file - Museo dell`automobile

Transcript

file - Museo dell`automobile
PARIGI – MADRID 1903. Una corsa che non ebbe arrivo
“Ma il treno…quello era esatto, era tempo divenuto ferro, ferro in corsa su due
binari, sequela precisa di prima e di poi, incessante processione di traversine…e
soprattutto…velocità…velocità. La velocità non perdonava. Se c’erano sette minuti
di differenza tra l’ora di qui e l’ora di là, lei li rendeva visibili…pesanti…Anni di
viaggi in carrozza non erano riusciti a scoprirli, un solo treno in corsa poteva
smascherarli per sempre. La velocità. Gli dev’essere scoppiata dentro, a quel mondo,
come un urlo represso per migliaia di anni. Niente deve essere sembrato uguale a
prima quando arrivò la velocità. Tutte le emozioni ridotte a piccole macchine da
ritarare. Chissà quanti aggettivi si rivelarono improvvisamente scaduti. Chissà
quanti superlativi si sbriciolarono in un attimo, tutto d’un colpo tristemente
ridicoli… Di per sé il treno non sarebbe stata gran cosa, non era poi che una
macchina…questo però è geniale: quella macchina non produceva forza, ma
qualcosa di concettualmente ancora sfumato, qualcosa che non c’era: velocità. Non
una macchina che fa ciò che mille uomini potrebbero fare. Una macchina che fa ciò
che prima non era mai esistito. La macchina dell’impossibile”.1
A settant’anni dall’invenzione del treno, la prima automobile rese la velocità
un’emozione individuale, privata, godibile a piacimento. Improvvisamente la
velocità, questo démone incapace di perdono, vertigine dell’impossibile, diventava
dominabile, la si poteva creare a volontà, goderne a rischio della morte, fondendo in
un unico attimo stordente tutto quanto avvince l’animo umano: il pericolo, la
competizione, la vittoria, lo sfiorare la morte, dominare qualcosa, giocare sull’orlo
dell’abisso…
Per questo l’automobile nacque automobile da corsa. Dalla Parigi – Rouen del 1894,
prima corsa al mondo, alla Parigi – Bordeaux, e poi Parigi – Marsiglia, Dieppe,
Amsterdam, alla Parigi – Berlino del 1901, seguita l’anno seguente dalla Parigi –
Vienna, ogni volta aumentava l’entusiasmo e la febbre della velocità. Per il 1903
l’Automobile Club di Francia propose ancora una grande traversata dell’Europa,
stavolta però verso Sud: la Parigi – Madrid.
In realtà, il governo francese non era entusiasta dell’idea. Dopo la Parigi-Berlino del
1901 l’allora Ministro dell’Interno M. Waldeck Rousseau aveva dichiarato che il
governo non avrebbe più autorizzato alcuna gara del genere. E’ vero che questa
proibizione era stata rispettata sporadicamente; inoltre, stavolta, era giunta notizia,
tramite gli ambasciatori spagnoli di stanza nella capitale francese, che il Re di Spagna
Alfonso XIII aveva dato il suo consenso. Si cominciò a dire che la ritrosia francese
poteva essere male interpretata dai cugini spagnoli. Il Barone de Zuylen, Presidente
dell’Automobile Club de France, dichiarò che la Francia era sempre stata
all’avanguardia del progresso e che erano proprio le corse a testimoniarlo. Si scatenò
una discussione in Parlamento. Il Presidente del Consiglio, M. Combes, dichiarò che
le strade erano pubbliche e non le si poteva utilizzare a piacimento per corse ed
interessi privati. Ma il Barone de Zuylen e il Marchese De Dion aspettavano soltanto
questo argomento per sottolineare quanto le corse fossero volute proprio dalla
popolazione, e che tutti i sindaci di Francia reclamavano il passaggio di qualche
1
competizione nei loro paesi. Furono snocciolate le cifre dell’industria automobilistica
francese, che traeva grande giovamento dalla pubblicità delle corse. Venticinquemila
operai lavoravano in questo settore, il più forte del mondo, che vantava un flusso di
esportazioni del valore di 16 milioni di franchi all’anno. Non si potevano tarpare le
ali ad una colonna portante dell’economia francese. Il Governo capitolò. Il 17
febbraio una riunione del Consiglio dei Ministri, presieduta dal Presidente della
Repubblica, autorizzò solennemente la corsa, conferendo all’evento un’inaspettata
consacrazione.
Le iscrizioni erano già aperte dal 15 gennaio, e al 26 febbraio si contavano circa 300
concorrenti: un successo incredibile. Il valore delle macchine iscritte era calcolato sui
sette milioni di franchi. L’itinerario prevedeva un percorso di 1307 chilometri, diviso
in tre tappe: Versailles – Bordeaux (552 km), Bordeaux – Vitoria (km 335) e Vitoria
– Madrid (420 km). Intanto le riviste automobilistiche parigine (“France
Automobile”, “La Locomotion”, “La Vie Automobile”) cominciarono a pubblicare il
regolamento. La Parigi – Madrid, corsa internazionale organizzata dall’Automobile
Club di Francia in collaborazione con l’Automobile Club di Spagna, era aperta a
quattro categorie di veicoli: da 650 a 1000 kg; da 400 a 650 kg; da 250 a 400 kg; 50
kg o meno. Questi ultimi pagavano solo 50 franchi per l’iscrizione; per gli altri la
tassa richiesta variava da 400 a 200 franchi. Nelle due prime categorie il pilota
doveva essere affiancato da un meccanico, per un peso minimo di 60 kg, e non poteva
cambiare per tutta la durata della corsa. Il peso, criterio determinante della gara, era
da calcolarsi a vuoto, ossia senza conducente e meccanico, benzina, accumulatori,
olio, pezzi di ricambio, utensili, vettovaglie, bagagli. Si potevano perfino dedurre dal
peso fari, portafari e claxon. Se la vettura era dotata di un dispositivo aggiuntivo per
l’accensione, poteva disporre di una franchigia ulteriore di 7 kg.
L’ordine di partenza sarebbe stato stabilito a sorteggio per le vetture iscrittesi tra il 15
gennaio e il 15 febbraio; per quelle iscrittesi successivamente, l’ordine di partenza era
stabilito in base all’ordine di iscrizione. Questo fu un punto cruciale per il fallimento
della gara, come vedremo. La partenza era fissata per domenica 24 maggio, alle 3,30
del mattino, dai Giardini di Versailles: le vetture sarebbero partite scaglionate alla
distanza di due minuti l’una dall’altra (non avverrà così). La corsa si svolgerà –
recitava testualmente il regolamento – sotto il regime dei parchi assolutamente
chiusi. Con questa espressione si intendeva che le vetture, all’arrivo di ogni tappa,
sarebbero state condotte in recinti sorvegliati, dove non era ammessa, pena
l’esclusione dalla corsa, nessuna operazione: né rifornimenti, né tantomeno
riparazioni. Tali operazioni dovevano avvenire esclusivamente in corsa. Inoltre,
all’arrivo in ogni città, la vettura veniva obbligatoriamente presa in consegna da un
commissario di gara che, in bicicletta e perciò a velocità ridotta, l’avrebbe
accompagnata lungo tutto l’attraversamento urbano, fino all’uscita della città. Si
trattava dei cosiddetti percorsi neutralizzati. Ogni macchina sarebbe stata dotata fin
dall’inizio di una cassetta in metallo, tipo “buca delle lettere”, sigillata, dentro cui ad
ogni neutralizzazione veniva immesso un foglio recante l’ora di entrata e di uscita
dalla città. Questo avrebbe permesso, a percorso ultimato, di calcolare l’esatto tempo
impiegato a percorrere l’itinerario di gara, escludendo gli attraversamenti urbani. Era
2
una misura prudenziale, studiata per evitare che le vetture passassero in velocità nei
centri abitati, dove si presumeva potessero verificarsi più facilmente degli incidenti
per la presenza di pubblico o anche solo di passanti ignari.
Stabilito il regolamento, si cominciò a parlare delle strade. Versailles – Bordeaux era
ormai un percorso classico dell’automobilismo sportivo: aveva già ospitato gare nel
1895 e nel 1901 vi si era svolta un’edizione della Coppa Gordon Bennett, famosa
competizione automobilistica internazionale. Bordeaux – Vitoria presentava invece
maggiori insidie, per il susseguirsi di curve, ponti, passaggi a livello, tratti a schiena
d’asino o con pavé in pessime condizioni. L’ultima frazione era considerata la
migliore, tale da permettere le maggiori velocità, anche se destava apprensione la
salita a tornanti della Sierra Guadarrama.
Il totale degli iscritti fu di 315. Ne partirono effettivamente 224, di cui 88 vetture tra
650 e 1000 chili; 49 vetture leggere, tra 400 e 650 chili; 33 vetturette, al di sotto di
400 chili; 54 motociclette. Erano presenti tutti i migliori…e anche tutti gli altri.
Spiccavano le poderose Panhard Levassor a quattro cilindri, da 70 cavalli, capaci di
una velocità tra i 125 e i 130 km/h, e che potevano schierare piloti come René de
Knyff, Henri e Maurice Farman, Pierre de Crawhez, Charles S. Rolls. Seguivano le
Mors, dalla carrozzeria a bateau, con un radiatore che faceva sensazione perché tra i
primi a “spartivento”, di 90 cv di potenza e 140 km di velocità massima. Le
pilotavano assi come Henry Fournier, William K. Vanderbilt, Fernand Gabriel, il
barone de Forest. Non sfigurava la Mercedes, presente con undici vetture da 60 e da
90 cavalli; e neanche la De Diétrich, che schierava i suoi modelli più potenti, pari
soltanto alle Gobron Brillié, alle Charron Girardot, alle Napier, tutte marche
ugualmente presenti. Tra le vetture leggere puntavano alla vittoria anche le Renault,
pilotate dai due fratelli Marcel e Louis, le Darracq, le De Dion Bouton, le Clément,
Richard, Décauville, e due Fiat 2, con piloti del calibro di Vincenzo Lancia e Luigi
Storero.
E finalmente, come sempre, arrivò il grande giorno. Ormai i giornali avevano esaurito
la loro scorta di aggettivi e di immagini per descrivere l’entusiasmo e l’emozione
suscitati da questa corsa. Ogni confronto con il passato sembrava impossibile. “Solo
il termine colossale – scrisse Paul Meyan su France Automobile – può rendere
efficacemente l’inaudita partecipazione di folla. Furono più di centomila i parigini
che si recarono a Versailles per la partenza, disponendosi lungo la strada del percorso
per più di cento chilometri. Le stazioni della capitale Montparnasse e Sainte Lazare,
da cui partivano i treni per Versailles, erano state prese letteralmente d’assalto. La
cittadina alle porte di Parigi, alle due del mattino di una giornata che si rivelò
caldissima, sembrava essere tornata ai fasti del Re Sole, illuminata e affollata
com’era. Un pubblico immenso si assiepava intorno alle vetture, ansioso di toccarle,
di riconoscere i piloti, di ascoltare il rumore del motore. Fu impossibile dare la
partenza all’ora prefissata, e quando si riuscì, si decise di intervallare le macchine di
un minuto, anziché di due, per evitare che il cerimoniale della partenza durasse fino a
mezzogiorno (terminerà alle 6.45, dopo tre ore).
Fu questo l’atto di inizio di una confusione terribile. Prese la partenza per prima la De
Diétrich di Jarrott, mille kg di peso, 45 cv, seguita dalla Panhard Levassor di De
3
Knyff, da 70 cv, dalla Renault di Louis Renault (650 kg, 30 cv), la Décauville di
Théry (640 kg, 24 cv), un’altra possente de Diétrich, seguita da una Mors, una
Panhard e una Passy Thellier, di appena 400 kg e 16 cv. E così per ore, con i
guidatori immersi fin da subito in una spessa, fastidiosissima nube di polvere. Non
pioveva da due settimane, e se il primo tratto di strada era stato meticolosamente
innaffiato, già ad un chilometro dalla partenza la visibilità era scarsa, se non
impossibile. I piloti, accecati dalla polvere, erano costretti inoltre a scarti continui per
evitare gli indisciplinati spettatori, che temerariamente si facevano trovare in mezzo
alla carreggiata e non si scostavano se non all’ultimo, pur di poter vedere prima degli
altri di che macchina si trattasse e da chi fosse guidata. Questo zigzagare quasi alla
cieca proseguì fino al primo controllo di Rambouillet, e ancora fino a Chartres, poi
finalmente la folla si diradò. A Chartres arrivò primo Louis Renault, grazie ad una
andatura forsennata, seguito da Jarrott, de Knyff, Théry e Stead; stavano intanto
conquistando posizioni sia Jenatzy, su Mercedes, sia Gabriel, su Mors, che aveva
superato venticinque concorrenti. A Poitiers, circa metà del percorso, incalzava
anche Marcel Renaul che, partito sessantatreesimo, si era portato tra i primi. A
Bordeaux, termine della prima tappa, Louis Renault è primo e vi arriva alle dodici,
seguito da Jarrott, che arriva a mezzogiorno e mezzo, Gabriel, Salleron, Baras, de
Crawhez, Warden, Rougier, Jenatzy, Voigt, in un ordine d’arrivo che non coinciderà
con quello di classifica per le diverse ore di partenza.
I primi arrivati sono storditi per il caldo, la fatica e l’enorme stress di guidare
macchine pesantissime in mezzo alla polvere, alla folla e su strade impossibili; ma
soddisfatti per l’exploit, ignari di quanto successo a tanti loro compagni di avventura.
Le notizie filtrano lentamente, man mano che le ore passano. Dapprima sono notizie
di incidenti senza gravi conseguenze: la Mors di Vanderbilt ha dovuto ritirarsi per la
rottura di un cilindro; il barone de Caters, sulla sua Mercedes, nell’inseguimento di
Jarrot e Renault, ha preso in pieno un albero e ha dovuto fermarsi per riparare la
vettura. Con il trascorrere del pomeriggio, però, arrivano notizie ben più gravi, prima
sussurrate, poi come un’onda che monta sempre più minacciosa, fino a stendere su
tutto un sudario di morte. Si parla di una donna ferita mortalmente nei pressi di Ablis.
Arrivano le prime testimonianze dell’incidente occorse a Marcel Renault, avvenuto
nei pressi della cittadina di Cohué Vérac e che lo aveva lasciato inanimato sulla
strada (morirà di lì a quarant’otto ore, senza più riprendere conoscenza). C’è chi
racconta della Wolseley di Porter che, trovandosi inaspettatamente la strada sbarrata
da un passaggio a livello, si è capottata due volte incendiandosi e provocando la
morte del meccanico. Si racconta che all’entrata di Angouleme Georges Richard sia
andato a sbattere contro un albero, per evitare un contadino che ingombrava la strada;
che all’uscita della stessa città Tourand, su Brouhot, abbia perso il controllo della
macchina. Un coraggioso soldato, Dupuy, slanciandosi per salvare un bambino, viene
investito in pieno dalla macchina che lo uccide sul colpo (ma il bambino è salvo), per
proseguire nella sua corsa incontrollata, arrivare sul pubblico e uccidere anche uno
spettatore. Giunge anche notizia che a Saint Pierre di Palais Stead, sulla grossa De
Diétrich, nel sorpassare una vettura è finito in un fosso, e si è ferito. Che Loraine
Barrow su una de Diétrich, già partito in cattive condizioni di salute (ma il
4
regolamento imponeva la presenza del pilota denunciato al momento dell’iscrizione),
ha perso il controllo e si è schiantato contro un albero, ferendosi e uccidendo il suo
meccanico, mentre la macchina è letteralmente esplosa in mille pezzi… Ma si sa
anche che si sono fermati per incidenti o avarie Rolls, sulla Panhard Levassor,
Mayhew sulla Napier, Maurice Farman sulla Panhard, Herbert Austin e Sidney
Girling entrambi su Wolseley, Béconnais su Darracq.
L’eco degli incidenti e dei morti arriva in Parlamento, a Parigi. Il Consiglio dei
Ministri si riunisce d’urgenza, la decisione è di sospendere la corsa, e di farla
riprendere in territorio spagnolo. Di lì a qualche ora, però, anche il governo spagnolo
si allinea alla decisione francese: la corsa finisce a Bordeaux.
La fine è ingloriosa. Gli ordini del governo francese sono perentori: nessuna
macchina deve essere rimessa su strada, bensì trainata (“come condannati a morte”,
commenterà uno spettatore) fino alla stazione più vicina e riportata nella capitale in
treno. Un senso di lutto e di scoramento si impadronì di tutti gli animi. Si intuì di
essere giunti ad una svolta, nell’automobilismo sportivo: certamente qualcosa sarebbe
cambiato, perché qualcosa era finito per sempre.
Ma in definitiva cos’era successo veramente? Fu difficile capirlo, nel coro di
commenti, condanne, anatemi, accuse che straripavano dai giornali dei giorni
successivi. Si chiese di sospendere tutte le corse automobilistiche, di regolamentare
rigidamente la circolazione ordinaria delle automobili, di mettere al bando velocità
superiori ai 40 km/h, anche in gara. “Le Temps”, periodico francese, scrisse che “La
corsa cessa dunque di essere un mezzo per diventare un fine. Si nutre di se stessa.
Come Saturno, essa divora i propri figli”. “La Presse”, periodico sportivo, ospitò un
editoriale del direttore Léon Bailby, meno catastrofico: “Innanzitutto, dalla lista delle
vittime, che è stata scientemente ingrossata3, cancelliamo i nomi dei corridori. Essi
non desiderano né di essere compatiti né di essere vendicati…Restano le vittime
involontarie. Esse meritano tutta la nostra compassione…Ma, purtroppo, è questa la
legge del progresso! Non sarebbe terribilmente reazionario, per gli incidenti mortali
che si sono verificati in quest’occasione, proibire ogni altra prova?”. La “Petite
République”, organo socialista, si distinse da tutti gli altri giornali perché scrisse un
inno al significato comunista dell’oggetto automobile, in quanto affrancava l’uomo
dalla fatica e dalla soggezione ad altri (per esempio, da un cavallo). Non c’entrava
nulla, ma era tanto per partecipare. “La Liberté””, invece, si schierava decisamente a
favore della prosecuzione delle corse, di ogni tipo di corsa automobilistica. “La
Francia si distingue, alla testa delle popolazioni civilizzate, per questa febbre
automobilistica…Sono tutte conquiste francesi. Costano delle vite. Ma sono
portatrici di un po’ di fierezza, un po’ di gloria al nostro paese”. La “Locomotion
Automobile”, periodico del settore e voce autorevole, fu tra i pochi che affrontarono
il problema delle cause degli incidenti. Prima causa: la velocità, una velocità
superiore in molti casi ai 140 km/h, in un’epoca in cui il rapido Parigi – Calais
marciava ad una media di 100 km/h, con punte di 120 km/h. Che un’automobile
potesse andare più veloce di un treno, questo non era proprio ammesso. Seconda, e
principale, causa: la polvere, sollevata da queste enormi macchine lanciate a tutta
potenza. Accecava i conducenti, costringeva ad effettuare i sorpassi quasi alla cieca,
5
impediva di vedere in tempo i segnali di pericolo o di passaggio a livello, rendeva
difficile e faticosa la respirazione, aumentava la sensazione di caldo e afa. Terza
causa: l’intemperanza del pubblico, l’insufficienza del servizio d’ordine. La folla
schierata ai lati della strada spesso e volentieri invadeva la carreggiata, incurante se
non inconsapevole del pericolo mortale. I gendarmi chiamati a tenere l’ordine
sembravano spesso altrettanto interessati al passaggio delle macchine quanto gli
spettatori che avrebbero dovuto tener lontani dalla strada. Persino il regolamento non
fu privo di responsabilità nell’origine di tanti incidenti. Perché affidare ad un
sorteggio l’ordine di partenza delle automobili, senza nessun pensiero alle cilindrate e
potenze diverse, con il risultato di costringere decine di macchine a continui sorpassi,
con tutti i rischi del caso? Un esempio: il concorrente n. 89, Mouter su de Diétrich,
partì da Versailles 89° ed arrivò a Bordeaux 10°, effettuando, come raccontò su un
giornale nei giorni seguenti, più di cento sorpassi. Gabriel, su Mors, arrivato terzo a
Bordeaux (primo nella classifica parziale, poi diventata definitiva) era partito 168°.
Questo significava mettere i concorrenti in una situazione di sbaraglio. Si pensi alla
situazione di totale caos per aver messo sulla stessa strada, ad appena un minuto
d’intervallo, 137 vetture, 33 vetturette e 54 motociclette, ossia 224 veicoli. E poi:
perché il regolamento non aveva previsto la possibilità di una sostituzione del
conducente? Si disse, a gara chiusa, che Marcel Renault era partito sofferente, ma
aveva comunque dovuto farlo essendogli preclusa la possibilità di farsi sostituire.
Insomma, era la conclusione, bisognava finirla con queste corse su strada, inutilmente
pericolose e prive di significato pratico. Si aggiunse alle altre anche la voce del
marchese de Dion: non era vero che le corse servivano come campo di
sperimentazione per le vetture vendute al pubblico. Le macchine da corsa non
avevano alcun rapporto con quelle da turismo, e una marca vittoriosa nelle
competizioni sportive avrebbe potuto tranquillamente offrire alla propria clientela
vetture di qualità mediocre. Bisognava pensare a gare di resistenza, o di consumo, in
cui a essere sottoposti a verifica fossero quegli aspetti più vicini agli interessi degli
automobilisti comuni. “Le Matin”, quotidiano di Parigi, corroborò questa opinione:
“Ciò che le corse ci potevano dare, ci hanno dato. Cos’hanno in comune le vetture da
corsa con quelle messe in vendita? Sono i fabbricanti stessi che non hanno più
interesse a far correre motori del genere. Le loro conquiste devono essere di ordine
più pratico”. “L’Auto” è più pragmatico: invece di ripetere ciò che scrivono tutti,
comincia a proporre regole nuove per le gare, ossia limitare il numero dei partenti,
adottare altri criteri oltre quello del peso e far svolgere le corse lontano dal pubblico,
senza più cercare la consacrazione, piacevole ma pericolosa, delle folle festanti.
Anche i giornali italiani presero posizione. La “Stampa Sportiva” scrisse, in un
editoriale intitolato “Riconosciamo la verità”: “Una verità balza evidente su questa
penosa serie di esistenze infrante e di vetture fracassate, e questa verità lucida come
un cristallo, tagliente come una spada, si impone alla nostra mente come a quella di
ogni persona di buon senso: le grandi corse automobilistiche su lunghi percorsi
attraverso paesi e città, col meraviglioso progresso che hanno raggiunto oggigiorno
gli automobili, sono divenute pericolosissime e quindi dannose”.
6
“The Car”, settimanale pubblicato a Londra, cercò invece di ristabilire la verità in
merito al numero effettivo di morti (per esempio, risultò infondata la notizia
dell’investimento mortale di una donna) e alla dinamica degli incidenti, a partire da
quello di Angouleme che aveva spinto il governo francese ad intervenire. Si trattava
dell’incidente più grave, in cui erano morti due spettatori, di cui uno, il soldato
Dupuy, intervenuto per salvare la vita ad un ragazzino di nove anni scappato di mano
ai genitori. Si trattò comunque dell’unico incidente in cui furono coinvolti spettatori,
su un percorso di oltre cinquecento chilometri, e per di più causato dall’imprudenza
fatale di un bambino e disattenzione di due adulti. Il passaggio a livello dove invece
si verificò l’incidente di Porter, sulla Wolseley, era in quel momento incustodito.
Nulla segnalò in tempo al pilota la necessità di frenare, ed egli perse il controllo della
vettura. Ma questa è altra cosa che il dire che la vettura diventò incontrollabile “da
sola”: se il passaggio a livello fosse stato, come doveva, debitamente segnalato e
custodito, niente sarebbe successo. Diversa è anche la ricostruzione dell’incidente
occorso a Loraine Barrow: aveva ha perso il controllo della sua vettura perché, per
evitare un cane, ne aveva investito un secondo, e la sua macchina non era esplosa,
bensì, purtroppo, andata distrutta nell’impatto contro un albero. La convinzione che
un motore potesse esplodere o una vettura ribellarsi senza motivo al controllo
dell’uomo era il risultato dell’ignoranza e del timore superstizioso, questa l’opinione
del giornale, con cui ancora si guardava all’automobile. La stesso incidente che causò
la morte di Marcel Renault andava analizzato correttamente. Insieme a quello che
vide protagonista Stead, furono gli unici due incidenti effettivamente legati al
carattere competitivo della manifestazione. Entrambi i piloti infatti ne stavano
superando un altro, e non riuscirono ad evitare l’impatto in quanto accecati dalla
polvere sollevata dalle macchine precedenti. C’è quasi da meravigliarsi, continua
“The Car”, che ferali episodi di questo genere non siano stati più numerosi, visto la
gran quantità di vetture di grossa cilindrata presenti contemporaneamente sulla strada.
Gabriel da solo effettuò settantotto sorpassi: non bastava questa cifra per ringraziare
il cielo che non fosse capitato di peggio?
La discussione, in Francia, approdò nuovamente al Consiglio dei Ministri. Il Ministro
degli Interni, M. Combes, non poteva infatti evitare di essere giudicato il primo
responsabile di quanto accaduto. Bastava che vietasse le corse, come aveva fatto il
suo predecessore: perché aveva cambiato orientamento?
Improvvisamente, la discussione si sgonfiò. Combes spiegò che l’aveva fatto con la
migliore delle intenzioni, e che non si aspettava che le vetture andassero a velocità
così alte. Non gli sarebbe però sembrato opportuno, in base agli eventi luttuosi della
corsa, adottare misure di restrizione nei confronti dell’industria automobilistica tutta.
La Camera dei Deputati e il Senato furono d’accordo. I titoli catastrofici dei giornali
scomparvero, e l’attenzione si focalizzò sulla corsa in calendario al 22 giugno, che
doveva svolgersi sul circuito delle Ardennes.
Rimase l’exploit del povero Gabriel, che su una vettura Mors (che in latino significa
morte) aveva percorso i 552 chilometri della tappa in cinque ore e quattordici minuti,
alla media di 105 km/h. Rimase l’enorme delusione della Spagna, che aveva investito
700.000 pesetas per i preparativi, messo in palio magnifici premi, costruito stand in
7
grado di accogliere anche quarantamila spettatori, e che si era vista costretta a seguire
la scelta francese, all’ultimo minuto. Rimase il ricordo delle favolose, mitiche corse
da capitale a capitale, con cui erano nate le gare automobilistiche, e che erano finite
per sempre.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
2003
1: Alessandro Baricco, “Castelli di rabbia”, BUR, Biblioteca Universale Rizzoli, Collana La Scala, dicembre
2000, Milano
2 : nella seduta del Consiglio di Amministrazione Fiat del 17 gennaio 1903 il Presidente Scarfiotti aveva chiesto al
Consiglio di pronunciarsi sull’opportunità di prendere o meno parte a questa gara, visto la “forte somma di
iscrizione”. Era stato deliberato di iscriversi, riservandosi in seguito la possibilità di ritirarsi “specialmente in vista
della spesa necessaria”. Nella seduta del 30 aprile era stato deciso di partecipare, vista la notorietà che ne poteva
derivare, cosa di cui era particolarmente convinto Agnelli
3: si parlò di 12 morti e 100 feriti, una carneficina. Le cifre reali furono molto inferiori.
8