Il Nulla è l`Eterno

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Il Nulla è l`Eterno
“Il Nulla è l’Eterno”
di Martina Borgo
e Cecilia Calvani
Classe IV E linguistico
In un passaggio dell’autocommento Ungaretti commenta Ungaretti, del 1963, il Poeta dichiara Il
Porto Sepolto, la sua prima raccolta di scritti pubblicata nel 1916, “metafora di uno scavo intimo”1.
Lo citiamo, testualmente: “ … la ragione perché questo porto sia diventato simbolo della mia poesia
è facile spiegarla. C’è in noi un segreto, il poeta ci si tuffa, arriva in porto scoprendo questo segreto,
dunque arriva a dare quel poco che un uomo può dare di consolazione alla sua anima.” 2.
Sin da una prima analisi di questo frammento, appaiono evidenti alcuni degli elementi che hanno
contraddistinto
l’intero
percorso
della
poetica
e
della
vita
stessa
del
poeta.
Proprio a ribadire l’inscindibilità del rapporto fra Vita e Poesia, l’Autore stesso dichiara il carattere
autobiografico della sua intera attività, “Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in
un’opera
d’arte
se
in primo
luogo
tale
opera
d’arte
non
sia
una
confessione.”3
Alcuni degli elementi fondanti del percorso di Ungaretti, che esprimono anche delle forti
simbologie sono il “segreto”e il “nulla”.
Qualche anno dopo aver dato alla luce le poesie che compongono la raccolta de Il Porto Sepolto,
sulla quale torneremo più avanti, con la poesia Eterno, che apre L’Allegria, il Poeta ci offre lo
spunto per una serie di riflessioni sul sentimento del “nulla”.
“Tra un fiore colto e l’altro donato
l’inesprimibile nulla.” 4
Il primo titolo di questa poesia era “Eternità”, poi mutato in Eterno. Questa circostanza ci è d’aiuto
per meglio comprendere la tensione di un motivo poetico forte in Ungaretti, quello molto vicino alla
filosofia
di
Blaise
Pascal,
della
“rispondenza
tra
eternità
e
nulla”.
Il volume di riflessioni estetiche e filosofiche, le Pensées (Pensieri) ospita, infatti, quella stessa
polarità Eterno-Niente, quello stesso rapporto fra “Infini” e “Rien”, fra Infinito e Nulla.
In una versione precedente al testo definitivo, “l’inesprimibile nulla” era “l’inesprimibile vanità”.
Anche
questo
elemento
ci
offre
l’opportunità
di
ulteriori
riflessioni.
L’Autore sceglie questi versi, la cui forma ed il cui linguaggio appaiono essenziali e scarni, per
presentarsi al lettore, ponendo sin da subito quest’ultimo di fronte ad un immagine potente, quasi
magnetica. Nelle evidenti metafore cui il poeta fa ricorso si cela uno dei temi che pervadono
profondamente l’intera raccolta: il motivo del Tempo.
Molto si è scritto intorno alle interpretazioni possibili delle immagini qui utilizzate, ma è certo che
il riferimento ai due movimenti, quello di “cogliere” e quello di “donare”, movimenti semplici e
puri se pensiamo all’oggetto di quegli atti, ovvero un fiore – anch’esso carico di possibili significati
metaforici – svolge la funzione di delimitare il tempo e lo spazio all’interno di una dimensione
prettamente reale ed umana, quella del “vissuto”.
La scelta dei due participi passati (“colto” e “donato”), d’altro canto, ci indica l’esigenza dell’autore
di donare un passato a quei gesti e, in senso esteso, ad ogni cosa, per avvicinarsi – e qui il paradosso
- all’idea di Eterno.
A contrapporsi alla prima immagine, come abbiamo detto concreta, interviene infatti la seconda,
certamente astratta (“l’inesprimibile nulla”) posta quasi ad evocare il luogo-tempo che si inserisce
fra l’atto del cogliere e quello del donare, una dimensione di vuoto e silenzio che non può essere
comunicata agli uomini e da cui probabilmente trae origine la Poesia (il “fiore”), ovvero il “nulla”,
una dimensione assoluta.
Proprio in uno scritto degli anni venti Ungaretti, in un saggio intitolato L’estetica di Bergson, di cui
il poeta era stato allievo negli anni parigini – scrive dei poeti che costoro devono indovinare la
“perennità del tempo” , perché “il nostro atomo di tempo non è perduto nell’eternità, è una goccia
nel
gran
fiume”5
e
gli
uomini
sono
un’“incarnazione
momentanea
dell’eternità” 6.
Questo Eterno, quindi non è un tempo fuori dal tempo, ma ne comprende sia l’attimo contingente
che la propria assolutezza.
Come a dire che un gesto, un fiore colto e donato, espressione figurata della vita umana e delle sue
azioni, si fonde con l’immenso, di cui l’uomo stesso è parte integrante. In questo senso, dunque, il
nulla
non
è
assenza,
ma
presenza
inesprimibile,
perché
intrisa
di
mistero.
Se dunque il nulla esiste, perché presente in tutto ciò che è, è in questo nulla che l’uomo deve
prendere coscienza di sé, pur non avendo facoltà di esprimerlo.
“Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarcene. Il mistero c’è e col mistero, di pari passo, la
misura; ma non la misura del mistero, cosa umanamente insensata; ma di qualche cosa che in un
certo senso al mistero s’opponga, pure essendone per noi la manifestazione più alta: questo mondo
terreno considerato come continua invenzione dell’uomo”7 scrive Ungaretti nelle Ragioni di una
poesia.
Sentimento del tempo e sentimento del nulla affiorano nel breve componimento titolato Ricordo
d’Affrica, in cui, con pochissimi versi, il Poeta richiama il luogo che egli stesso definisce “stimolo
d’origine”, il Deserto e con esso Alessandria d’Egitto, la città in cui egli nasce, trascorrendovi poi
l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza:
“Il sole rapisce la città
Non si vede più
Neanche le tombe resistono molto”8
In quella che il Poeta definisce l’“aridità allucinante, carica di abbagli” indica l’avvio del suo
poetare. Il deserto è al tempo stesso orizzonte dell’oasi e del vuoto, della visione e dell’assenza. Ai
confini del deserto è situata Alessandria d’Egitto, “dove la vita non lascia alcun segno di
permanenza nel tempo. Muta incessantemente. Il tempo la porta via, in ogni tempo. E’ una città
dove il sentimento del tempo, del tempo distruttore è presente all’immaginazione prima di tutto e
soprattutto.”9
Il costante annientamento che il tempo vi produce, “quel nulla e quel tempo abolito”, fanno
balenare un “miraggio” all’immaginazione del poeta. Dallo spazio desertico, in quanto immagine
del nulla, si sprigionano l’illusione poetica e il suo spaesamento, “partendo da questo nulla, da
questo nulla e da questo sentimento di questo nulla sul quale non si fondano che delle illusioni che
portano a perdizione.”10
“Là deserto e mare sono in continuo contatto e contrasto; l’uno è statico e pare immutabile, l’altro è
in agitazione perpetua; il primo rappresenta senza che uno possa avvedersene ciò che va
deteriorandosi senza posa; l’altro senza sosta manifesta furiosamente il rinnovamento. Sono la mia
prima visione della realtà.”11, questo afferma il Poeta.
Di Alessandria Ungaretti serberà il sentimento del deserto e del mare. I due spazi gli appaiono l’uno
il rovescio simmetrico dell’altro. Deserto e mare si dispongono come fondali della ricerca di una
terra promessa e insieme dell’impossibilità a mettere radici, propria di chi è “come una razza
dispersa; qualcosa che appartiene a tutti e non è di nessuno” 12. Da quella ricerca e da quella
impossibilità viene sollecitato il nomadismo che sarà un importante carattere della vita stessa del
poeta e che si tradurrà in un peregrinare il cui traguardo, tuttavia, coincide con il viaggio stesso, se è
vero
che
“la
meta
è
partire”,
come
egli
stesso
attesta.
Gli anni egiziani sono segnati dall’amicizia fraterna con Moammed Sceab, compagno di studi del
poeta all’Ecole Suisse Jacot di Alessandria d’Egitto, che morirà suicida a Parigi e a cui saranno
dedicati, nel 1916, i versi d’apertura del Porto Sepolto.
Ungaretti ricorda il suicidio dell’amico in questi termini:
“Si è ucciso. Sul comodino aveva posato la sigaretta. L’hanno trovato morto, vestito, steso sul letto,
sereno, sorrideva. Hanno trovato la sigaretta spenta sul comodino. Aveva distrutto tutte le sue
carte.”13
I versi dedicati all’amico arabo dicono di lui che è suicida perché non aveva più patria e che non
sapeva sciogliere il canto del suo abbandono; per questo, deciderà di morire proprio nel piccolo
albergo, l’Hotel d’Orleans.
Il poeta, in un ricordo, definirà l’amico come un ragazzo dalle idee chiare, ma profondamente
inquieto, desideroso di ricostruire il proprio percorso di formazione; un giovane deprivato, dunque,
di una patria esistenziale, alla ricerca di un modo per incanalare compiutamente le forze che lo
laceravano. Nel suo suicidio sembra quasi trovare un completamento l’intera retrospettiva di
Ungaretti sulla propria giovinezza egiziana: la condizione di esule, di creatura fragile, girovaga,
precaria. E poi anche la comune avventura parigina, un’immersione nella sgargiante e viva capitale
dell’arte di avanguardia europea, alla quale, però, la sensibilità di Sceab, sempre più smarrita, non
avrebbe retto.
In una lettera inviata a Prezzolini, scriverà così: “C’è stato nella mia vita Sceab … non abbiamo
saputo svelarci mai nulla. La disperazione di Sceab non era la mia disperazione. S’è ucciso.” 14
Dopo un cammino che, in vita, Ungaretti aveva in gran parte condiviso con l’amico, avendo patito
entrambi quel senso di sradicamento e quasi di perdita di identità nel sentirsi estranei al mondo,
ecco che la morte di Sceab opera un distacco che non è soltanto fisico, ma simbolico. A differenza
di Sceab, il poeta trova una risposta alla disperazione nella potenza della Poesia, grazie alla quale
riesce ad esprimere la lacerazione interiore, a lasciare una testimonianza che duri nel tempo, a far
vivere il ricordo. (“E forse io solo/ so ancora/ che visse”15)
Ungaretti trova nella poesia, nel canto, una risposta alle sue sofferenze, perché riconosce alla poesia
la capacità di conservare nella memoria gli avvenimenti e le persone, mantenendo in vita il loro
significato; invece, per l’amico la poesia non è intervenuta a costituire un elemento di aiuto e di
risposta ai propri bisogni ed alle proprie ansie. Quindi ecco che l’uomo senza radici riesce a
sublimare, attraverso la scrittura, i valori dello sradicamento, della mancanza di una patria e della
vita in solitudine in un paese straniero dove è difficile ambientarsi.
E’ alla Poesia, d’altro canto, che Ungaretti riconoscerà il ruolo socialmente ed eticamente
fondamentale di recuperare l’uomo, di rigenerarlo, ribadendo la funzione catartica della poesia
stessa come purificatrice dell’anima, il suo valore perenne.
I testi del Porto Sepolto ospitano di fatto, prevalentemente, il tema della morte. Accanto a questo,
quello dell’incommensurabilità del tempo, il richiamo alla memoria e all’origine.
“Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto”16
Se si assume il Porto Sepolto come nucleo generatore dei grandi miti ungarettiani (il nomade, il
poeta, il soldato, l’uomo di pena) si può tracciare la direzione di una ricerca che continuerà fino alla
morte del poeta.
Un poeta perennemente in viaggio, di fase in fase, verso il “dentro”, per un bisogno sofferto di
riconoscersi, e verso l’ulteriorità. Un viaggio destinato a proseguire ininterrottamente, sena meta,
un’inabissarsi della propria interiorità, uno scoprirsi nomade in cerca di un consistere fisico, di un
radicarsi, fino al riconoscimento di sé.
Il porto sepolto è, nei suoi molteplici e possibili significati, tanto quel porto sommerso fissato nella
terra, proprio incontrando lo scavo della trincea, in cui si stratifica, concreta e dolorosa, l’esperienza
quotidiana di un nuovo abisso, quello che la guerra stessa apre, quanto il punto di partenza e di
arrivo in mare pronto ad accogliere i naufragi attraversati dalla figura del poeta-viaggiatore.
Questa ultima figura è colta nell’atto di abbandonare e disperdere la propria parola, di muovere,
cioè, da “questa poesia” a “quel nulla di inesauribile segreto”. Ed è in quel ritorno all’abisso che la
parola rivela il segreto dell’universo.
Ma è anche il porto sommerso raccontato al poeta dai fratelli Jean e Henri Thuile, giovani ingegner i
e letterati francesi conosciuti ad Alessandria d’Egitto, che cercavano porti sommersi nella zona
dell’antica isola di Faros, la cui esistenza doveva procedere l’epoca tolemaica, provando che
Alessandria era un porto già prima di Alessandro, e che già prima di Alessandro era una città.
Tuttavia, nel raccontare questa cronaca, il poeta opera un brusco mutamento di prospettiva quando
afferma “Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare,
unico documento tramandatoci d’ogni era d’Alessandria. Quella mia città si consuma e sia annienta
di attimo in attimo. Come faremo a sapere delle sue origini se non persiste più nulla nemmeno di
quanto è successo un attimo fa?”17.
E’ questo l’Ungaretti preso dalla vertigine del tempo, del suo annullarsi e travolgere tutto, è l’uomo
e poeta che patisce l’attrazione del vuoto, quello che – improvvisamente – si rivela.
Un’interpretazione di approccio più scolastico, se vogliamo, fornisce una visione prettamente
simbolica del “Porto”, come figura, che viene assimilata all’animo umano. Immergendosi nel porto
sepolto come scavando all’interno delle profondità dell’animo umano, a quel che resta dell’origine
perduta, inabissatasi e diventata inesplorabile, il poeta – grazie unicamente alla poesia - è in grado
di intuire e riportare alla luce tracce di quell’origine (quel nulla / d’inesauribile segreto) e, di
conseguenza, diffonderle agli uomini.
Il poeta, in altri termini, scende nelle oscurità del mistero poetico per cercare la scintilla
dell’ispirazione, in modo da riportare alla luce i suoi canti, ma quest’ultimi non sono in grado di
restituire per intero il segreto della creazione (poetica e non): una volta portati alla luce il poeta li
disperde, cioè qualcosa del messaggio originario va inesorabilmente perso e il poeta non può far
altro che scrivere in modo frammentario e per brevi illuminazioni.
Eppure, in tal modo, qualcosa pare che “resti”, grazie alla poesia, che si pone quale testimonianza di
questa sopravvivenza. In qualche misura viene sollevata la questione della funzione salvifica che la
poesia avrebbe rispetto all’uomo stesso, che verrebbe riconsegnato alla sua stessa natura.
La poesia è ciò che può sopravvivere nel difficile momento della guerra, della sofferenza, della
distruzione. Il messaggio che il poeta intende trasmettere è quello di un “nulla”, un segreto
sconfinato che, per ciò stesso, è un “segreto inesauribile”; pertanto la poesia ha come compito di
trovare quello che è segreto e rimane nell’uomo indecifrabile, ha la funzione di attivare la memoria
come custode dei valori, delle tradizioni, del bagaglio affettivo dell’uomo come singolo e come
comunità storica.
Proprio sul tema della memoria è incentrata la lirica I Fiumi, un testo importante, probabilmente
decisivo per l’intero sviluppo della poesia di Ungaretti.
Ne è ben consapevole il poeta, che assume quella lirica come bilancio di un’immersione verso la
profondità delle origini, concepita come dimensione prenatale (“Stamani mi sono disteso/ in
un’urna d’acqua/ e come una reliquia/ ho riposato”18) e insieme nel peregrinare del nomade alla
ricerca di una terra in cui potersi “accasare”.
L’Isonzo, il Serchio, il Nilo, la Senna, sono i “nomi del riconoscimento”: nomi che si danno come
presenze corporee, nomi che esprimono l’ansia – sempre urgente in Ungaretti – di afferrare
l’oggetto ed afferrarsi all’oggetto.
“Finalmente mi avviene in guerra di avere una carta d’identità: i segni che mi aiuteranno da quel
momento e di cui in quel momento prendo conoscenza come i miei segni sono fiumi, sono i fiumi
che mi hanno formato. Questa è una poesia che tutti conoscono ormai, è la più celebre delle mie
poesie: è la poesia dove so finalmente in modo preciso che sono un lucchese e che sono anche un
uomo sorto ai limiti del deserto e lungo il Nilo. E so anche che se non ci fosse stata Parigi, non avrei
avuto parola; e so anche che se non ci fosse stato l’Isonzo, non avrei avuto parola originale.” 19
In questo componimento il poeta-soldato rivisita la propria storia – e con essa la storia del proprio
fare poesia - che scorre in una sorta di mappa mentale composta di quattro grandi corsi d’acqua e
nel farlo sembra riassumere i temi dell’intero Porto Sepolto: la fusione con il paesaggio, il senso
della memoria, del ripercorrere la memoria filogenetica, ricapitolando la propria esistenza e
origine. Attraverso le immagini di quattro diversi fiumi Ungaretti ripercorre la sua storia personale e
familiare: il Serchio, il Nilo, la Senna e infine l'Isonzo. La tragedia della Prima Guerra Mondiale,
tema centrale della raccolta, sembra essere lo scenario teatrale della vicenda esistenziale del
poeta. Ungaretti resiste come un "albero mutilato", unico sopravvissuto di un paesaggio desolato e
distrutto. In questa poesia il poeta celebra se stesso, raccontando la sua biografia scandita dalle
immagini dei quattro fiumi, che sono un'immagine di continuità, e preannunciano la ricostruzione
nella continuità della natura e della storia.
Nella lirica, l’io poetante mette in atto un bagno purificatore nell’Isonzo, vero e proprio rito di
iniziazione, di ritorno all’universo primordiale:
“Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato” 20
“Urna” e “reliquia” sottolineano la sacralità dei gesti del poeta, che si affida alle acque lasciandosi
levigare da esse come un sasso nel greto. Il poeta parla di sé come erede di “duemil’anni forse / di
gente campagnola”21, nato e cresciuto in terra egiziana, “conosciutosi” nella Parigi di Apollinaire e
Bergson e infine “riconosciutosi” nella guerra e nella patria ritrovata, emblematizzata nell’Isonzo.
Nel fiume goriziano, che gli ha permesso di sentirsi “una docile fibra/ dell’universo” ha “ripassato/
le epoche/ della (sua) vita”22, ha cioè recuperato il proprio passato, ricomponendone, nel presente, la
frammentarietà, attraverso un processo di attualizzazione di esperienze lontane e diverse, riunificate
ora nel fiume dell’esperienza attuale. I fiumi assenti della memoria, il Serchio, il Nilo, la Senna,
sono qui convocati, facendoli rivivere e riacquistando presenza nel fiume della guerra (“Questi sono
i miei fiumi/ contati dell’Isonzo”23) .
La strofa di chiusura, infine, dichiara inappropriabile il passato, definendo “nostalgia” lo sguardo
rivolto ad esso e ratificando l’oscura indecifrabilità della vita, identificata con il buio della notte:
“Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre”24
In una nota di preparazione all’edizione definitiva delle proprie opere, Ungaretti stesso dichiarerà
che “l’esperienza poetica è l’esplorazione d’un personale continente d’inferno, e l’atto poetico, nel
compiersi, provoca e libera, qualsiasi prezzo possa costare, il sentire che solo in poesia si può
cercare e trovare libertà”25. In tal senso, questa lirica è utile per ricavare addirittura una definizione
ungarettiana della poesia: “La poesia è scoperta della condizione umana nella sua essenza, quella
d’essere un uomo d’oggi, ma anche un uomo favoloso [...]: nel suo gesto d’uomo, il vero poeta sa
che è prefigurato il gesto degli avi ignoti nel seguito di secoli impossibile a risalire, oltre le origini
del suo buio”26.
Bibliografia
1
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti, 1963
2
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti, 1963
3
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963
4
Ungaretti G. Eterno, L’Allegria, 1931
5
Ungaretti G. L’estetica di Bergson
6
Ungaretti G. L’estetica di Bergson
7
Ungaretti G. Ragioni di una Poesia
8
Ungaretti G. Ricordo D’Affrica,L’Allegria, 1931
9
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti, 1963
10
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963
11
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963
12
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963
13
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963
14
Ungaretti G. Lettere a Prezzolini, 1911-1969
15
Ungaretti G. In Memoria, 1916
16
Ungaretti G. Il Porto Sepolto, 1916
17
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963
18
Ungaretti G. I Fiumi, L’Allegria, 1931
19
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963
20
Ungaretti G. I Fiumi, L’Allegria, 1931
21
Ungaretti G. I Fiumi, L’Allegria, 1931
22
Ungaretti G. I Fiumi, L’Allegria, 1931
23
Ungaretti G. I Fiumi, L’Allegria, 1931
24
Ungaretti G. I Fiumi, L’Allegria, 1931
25
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963
26
Ungaretti G. Ungaretti commenta Ungaretti,1963