il villaggio di domani
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il villaggio di domani
UNA CITTÀ n. 152 / 2008 Dicembre-Gennaio Intervista a Luca Mortara realizzata da Barbara Bertoncin IL VILLAGGIO DI DOMANI Il welfare attivo è quello che viene preso in mano dai cittadini e autogestito. L’esperienza del cohousing, agli inizi in Italia, che risponde al bisogno di “buon vicinato” e dove si può godere di un “lusso sobrio”. La vita caotica delle famiglie a doppio reddito nelle grandi città. Intervista a Luca Mortara. Luca Mortara è socio fondatore di Innosense Partnership, agenzia italiana per l’innovazione sociale, specializzata nello sviluppo e nell’implementazione sperimentale di modelli avanzati di welfare attivo nei settori della salute, della casa, dello sviluppo delle città e dei servizi alla persona. E’ fondatore e uno dei principali animatori di Cohousing.it. Cos’è il “cohousing”? Il cohousing è un modo di abitare che è anche un modo di vivere. Nasce in Danimarca negli anni Sessanta, sulla scia di un periodo di grande fermento e innovazione che, dal design all’urbanistica, porta a una reinvenzione della casa e della città, e così alla nascita, tra le varie utopie, del cohousing. Il primo villaggio viene inaugurato in Danimarca nel ’63. Il villaggio di cohousing coniuga una dimensione abitativa privata con un’organizzazione a villaggio delle case e con spazi condivisi, facilmente raggiungibili da ognuna delle abitazioni, che costituiscono un po’ il cuore delle relazioni sociali del villaggio. La ricostruzione della cultura e dell’economia del villaggio resta un’utopia sociale danese fino agli anni Ottanta, dopodiché comincia a diffondersi, un po’ per caso, negli Stati Uniti, in particolare in California, e nel resto del Nord Europa. Oggi in California sono più di 100 villaggi in cohousing realizzati. Non ci sono tipologie, diciamo, canoniche: il cohousing può nascere dentro la fabbrica ristrutturata, in una vecchia cascina a corte, in un borgo medioevale abbandonato, può essere costruito ex-novo in un prato di periferia, non c’è una “gabbia”, un layout architettonico particolare perché la vera peculiarità è il design dei servizi che in questo caso è anche il design delle forme di vita. Quali sono le motivazioni che spingono le persone a scegliere il cohousing? Vivere in cohousing è il desiderio di moltissime persone. Nell’agosto-settembre del 2005 abbiamo lanciato una ricerca a Milano e siamo stati sepolti vivi da quasi 4000 interviste completate su internet in dieci giorni e 2800 manifestazioni di interesse; proiettati su base nazionale, questi dati significano che in Italia ci sono 250-300.000 famiglie che desiderano vivere in cohousing. Perché? Direi che si possono individuare due ordini di ragioni che attengono a gruppi diversi. La maggior parte sono giovani coppie con due redditi che hanno già scoperto quale sia la piacevolediabolica complessità di una vita in città in cui alle quattro i bambini escono dall’asilo e vogliono andare a scuola di danza, e poi vogliono andare a trovare il loro amico e tu nel frattempo hai la riunione da finire, la presentazione a un cliente importante, tuo marito come al solito sta facendo le sue importantissime cose a cui non poteva rinunciare e i nonni non sono più quelli di una volta: hanno la loro vita, sono disponibili, ma fino a un certo punto e allora cominci con asili prolungati, ragazzine che vengono a prenderti i figli a scuola e poi però quel giorno sono ammalate… Insomma la vita urbana per le famiglie a doppio reddito è molto complicata, e anche molto costosa. Ecco allora l’importanza di vivere in un posto dove posso lasciare il bambino alla vicina, dove arriva a casa da scuola e c’è una nurse, una madre di tutti, una zia Pina che lo accoglie, gli dà la merenda… Questo è il primo filone. Il secondo filone -questa è una cosa che in verità abbiamo scoperto noi e di cui nessuno si sta accorgendo- è la “giovane terza età”. Oggi molti over 50 anni stanno in gran parte riprogettando la propria vita o desiderano farlo. Una volta che i figli sono grandi non è detto che uno abbia voglia di vivere dove ha sempre vissuto. Con l’avvicinarsi della pensione si può pensare di andare a vivere al mare, in campagna, a Londra, in Provenza, o semplicemente accorgersi che il proprio appartamento è diventato troppo grande, che il quartiere non è più quello di una volta. Quando l’età aumenta subentra anche il problema della solitudine: sono morti i tuoi amici, alla bocciofila non ci sei mai andato… con cosa riempi questa terza età? Ecco, la dimensione del villaggio può essere un’aspirazione molto profonda per questa terza età dinamica, che teme l’isolamento, che sa che non sarà autosufficiente per sempre e che ha però un atteggiamento aperto agli altri, solidale, disponibile a dare e a ricevere... Queste sono le due dimensioni prevalenti. Qual è il vostro ruolo? La genesi di un progetto spontaneo di cohousing è estremamente complessa. Il 95% di progetti spontanei dei gruppi di amici che decidono di andare a vivere assieme abortisce per strada e le ragioni sono banali. Ci vuole una tale quantità di sapere, competenze, tempo, soldi e motivazioni per farlo, da renderla davvero una missione quasi impossibile, perché occorre individuare l’area, fare gli accertamenti urbanistici, trovare gli architetti, farsi dare il permesso di costruire e intanto tenere assieme gli amici che magari hanno idee diverse sull’abitare. E’ un’impresa disperata, faticosissima. Ecco, la nostra intuizione è stata quella di colmare questo vuoto, ovvero di inserirci in questo snodo e accelerare i processi. Ci siamo detti: “Se troviamo degli immobiliaristi intelligenti, che hanno terreni da edificare, fabbriche da ristrutturare, volumetrie da recuperare, e li convinciamo che esiste un’area di domanda interessante; se riusciamo ad avere dei prezzi ragionevoli in un intervento immobiliare che ha dei contorni abbastanza definiti, e in cui però ci siano ancora le maglie abbastanza larghe per apporre delle modifiche e decidere, ad esempio, dove mettere gli spazi comuni…”. Ecco, noi intercettiamo questi progetti, valutiamo se vanno bene e in quel caso proponiamo all’imprenditore di riservare per un certo periodo di tempo questo intervento al cohousing. Chi arriva al cohousing poi avrà anche l’opportunità di passare tre, quattro mesi incontrando i futuri vicini. Si tratta di un vero e proprio progetto di comunità fra persone che condividono il desiderio di vivere in cohousing ma che non si conoscono. Conoscere i propri vicini prima di comprare casa è un enorme privilegio ed è la ragione per cui siamo nati. In questo processo noi usiamo dei facilitatori sociali molto bravi. Per quanto non ci sia un prototipo, in genere chi ha interesse al cohousing non è il possessore di un Suv nero con i draghi d’oro disegnati sulle portiere e cinquantacinque tatuaggi per bicipite, cioè sono in generale tutte persone per bene, aperte agli altri, solidali, pacifiste, ecologiste, senza essere per questo comunardi, anzi. Superata la fase della conoscenza e anche della messa in discussione delle proprie motivazioni e bisogni, si comincia a giocare a fare la casa, il villaggio. Il clima infatti è quello del gioco, un gioco emozionante ma anche molto serio. La prima cosa da capire forse è proprio cosa si vuole e cosa non si vuole condividere. Perché anche su questo ognuno di noi ha la sua disponibilità e la sua soglia di privacy. C’è gente che non è disposta a condividere una lavanderia perché preferisce lavare i panni in casa, per dire. La maggior parte non ha voglia di condividere gli aspetti più intimi, spirituali, la religione, la meditazione, però per esempio la disponibilità a condividere l’educazione dei bambini è fortissima: l’avere tante zie e tanti zii… C’è una diffusa consapevolezza sui vantaggi dell’educazione “tribale” del villaggio rispetto all’educazione nucleare. Poi i cohouser vogliono evidentemente condividere le loro passioni, i loro interessi, anche quelli più semplici come coltivare l’orto, avere un gruppo di acquisto, adottare soluzioni per spendere meno. Una volta stabilito cosa si vuole condividere, si comincia a discutere dove mettere le cose, come organizzare gli spazi. Allora: “Il micronido dove va? La lavanderia ce la possiamo permettere? Dove la mettiamo?”. E’ evidente che il nostro lavoro è anche quello di produrre informazioni e calcoli. I nostri facilitatori e i nostri architetti offrono tutta una serie di dati, di modelli che abbiamo fatto con il Politecnico. Se un gruppo ci chiede: “Quanto costa una lavanderia condominiale?” noi possiamo fornire una risposta in tempo reale, apriamo un computer, inseriamo il numero delle famiglie, le specifiche della lavanderia e poi nella stessa sessione gli diciamo: “Costa 750 euro a testa”. Scoprono quindi di risparmiare tantissimo, di potersi quindi permettere quelli che abbiamo definito “i lussi sostenibili” del cohousing, “i lussi sobri”. Puoi fare qualche esempio di “lusso sostenibile”? Beh, un “lusso sostenibile” è una hobby room, dove invece di impazzire con un trapanino Black & Decker hai un bel trapano a colonna con le punte come dio comanda, un tornio, una fresatrice, un compressore per verniciare, tutte cose che uno a cui piace il “fai da te” non si è mai potuto comprare, e non perché non se le potesse permettere, ma perché non saprebbe dove metterle. Un’officina condominiale costa cinquanta euro a famiglia e offre gli spazi e gli attrezzi che servono per tutto il “fai da te” del pianeta. Ma un “lusso sobrio” è anche quello di avere una portineria intelligente, che funziona come una concierge alberghiera, per cui alla mattina puoi dare delle consegne al portinaio: “Queste sono le chiavi, guarda che viene quello della Citroen a fare il tagliando”, piuttosto che: “Puoi pagarmi queste bollette?”, “Alla tal ora arriva la spesa della Esselunga”, o ancora: “Mi prenoti i biglietti per stasera?”. Ecco, la concierge condominiale è un lusso sfrenato nella vita moderna, ma non costa niente, non costa più di un portinaio! Costa una cultura e un’organizzazione che normalmente le portinerie non hanno. Un “lusso sobrio” è un gruppo di acquisto, ma anche una palestra: le nostre palestre costano settantacinque euro all’anno. A Milano, Torino o a Roma quello è il costo mensile di una palestra di basso livello, qui scendi -in generale sta nel seminterrato o al piano alto- oppure prendi l’ascensore e sei in palestra. A Bovisa i nostri cohouser hanno una piscina all’aperto, privata. I costi per costruirla ammontano a mille euro a famiglia. Ora, avete un’idea di cosa vuol dire il bambino che arriva a casa alle quattro del pomeriggio in pieno giugno e va in piscina con gli altri amici che sono quelli della sua corte? Trenta famiglie in cohousing si possono permettere anche un’insegnante materna, spendendo un quinto, un sesto di quello che spenderebbero con una babysitter privata. I servizi condivisi, poi, possono essere autogestiti o gestiti professionalmente da terzi, o anche in una forma mista, da qualcuno dei cohouser che ha un rimborso spese. Ad esempio, se c’è la zia Pina che è in pensione, cucina da dio, le piacciono i bambini, era anche insegnante elementare… Insomma, le diamo tutti 500 euro all’anno, lei raddoppia la sua pensione e siamo tutti felici e contenti. Il cohousing è un’autogestione in cui non necessariamente si fanno tutte le cose da sé e non necessariamente si fanno le cose gratis, anzi. C’è un mix, in inglese si dice: “make or buy”, cioè fare o comprare, a seconda di quello che viene ritenuto più intelligente. Io credo siano anche queste le cose che cambiano la vita. Ci vogliono ancora 16-18 mesi prima di inaugurare il primo villaggio, dopodiché secondo me queste esperienze si moltiplicheranno perché nella grande città questa è una domanda fortissima. Concretamente come funziona? Vengono già gruppi di amici o mettete assieme dei singoli? Ai gruppi di amici diamo retta fino a un certo punto perché, come ho detto, spesso si sfasciano. Quello che facciamo è un’altra cosa. Noi prima definiamo un intervento in co-housing, dopodiché alziamo un cartello in cui, ad esempio, diciamo: abbiamo quindici case in tre corti settecentesche a sette chilometri da Milano. Appena il gruppo è al 70-80% degli appartamenti disponibili, parte il percorso di formazione della comunità. La formazione della comunità ha due fasi, la prima si chiama di “visioning” e ha a che fare con i valori e i principi guida, il regolamento, gli spazi condivisi, cosa vogliamo essere, ecc. E’ una specie di carta costituzionale del progetto di cohousing. A quel punto e solo a quel punto comprano casa. Pertanto la seconda parte la fanno solo gli acquirenti. In questa ulteriore fase si arriva fino al dettaglio di dove mettere il forno a microonde della kitchen condominiale, e poi si progettano i colori, l’uso dei pannelli solari, l’arredamento degli spazi condivisi. Cioè si entra nella fase materiale della costruzione del villaggio, che dura altri tre-sei mesi, a seconda della complessità. Alla fine di questa fase di planning o pianificazione, i cohouser sono una comunità formata con il loro Cda o il loro gruppo dirigente, i loro comitati, il comitato del verde, il comitato bambini. Nel frattempo la casa si sta costruendo, e nel giro di sei-otto mesi inizierà il vero esperimento del cohousing. Lei è anche socio fondatore di Innosense, l’agenzia di innovazione sociale da cui viene il progetto di cohousing. Può raccontare? Innosense è un fondo di “social private equity”, i cosiddetti Spe, cioè un fondo di investimento messo insieme con risparmi di persone fisiche. Io lo definisco un incubatore sociale, il cui obiettivo è appunto quello di generare imprese sociali innovative. Innosense dalla sua nascita tre anni fa ha investito in tre settori: l’housing in generale dove, oltre al cohousing, abbiamo avviato una partnership con Alisei con cui in un solo anno in Lombardia abbiamo aperto otto cantieri di autocostruzione. L’altro filone è quello dei media, in particolare della tv on demand con fini didattici ed educativi. L’idea era quella di avere un milione di clip che andassero dagli aztechi al big bang, una specie di wikipedia (che allora non c’era ancora) del video che consentisse ai ragazzi, agli studenti, agli insegnanti, di avere una fruizione molto libera, un itunes del video educativo. Abbiamo speso un sacco di soldi per capire che ci voleva un’enorme quantità di denaro per farlo… Insomma, abbiamo lasciato perdere. Capita, se i progetti non sono sostenibili li abbandoniamo. Il terzo settore di attività è la creazione di reti solidali per la terza età. La nostra ultima impresa ruota attorno all’idea di dotare gli anziani di un quartiere o di un paese di un videotelefono Voip con delle funzioni molto particolari. Parlo di uno strumento molto semplice che permette, ad esempio, premendo un tasto rosso, di chiedere un favore a qualunque altro membro della rete. Per dire, se finisco le medicine e ho bisogno che qualcuno vada a comprarmele, il telefono automaticamente sceglie l’anziano più vicino a casa mia che si è dichiarato disponibile in quella mezza giornata o in quel momento. Ma il telefono fa altre cose, intercetta i segnali da un bracciale della vita, per cui se sono caduto per terra e ho avuto una crisi e non mi muovo più da un quarto d’ora, il telefono chiama automaticamente l’anziano più vicino a casa mia. E’ partito il primo progetto sperimentale a Basiglio, in provincia di Milano, con cento anziani. In Italia ci sono dodici milioni e mezzo di anziani e tre milioni di non autosufficienti. A Milano la Regione dà dei voucher agli anziani non autosufficienti che poi loro spendono con cooperative sociali convenzionate che offrono un po’ di assistenza domiciliare. Ecco, il senso della rete solidale è che invece di pagare l’assistenza domiciliare, che tra l’altro non è sostenibile, si possano mettere in circolo potenzialità e anche voglia di fare degli interessati in modo virtuoso. Qui poi andrebbe anche sfatato un mito: oggi il problema non è tanto la non autosufficienza. La maggior parte delle ragioni per cui un anziano alza il telefono non ha niente a che fare con un’emergenza. Ha a che fare con il fatto che è solo, che ha voglia di chiacchierare con qualcuno, di andare al cinema, di fare una partita a tresette. Noi siamo partiti da qui, da questa distorsione per cui si pensava che la strada fosse quella di continuare a creare dei centralini telefonici che erano in realtà delle chat line. Centralini che diventavano a loro volta insostenibili perché non si trovano i volontari che vadano a rispondere a tutte queste telefonate. Ecco, questa piccola invenzione vorrebbe restituire alla gente la responsabilità di aiutarsi. Il principio di funzionamento della rete solidale è che quel paese, quel quartiere deve occuparsi dei suoi anziani, o meglio ancora che “voi vi dovete occupare di voi”. Perché lo Stato sociale ha dei limiti. Un po’ tutto quello che facciamo è sulla scia di quello che noi chiamiamo “welfare attivo”, in cui la pubblica amministrazione facilita la presa di responsabilità della gente nella gestione dei beni… Nello specifico poi a noi interessano tutte le esperienze di innovazione sociale che ritrasferiscono responsabilità alla comunità. D’altra parte non c’è un’altra strada. Le amministrazioni come accolgono queste sperimentazioni? Questo è un paese in cui quando viene fuori un’idea buona che non è nata nel tuo cortile… Succedono cose paradossali. Noi ci siamo presentati in cinque o sei Comuni della provincia di Milano pronti a regalare cento telefoni e tutta l’assistenza per installare la rete solidale, con gli assessori ai servizi sociali che dicevano: “Abbiamo cose più importanti di cui occuparci”, e le cose più importanti erano casomai la gita degli anziani o il sussidio per gli affitti. Oggi la pubblica amministrazione a livello politico è molto affamata di innovazione, ma a livello dirigenziale è molto conservatrice, per cui l’idea di sperimentare delle cose… Con la legge Bassanini, al politico va di fare le cose brillanti, ma siccome poi le colpe eventuali ricadono sui dirigenti questi allora preferiscono stare sul sicuro. La disponibilità al rischio del personale direttivo della pubblica amministrazione oggi è modestissima. Questo è un problema serio che abbiamo. Ed è un peccato perché c’è una generazione di amministratori giovani, tantissime donne, che hanno voglia di fare cose nuove soprattutto all’inizio dei mandati, hanno veramente voglia di segnare la differenza. In questo senso vorrei lanciare un appello dicendo a tutti i pubblici amministratori che vogliano fare delle cose nuove sull’housing e sulla terza età che sono liberi di chiamarci. Ora stiamo lavorando molto sull’ideazione e realizzazione di una “portineria intelligente” a livello di quartiere, che metta le singole postazioni in grado di chiamare l’idraulico, il tapparellista, nell’ottica di un servizio alla persona. L’altra idea riguarda l’importazione di case prefabbricate a 1200 euro al metro quadro di grandissima qualità, che non hanno niente a che fare con le case prefabbricate che abbiamo in mente noi. Sono fatte in materiali compositi, sono case con isolamenti energetici altissimi, usano il legno, ma anche l’alluminio, il carton gesso, materiali cementizi alleggeriti… Abbiamo molte più idee di quelle che riusciamo a mettere in campo.