalda la nostra ideale appartenenza al mondo degli amanti e cultori di automobilismo d'epoca: siamo quelli che, nella grotta buia della Ginzburg, mescolati a milioni di persone, si riconoscerebbero al volo al suono delle parole "gicleur" e "trembleur"; che ci consideriamo "tra di noi" se qualcuno pronuncia il termine "baladeur". Per farci arrivare a questo, la Fornero indaga, con puntiglio ed intelligenza, i più diffusi manuali di fine ottocento/inizio novecento: dal capostipite, il "Manuale dell'Automobilista e Guida del Meccanico Conduttore di Automobili" di Giuseppe Pedretti, del 1899, il primo libro italiano che tratti esclusivamente di automobilismo (anche se ancora inserito nella collana di "Meccanica ciclistica"); al trattato di Enrico Marchesi, progettista del primo stabilimento Fiat a Torino, e quindi direttore generale e poi commerciale della casa torinese, "L'Automobile. Come funziona e come è costruito. Cenni storici e descrizione popolare", uscito nel 1902 (questo studio vincerà il diploma di medaglia d'oro alla Esposizione Internazionale dell'automobile e del ciclo dello stesso anno); al "Manuale dell'Automobilista. Raccolta delle lezioni dettate alla Scuola per meccanici e conduttori d'automobili in Torino", del 1905 e che testimonia, per la prima volta, l'attività delle scuole per "chauffeurs" che andavano aprendosi in quegli anni in alcune città del Nord Italia. A questi primissimi manuali si aggiungono "La vettura automobile. Sue parti. Suo funzionamento" di Alamanno De-Maria; il "Manuale pratico dell'automobile" di Attilio Seniga, uscito nel 1911 all'interno di una collana ora 1 denominata "Biblioteca dell'Automobilista" e tanti altri, usciti sulla falsariga, e sperando nello stesso successo, dei primi. Dalla loro lettura emerge che la guida è faccenda tutt'altro che semplice. La posizione del serbatoio del carburante, generalmente collocato sotto i sedili, rendeva arduo fare rifornimento. L'impianto elettrico aveva fili volanti, che rischiavano di provocare pericolose scintille; il piantone dello sterzo, verticale, costringeva l'autista a sporgersi in avanti per vedere la strada (quell'atteggiamento tra il miope, l'avventuroso e l'intimorito, tante volte eternato dalle stampe umoristiche); per prendere posto sui sedili posteriori occorreva entrare dal retro della vettura. Prima di avviare il motore era necessario: lubrificare biella, collo d'oca e trasmissione, controllare il livello dell'oliatore dei cilindri, riempire il carburatore di benzina, accendere i bruciatori che, riscaldatisi a dovere, avrebbero reso incandescenti i tubetti di platino. Quindi occorreva aprire le valvole di scarico dei cilindri, disinnestare la frizione e dare un vigoroso giro con la manovella d'avviamento; non appena il motore partiva balzare agilmente al posto di guida. Il fatto è che questa trafila era, per la maggior parte delle volte, assolutamente inutile. Biscaretti racconta come si metteva in marcia la Benz ordinata da suo padre alla fine dell'Ottocento: "Si apriva l'usciolo (ossia il carter), si afferrava con mano robusta il volante motore e si dava uno…due…tre …infiniti strapponi all'indietro…" Se non succedeva niente (come non succedeva!) allora "non s'era aperto il rubinetto della benzina o il serbatoio era vuoto, oppure mancava il contatto elettrico, oppure gli accumulateurs erano scarichi…La piccola macchinetta che abbiamo avuto in famiglia dopo la Benz aveva l'incamminamento costituito da una manovella lunga almeno 80 centimetri che si infilava nel motore disposto sull'albero posteriore passando attraverso i raggi della ruota destra…Quando poi l'accensione si compiva per mezzo dei famigerati bruleurs, allora occorreva avere a disposizione una diecina di minuti prima che il motore potesse mettersi in moto. …Prima dell'applicazione dell'accensione elettrica, si adoperavano certi tubetti di platino i quali per mezzo di apposita fiamma a benzina erano portati all'incandescenza. Quando il tubetto era passato per tutte le gradazioni del colore fino a raggiungere il colore bianco, allora il miscuglio gassoso al suo contatto si accendeva. Il sistema era ottimo e sicuro ma pericoloso per i contraccolpi frequentissimi durante il lancio del motore. Naturalmente quando la macchina stazionava in strada era necessario lasciare accesi i due o quattro giffards (uno per cilindro) per poter rimettere subito in movimento il motore". E non bastava. "Per viaggiare in quei tempi era necessaria una salute di ferro ed una resistenza straordinaria ai disagi della strada…O eleganti parabrise, o robusti mantici, o meravigliose guide interne, dove eravate a quell'epoca?" In questo gustoso quadretto che Biscaretti fa della vita spericolata di un automobilista di fine secolo, sono già contenute parecchie delle parole "da grotta", e già si può notare come la maggior parte siano prese di peso dalla lingua francese. Il che è facilmente comprensibile. Il francese era allora la lingua europea, parlata dall'elite produttiva ed intellettuale. La Francia era all'avanguardia in Europa per lo sviluppo dell'industria automobilistica: più che l'Inghilterra, attardata da un forte monopolio nell'ambito della produzione industriale, che impediva di fatto la libera concessione dei brevetti; più che la Germania, che non si stava rivelando un buon mercato per le vetture di costruzione interna, e con volume produttivo pari ad un quinto di quello francese; più che l'Italia, per la cronica mancanza di una folta classe borghese che potesse costituire un buon mercato. Inoltre Torino e il Piemonte, sede del maggior numero di imprese automobilistiche, erano legati da sempre alla cultura e alla cività francese, anche per un semplice motivo di contiguità geografica. Ecco allora la fittissima schiera di francesismi 2 nella terminologia dell'automobile d'inizio secolo: chassis, garage, chauffeur, panne, débrayage, antidérapant, déraper…Panne è sicuramente una delle più diffuse, anche perché di difficile traduzione. E' una parola di origine marittima: significa abbassare la vela e immobilizzarsi. Per traslato, indica tutte quelle situazioni in cui si resta fermi sulla strada senza più potersi muovere. Nei casi di "panne" veniva fuori la stoffa dello "chauffeur". Più difficile capire il perché di questa parola che, letteralmente, significa riscaldatore o fuochista, in quanto viene dal francese chauffer, scaldare. Suona strano, perché in realtà il conducente di una vettura automobile non riscalda nulla. Ma probabilmente, dovendo accendere dei becchi, i famosi bruleurs, qualcuno si immaginò fuochi e fiamme! A parte l'etimologia, il significato stesso della parola è cambiato con il tempo. Inizialmente indicava il guidatore che era allora anche il geloso possessore e l'appassionato meccanico dell'automobile. Successivamente nasce la figura del meccanico-chauffeur, ossia di persona di condizione sociale inferiore che viene assunta dalle famiglie signorili con questa duplice funzione. Negli anni trenta, su sollecitazione della Confederazione Nazionale dei Sindacati Fascisti dei trasporti terrestri, la parola chauffeur viene sostituita con "autista", non senza le critiche di chi osservava la coincidenza con il termine usato per indicare persone affette da autismo. Stesso tentativo di sostituzione si fece con "garage", che viene dal francese "garer", mettere in magazzino, e "gare", stazione, magazzino, ma la parola resistette, sia pure accompagnata dall'italiano rimessa e autorimessa. Di chassis, ossia telaio, si tentò persino la traduzione in "chiassile", che per fortuna non si affermò mai, anche perché esisteva l'italianissimo "telaio". Avan-train e arrière-train ebbero miglior fortuna, perché diventarono accettabilmente avantreno e retrotreno. In francese, sono termini molto antichi, provenienti dal linguaggio militare: avant-train stava ad indicare l'insieme di due ruote, assale e timone adibito al trasporto dei cannoni. Altro treno, ma stavolta baladeur ("train baladeur"), definiva invece un congegno diffusissimo all'epoca, oggi del tutto scomparso: era un organo del cambio che consentiva di ottenere numerosi rapporti grazie al movimento di ingranaggi spostabili. Una parola che nella sua vita ha compiuto mezzo giro d'Europa è "vilebrequin", termine francese con cui si indicava l'albero motore. In realtà questa antica parola veniva dall'olandese, che l'aveva ereditato dal tedesco, con il significato di trivella, trapano a mano. Probabilmente passò a indicare l'albero dell'automobile per la somiglianza di forma. In italiano arrivò come "girabarchino", traduzione dal piemontese "viraberchin". Ed eccoci alla triade "trembleur, gicleur, bruleur", tutti e tre legati alla fase dell'accensione. Trembleur, ossia tremante, pauroso (aggettivo sostantivato) era l'interruttore automatico che consentiva il passaggio di corrente tramite un movimento oscillatorio e viene chiamato così forse perché queste sue oscillazioni ricordano un tremito. Il bruleur, l'abbiamo già visto, era il becco da incendiare (incendiatore) per portare all'incandescenza il tubetto di platino. Lo gicleur era invece il dispositivo che nebulizzava la benzina nel carburatore. Furono tutti termini utilizzati prevalentemente nella loro forma francese. Di "pneus" e "pneumatique" si usò invece l'italianizzazione "pneumatico" o più spesso "pneumatica". Intorno a questo elemento fiorisce una serie di espressioni tolte di peso dal francese. Per esempio déraper, termine di origine marina che indicava il mancato contatto con il fondo da parte dell'ancora. In gergo automobilistico, non mordere il fondo passò ad indicare lo slittamento laterale; dunque pneumatica antidérapant era quella gomma che avrebbe dovuto garantire massima aderenza al terreno. Veniva pubblicizzata anche la "pneumatica increvable", ossia imperforabile, il sogno di tutti gli automobilisti di allora (e di oggi). Se poi la gomma si 3 forava comunque, bisognava cambiarla e così facendo si usava (anche oggi) il "cric". Si tratta di un termine francese, di cui non si è ricostruita chiaramente l'etimologia. Forse viene dal tedesco militare "Kriec", un congegno che faceva girare le grandi macchine da guerra. Molto evidente il saccheggio di termini francesi anche per la definizione delle carrozzerie. Abbiamo la limousine (femminile di "limousin", ossia di Limoges), il tonneau, che letteralmente significa "botte", il coupé, il vis-à-vis, la wagonnette, la charrette (che in italiano si sarebbe dovuto poco elegantemente tradurre in "carretta"). Landau e landaulet sono invece termini di origine tedesca: significano originari di Landau, dove si fabbricavano le carrozze fatte con quella foggia. Molto originali le etimologie di "phaeton" e di "fiacre". Il primo termine si ispira a Fetonte, il figlio del dio del sole a cui il padre aveva concesso di guidare il suo carro ma che, incapace di governarlo, ne era stato sbalzato fuori; fiacre invece era un santo (Saint Fiacre) la cui immagine era apposta su una casa di rue Saint Antoine a Parigi, dove sostavano le vetture a nolo. L'échappement, che ha la sua traduzione letterale nell'italiano scappamento, è una parola tratta dal gergo degli orologiai: è il regolatore del movimento che impedisce alla molla maestra di scaricarsi in pochi minuti. Agiva sui denti dell'ultima ruota, trattenendoli e lasciandoli "scappare" ad uno ad uno, ad intervalli regolari di tempo. Benzina invece, parola che deriva dal latino "benzoinum", pianta da cui si estraeva un olio odoroso, lotta per qualche decennio con l'equivalente francese "essence" e, curiosamente, vince. Con un po' di benzina si poteva "dare il cicchetto" al motore, immettendone una piccola quantità nella camera di scoppio, per facilitare l'avviamento, che è detto "incamminamento" (dal piemontese "incaminese", avviarsi, a sua volta derivato dal francese). Non è soltanto la Francia a regalarci tanti termini automobilistici. All'Inghilterra siamo per esempio debitori di "turismo", il che non è poco! Viene da "tour" ossia giro, viaggio. Ci arriva anche "spider", che letteralmente significa ragno: sembra che in realtà l'espressione originale fosse "spider wheel", riferendosi alle ruote a raggi, ossia "ruote ragnatela". Per estensione, spider andò a indicare il tipo di vettura su cui erano più frequentemente montate. "Klaxon" viene dalla ditta americana che rese famoso in tutto il mondo il suo prodotto; ma in realtà la parola viene dal greco "Klazo", che significa squillare, rumoreggiare. Destino curioso quello di clacson (così la forma italianizzata): partita dal mondo anglosassone, la parola si è radicata soltanto al di fuori di esso. Interessante anche la storia del cavallo vapore, horse - power (da cui HP): sembra che che ad inventare tale espressione sia stato James Watt, quando adoperò una delle sue prime macchine a vapore per azionare una pompa che era stata sempre mossa da un cavallo. Per misurare il lavoro eseguito, Watt chiamò cavallo vapore la forza sviluppata dalle sue macchine, anche se il lavoro del cavallo non c'entrava più nulla. Naturalmente il lessico automobilistico annovera anche tante parole italiane: per esempio piantone (dello sterzo) con cui si indicava anticamente, in piemontese, il palo di legno intorno a cui si faceva il pagliaio e che ne costituiva l'anima (piantun del pajè). O cardano, il giunto che trasmette il moto rotatorio tra due alberi, così battezzato grazie al suo inventore Gerolamo Cardano, vissuto nel Cinquecento. E' curioso però notare che su alcune riviste dell'epoca cardano è riportato alla francese, "cardan", quasi risultasse più elegante comunque importare dall'estero piuttosto che utilizzare forze proprie. Lo dimostra un delizioso scambio di batture, immaginate dal giornalista Morasso nel 1905 tra un giovane ed appassionato chauffeur e la sua esigente fanciulla: 4 "Dirà lui: 'La mise à point della macchina è perfetta…Non temere, amor mio, niuno ci raggiungerà'. Risponderà lei: 'Io voglio essere sicura. E' una Serpollet o una Mercedes? Il silencieux funziona bene?' Lui: 'Mercedes a 60 HP, silenziosa come un uccello notturno. Vedrai che démarrage furtivo e dolce' Lei: 'Sì, verrò. Dio faccia che l'allumage funzioni, che tu ritrovi subito la buona carburazione e che non abbiamo dei ratés'. Donatella Biffignandi Museo dell’Automobile 2001 Le informazioni sull'etimologia dei termini sono state tratte dal libro di Elena Fornero "Gli automobili", citato nel testo. Elena Fornero è nata a Torino e si è laureata in Storia della Lingua Italiana con il Prof. Gian Luigi Beccaria. Diventata giornalista professionista nel 1996, dal 2000 si è trasferita in Germania, a Darmstadt, dove vive e lavora come giornalista e insegnante di lingua italiana. 5