Un`altra chance per Ignazio Marino, sindaco involontario
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Un`altra chance per Ignazio Marino, sindaco involontario
su www.europaquotidiano.it NICOLA MIRENZI PAOLA BENEDETTA MANCA FRANCESCO MAESANO MARIA GALLUZZO FEDERICA CANTORE FABRIZIA BAGOZZI Calabria, la destra in guerra con se stessa Emilia-Romagna, lo spettro del non voto Vigilanza: niente piano Rai senza il nostro ok Gerusalemme, l’appello del patriarca Twal House of Cards, cosa ha svelato Dobbs a Roma La ’ndrangheta, al nord, blitz con 40 arresti I COMMENTI DI WWW.EUROPAQUOTIDIANO.IT MERCOLEDÌ 19 NOVEMBRE 2014 QQ AUSTERITÀ QQ JOBS ACT QQ IL CASO ROMA Provare a capire le ragioni della Germania C’è l’accordo, l’articolo 18 ora non è più un tabù QQ ROBERTO QQ SOMMELLA QQ RAFFAELLA QQ CASCIOLI Un’altra chance per Ignazio Marino, sindaco involontario P spettando il giudizio della Commissione Ue sulla legge di stabilità e sul piano di riforme, il governo e il parlamento battono un colpo sulla riforma del mercato del lavoro che a questo punto può finalmente mettere le ali. Il Jobs act ha ieri superato lo scoglio più difficile, quello sull’articolo 18, e ci si è riusciti dopo settimane di mediazione e di pontieri Pd, ma anche ricorrendo al classico uovo di colombo. Con la riformulazione depositata dal governo di un emendamento Pd a prima firma Marialuisa Gnecchi si è limitato il diritto al reintegro nel posto del lavoro ai licenziamenti «nulli e discriminatori» e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato qualora il giudice dia torto all’azienda. Sui licenziamenti economici niente reintegro ma un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio. Potrebbe sembrare una vittoria di Pirro per quella parte di Pd che fin qui ha chiesto modifiche al Jobs act e una facile concessione del governo. Così non è: ognuno ha ceduto qualcosa visto che i licenziamenti e l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori entrano direttamente nel ddl delega. Non era scontato e il presidente della commissione Lavoro della camera Cesare Damiano lo ha spiegato ieri: «Siamo partiti dall’idea di mantenere la tutela per i soli licenziamenti discriminatori, come sostenevano taluni esponenti del governo, e siamo arrivati ad includere anche i licenziamenti disciplinari». Certo, era su questo che c’era stato l’accordo nella direzione del Pd di fine settembre ma Ncd era già salita sugli scudi. L’impianto non è cambiato, anche se i decreti attuativi vanno ancora scritti, ma per un giorno sono stati tutti d’accordo. La minoranza del Pd che ha visto riconosciute le proprie richieste, Ncd che con Sacconi era pronta a mettere paletti ma ora parla di accordo rispettato, il governo che è riuscito a non vedere stravolta una riforma che in Europa può rappresentare il discrimine tra un giudizio positivo e la richiesta di modifiche alla legge di stabilità. @raffacascioli er cercare di capire i tedeschi e la loro storica predisposizione all’austerità bisogna anche leggerli. Fred Uhlman, nel suo libro Storia di un uomo, descrive alla perfezione la Germania degli anni Venti che si preparava a diventare terreno di conquista del nazismo. «I negozi erano vuoti, l’inflazione alle stelle. Per sapere cosa significhi bisogna aver vissuto in Germania nel biennio 1922-23. Provatevi a spiegare a un cieco che cos’è la neve: ecco, la difficoltà è la stessa. Le conseguenze economiche sono facilmente intuibili, ma descrivere le sensazioni che si provano in mezzo a un maelstrom è tutt’altra cosa. Fu un’abile e brutale manovra del governo per rendere impossibile il risarcimento dei danni di guerra? Tutto quello che so è che una settimana mio padre mi spediva un milione di marchi, con i quali (se ero fortunato) potevo comprarmi del cibo, che la settimana dopo erano dieci milioni, poi cento milioni, poi ancora mille milioni e alla fine migliaia di milioni o un miliardo, con il quale non compravo quasi nulla». «La classe media – scrive ancora il celebre autore de L’amico ritrovato - era quasi tutta in rovina. Se si usavano le banconote come carta da parati si risparmiava. Ho visto con i miei occhi una stanza interamente ricoperta di biglietti da un milione di marchi, che si usavano anche per accendere i sigari. Il castello di Elz era in vendita per 427 dollari (trattabili), si acquistava una fabbrica per 250.000 marchi, pagandola poi in seguito con del denaro che forse valeva cento volte meno. Nessuno voleva saperne di cartamoneta. Nel 1923 il corso del marco fu stabilizzato: ora un miliardo valeva un Deustchemark. L’impressione di quegli anni d’inflazione è rimasta in me come una traccia indelebile. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, ho paura di svegliarmi una mattina con una banconota da un milione di marchi in mano». segue A QQ STEFANO QQ MENICHINI P er usare un eufemismo, o per semplificare il quadro, diciamo che Ignazio Marino ha due problemi davanti a sé: uno, grave, con la politica romana a cominciare dal proprio partito; e un altro, gravissimo, con i cittadini, certificato da sondaggi disastrosi. Le sue possibilità di andare avanti nell’avventura da sindaco sono legate in questo momento alla soluzione del primo problema. Nella speranza che nel tempo si ricostruisca un rapporto positivo e si recuperi l’attuale (abissale) gap di consenso intorno all’amministrazione di centrosinistra. Sul primo punto era chiarissimo, anche prima del difficile ma orgoglioso discorso sul Multagate nell’aula Giulio Cesare, che il sindaco non intende lasciare il Campidoglio e il Pd non ha la forza, e quindi neanche la voglia, di scalzarlo. Ci sarà un serio scossone a livello di giunta comunale e, attraverso oculate rimozioni e promozioni, si celebrerà il riavvicinamento tra il sindaco e il suo partito assai scontento: si capiva bene dalle stesse parole del discorso. Come sempre, è in gran parte una questione di ridistribuzione di potere: Marino plebiscitato dagli elettori nel giugno 2013 ne ha lasciato pochissimo al Pd, il quale ha ricambiato con la moneta peggiore, ovvero la rivendicazione di posti (invece che di politiche) e l’ostruzionismo autolesionista. La ricostruzione di un rapporto almeno decente passa anche attraverso un’operazione verità sulla domanda «chi ha scelto Marino?» alla quale ora danno tutti la stessa risposta data giorni fa dall’indiziato numero uno, ovvero Goffredo Bettini: «Io, no». La verità è che Marino lo hanno scelto gli elettori (col 64 per cento dei voti) contro un catastrofico Alemanno, dopo primarie vinte largamente in un clima di grande simpatia verso “il marziano”. Il quale marziano, però, non è atterrato sul pianeta Campidoglio con l’entusiasmo necessario all’impresa. Questo è il punto taciuto, forse l’origine del problema, alla quale tornare brevemente. Prima di diventare sindaco, per tutti i primi mesi del 2013 il senatore-chirurgo fu infat- ti ministro della sanità in pectore di un governo Bersani che, a cavallo delle elezioni di febbraio, pareva prima sicuro poi almeno possibile, per infine svanire come è noto. Questa (giustificata) ambizione spinse Marino prima a scartare la competizione per la Regione Lazio, dove pure le sue competenze sanitarie avrebbero avuto modo di dispiegarsi, costringendo alla scelta di un recalcitrante Nicola Zingaretti (lui sì invece desideroso di salire al Campidoglio, nelle more della sua lenta costruzione di una leadership nazionale); poi a una attesa snervante (per l’ambiente politico romano) prima della decisione di candidarsi alle primarie. C’è ancora chi ricorda, di quelle settimane, le angosciose pressioni sul senatore perché sciogliesse la prognosi, mentre la crisi di governo si trascinava verso il famoso «impossibile» incarico a Bersani. Dunque in quei mesi del 2013, vibranti di sentimenti anticasta, Marino “l’alieno” era perfetto per qualsiasi gara. Una volta decisosi, quella per il Campidoglio la vinse senza sforzo. Poi però il vento del rinnovamento radicale s’è posato e il sindaco non s’è reso conto di dover ricorrere ad altre capacità per rimettere in piedi un ambiente amministrativo e politico devastato. In tempi di tagli al bilancio e di insofferenza a presa rapida, non c’è voluto molto perché in città il vento tornasse ad alzarsi, stavolta tutto in senso contrario. Ora il Pd, e lo stesso sindaco, devono reggere nella tempesta, in parte spontanea e in parte alimentata. Dopo Tor Sapienza s’è rivisto Alemanno marciare nelle strade ma la verità è che perfino a Roma, perfino in questa situazione al limite del fallimento, una vera opposizione politica al centrosinistra non esiste, a meno di non voler considerare i drappelli con caschi, passamontagna e bastoni. Anche per questa assenza di alternative, il problema meramente “politico” non è impossibile da risolvere. Sotto la guida di Lionello Cosentino il Pd locale – primo responsabile dell’evoluzione delle cose, compresa come s’è visto la stessa candidatura di Marino – sta lentamente cercando di emanciparsi dai propri peccati atavici. E Marino qualche atout da giocarsi la ha, avendo gestito bene la trattativa col governo per il rientro dal dissenso finanziario, le partite sul risanamento (ancora eventuale) di Atac e Ama, l’incontro/scontro con i poteri forti immobiliari sulle concessioni per il nuovo stadio della Roma calcio, a Tor di Valle. segue Il Pd non può e non vuole licenziare il sindaco. Che solo nel 2013 pareva buono per tutto EDITORIALE Il problema di Bonaccini? Lo stesso di Renzi QQ MARIO QQ LAVIA S embra proprio che domenica in Emilia-Romagna non andrà a votare molta gente. I fatti locali – gli avvisi di garanzia, le telefonate intercettate, le spese incaute – c’entrano ma fino a un certo punto. Infatti nemmeno in Calabria, l’altra regione chiamata al voto, c’è grande passione. Per usare un termine blando, l’Italia è distratta da problemi che con la politica sembrano non incontrarsi: le alluvioni, gli scandali, le periferie. Di qui la percezione che la vita reale e l’agenda politica scorrano su binari paralleli. È una sensazione, diffusa e molto pericolosa, che sta all’origine delle difficoltà di Ignazio Marino (per altri versi e in misura diversa, di Luigi de Magistris, di Giuliano Pisapia, per non parlare di Marco Doria); che segna la campagna elettorale di Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna; ma che comincia a lambire la stessa premiership di Matteo Renzi. Per innumerevoli ragioni, non siamo alla vigilia di una crisi politica. Ma non bisogna trascurare i segnali di impazienza e di scetticismo di un’opinione pubblica che ha giustamente fretta di vedre risultati concreti. Si vive sempre come se si fosse alla vigilia di qualcosa, dinanzi a un conato che non diventa mai fatto reale. Va bene, dunque, l’accordo sul Job act (che fra l’altro ricompatta il Pd ad eccezione del “correntino” Boccia-Civati-Fassina); bene l’accelerazione sul nuovo Italicum; bene l’incardinamento della legge di stabilità. Eppure manca qualcosa. La verità è che c’è un clima generale che non migliora, un mix di nervosimo incertezza rassegnazione, un impasto che si solidifica e si frappine fra la società e la politica, soffiando nelle vele della vecchia-nuova destra, dell’antipolitica ma ormai anche in qualcosa di potenzialmente antidemocratico. È la cosiddetta “realtà”, che quando assume queste sembianze deve mettere davvero paura. Anche ai premier più brillanti e baldanzosi. @mariolavia Chiuso in redazione alle 20,30 su www.europaquotidiano.it MERCOLEDÌ 19 NOVEMBRE 2014 • • • AU ST E R I TÀ • • • Provare a capire le ragioni della Germania SEGUE DALLA PRIMA ROBERTO SOMMELLA F orse lo stesso terrore del celebre scrittore pervade oggi il gabinetto di Angela Merkel, ancora una volta ferrea al G20 di Brisbane su ogni mossa che rallenti il rigore sui conti e sorda alle esigenze della Banca centrale europea di Mario Draghi, che di continuo annuncia di essere pronta a fare qualcosa di più per tirare fuori l’Europa dalle secche della recessione. Si può fare qualcosa per convincerli che questa assurda strategia porterà alla rovina dell’Unione e con essa anche della stessa Germania? Forse ci vorrebbe uno psichiatra più che un pool di saggi economisti, per far innestare la marcia indietro a Berlino, ma delle ragioni per avere paura dell’ascesa dei prezzi e dei tassi d’interesse i tedeschi – vista la loro storia passata e recente – ce l’hanno. I numeri della loro econo- mia non sono infatti così invidiabili come si pensa. Tenendo conto dell’inflazione, nel 2013 i tedeschi hanno guadagnato meno che nel 1999. In termini di Pil pro capite corretto per il potere d’acquisto – ha calcolato in uno studio Philippe Legrain, ex consigliere economico di Josè Barroso – la Germania è un po’ più ricca del Regno Unito, ma meno di altre dodici economie avanzate tra cui Australia, Austria, Canada, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera e Stati Uniti. Certo, dopo la crisi l’andamento dell’economia dei lander è stato meno disastroso ma occorre sfatare un mito: è stato meno travolgente di quanto si pensi. Rispetto a sei anni fa, la Germania è cresciuta del 3,6% (era il 5% nel 2013), mentre Svizzera e Svezia sono cresciute entrambe del 7%. Persino gli Usa, epicentro e causa della pandemia finanziaria, hanno avuto una crescita maggiore. Dal 2000 la prospettiva cambia ancora, in peggio. Berlino ha inseguito la crescita più che cavalcarla o dirigerla. Fino ad un anno fa il suo Pil è aumentato del 15%, appena l’1,1% all’anno: nella stessa misura della Francia (non proprio un esempio di tigre produttiva), ma molto meno del regno Unito (21%), degli Stati Uniti (25%) e perfino dei pigri e ad un passo dal default paesi latini (19% la Spagna) e dell’Irlanda (30%). Tra i 18 paesi dell’eurozona la Germania è al tredicesimo posto. Col segno meno da tempo anche gli investimenti: sempre negli ultimi tredici anni, essi sono calati dal 22,3% al 17% del Pil, mentre quelli pubblici sono appena dell’1,6% del Pil, tanto che molti istituti segnalano un drastico depauperamento delle infrastrutture tedesche, dai canali (quello di Kiel è stato temporaneamente dichiarato inagibile) ai ponti. Non va meglio anche la formazione professionale. Il paese della Merkel spende il 5,7% del Pil in istruzione e formazione, meno della Francia e di molti altri paesi, compreso il Regno Unito. Il numero dei nuovi apprendisti è sceso ai livelli minimi del 1990 e tra i giovani ci sono addirittura meno laureati (29%) che in Grecia (34%). Invece non si è badato a spese per sostenere le banche: lo Stato ci ha messo la bellezza di 250 miliardi di euro. Tutto si tiene in piedi grazie ad una volontà ferrea di mantenere alta la produttività ma senza il boom del settore manifatturiero (il secondo al mondo dopo la Cina) il surplus delle partite correnti probabilmente sarebbe molto minore. Se questa fotografia descrive bene la Germania degli ultimi dieci anni, è comprensibile come il problema dei prezzi e del loro lento ed inesorabile abbassamento fino ad arrivare alla deflazione, resti del tutto in subordine per l’esecutivo di Berlino: non è un problema loro perché non lo hanno mai conosciuto. Ma sulla pelle hanno ancora le stimmate, così perfettamente raccontate da Uhlman, dell’inflazione terrificante del ’22 e di tutto ciò che di terribile ne conseguì. @SommellaRoberto ••• IL CASO ROMA ••• Un’altra chance per Ignazio Marino, sindaco involontario SEGUE DALLA PRIMA STEFANO MENICHINI P eccato che non siano dossier di altissima popolarità (tranne forse quello sullo stadio, ma non prima della posa della prima pietra), e che dunque per Marino e per l’intero Pd – anche nazionale – rimanga totalmente insoluto il problema del rapporto con la città non politica, cioè con i romani ormai sprofondati nello scetticismo di cui sono campioni mondiali (perché questo è il vero clima, certo pessimo, nella Capitale: le immagini e le notizie di violenza si allargano dal loro epicentro all’intero solo mediaticamente, e Roma non è una città fremente, casomai è una città delusa e rassegnata). Sulla carta il sindaco ha tre anni davanti a sé per ritrovare il feeling perduto. In realtà ha molto meno tempo. Molti pochi soldi. Molte poche personalità di spicco delle quali circondarsi, ammesso che riesca a smontare l’entourage che l’ha malamente difeso fin qui. Se non altro, come prime mosse, dovrà liberarsi dalla sindrome dell’assedio e moltiplicare le puntate pericolose come quella della trasferta e della successiva trattativa su Tor Sapienza. L’altra arma di Marino, la denuncia delle resistenze incontrate da parte dei poteri e delle clientele cittadine, deve inverarsi in misure tangibili, ancora più evidenti di quelle prese contro l’abusivismo nel commercio e contro la corruzione nelle municipalizzate. A palazzo Chigi e al Nazareno sono preoccupati ed esigenti, ma non staccano la spina. Chi scalda i motori sperando in elezioni anticipate, come il sempiterno Alfio Marchini, non può però ottenerle finché non è il Pd a deciderle. E il Pd non le vuole. Può darsi che finora, perfino nella propria testa, Marino non sia stata la persona giusta al posto giusto. Però le circostanze gli offrono un’altra chance e lui può ancora stupirsi, e stupire. @smenichini