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LA GRANDE DEPRESSIONE
Ci sono concatenazioni automatiche di argomenti talmente usurate da aver perso il loro significato
originario. Espressioni come “il boom economico”, “gli anni di piombo”, “la crisi del 1929” vengono
usate da tutti, tutti pensando di indicare una cosa sola, che però ciascuno in realtà interpreta, rivive,
immagina a modo suo.
“Il giovedì nero di Wall Street, quando le borse crollarono…” é l’inizio di una brutta favola di
settant’anni fa, di cui in realtà si sa ben poco. Nel gennaio di quell’anno, quando tutto doveva ancora
succedere, nel numero speciale di “Motor” per il Salone di New York, in un articolo di Alfred Reeves,
General Manager della National Automobile Chamber of Commerce, l’automobile era definita “la
madre della prosperità”. “Nessuno – scriveva Reeves – riesce più a farne a meno, esattamente come
nessuno riesce più a fare a meno del telefono…. Anzi, vale la pena considerare che abbiamo più veicoli
che telefoni – 23 milioni contro 18 milioni e mezzo – e che tutte le volte che un telefono suona, un
veicolo da qualche parte in America ha percorso sei miglia!” Un paragone insolito, ma basato su
numeri reali: nel 1929 negli Stati Uniti circolavano 20 milioni circa di vetture, e tre milioni di veicoli
industriali (camion e autobus). L’automobile era diventata realmente un comune mezzo di trasporto, e
questo in pochissimi anni: nel 1916 negli Stati Uniti non venivano prodotte più di 500.000 vetture
l’anno. La produzione nel 1929 fu di dieci volte tanto, 5 milioni e 340.000 veicoli, un milione in più
dell’anno precedente, un record che non sarà più battuto per vent’anni. I due terzi dell’industria
automobilistica erano costituiti da General Motors e Ford, che tra il 1922 e il 1929 registrarono una
incredibile espansione produttiva, tra il 40 e il 60%, con conseguente, anche se minore, aumento dei
salari (in sette anni, saliti del 30% mediamente). Fortissima anche l’esportazione, in numeri relativi: il
numero delle automobili americane esportate corrispondeva a due volte il volume della produzione
motoristica annua della Gran Bretagna. Questo tasso di espansione era comune all’intera economia
statunitense. Non c’erano più state battute d’arresto dal 1921, gli affari erano in ripresa straordinaria, la
prosperità apparentemente inarrestabile.
Ma erano rimaste pressoché stazionarie le capacità di assorbimento del mercato interno, assai inferiori
alla potenzialità produttiva. Né si poteva risolvere tutto con l’esportazione, perché dovunque nel mondo
trionfavano regimi protezionistici.
La crescita, com’è ovvio, non si era distribuita omogeneamente. I dividendi degli azionisti furono
enormi in quegli anni: nel 1929 le 503 persone con il reddito più alto d’America ricevevano una somma
equivalente a quella che avevano in salari i 615.000 operai dell’industria automobilistica. Ma il tenore
di vita per la maggioranza dei cittadini non era così alto come si potrebbe supporre. Alla vigilia del
crollo, ancora il 59% della popolazione americana aveva un reddito inferiore ai 2000 dollari annui, cioè
al minimo vitale. Soprattutto la produzione agricola aveva già mostrato le prime, sinistre crepe
dell’intero sistema. Infatti le campagne non si erano più riprese dalla crisi del 1921, e fra il 1919 e il
1929 il reddito agricolo era calato rispetto a quello nazionale dal 23% al 12,7%.
Questo significa che il mondo agricolo non era in grado di assicurare uno sbocco ai prodotti
dell’industria. E parallelamente era cresciuta in maniera assolutamente irragionevole e feticistica, la
fiducia nelle azioni industriali, il cui prezzo era cresciuto in modo abnorme, senza alcuna rispondenza
al loro valore reale. Questo scatenò, ma fu anche favorito in un perverso circolo vizioso, da schiere di
speculatori, che alimentavano fittiziamente la fiducia. Certi titoli azionari passarono da un indice di 200
nel 1927 ad uno di 580 nel 1929. Nel 1929 le azioni della General Motors avevano raggiunto un valore
pari a cinquanta volte quello iniziale. La frenesia di guadagno era tale, tale la fiducia nelle "magnifiche
sorti e progressive” da influenzare anche le elezioni presidenziali. Nel 1929 infatti vinse un altro
repubblicano (dopo Calvin Coolidge), e cioè Herbert Hoover, che ebbe a dichiarare durante la sua
campagna elettorale: “Il mondo ha davanti a sé oggi la più grande era di espansione commerciale della
nostra storia”. E anche che “Il mio obiettivo da Presidente? Far sì che in ogni garage vi siano due
automobili”. Poco dopo, il crollo della borsa di New York apriva la più grave crisi economica della
storia non solo statunitense, ma anche mondiale.
Fu di giovedì, il 24 ottobre. Allo Stock Exchange 12.894.650 azioni cambiarono mano a prezzi più che
dimezzati, e in qualche ora intere fortune personali furono spazzate via. Martedì 29, altri 16 milioni di
azioni cambiaromo proprietario. Gli impiegati lavorarono 48 ore consecutive. Secondo l’economista
americano John Galbraith, già nel mese di novembre “negli Stati Uniti i ricchi e i benestanti avevano
già subito un’azione di livellamento paragonabile per vastità e subitaneità a quella diretta oltre un
decennio prima da Lenin”. Tra la fine del 1929 e gli inizi del 1930 centinaia di banche americane ed
europee fallirono, innumerevoli aziende industriali, commerciali ed agricole chiusero i battenti. La
fortissima discesa dei prezzi provocò la diminuzione drastica della produzione, che negli USA nel 1932
si trovò pressoché dimezzata rispetto all’indice 1929. La prima, inmmmediata conseguenza fu
l’impossibilità, da parte americana, di proseguire i prestiti all’Europa ed in particolare alla Germania.
Questo provocò un rapido propagarsi della crisi anche al di la’ dell’Atlantico, con nefaste conseguenze
sulla stabilità democratica dei paesi principali, quali Germania, Austria, Italia. La situazione assunse
subito l’aspetto di una immane catastrofe. In Germania crollarono grandi banche come la Darmstaedter
Bank e la National Bank; in Austria la Kreditanstalt. Il commercio internazionale diminuì in quattro
anni del 70 % del suo valore in dollari. La disoccupazione raggiunse numeri mai sfiorati prima: tredici
milioni di disoccupati nel 1932 nei soli Stati Uniti; in tutto il mondo occidentale, quaranta milioni.
Tutto questo fu il prodotto inevitabile degli squilibri su cui poggiava negli Stati Uniti lo sviluppo
incontrollato delle forze produttive nei settori di punta. L’insufficiente reddito degli agricoltori, dei
lavoratori di svariati altri settori (edilizia, tessili, miniere), dei disoccupati, degli strati poveri, unito alle
strozzature del commercio con l’estero, gli investimenti incessanti nei rami più prmettenti, che finirono
per produrre ben di più di ogni possibilità ragionevole di assorbimento, determinarono la paurosa
recessione, a cui gli industriali risposero riducendo la produzione, diminuendo gli stipendi, e soprattutto
licenziando. Ne conseguì un aggravamento della crisi, in quanto la limitata capacità d’acquisto del
mercato fece ancor più contrarre le vendite, perciò i profitti, e così via a spirale. La produzione
industriale crollò del 50%. 6000 banche fallirono. I salari industriali diminuirono del 45%. Milioni di
piccoli risparmiatori, che avevano investito i loro averi in titoli o azioni che ora non valevano neanche
la carta su cui erano stampati, furono completamente rovinati. Il paese più ricco del mondo piombò
nella miseria, nella fame, nella disoccupazione. Tutto questo mentre si distruggevano enormi quantità
di beni agricoli per non abbassarne troppo il prezzo.
Il Presidente Hoover, dinanzi al baratro nel quale stava precipitando l’economia del suo paese, aveva
un’unica preoccupazione, quella di creare un’atmosfera di ottimismo nel paese. Nel maggio del 1930
dichiarava “Abbiamo passato il peggio e con una continua unità di sforzi ci riprenderemo
rapidamente”. Quando arrivarono le elezioni presidenziali del 1932, la tensione sociale aveva toccato il
suo culmine. A Detroit, la città cuore della produzione automobilistica americana, fino a poco tempo
prima motore principale della prosperità che si riteneva acquisita per sempre, la macchina presidenziale
sfilò tra ali di folla cupa e silenziosa. Quando Hoover si alzò a parlare, era già stato sconfitto.
E’ naturale che una tragedia economica di questa portata costituisca da sola uno spartiacque in
un’analisi della industria automobilistica americana. In realtà vi fu un altro motivo per considerare il
passaggio agli anni trenta uno spartiacque tra un mondo e un altro: quello generazionale. Nel 1929
erano ancora vivi i fratelli Dureya, insieme a molti altri pionieri, come Freelan O. Stanley (vetture a
vapore), Ransom E. Olds (Oldsmobile), Henry M. Leland (Cadillac e Lincoln), Alexander Winton
(Winton Motor Carriage, 1897), George B. Selden (il grande rivale di Ford, quello del primo brevetto
di un motore a scoppio, 1879); oltre a Henry Ford e a Walter Chrysler. Durante gli anni trenta Nash e
Olds si ritirano, Durant (Buick, General Motors, Chevrolet, Durant Motor Company) fallisce, Willys
(Willys-Overland), Leland, Winton muoiono. Un cambio della guardia inevitabile, causato anche dalle
diversissime condizioni di mercato rispetto all’inizio del secolo.
L’automobile americana del 1929 aveva raggiunto un grado di maturità che la rende molto più simile
all’auto di oggi di quanto quella dei primi anni del secolo è stata simile all’auto degli anni trenta. E’
una berlina, e la proporzione delle berline nei confronti delle aperte è di nove ad una, il contrario
rispetto al 1919. E’ a benzina: per la prima volta al National Automobile Show del 1924 non sono
presentate vetture elettriche né a vapore. E’ di linea bassa e filante, con un motore generalmente a sei
cilindri, talvolta otto. E’ il prodotto del più grande settore industriale del mondo, nel quale gli operai
sono pagati di più (da Ford, circa 7 dollari al giorno), in grado di competere internazionalmente grazie
all’enorme superiorità tecnologica ed organizzativa.
Ed è diventata parte integrante ed ineliminabile del patrimonio domestico, come aveva giustamente
rilevato Reeves nell’articolo citato all’inizio. Prova ne è che, se la produzione annuale di veicoli cala
del 75% tra il 1929 e il 1932, la circolazione diminuisce soltanto del 10%: segno, questo, che la gente si
arrangiava con la macchina che possedeva, anziché comprarne una nuova. Il famoso film tratto dal
romanzo di Steinbeck, “Furore”, fu inizialmente proiettato anche in Unione Sovietica, finché ci si rese
conto che suscitava troppa invidia il fatto che la supposta disumanità dello sviluppo economico
americano non impedisse ai protagonisti di possedere un’automobile.
Per le aziende automobilistiche di piccole dimensioni, la crisi fu talvolta insuperabile. La Reo si
trasformò in produttrice di veicoli industriali nel 1936. La Marmon chiuse nel 1933 come produttrice di
automobili, e sopravvisse costruendo anch’eesa veicoli pesanti. Franklin, Moon, Pierce-Arrow, Kissel,
Gardner, Peerless, Stutz, Cord, scomparvero per sempre. La Durant Motors , del tenace ed
inaffondabile William C. Durant, fu liquidata nel 1933, e due anni dopo William, settantacinquenne,
dichiarò bancarotta, con 914.000 dollari di passivo e 250 di attivo. I 250 di attivo erano il controvalore
dei suoi vestiti.
Packard e Nash soffrirono, ma ce la fecero, offrendo al mercato modelli più a buon mercato. Anche la
Hudson evitò la bancarotta. Ma Willys Overland e Studebaker subirono l’onta dell’amministrazione
controllata. Per Studebaker in particolare fu una catastrofe, generata soprattutto dal presidente Albert R.
Erskine, convinto che tutto sarebbe passato in fretta, cosa che credevano in molti. Il fatto è che la sua
fiducia era tale da pagare dividendi anche se non c’erano, e purtoppo i suoi calcoli si rivelarono
disastrosamente sbagliati. La bancarotta non fu evitata, Erskine si suicidò, questa volta esagerando in
pessimismo, perché a conti fatti la Studebaker sopravvisse, anche se non tornò più quella di prima.
Complessivamente si ridusse ancora la fetta di mercato disponibile per i costruttori “indipendenti”, e
cioè non facenti parte dei “Big Three” (General Motors, Ford e Chrysler), dal 25 al 10%. Il fatto è che
qualsiasi cosa le piccole mettessero in campo – miglioramento tecnico, gamma di colori, convenienza
dell'offerta, stile del design – le grandi potevano attuarla allo stesso modo, anzi, meglio. Infatti le big,
se pure soffrirono per la crisi, non rischiarono mai né il fallimento né la chiusura. A pagare di più fu la
Ford, che restò al terzo posto nelle vendite dal 1933 al 1950. Prima fu la Chrysler, seconda la General
Motors, che addirittura riuscì a acquisire ulteriori settori di mercato anche in piena recessione. Uno di
questi era il diesel: General Motors acquistò nel 1930 la Winton Engine Company e la Electro-Motive
Corporation, che costruivano motori diesel. Il secondo fu l’aeronautica, con l’acquisto della Allison
Engineering Company. Il risultato fu che nel 1937b la General Motors costruiva il 40% dei veicoli
americani, il 35% della produzione mondiale, e costruiva anche frigoriferi, locomotive diesel, motori
aeronautici. Le divisioni automobilistiche erano cinque: Cadillac, che comprendeva anche La Salle,
Buick, Oldsmobile, Pontiac, che sostituì la Oakland, e la Chevrolet. Un’ulteriore divisione costruiva
veicoli pesanti. Non era mai esistito al mondo un impero industriale di queste dimensioni.
Il 1937 fu anche l’anno in cui Alfred P. Sloan lasciò la Presidenza di General Motors, seguendo
l’esempio di Walter Chrysler, ritiratosi nel 1935. Soltanto Henry Ford resisteva, ma didimostrava
visibilmente un notevole offuscamento delle sue qualità manageriali, e si piò quasi affermare che la
Ford sopravvisse “nonostante” Henry Ford.
Il cambio della guardia generazionale avvenne dunque per quasi l’intero settore automobilistico
americano nel momento più convulso del gigantesco sovvertimento causato dalla Grande Depressione.
D’altra parte i problemi da affrontare non avevano più nulla a che fare con quelli di trent’anni prima.
Non era più questione di saper costruire, ma di riuscire a vendere. Bisognava confrontarsi con una
presenza dello Stato che, con il New Deal di F.D.Roosevelt, acquistò un peso e un potere decisionale
nella vita economica del paese mai avuto prima. La forza lavoro si andava organizzando nelle Unions,
le formazioni sindacali che in regime di prosperità non avevano suscitato particolari consensi ma che
ora i lavoratori percepivano come l’estrema difesa dall’indigenza. Lo stesso protezionismo, che aveva
per lunghi anni salvaguardato i mercati nazionali, ora si rivelava un boomerang in quanto chiudeva le
residue possibilità di smercio all’estero della sovrapproduzione.
In conclusione, tutto cambiò. E forse non fu un male che ad affrontare uno scenario così diverso
fossero uomini nuovi.
Donatella Biffignandi
Museo dell’Automobile