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APPUNTI DI MODA “Con la sua grossa giacca di tela turchina, il berretto di cuoio nero e il corpetto di lana, egli arrivò a Parigi camuffato così poveramente che i camerieri si rifiutarono di farlo passare per la gran porta d’ingresso all’Hotel Continental. I camerieri pensarono che, tutt’al più, a quel viaggiatore dall’aria di operaio meccanico, poteva essere concesso di passare per la scala di servizio… Ma ahimé!…I camerieri si accorsero, con indescrivibile stupore, che tutti si inchinavano ossequiosi al passaggio del nuovo arrivato. Infatti, quel pesante operaio era bensì un macchinista, ma un macchinista automobilista, e si chiamava Ferdinando principe di Bulgaria, semplicemente!”. Ecco cosa succedeva (l’episodio è reale, e risale al 1905) a chi non si era ancora convertito alle eleganti mises delle più fornite case di abbigliamento sportivo ed automobilistico. Il punto era proprio questo: per essere automobilisti a tutti gli effetti, titolo ambitissimo dagli esponenti della migliore aristocrazia industriale e nobiliare d’inizio secolo, occorreva non soltanto l’oggetto del desiderio, in ferro, gomma e legno, ossia l’automobile, ma tutto un armamentario complicato con cui affrontare il nuovo sport. Perché di nuovo sport si trattava: chi comprava un’automobile nel, poniamo, 1903, era sicuramente facoltoso e blasonato, e lo faceva non certo per motivi di lavoro (l’automobile come strumento professionale era ancora da venire, nonostante il tentativo di mettere sul mercato la cosiddetta “automobile del medico”) ma per divertimento, snobismo, voglia di avere qualcosa di nuovo ed invidiabile. E come esisteva, ed esiste tuttora, una “tenuta” che identifica ciascuno sport, non poteva non mancare una adeguata tenuta anche per l’automobilista, che lo rendesse riconoscibile a prima vista come appartenente alla quella ristretta categoria di eletti. Spolverini, pellicce, occhialoni, copricapi tra i più bizzarri, guantoni, coperte, maschere per il viso, veli, copri-pantaloni e copri-vestiti diventarono gli “atouts” irrinunciabili non soltanto per il legittimo ed orgoglioso proprietario della vettura, ma anche per lo chauffeur (che non mancava quasi mai), le signore, le figlie, gli eventuali amici che partecipavano alle gite. Si trattava di un armamentario tutt’altro che superfluo. Ecco come un “incredulo”, che ancora non si è convertito al culto del nuovo sport, descrive un amico automobilista che gli piomba in casa: “Vestito tutto di pelle come uno stivale, con un berrettone idem, ed un paio di enormi occhiali sul naso; “tò, gli dissi, ti credevo morto ma non così cieco! Da dove vieni?” “Da Torino” “In quella guisa?” “Sì, ho lasciato qui sotto la mia Benz, e conto di fare domani il giro dei laghi, vieni con me?”. L’incredulo va. Dopo due ore, questo è quello che ci racconta: “Intanto io ero ridotto ad una grondaia: più nulla di me era rimasto asciutto, gli abiti completamente inzuppati contribuivano a mantenere una deliziosa umidità al mio corpo. Sentivo le scarpe farsi grevi per l’acqua penetratavi e un’infreddatura potente salire dal contenuto delle medesime alla mia povera testa. L’automobile intanto entrava profondamente nel terreno, pareva talvolta inabissarsi nelle enormi pozzanghere formatesi negli avallamenti del terreno, spruzzava fango su di noi e d’intorno a noi, ma procedeva sempre come avesse un dovere da compiere, una missione da adempire” (da: “La mia conversione”, di Edoardo Morotti, pubblicata su “L’Automobile” del 1° giugno 1906). Dal titolo, si può prevedere come va a finire, malgrado il raffreddore: ma non una delle sue parole è esagerata. L’automobile dei primordi è, innanzitutto, scoperta; spesso senza parabrezza, magari anche senza portiere, e dunque lasciava gli occupanti completamente alla mercé dell’aria, del vento, dell’acqua, del freddo. La carrozzeria non richiama l’attenzione dei primi progettisti: quello che preme è progettare un buon motore, per la carrozzeria si può aspettare. E allora l’abbigliamento per l’auto si trasforma in succedaneo della carrozzeria che non c’è, o che non c’è a sufficienza per riparare i passeggeri: una sorta di ampliamento della forma del veicolo, posato addosso ai viaggiatori. I primi articoli sono delle semplici coperte da viaggio, mutuate dagli scomodi viaggi in carrozza di qualche anno prima: ma proteggono soltanto le gambe, e forse neanche, perché il vento si infila sotto, le scuote, le strappa via. Bisogna pensare a delle “coperture” più efficaci, anche per la polvere, oltre che per il freddo e la pioggia. Qualche buontempone propone soluzioni divertenti, come “il costume postale”, un abito da chauffeur costituito da trentamila francobolli che avrebbero dovuto difendere dall’aria, sfruttando la naturale capacità di protezione che ha la carta. Si capisce la logica dell’invenzione quando si scopre che l’inventore viveva e lavorava (e, si suppone, guidava) alle Bermude. Il signor Crable è più raffinato. Propone un corpetto di carta, dal peso di soli 45 grammi, da tenere attaccato al corpo mediante un cordone. Presentava l’inconveniente di sgualcirsi al minimo movimento, l’autista avrebbe dovuto restare rigido al posto di guida come una mummia. Arrivarono i primi studi sui tessuti impermeabili; uno di questi prevedeva l’elettrizzazione del tessuto, attraverso una soluzione che “lascia depositare tra le fibre una sostanza metallica che fa da corazza al tessuto stesso sottraendolo all’azione corrompitrice dell’aria, assicurandogli da un lato l’incombustibilità e dall’altro l’impermeabilità assoluta” (L’Automobile, 1905”). Entrava in concorrenza con la “seta bruciata”, un nuovo prodotto americano, inalterabile all’azione della polvere e della pioggia, in grado di mantenere il calore del corpo. Qualcuno pensò anche che poteva essere redditizio fare qualcosa per diminuire il disagio dei passeggeri, per esempio trovando un sistema di riscaldamento. Il signor Gourlin, nel 1901, depositò un brevetto per utilizzare i gas caldi della combustione. Anziché lasciarli disperdere nell’aria libera, perché non utilizzarne il calore, incanalandoli sotto la vettura? “I gas passano sotto due camerette corrispondenti ai pedali, e poi continuano fino ad una scatola su cui si appoggiano i piedi, donde poi sfuggono nell’atmosfera”. Dispositivo tutto sommato semplice, non si sa quanto efficace, e soprattutto parziale, perché dopo aver riscaldato i piedi, rimaneva da scaldare tutto il resto. E ci dimentichiamo della polvere? “E’ divenuta la peggior nemica dell’automobilismo, ed anche quella che gli crea il maggior numero di nemici fra i miseri mortali che vanno a piedi”, scriveva “L’Automobile” nel settembre 1906. Il primo sistema escogitato fu quello dell’innaffiamento delle strade. Al Parco del Bois de Boulogne, a Parigi, i lunghi viali percorsi dalle sontuose carrozze delle dame parigine venivano innaffiati ogni ora. Poi si pensò di mischiare all’acqua olii bituminosi, in modo che restasse in superficie una sostanza glutinosa. Quindi si optò per il sale: nel dipartimento della Senna Inferiore, in Francia, si tentò questa diversa soluzione impiegando un chilo di sale al metro di strada. Occorreva però innaffiare almeno tre volte al giorno: troppo costoso, e lungo. Un altro ingegnere francese (evidentemente il problema era molto sentito oltr’alpe) sperimentò il catrame. Ne stese un primo strato, seguito da un secondo strato di ghiaia e pietrisco, accuratamente cilindrato, e infine da un terzo strato di catrame, cilindrato a sua volta. Il risultato non fu granché: il catrame restava attaccato al cilindro; per di più la consistenza della strada era insufficiente, perciò le ruote dei carri vi lasciavano i solchi e i pedoni le scarpe. Insomma, della polvere non ci si liberava. Parve più intelligente limitarsi al momento ad arginare i danni da lei causati, utilizzando occhialoni di ogni genere. La scelta era vastissima: si passava dagli occhiali a circolazione d’aria del dottor Mirovitch alla maschera Spiro, che proteggeva occhi bocca e naso (perché dalla polvere della strada ci si poteva infettare con i germi della tubercolosi, della difteride e della febbre tifoide, insinuava subdolamente la pubblicità) alla maschera da volto vera e propria, escogitata dallo scultore parigino Roche, pronto a fornire ai piloti un calco del volto in materia plastica in grado di difenderli da tutto, facendoli però sembrare attori di una tragedia di Euripide. E poi berretti, cappelli con veli, veli che inglobavano il cappello, abbigliamenti che spesso somigliavano a quello dei motonauti. C’era anche “l’autoscafo Coustou”, in gomma nera, una sorta di scafandro, di cui si era assicurata il monopolio una casa di confezioni parigina, La Belle Jardinière. “Tenuta stagna assoluta al collo, ai polsi, alle caviglie”, recitava la pubblicità. Le case di confezioni e di tessuti avevano compreso rapidamente quale nuovo mercato si stava per aprire, e furono rapide nel proporre costumi e abiti specialmente pensati per gli automobilisti e le loro dame. Per gli uomini, la questione era, prevedibilmente, più semplice. L’indumento principe con cui mettersi al volante era lo “spolverino”, che già dal nome indica la sua funzione: protegge dalla polvere, e dalla polvere non si lascia confondere. Infatti si trattava di una palandrana lunga fino ai piedi, tutta abbottonata sul davanti, di colore solitamente grigio topo, in modo da poter essere sporcata e strapazzata, anche in caso di pannes. Andava per la maggiore anche la “pèlerine auto”, una lunga mantella con poussoirs per fermare le ali che facevano la funzione di maniche. Di taglio più elegante, la novità del 1904 era la “pelliccia moscovita”, definita la “divisa da città” dello chauffeur, un raffinato cappotto con il collo in pelo che non avrebbe sfigurato neanche a teatro. Man mano infatti che gli anni passavano, e che le carrozzerie automobilistiche trovavano nuove forme (alle aperte si aggiunsero le semi chiuse, semi-apribili, apribili solo dietro, aperte solo davanti, tutte chiuse, trasformabili da tutte chiuse a tutte aperte, con finestrini laterali, senza finestrini, con parabrezza e senza, a due, tre, quattro porte, e anche senza porte), la moda automobilistica subiva analoga evoluzione. Spuntarono da ogni parte cataloghi di accessori per automobili, che riportavano anche una ricca offerta di spolverini, stivaloni, occhiali, berretti, pellicce, guanti. Come sempre, era l’elemento femminile a godere della maggiore attenzione dei sarti e dei couturiers (termine nato nella capitale della moda, Parigi, nel 1858, quando era stata aperta la prima “maison de haute couture”). In questo erano sollecitate dagli stessi mariti, perché l’importante è che “quando si parte in automobile, le dame sieno premunite contro le pannes e la pioggia e il vento, poiché nulla è più insopportabile per gli altri viaggiatori che udire la signora gemere ad ogni raffica troppo forte e vederla implorare e lottare contro gli assalti del dio Eolo”. Le signore, parigine e non, ebbero però una bella priorità: “viaggiarono” in Peugeot molto prima dei loro compagni e mariti. La casa automobilistica francese nasce infatti nell’Ottocento, come azienda metallurgica per la fabbricazione di attrezzi vari, tra cui girarrosti, molle in metallo per pendole, macinini da caffè. Fu la “Peugeot” ad ideare una rivoluzione nell’abbigliamento femminile: le gabbie in acciaio leggero, in sostituzione delle crinoline semirigide che, sotto le gonne, facevano assomigliare le signore a dei palloni aerostatici, e le stecche metalliche per il corsetto, al posto delle costose (e martirizzanti) stecche di balena. Tutti questi oggetti portavano già come marchio il “leone”, che sarebbe diventato famoso sulle strade di tutto il mondo. Un’altra novità scaturita dal nuovo mezzo di trasporto doveva interessare piacevolmente le signore più abbienti: grazie all’auto, infatti, si diffuse l’uso di utilizzare la pelliccia non soltanto come fodera interna, ma come esterno. Teneva caldo, era elegante (anche se su alcune silhouettes procurava facilmente l’effetto “orso”) e soprattutto asciugava con rapidità dopo un eventuale acquazzone. Il catalogo della Strom, una delle case parigine più note nel bel mondo, specializzata in abbigliamento sportivo e motoristico, offriva anche copri-pantaloni e copriabiti in pelliccia; in Italia invece erano le manifatture Martiny a dettar legge, soprattutto in merito a tessuti ed indumenti impermeabili, di cui la Martiny si vantava di rifornire il Regio Governo, la Regia Marina e le Ferrovie dello Stato. L’imperativo era “un abbigliamento semplice e pratico”, “senza cadere nelle esagerazioni grottesche di certe madame dai lunghi veli e dagli occhiali degni di essere adoperati dagli spezzatori di selci!…”, intimava “L’Automobile” del 1905. In cambio, la signora che si fosse accomodata in vettura avrebbe avuto la soddisfazione di vedersi salutata militarmente dallo chauffeur, aiutata a salire e a discendere, portata a spasso, riverita ed ammirata. Cose queste che, in verità, destano nelle indaffarate donne di oggi più invidia della pelliccia… Donatella Biffignandi Museo dell’Automobile 2003