La teoria dell`organizzazione come teoria della conoscenza

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La teoria dell`organizzazione come teoria della conoscenza
Università degli Studi di Udine
Dipartimento di Scienze Economiche
La teoria dell’organizzazione
come teoria della conoscenza
FERDINANDO MARASCHINI
Working Paper MOS.01-02
Working Paper Series
in Management & Organization Studies
Università degli Studi di Udine
Dipartimento di Scienze Economiche
Via Tomadini 30/A, 33100 Udine, Italy
Tel. ++39 0439249338 - Fax ++39 0432249229
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WORKING PAPER SERIES IN MANAGEMENT & ORGANISATIONAL STUDIES
Organization theory as knowledge theory
Abstract. The aim of this paper is to re-interpret the major developments
of the organization theory in terms of the theory of knowledge. The
diffusion of the ICTs has drawn the attention of the researchers to the
problems that directly interest the production and the circulation of
knowledge (specific competencies, knowledge management, emanagement, business information systems). In the case of the
organization theory, however, knowledge and its management have
always represented the central theoretical objects: this is clear both in the
“scientific management” (correctly construed) and in the notions of
uncertainty and “limited rationality” (in the central theoretical line
Simon-Thompson and in many collateral lines). Given the evolutive
potential and the problems connected to the ICT, the organization theory
is therefore called to further develop these central themes, without
referring systematically to less structured organizational formulas
(“organical”), whose theoretical underpinnings do not appear to be able to
offer suitable answers to the new problems.
Key words: organisational theory, theory of knowledge
This Working Paper series aims to provide a means for stimulating
discussion and critical comments on preliminary research results by staff
or visitors to the Department.
It is a Department policy that of adopting its web site as a primary means
for publishing. Paper copies will be provided only upon request.
This Department complies with Italian Law obligations on publishing
(Art.1, D.L.L. 31/08/1945, N.660).
LA TEORIA DELL’ORGANIZZAZIONE
COME TEORIA DELLA CONOSCENZA
Ferdinando Maraschini
Dipartimento di Scienze Economiche
Università degli Studi di Udine
Giugno 2002
Abstract.
Il paper si propone di rileggere i maggiori sviluppi della teoria
organizzativa in termini di teoria della conoscenza. La diffusione delle
tecnologie dell’informazione e della comunizazione ha stimolato l’interesse
degli studiosi per tutti i problemi che toccano più direttamente la
produzione e circolazione delle conoscenze (competenze distintive,
knowledge management, e-management, sistemi informativi aziendali).
Nel caso della teoria organizzativa, però, da sempre la conoscenza e il suo
trattamento rappresentano l’oggetto teorico centrale: ciò è evidente nello
“scientific management” (correttamente interpretato) e altrettanto
evidente nelle nozioni di incertezza e di “razionalità limitata” (nella linea
centrale Simon-Thompson e in molte linee collaterali). Di fronte alle
potenzialità evolutive e ai problemi connessi alle ICT, la riflessione
organizzativa è dunque chiamata a sviluppare ulteriormente questi temi
centrali, senza cercare sistematicamente rifugio in formule organizzative
meno strutturate (“organiche”), i cui fondamenti teorici non sembrano
poter offrire risposte adeguate ai nuovi problemi.
Parole
chiave:
Conoscenza;
Knowledge
management;
Teoria
organizzativa.
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LA TEORIA DELL’ORGANIZZAZIONE COME TEORIA DELLA
CONOSCENZA
Premessa
Ripensare l'organizzazione in chiave cognitiva non rappresenta certo, di
per se, un approccio teorico particolarmente innovativo, dato che la teoria
dell'organizzazione nasce esplicitamente come teoria della conoscenza e
del governo artificiale dei processi cognitivi.
L'organizzazione, in quanto azione specializzata di coordinamento e
controllo della divisione del lavoro, non prende forma fino a che le
conoscenze produttive rimangono incorporate nel lavoro (mestiere, skill) e
negli oggetti materiali (prodotti, macchine). A lungo, anche nello sviluppo
del sistema industriale, il coordinamento rimane così un processo
spontaneo, che emerge nei fatti, senza divenire una funzione manageriale
e senza richiedere una teoria.
Una teoria dell'organizzazione prende forma con la "organizzazione
scientifica del lavoro" dove l'uso del termine "scientific management"
(consapevolmente privilegiato rispetto a quello, più operativo, di "task
management") costituisce una specifica indicazione del contenuto e
dell'intento della teoria: la realtà organizzativa dell'officina viene riletta e
riformulata a partire dalla conoscenza "scientifica" dei processi produttivi,
imprimendo un nuovo corso a tutta la società industriale.
Da allora, la coppia logica organizzazione/conoscenza rimane il filo
rosso più robusto della storia del pensiero organizzativo. Le impostazioni
teoriche sono profondamente diverse, ma la scelta di campo operata da
Taylor rimane esemplare, e i momenti alti dello sviluppo della teoria
coincidono con nuovi approcci all'analisi dei processi decisionali, e dunque
alla dislocazione delle conoscenze e al trattamento delle informazioni: da
Taylor a Simon, a Thompson, i temi della conoscenza, della razionalità,
dell'informazione, non sono periferici ma centrali nella costruzione della
teoria organizzativa. Sotto specie di "difficoltà" e di "incertezza",
conoscenza e razionalità limitata restano poi al centro delle espressioni più
significative della scuola contingency e della nuova economia istituzionale.
Altri filoni del pensiero organizzativo, di impostazione psicologica,
muovono in direzione diversa, ma gli aspetti cognitivi restano un fattore
cruciale in termini di "comunicazione" oppure di "potere", approdando poi
a temi come la cultura e l'apprendimento.
In questa riflessione non si tratterà quindi di introdurre una chiave
interpretativa nuova, ma si tratta di dare maggiore consapevolezza e
coerenza alla centralità della conoscenza e dell'informazione in ogni
ragionamento organizzativo. L'intento è anche quello di rendere evidente
l'attuale difficoltà della teoria nel rispondere alle novità che emergono
dall'evoluzione del sistema industriale, non riproponendo l'armamentario
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consueto in confezione rinnovata, ma riprendendo il filo rosso della
produzione e circolazione della conoscenza.
1. ORGANIZZAZIONE "SCIENTIFICA" DEL LAVORO1
1.1. In principio l'organizzazione non esisteva. Esistevano le macchine e
i processi industriali (da oltre un secolo), esistevano i mercati e le grandi
fabbriche, esistevano le organizzazioni e avevano spontaneamente preso
forma modelli organizzativi conformi al contesto della produzione
industriale Non esisteva invece l'organizzazione come azione razionale,
consapevole e finalizzata, cioè come funzione del management, e (a
maggior ragione) non esisteva come teoria
Lo spazio del coordinamento e controllo dei processi di trasformazione
resta sottratto all'azione regolatrice della razionalità imprenditoriale; in
questo spazio opera un diverso principio regolatore: il mestiere, come
patrimonio di conoscenze produttive prodotte dall'esperienza e trasmesse
dalla tradizione, implicite nell'evoluzione dei contesti operativi delle
fabbriche.
"... i metodi attualmente in uso possono in senso lato essere riguardati come il
risultato di un’evoluzione che ha portato al sopravvivere delle idee più efficaci ...
non vengono mai tradotti in prescrizioni, oppure sistematicamente analizzati e
descritti. ... i lavoratori ... dispongono di questo complesso di conoscenze
tradizionali, ignorate in gran parte dalla direzione." (Taylor, 1967, p. 163-4).
L'organizzazione della produzione industriale nella grande fabbrica,
non progettata e non controllata dall'impresa in quanto non conoscibile, è
demandata all'intelligenza diffusa, ovvero alla "iniziativa" del lavoratore;
"... gli sforzi più intelligenti, la più alacre operosità, tutte le conoscenze
tradizionali di cui dispone, la sua destrezza, l'ingegno, il buon volere ..." (p. 164).
L'organizzazione della produzione è demandata a un circuito cognitivo e
decisionale esogeno rispetto all'impresa e la dislocazione decentrata della
1
Prendere le mosse dal lavoro di Taylor, e non dal "Fordismo" come paradigma realizzato della
produzione industriale di massa, significa voler tornare (in tutta la sua irrealizzabile purezza) al
vettore logico della forma organizzativa emergente: la sostituzione della scienza all'empirismo. Non
sarà questo il Fordismo "maturo" (Rullani, 1998), ma la scientificità ne resta lo statuto normativo, e
l'organizzazione scientifica il modello a cui fanno esplicito o implicito riferimento gran parte degli
sviluppi teorici successivi.
Sorprenderà forse lo spazio accordato a questa rilettura. Il tema dovrebbe essere noto, ma le vicende
e il clima culturale italiano hanno sovraccaricato il Taylorismo di determinazioni (Taylorismo =
parcellizzazione + cottimo + gerarchia) del tutto periferiche rispetto al nucleo teorico portante del
paradigma fordista, che va individuato proprio nell'assetto cognitivo che gli dà forma (Maraschini,
.1988). Non sembra dunque superfluo riproporre il Taylorismo, e poi il Fordismo, come teoria del
lavoro intellettuale.
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conoscenza diviene così "principio" di organizzazione (radicalmente
decentrata).
"... il principio fondamentale degli ordinari sistemi organizzativi è la convinzione
che ... i dettagli tendenti a realizzare la migliore esecuzione possibile devono
essere stabiliti dalla mano d'opera. ... il principio che ad ogni lavoratore sia
lasciata la responsabilità di compiere il suo lavoro come crede meglio" (p. 158 e
183).
Il potenziale di capacità produttiva immesso dalla tecnologia nel
sistema industriale trova istituzionalmente come vincolo e limite
l'effettiva disponibilità delle capacità del mestiere ("iniziativa").
L'appropriazione e la messa in valore di tali capacità da parte dell'impresa
è però destinata a rimanere estremamente precaria. Si tratta infatti di
processi negoziali afflitti da una radicale asimmetria informativa, origine
di comportamenti "strategici" e di effetti perversi; la logica del negoziato
distributivo può infatti rovesciare la logica cooperativa e postulata da un
modello tutto basato sull'intelligenza diffusa, l'iniziativa e il
decentramento.
"Quelli che hanno avuto mansioni direttive, o che hanno loro stessi lavorato
manualmente in officina, possono comprendere quanto il lavoratore medio sia
lontano dal mettere a disposizione del datore di lavoro tutte le sue capacità di
iniziativa. (...) i lavoratori ritengono contrario ai loro interessi diretti offrire ai
datori di lavoro la loro iniziativa (...) lavorano deliberatamente a rilento (...)
speranza solo approssimativa di usufruire delle capacità di iniziativa dei
dipendenti." (p. 165).
Nell'assetto prefordista, l'idea stessa di organizzazione assume una
torsione tutta particolare, difficile da esprimere nel nostro linguaggio
organizzativo dominato da assunti di preordinazione centralizzata.
Piuttosto che "coordinare" (anche il coordinamento è incluso nel
patrimonio conoscitivo del mestiere), la parola che più si avvicina a questa
idea di organizzazione è "persuadere": compito della direzione è quello di
persuadere i lavoratori a dedicare le loro "capacità di iniziativa allo scopo
di realizzare per il datore di lavoro il maggior utile possibile". L'azione
organizzativa trova spazio non nella progettazione dei flussi e delle
connessioni fra attività, ma essenzialmente nella scelta delle persone e
nell'incentivazione (riducendo l'organizzazione a controllo della forza
lavoro, risulta determinante la discrezionalità nella selezione, nel
licenziamento e nell'impiego della leva retributiva; davvero, da questo
punto di vista, sembra che un secolo sia passato senza lasciare tracce nella
cultura manageriale corrente).
"L'organizzazione è ancora considerata una questione di uomini, secondo l'antica
opinione che, quando si ha l'uomo adatto, i metodi possono essere
tranquillamente lasciati alla sua discrezione." (p. 10) "(...) un buon numero di
coloro che più si interessano alla questione fanno consistere praticamente
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l'intero sistema organizzativo nell'adozione di qualcuno dei moderni sistemi di
salario (ad esempio retribuzione a cottimo, premi, gratifiche)." (p. 165).
1.2. Con lo scientific management l'organizzazione inizia a essere
concepita come progetto razionale ex ante, anziché come appropriazione
ex post delle conoscenze contenute nel mestiere. Proprio in quanto
superamento della logica di iniziativa/incentivo è giustificato parlare di
"rivoluzione mentale" e di nuovo paradigma organizzativo. Il progetto
enunciato nel Taylorismo (e parzialmente compiuto nel Fordismo) è quello
di superare radicalmente le due ipotesi fondative del paradigma
precedente :
- superare il negoziato distributivo sul surplus (o quanto meno
estrometterlo dall'organizzazione);
- e soprattutto superare l'empirismo (conoscenza implicita, esperienza e
tradizione) come base cognitiva del sistema industriale.
Il salto di qualità nella pratica organizzativa trova fondamento in un
diverso circuito cognitivo, cioè in un diverso tipo di conoscenze
("scientifiche", sistematiche, codificate) e in una diversa dislocazione delle
conoscenze (ruolo della direzione e divisione del lavoro intellettuale). La
definizione di "scientific management" fa riferimento a questa sostituzione
della base cognitiva, mentre quella di "task management" (pur
ampiamente utilizzata) fa riferimento alle modalità di coordinamento e
controllo rese possibili dalla innovazione cognitiva.
"Nella maggioranza dei casi (particolarmente quando il lavoro è di natura
complessa) lo sviluppo delle conoscenze scientifiche è il più importante dei
quattro elementi fondamentali della nuova organizzazione." (p. 198)
La pretesa taylorista, di assumere, il sapere scientifico come
fondamento e come meccanismo regolatore dell'organizzazione, è stata
spesso sviscerata nei suoi aspetti riduzionistici e mistificanti2. Il
fondamento delle critiche è fuori discussione, ma è contro ogni evidenza
dimenticare che il cuore dell'emergente modello organizzativo fordista sta
proprio nelle nuove modalità di produzione e utilizzazione della
conoscenza. Per analizzare la logica del capitalismo sistemico è dunque
necessario tornare con attenzione sulla "scientificità" dell'organizzazione.
Cosa è la scienza di Taylor? Innanzitutto essa non si definisce per il
suo contenuto di verità o di novità
"Sicuramente il raccogliere conoscenze che già esistevano ma si trovavano non
classificate nelle menti degli operai [...] significa fare un'organizzazione e
2
Cfr. in particolare i temi sviluppati in Rullani (1998) nell'intento di fissare una demarcazione fra
fordismo classico e fordismo maturo (carattere firm specific del sapere fordista, limiti alla sua
trasferibilità, deriva negoziale e corporativa dei sistemi) le cui implicazioni investono ampiamente e
integrano le considerazioni qui svolte).
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classificazione di conoscenze, anche se il chiamarlo 'scienza' non incontra
l'approvazione di qualcuno." (p. 264)
La scienza della produzione, inoltre, non è necessariamente un sapere
complicato, e neppure più esatto del sapere pratico, prescientifico
"In quasi tutti i casi le leggi e le norme che vengono stabilite risultano così
semplici che a stento una persona di media levatura le degnerebbe del nome di
scienza." (p. 218 ) Gli organizzatori scientifici si assumono volontariamente il
compito di raccogliere questa massa di conoscenze tradizionali, e poi di
radunarle, registrarle e, in certi casi, ridurle a leggi e regole e perfino formule
matematiche. [Il primo compito della direzione è] lo sviluppo di una scienza che
rimpiazzi le vecchie conoscenze approssimative degli operai ... che erano, in
molti casi, altrettanto esatte di quelle vagliate dalla direzione, ma che,
ciononostante, gli operai in 999 casi su 1000 conservavano nella loro mente e
delle quali non si aveva registrazione completa e permanente " (p. 263)
(sottolineature nostre)
La qualità nuova della conoscenza, capace di operare una "rivoluzione
mentale" nella teoria e nella pratica organizzativa, risiede nei caratteri
formali della conoscenza utilizzata: si tratta di conoscenza sistematica,
codificata, certa; si tratta di "ordinarla in tabelle e sintetizzarla in
prescrizioni"; si tratta di ritenere e valorizzare le conoscenze prodotte,
assicurandone la "registrazione completa e permanente".
Quale surplus si può attendere da una simile trasformazione della base
cognitiva del lavoro organizzato? Come il sistema cognitivo scientificato
della grande fabbrica si può tradurre in produttività e in generazione di
valore?
Nel rispondere a questo interrogativo, la riflessione si appunta
tradizionalmente sull'utilizzo degli standards (tempi e metodi) come
strumento di controllo sull'effettiva erogazione della forza lavoro, come
esazione forzosa della prestazione, e in effetti le valenze dell'analisi
scientifica dei metodi come base per il controllo sono evidenti e
consapevoli.
"[Una] completa standardizzazione dei metodi e di tutti i dettagli è una
premessa assolutamente indispensabile per poter stabilire il tempo di
esecuzione di ogni operazione e per esigere che questa venga effettivamente
eseguita nei limiti di tempo concessi." (p. 82)
Meno evidenti (anche in Taylor) sono le potenzialità trasformatrici della
"scientificità" sull'intera configurazione della produzione industriale (sui
rapporti interni e sul ruolo del management e nel rapporto con la
tecnologia e con i mercati). Qui stanno tuttavia gli effetti più profondi e
durevoli dell'evoluzione intervenuta nel sistema cognitivo della fabbrica.
"D'altra parte, ottenere l'iniziativa degli operai è la minore delle due cause
principali che rendono l'organizzazione scientifica assai migliore per ambo le
parti del vecchio tipo di organizzazione. Il maggiore vantaggio che si ottiene con
l'organizzazione scientifica proviene dai nuovi vasti e straordinari compiti e
doveri che la direzione volontariamente si assume ; questi nuovi compiti e doveri
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sono così inconsueti e così grandi che sembrano quasi inconcepibili a uomini
abituati ai vecchi metodi di organizzazione." (p. 263)
Non è solo il rapporto capo/operaio (o prestazione/controllo/incentivo) che
risulta trasformato, ma l'intera configurazione del processo produttivo e
l'idea stessa di "collaborazione" e di organizzazione.
"[l'aspetto] più difficile da comprendere da parte dell'uomo medio [...] consiste
nel dividere in parti quasi uguali l'effettivo lavoro di uno stabilimento tra gli
operai da un lato e la direzione dall'altro. in altre parole, il lavoro che, con il
vecchio tipo di organizzazione, era fatto praticamente dagli operai, viene diviso
in due parti ed una di queste viene affidata alla direzione. Questa nuova
divisione del lavoro, questa nuova parte di lavoro che la direzione si assume, è
così grande che [...] per esempio in officina meccanica che compie lavorazioni
complesse [...] ci sarà un uomo della direzione ogni tre operai. [...] In un'officina
meccanica organizzata in tal modo, non c'è una sola operazione compiuta dagli
operai che non sia preceduta e seguita da qualche operazione compiuta dalla
direzione . Le operazioni di registrazione, direttive ed esecutive, fluiscono in
successione e si legano in interdipendenza." (p. 265)
Anziché come capacità naturale delle persone, la cooperazione è concepita
come costrutto preordinato, regolazione estrinseca, sincronizzazione.
" il lavoratore, quand'anche avesse una conoscenza completa dei moderni sistemi
e manifestasse le migliori intenzioni, non potrebbe mai raggiungere quei risultati
sbalorditivi. [...] autentica ed efficace collaborazione non è quella in cui un
complesso di prestatori d'opera coopera con la direzione, ma quella in cui un
certo numero di dirigenti (ciascuno nel suo campo particolare) assiste ogni
lavoratore, [...] controllando che tutte le persone con cui viene in contatto lo
aiutino, eseguendo con cura e prontezza la loro parte di lavoro."(p. 197)
1.3. L'adozione della "scienza" come principio ordinatore della
produzione industriale impone una trasformazione radicale dei ruoli e dei
rapporti organizzativi. La "scientificità" infatti è intrinsecamente un
diverso modello di divisione del lavoro, che imprime una diversa forma
all'organizzazione della fabbrica e ridefinisce i soggetti della produzione
(gli operai, certo, ma soprattutto la direzione, che ne esce totalmente
trasformata).
"Il lavoro a carattere normativo, che nel sistema tradizionale veniva compiuto
dall'esecutore materiale, utilizzando la propria esperienza, nel nuovo sistema
deve necessariamente essere eseguito dalla direzione, adeguandosi a leggi
scientifiche, in quanto, se anche il lavoratore fosse perfettamente idoneo alla
determinazione e all'impiego di dati scientifici, gli risulterebbe impossibile
prestare la sua opera contemporaneamente presso la macchina e presso la
scrivania." (p. 167)
Il sapere codificato (l'ufficio) spiazza non solo il mestiere operaio ma anche
la gerarchia di produzione.
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"Tutta l'attività intellettuale deve essere eliminata dall'officina e concentrata
nell'ufficio programmazione, riservando ai capi reparto e ai capi squadra il
lavoro di carattere strettamente esecutivo: [...]" (p. 65)
Il lavoro cognitivo implica un rilevante investimento di risorse, che
eccede sia le possibilità che il quadro di convenienze del singolo lavoratore
(l'investimento si giustifica solo se è garantita l'utilizzazione ripetuta e
allargata dell'informazione prodotta). Il lavoro cognitivo quindi non può
che diventare una funzione specializzata centrale del sistema
organizzativo (ufficio programmazione, tecnostruttura) separata dal
lavoro produttivo.
Il lavoro produttivo invece è focalizzato sullo hic et nunc, nella radicale,
assiomatica impossibilità di produrre (o anche solo di comprendere) le
conoscenze adeguate alla complessità del sistema. I limiti cognitivi del
lavoro produttivo nella organizzazione del lavoro industriale vanno cercati
nella nozione strutturale di "isolamento": la contrapposizione fra sforzo
isolato del singolo e sforzo congiunto (interconnesso e mediato dal
management) è uno dei motivi più ricorrenti e più ignorati
dell'organizzazione "scientifica".
Nel nuovo paradigma organizzativo, la "collaborazione" (il termine più
centrale e più ambiguo dell'intero pensiero organizzativo) non designa
tanto l'antitesi di conflitto, quanto piuttosto l'antitesi di isolamento. La
"armonica collaborazione" non può quindi essere il prodotto dell'azione
intelligente e bendisposta dei singoli soggetti. Essa diventa un risultato
producibile solo in quanto l'intera trama delle interdipendenze sia resa
trasparente e computabile, e in quanto esista nell'organizzazione un
operatore distinto che se ne faccia portatore efficace.
"E' soltanto imponendo l'unificazione dei metodi, imponendo l'adozione degli
attrezzi più razionali e delle migliori condizioni di lavoro, imponendo la
collaborazione , che si può assicurare un lavoro più rapido. Il compito di far
entrare in vigore sistemi unificati e forme di collaborazione spetta unicamente
alla direzione ." "Vi sono molti operai che sono intellettualmente capaci di farlo,
che hanno un'intelligenza sufficiente come quelli della direzione. Ma la scienza di
fare un lavoro di qualsiasi genere non può venire sviluppata da un operaio.
Perché? Perché egli non ha né il tempo né il denaro per farlo." (p. 196 e 385)
1.4. Nell'organizzazione "scientifica", la trasparenza e la computabilità
del sistema sono ottenute attraverso operazioni di riduzione della
complessità ex ante (semplificazione e separazione), sia all'interno del
sistema di produzione, sia nei rapporti fra il sistema e il contesto esterno.
Una prima riduzione di complessità è ottenuta escludendo la varietà e la
dinamica del contesto. Entro i confini del sistema si produce un universo a
varietà ridotta, presidiato da un’operazione di integrale normalizzazione.
L'ossessione del controllo totale, tipica dell'organizzazione fordista,
presidia della validità della conoscenza utilizzata. Un margine di
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variabilità libera è ammesso solo come disturbo, come residuo da trattare
statisticamente ("imprevisti"). Al livello superiore, la complessità delle
decisioni non programmate è espulsa rendendola sostanzialmente esogena,
rinviata all'alta direzione (a differenza del fordismo maturo,
l'organizzazione "scientifica" rimane sempre organizzazione dell'officina,
mai dell'impresa industriale)
"L'officina, e in effetti l'intero stabilimento, dovrebbero essere diretti non dal
direttore, dal sovrintendente o dal capo officina, ma bensì dall'ufficio
programmazione. [... Al direttore rimane così] molto tempo libero per
esaminare i più vasti problemi di condotta dell'azienda" (p. 75 e 85)
Esclusa è anche la complessità che nasce dall’iniziativa autonoma dei
soggetti e dalle dinamiche spontanee del sistema sociale.
"Forse la parte più importante nella formazione di un capo [...] consiste
nell'insegnargli la pronta obbedienza alle istruzioni ricevute [...] anche qualora
fosse convinto di conoscere un procedimento molto più conveniente.” ( p. 94)
"[...] allorché la manodopera è raggruppata [...] la capacità produttiva del singolo
scende invariabilmente al livello del più scadente del gruppo." (p. 190)
Per potersi avvalere della potenzialità delle macchine e delle conoscenze
codificate, il sistema organizzativo viene radicalmente spersonalizzato.
Esso non ammette soggetti ma solo operatori deterministici: nell'ufficio
programmazione sono collocate le funzioni tecniche (specialisti), operatori
logici che producono conoscenza codificata; nell'officina gli operatori
materiali che replicano l'applicazione dei codici (componentisti).
Il circuito cognitivo che collega i due operatori deterministici ammessi
dal modello (lavoro normativo e specialistico di codificazione; lavoro
esecutivo e materiale di replicazione) prevede al tempo stesso la totale
separazione e la massima interconnessione dei due momenti:
- gli operatori materiali sono circoscritti dal compito assegnato e privi di
qualsiasi capacità di interconnessione tra loro e con l'esterno;
- l'operatore logico, lo specialista che assegna i compiti, è colui che li
separa e che al tempo stesso li interconnette. I processi di
interconnessione, di condivisione delle informazioni, di selezione e
codificazione della varietà esterna sono interamente collocati al livello
degli specialisti.
In questo schema del circuito cognitivo si possono anche chiaramente
individuare due grandi nodi irrisolti del fordismo "classico".
- Irrisolta è innanzitutto la natura della connessione che lega il lavoro
produttivo a quello normativo. Il lavoro esecutivo da una parte è
concettualizzato come pura esecuzione di compiti, ma d'altra parte esso
è identificato come principale fonte di informazione originaria (i
suggerimenti degli "operai intelligenti"). Gli effetti della separazione
degli ambiti conoscitivi del lavoro esecutivo e di quello normativo si
faranno sentire nel tempo, con una divaricazione crescente, fino a
creare due circuiti conoscitivi non più comunicanti, interrompendo il
flusso di informazione che dall'implementazione riconduce al calcolo
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attraverso
processi
ricorsivi
di
contestualizzazione
e
decontestualizzazione.
- Irrisolta è anche tutta la questione dei processi decisionali del
management. Taylor ipotizza il ricorso a semplicissimi strumenti di
connessione e condivisione delle conoscenze (prossimità fisica,
modulistica unificata, un minimo di articolazione gerarchica della
tecnostruttura) ma la diffusione e la potenza stessa dell'organizzazione
scientifica si incaricheranno di dimostrarne l'inadeguatezza,
alimentando la crescita della complessità da governare e mettendo allo
scoperto i limiti delle capacità di calcolo attribuite alla tecnostruttura.
Gran parte del pensiero organizzativo successivo avrà come oggetto il
problema dei processi decisionali, liquidato da Taylor in poche
semplicissime righe.
2. SIMON E ALTRI (IL FORDISMO MATURO)
Il fordismo "classico" presuppone:
- disponibilità della forza lavoro a scambiare il controllo sui processi
produttivi con un’adeguata quota del surplus;
- piena circolazione delle conoscenze fra attività intellettuali ed
esecutive, in modo che la codificazione possa essere alimentata dalla
esperienza;
- livelli di complessità decisionale limitati, tali da poter trattare
l'incertezza come residuo.
Su queste basi, il modello arriva a ipotizzare la definizione di standard
di produzione comuni, accettati sia dagli operai che dalla direzione "data
la loro correttezza", e d'altra parte ipotizza la formazione di una mente
organizzativa capace di accentrare lo scambio di informazione e
funzionante quasi senza attriti, "un gruppo di persone di particolare
competenza che lavorano assieme come una macchina funzionante
regolarmente".
La teoria organizzativa nasce, con lo Scientific Management, come
teoria del lavoro intellettuale, o meglio come teoria del rapporto fra
attività cognitive e attività esecutive, ma l'orizzonte rimane pur sempre
quello del coordinamento e controllo dei lavoratori esecutivi. Il lavoro
intellettuale in quanto tale (e la sua organizzazione) restano quasi
inesplorati.
L'enorme successo del paradigma organizzativo fordista, e quindi
l'evoluzione innescata nelle strutture della produzione industriale, faranno
venire meno la validità dei presupposti. Il fordismo "maturo" ha
nell'organizzazione scientifica la sua matrice ideologica, ma sarà qualcosa
di assai diverso e più complesso di una semplice "applicazione" dei suoi
principi. E' quindi necessario riprendere problematicamente ciò che lo
Scientific Management aveva assunto come dato.
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2.1. Tutto il percorso dell'organizzazione fordista è accompagnato dallo
sviluppo di una linea di riflessione parallela e complementare al
riduzionismo e alla spersonalizzazione dell'organizzazione "scientifica".
Dalle Human Relations, al pensiero motivazionalista, alle innumerevoli
manifestazioni contemporanee di un approccio di neo relazioni umane, si
afferma la "realtà del sistema dei sentimenti", intendendo con ciò, più in
generale, il primato del soggettivo, dell'interazione e dell'integrazione
sociale.
I processi cognitivi dell'organizzazione si avvalgono necessariamente
delle capacità intellettuali dei soggetti, ma a loro volta i soggetti
(individuali e sociali) sono dotati di processi cognitivi propri, eterogenei e
non riducibili rispetto ai meccanismi di produzione e circolazione della
conoscenza scientifica utilizzata dall'organizzazione.
La riflessione psicosociale sull'organizzazione esplora instancabilmente
la convivenza fra questi autonomi principi di ordinamento cognitivo della
realtà, la cui intersezione può essere tematizzata in modi assai diversi:
- La matrice Human Relations esprime la natura irriducibilmente sociale
dei comportamenti lavorativi (il “senso della funzione sociale” di Mayo),
e quindi richiama la permanente presenza dentro l’organizzazione di un
fattore di complessità non eliminabile, radicato nella soggettività e nei
rapporti primari. La razionalità affettiva dei soggetti e la razionalità
tecnica della produzione si fronteggiano; l’organizzazione “informale”
infiltra e minaccia la razionalità “formale” dei procedimenti scientifici.
Gli obiettivi (economici e tecnici) dell’organizzazione devono allora
essere estesi fino ad includere obiettivi di integrazione sociale, anche
accettando vincoli al sistema tecnico. Il compito di decodificare la
variabile sociale e di riportarla a compatibilità con le esigenze della
produzione resta affidato fondamentalmente alla competenza
interpersonale dei capi.
- La soggettività presente nell’organizzazione può anche essere intesa in
senso più forte e meno negativo, non solo come soggettivismo
(percezioni distorte, affettività, appartenenze microsociali) e non solo
come obiettivi particolari distorcenti rispetto all’obiettivo formale
dell’organizzazione. Il soggetto può essere visto come portatore di
propri bisogni e significati, e come portatore di autonome risorse
cognitive di creatività e adattamento, che devono essere messe in valore
dall’organizzazione. Il tema ricorrente della disaffection esprime la
contraddizione fra risorse umane e condizioni di spersonalizzazione
imposte dal paradigma fordista. L’organizzazione dovrebbe al contrario
ricreare le naturali condizioni del comportamento “maturo” e
“motivato”. Si ipotizza una potenziale coincidenza di obiettivi e una
potenziale identità di modelli cognitivi fra soggetti e sistema: renderla
13
attuale è il compito dello “sviluppo organizzativo”, eliminando le
barriere alla comunicazione e riportando il senso dentro i compiti.
- Le manifestazioni recenti di questa linea di pensiero sono più difficili da
ricondurre a un motivo unificante. Fra i motivi caratteristici
ricordiamo:
• priorità delle risorse soft (innanzitutto la cultura) nell’identificare le
capacità distintive dell’organizzazione;
• coazione a ripetere identificata con le strutture; capacità di
innovazione identificata con i soggetti;
• conseguente identificazione conoscenza formalizzata/rigidità e
comunicazione informale/flessibilità;
• investimento sulle conoscenze e sulle capacità cognitive delle
persone (apprendimento) in una logica di intelligenza distribuita.
Nelle sue diverse espressioni (in cui le tematiche motivazionali e
partecipative, alla Likert, finiscono spesso per intrecciarsi al dualismo
meccanicistico/organicistico, alla Burns e Stalker), questa linea di
riflessione accompagna e rispecchia tutta l’evoluzione del pensiero
organizzativo L'irriducibile complessità del comportamento umano diviene
l’altra faccia, lo specchio in negativo, del determinismo di matrice fordista.
Richiamando la dinamica dei comportamenti soggettivi, riafferma la
natura sociale delle organizzazioni contro ogni determinismo tecnologico.
Esprimendo la tensione fra soggetti e sistemi, si oppone a una reificazione
meccanicistica dell’organizzazione.
Il primato del soggettivo e dell’informale, d’altra parte, espone questa
linea di riflessione a frequenti sovrasemplificazioni. Il continuo ritorno al
soggetto e al suo sistema cognitivo (affettivo, valoriale, normativo) tende
a escludere dall’analisi il circuito più ampio di produzione e utilizzo della
conoscenza. Di fronte all’evoluzione dei sistemi di produzione, in una
logica di neo relazioni umane si ripropone (aggiornato in termini di
flessibilità, di “empowerment”, di “competenza”) l’identico interrogativo
sull’integrazione dei soggetti nell’organizzazione (e nelle versioni di largo
consumo si ripropone il "coinvolgimento" attivo e intelligente dei soggetti
come identico rimedio alle conseguenze disfunzionali dei sistemi
organizzati). In questo modo si tocca un nodo problematico permanente,
ma non si sviluppa il problema dell’organizzazione come sistema
complesso e artificiale, caratterizzato da forme diverse di divisione del
lavoro cognitivo.
2.2. Nel fordismo classico la prima, fondamentale, divisione del lavoro è
la divisione fra lavoro “normativo” e lavoro “esecutivo”.
Taylor non percepisce le implicazioni di questa interruzione del circuito
cognitivo fra scienza e pratica, e comunque ipotizza che la prossimità
fisica, la condivisione del contesto di esperienza e l’iniziativa intelligente
degli operai siano di per sé sufficienti a garantire la connessione fra lavoro
14
normativo e lavoro esecutivo. La storia del fordismo maturo al contrario è
storia di separazione crescente fra il mondo dell’officina e quello
dell’ufficio.
Il successo dei nuovi modi di produzione logora le condizioni di contesto
che ne erano il presupposto: viene meno, o rimane confinato in ambiti
particolari, il patrimonio conoscitivo del mestiere; aumenta la
complicazione dei processi e la divisione del lavoro, non più leggibile nella
sua logica a partire dalle singole mansioni. Anziché come momenti distinti
ma accomunati dal linguaggio della scienza, la direzione e l'esecuzione
tendono a configurarsi come mondi separati, operanti con logiche e
linguaggi diversi. Il lavoro di “programmazione” (caratterizzato dalla
conoscenza codificata, dall’inclusione nei processi decisionali, dalla
appartenenza) cresce su se stesso e acquista autonomia crescente. Il
lavoro di produzione (caratterizzato dal sapere pratico e dalla estraneità)
negozia incessantemente la propria prestazione, e salvaguarda la propria
autonomia attraverso il controllo sui contesti operativi concreti (i
“trucchi”).
La completa separazione fra l’ambito del lavoro normativo e quello del
lavoro esecutivo è innanzitutto irrealistica, per i limiti del controllo
esercitato sulle variabili concrete del processo produttivo. La divaricazione
crescente fra i due universi, d’altra parte, si rivela un ostacolo formidabile
ai processi di accumulazione della conoscenza, impedendo il continuo
passaggio dalla teoria alla pratica e dalla pratica alla teoria che li
alimenta e li rende cumulativi.
La questione irrisolta della connessione fra lavoro intellettuale e lavoro
esecutivo emerge continuamente, in varie forme, nell’esperienza
operativa. Nei fatti la divaricazione fra lavoro normativo e lavoro
esecutivo è generalmente colmata (non senza costi e dispersione di
conoscenze) da accomodamenti ad hoc, omogeneità culturale,
micronegoziazione (implicita). La questione è però divenuta anche oggetto
di riflessione teorica.
- Spesso interpretata come problema di “coinvolgimento”.
Questo tema, in Italia, diviene la preoccupazione organizzativa
prevalente del management dopo le lacerazioni sociali e i conflitti
sindacali degli anni 70, che lasciano tracce durevoli nella cultura del
lavoro. Molte sono le chiavi utilizzate per riannodare i fili del consenso
e del coinvolgimento nelle organizzazioni (salari parametrati ai risultati
dell’impresa, direzione per obiettivi, ecc.) ma l’ottica prevalente rimane
quella dell’integrazione sociale (lavoro di gruppo, ruolo del capo, ecc.) ,
magari rivisitata in termini di "qualità".
- A volte tematizzata nei suoi contenuti specifici di rapporto fra job e
patrimonio conoscitivo individuale e collettivo della forza lavoro .
Peculiare attenzione è stata rivolta alle produzioni a processo continuo,
per metterne a fuoco la “organizzazione reale” (Butera, 1977), dove
15
organizzazione formale e informale si sovrappongono e dove si
integrano le soggettività sociali e le competenze contestuali (de Terssac,
1992).
“Professionalità” è invece il termine utilizzato per regolare e rivalutare
(negozialmente) il sapere produttivo distribuito, complementare al
sapere astratto nel regolare la complessità della produzione, là dove
sopravvive la logica del mestiere, ma anche all’interno della fabbrica
fordista (Del Lungo, 1980).
- Coerentemente sviluppata in un modello forte (il Toyotismo).
Oltre a costituire una variante “locale” del paradigma fordista
(specificità culturale) il modello giapponese può essere visto come
coerente sviluppo dell’organizzazione scientifica, portata alle estreme
conseguenze: rimane (accentuato) l’orizzonte firm specific e rimangono
l’analisi scientifica e la standardizzazione spinta dei procedimenti
produttivi; la scientificazione dei procedimenti però, anziché funzione
specialistica separata, diventa compito diffuso a ogni livello della
produzione (operai compresi). Rimane la parcellizzazione dei compiti
esecutivi, ma si arriva alla codificazione e modularizzazione anche dei
processi di regolazione dei flussi, fino a rendere reale quella totale
"fluidità" dei processi produttivi che la programmazione centralizzata
fordista aveva potuto solo avvicinare. In questo senso, il Toyotismo
concretizza l’ideale fordista di flessibilità ottenuta tramite la rigidità e
la completa codificazione dei moduli di un sistema complesso (Shingo,
1985).
2.3. Il problema della divisione del lavoro "intellettuale", è chiaramente
prospettato ma rimane largamente irrisolto nell'organizzazione
"scientifica". L'applicazione della scienza alla produzione, e quindi
l'aumento della produttività del lavoro esecutivo, è fatta dipendere dalla
crescita e dalla separazione del lavoro intellettuale (dai "nuovi vasti e
straordinari compiti e doveri che la direzione volontariamente si assume"),
ma il modello proposto per l'articolazione funzionale del lavoro
intellettuale si rivelerà pateticamente inadeguato alla complessità del
problema. Un sostanziale passo avanti nella comprensione delle
organizzazioni come sistemi cognitivi artificiali e complessi si avrà solo
con Simon e la teoria della razionalità limitata.
Con l'organizzazione "scientifica", la conoscenza cessa di essere un
attributo dell'imprenditore per divenire attributo del sistema
organizzativo
Con Simon, l'identificazione fra organizzazione e conoscenza diviene più
consapevole e radicale. La decisione viene assunta come unità logica per
l'analisi dell'organizzazione e il lavoro decisionale diviene l'oggetto di
interesse prevalente della teoria organizzativa. Da Simon in poi,
organizzare significherà innanzitutto migliorare la qualità delle decisioni,
16
governandone le premesse. Conoscenza e organizzazione non sono ormai
più separabili:
- La conoscenza è affondata nell'organizzazione e nelle sue routines; non
è rilevazione oggettiva e elaborazione trasparente, ma piuttosto
registrazione dell'esperienza organizzativa.
- D'altra parte, l'organizzazione altro non è che procedura di problem
solving e memoria sedimentata. La gerarchia stessa, da sempre letta
come comando, è anch'essa procedura di elaborazione e soluzione dei
problemi.
Con la teoria della razionalità limitata, si rovescia il postulato della
piena conoscibilità dei processi produttivi implicito nell'organizzazione
"scientifica". Si entra in un universo dove la complessità dei problemi
eccede la capacità cognitiva (decisionale, informativa) disponibile, dove
non è più possibile assumere come ipotesi una drastica riduzione ex ante
della complessità.
L'incertezza (espressione reificata dei limiti della razionalità di Simon)
diviene l'assunto chiave in gran parte degli sviluppi successivi del pensiero
organizzativo, pur nella grande varietà dei filoni teorici post-simoniani.
Ciò è vero in particolare per il pensiero di Thompson, ed è vero anche per
quella parte della teoria contingency (Perrow e Galbraith) che muove
dalla tecnologia e dalla complessità del task, per poi sviluppare una logica
di progettazione organizzativa "contingente" in termini di capacità
decisionale necessaria.
La fondamentale rigidità delle tecnologie industriali, al cuore del
sistema produttivo fordista, produce un'esigenza di certezza e quindi la
necessità di assicurare il massimo controllo sulle variabili del processo.
"La razionalità tecnica [...] è perfetta sotto il profilo strumentale quando diventa
un sistema chiuso di logica: quest'ultimo comprende tutte le variabili rilevanti e
solo le variabili rilevanti. Tutte le altre influenze, o variabili esogene, sono
escluse; le variabili contenute nel sistema variano solo nella misura consentita
dallo sperimentatore, dal manager o dal computer.
Quando però la tecnologia è attivata, non entrano in gioco soltanto le
conseguenze desiderate e la conoscenza delle relazioni importanti di
causa/effetto, bensì anche il potere di controllare le risorse empiriche che
corrispondono alle variabili del sistema logico. Un sistema chiuso di azione che
corrisponda a un sistema chiuso di logica dovrebbe tradursi in perfezione
tecnologica nella realtà. (Thompson, 1994, p. 88)
La costruzione teorica di Thompson appare ancora oggi
l'interpretazione più lucida dell'organizzazione nel fordismo "maturo",
fondata sui limiti della razionalità, da una parte, sulla rigidità della
tecnologia "industriale" dall'altra. Il dinamismo dell'ambiente e
l'imperfezione delle tecnologie ripropongono dentro l'organizzazione la
sproporzione fra la complessità dei problemi e la conoscenza posseduta.
Attorno al nucleo tecnologico si dispongono quindi reti di protezione per
garantire una semplificazione e stabilizzazione dei contesti compatibile
17
con i limiti della razionalità. Verso l'esterno l'azione organizzativa assume
tipicamente modalità di negoziazione e di adattamento; verso l'interno
invece le modalità tipiche sono quelle del controllo e del piano, in un
universo di complessità ridotta e di interdipendenze governate.
Buona parte della teoria della progettazione organizzativa contingente
è costruita con questi materiali, anche se in un quadro teorico più
deterministico. Assumendo a riferimento il modello di Galbraith (1969)
esemplare per chiarezza e schematicità:
- l'organizzazione è definita in termini strettamente cognitivi, come
sistema di trattamento delle informazioni;
- la natura del lavoro cognitivo da svolgere è determinata dalla quantità
di incertezza (intesa come caratteristica del compito da svolgere,
reificata, oggettivamente determinabile) ;
- la definizione analitica di incertezza è tutta giocata in termini negativi
(come lacuna, disturbo, "eccezione").
A fronte dell'incertezza dei compiti (e dell'interdipendenza che la
propaga) due strategie cognitive sono fondamentalmente aperte
all'organizzazione:
- limitare ex ante la complessità da governare: semplificare i problemi,
ridurre le interdipendenze, accettare soluzioni subottimali;
- potenziare le capacità di adattamento ex post, tipicamente facendo
ricorso a soluzioni meno strutturate, meno formalizzate, nell'intento di
trarre profitto da comunicazioni più intense e dirette (“mutual
adjustement”).
Tende così a riproporsi una schematica alternativa fra modello
razionale e modello naturale, fra strutture "meccanicistiche" e strutture
"organiche". Qualche indicazione strutturale più specifica è formulata per
la circolazione delle conoscenze in condizioni di complessità elevata
(relazioni orizzontali, progetti, matrice). Resta però evidente il "trade off
fondamentale" del paradigma organizzativo fordista: quello fra flessibilità
(richiesta dalla varietà e variabilità del compito, delle tecnologie,
dell'ambiente) e strutturazione formalizzata delle modalità di
coordinamento (richiesta dal controllo dei processi e, in ultima analisi,
dall'impiego della scienza nella produzione) .
La stessa idea di coordinamento per "adattamento reciproco" rischia di
essere null'altro che il nome attribuito a situazioni di complessità non
altrimenti governabili dall'organizzazione, se non facendo ricorso alle
conoscenze implicite e alla flessibilità naturale delle persone. La fortunata
idea di "adhocrazia" (Mintzberg, 1979), ad esempio, risulta analiticamente
costruita tutta in negativo (non norma, non gerarchia, non piano), come
"forma" organizzativa la cui unica caratteristica definitoria è la mancanza
di forma.
18
3. POSTFORDISMO (MENO
ORGANIZZAZIONE?)
ORGANIZZAZIONE O PIÙ
Paradossalmente, proprio quando la produzione di valore inizia a essere
teorizzata come produzione di conoscenza (apprendimento, capacità
distintive, informazione) (Di Bernardo e Rullani, 1990), la teoria
dell'organizzazione come sistema cognitivo che "fronteggia e tenta di
ridurre l'incertezza" (nella linea Taylor-Simon-Thompson) inizia ad
apparire insufficiente:
- non soddisfa la sedimentazione della conoscenza in strutture firm
specific (inerziali, scarsamente reversibili) ;
- sembra inadeguata un'idea di incertezza come carenza di informazioni
rispetto a un compito dato (alla Galbraith) ;
- va ripensato l'assunto implicito (anche in Thompson) di una intrinseca
rigidità della tecnologia
Da almeno due decenni, l'evoluzione del sistema produttivo non si
colloca sotto il segno del controllo esercitato dalla grande corporation sulle
dinamiche ambientali e sullo stesso progresso tecnologico, ma sotto il
segno
della complessità e dell'indeterminazione ("flessibilità",
"innovazione") .
In questo scenario la teoria organizzativa mostra segni di
disorientamento, o quanto meno di riorientamento. Il dibattito si sviluppa
in forme confuse, e il proliferare di "nuovismi" ingenui, in questa fase, può
indurre per reazione a una "rigorosa" riaffermazione dei risultati teorici
già acquisiti, altrettanto pericolosa se incapace di cogliere la novità.
3.1. A fronte dell'evoluzione in atto, fra i molti percorsi teorici che si
confrontano con gli elementi di novità emergenti, alcuni potrebbero essere
indicati come "fondamentalismi", in quanto implicano un ripensamento
delle categorie teoriche fondamentali:
- L'organizzazione può essere ridefinita in termini radicalmente
soggettivi, sostanzialmente al di fuori di ogni disegno intenzionale e
(limitatamente) razionale di coordinamento e controllo dell'azione
organizzativa.
A risultati di questo genere si perviene sia enfatizzando la dimensione
dell'incertezza (che diviene "ambiguità" e fortuita coincidenza di
soggetti, problemi e soluzioni), sia concentrando l'attenzione sulla
libertà degli attori (cioè sulla "analisi strategica" dei comportamenti
individuali, dalle cui interazioni sono fatte derivare le strutture) ."Nei
contributi organizzativi orientati verso tali prospettive, come quello di
Crozier, ... come nell'approccio alla cultura e al simbolismo
organizzativo, e come anche nell'ambiguità decisionale di March, la
struttura è conoscibile solo nell'infinita varietà dei casi concretamente
19
determinati: non vi è alcuna possibilità di preordinare secondo modalità
tipiche il processo organizzativo" (Maggi, 1990, p. 23) .
La razionalità e il controllo dell'incertezza restano presenti (e sono
riconoscibili) nelle strategie degli attori, ma non sono più un attributo
dell'organizzazione in quanto tale. L'organizzazione, anziché come
costruzione artificiale per il governo della complessità, è percepita come
esito (più o meno fortuito) e come vincolo all'azione libera dei soggetti.
L'evoluzione delle strutture organizzative può allora manifestarsi in
una varietà di nuove forme emergenti, osservabili e interpretabili a
posteriori, ma non analizzabili a priori come paradigma coerente.
- Per altro verso, l'organizzazione è ridefinita in termini di economia dei
costi di transazione.
L'attenzione alle diverse modalità di transazione rispecchia alcuni
rilevanti fatti nuovi, in tema di integrazione-disintegrazione verticale
della produzione e in tema di cooperazione fra imprese e di accordi (pur
spiegandoli come forme intermedie fra polarità già note). Essa coglie,
inoltre, alcuni aspetti problematici, in tema di appropriabilità dei
risultati che sono sicuramente critici in un'economia della conoscenza e
delle risorse immateriali.
Il nodo fondamentale di ogni logica organizzativa è però sempre
individuato nella eseguibilità dei contratti e nella salvaguardia degli
investimenti, là dove prevalgano condizioni di incertezza e di specificità
negli scambi. Anche la conoscenza viene presa in considerazione in
rapporto allo scambio, quindi soprattutto negli aspetti di asimmetria
informativa su cui fanno leva i comportamenti opportunistici dei
soggetti.
L'organizzazione ("gerarchia") è vista essenzialmente come presidio
degli investimenti "idiosincratici" e come controllo dei comportamenti
opportunisti. Non assume rilievo, invece, l'organizzazione in quanto
governo della complessità attraverso la produzione di conoscenze. La
complessità è infatti considerata in quanto alterazione dei rapporti di
scambio non in quanto condizione che sollecita una crescente divisione
del lavoro cognitivo.
All'altro estremo, si potrebbero definire "pragmatismi" quei filoni di
riflessione organizzativa (di elevata risonanza pubblicistica) che si
occupano di nuovi modelli di gestione (e/o metodi di intervento) proposti al
management, e studiati nelle loro modalità di applicazione,
preoccupandosi meno del quadro teorico in cui i vari strumenti sono
collocabili:
- Ci riferiamo innanzitutto al just in time e alla lean organization .
Il richiamo al modello giapponese, in un paragrafo dedicato ai fenomeni
organizzativi emergenti con la crisi del fordismo, si giustifica per alcuni
caratteri distintivi attribuiti al modello: elevata customizzazione del
20
mix produttivo, trasparenza informativa e conoscenza diffusa,
disintegrazione del ciclo e cooperazione interorganizzativa.
- Altrettanto rilevante pragmaticamente è il filone Business Process
Reengineering.
A una prima lettura, molti temi echeggiati nella letteratura sul BPR
sembrano rifarsi a riferimenti già noti. L'idea di ripensare
l'organizzazione a partire dal processo di lavoro indiviso, utilizzando
modalità partecipative di analisi e progettazione, può richiamare le
esperienze del Tavistock Institute e (in Italia) le "ricerche intervento"
degli anni 70, mentre altri aspetti rinviano all'Organization
Developement, al Job Design, ecc. Ciò che fa la differenza, però, e che
costituisce il nucleo innovativo forte della proposta, è la scelta
programmatica di mettere a frutto tutte le potenzialità insite nelle
tecnologie dell'informazione, usate come tecnologie di organizzazione,
in quanto capaci di rendere praticabili modalità innovative di
coordinamento e controllo.
Altro filone significativo di “pragmatismo” tecnologico è quello
emergente legato all'applicazione dell'Electronic Resource Planningn
(ERP), ugualmente orientato a valorizzare le potenzialità innovative
emergenti sul confine organizzazione-informazione-tecnologia. Resta da
vedere in che direzione tali potenzialità saranno convogliate: se verso
una nuova organizzazione "scientifica" o verso approdi meno interni
alla tradizione fordista.
- Gran parte delle formule manageriali pragmaticamente proposte nella
crisi del fordismo sono però riconducibili a una linea di Neo Relazioni
Umane.
Di fronte alla crisi delle strutture tradizionali (rigidità,
corporativizzazione) e alla inefficacia di risposte che passino per la
progettazione di strutture ancora più complesse, l'idea è che, per
arrivare al cuore del problema, l'unica strada sia quella di tornare al
cuore dell'uomo (o almeno al suo cervello) e alle sue capacità relazionali
(il gruppo).
L'ondata di neo relazioni umane si divide in mille rivoli e assume mille
colori (spesso inglobando materiali eterogenei, just in time e
reengineering compresi). In qualche caso si assiste alla semplice
riproposizione di modelli motivazionalisti d'epoca3, in altri si rileggono
in chiave "organica" i temi dei rapporti interfunzionali, fra staff e line ,
fra headquarters e operations, ecc.
Forte è l'enfasi sulla crisi dei modelli organizzativi consolidati (tanto da
rendere impronunziabili termini come specializzazione funzionale,
3
E' sorprendente vedere, nella letteratura corrente, quanti abbiano fatto ricorso a Maslow o a Mc
Gregor per spiegare i caratteri “nuovi” dell'organizzazione.
21
gerarchia, job) e conclamata è la ricerca di nuovi principi e modelli di
organizzazione (soprattutto in ambienti dove il cambiamento
organizzativo parte da situazioni arretrate, dalla Pubblica
Amministrazione alle banche).
In questa linea di pensiero, l'enfasi sulla flessibilità diventa
necessariamente meno formalizzazione, meno controllo, meno struttura
(meno organizzazione). Dato il "trade off fondamentale", la possibilità di
conciliare coerenza e varietà, robustezza e cambiamento, è cercata
ancora una volta nelle capacità naturali dei soggetti e dei sistemi
sociali.
•Il termine "competenze" è quello in cui oggi più frequentemente si addensano i
riferimenti a capacità cognitive essenziali per l'organizzazione, ma fondamentalmente
preorganizzative.
•Nelle "competenze" si assommano:
• - una rispettabile tradizione scientifica che afferisce essenzialmente a problemi
di selezione e di valutazione del potenziale delle risorse umane;
• - un altrettanto rispettabile riferimento al patrimonio professionale come
metro di gestione e regolazione delle relazioni di lavoro (professionalità) ;
• - una proclamata opzione antiburocratica (anti job) come filosofia di
cambiamento organizzativo;
• - e, in più, il valore evocativ o che il termine "competenza" porta in dote, in
quanto allude a un fondamento alternativo dell'autorità.
•Nei fatti non sono molti i tentativi di utilizzare le competenze come unità di analisi
per lo studio delle organizzazioni come sistemi cognitivi e della loro evoluzione
(Camuffo, 1998) . Più frequentemente si fa ricorso alla "competenza" come principio
di legittimazione per interventi di ristrutturazione che alterano le regole del gioco
consolidate (posizioni, carriere, ecc.) , in ambienti organizzativi fortemente
burocratizzati o politicizzati.
Nel fordismo, la struttura organizzativa fonda i caratteri di coerenza e
condivisione che rendono economicamente utilizzabile la conoscenza.
Nel postfordismo delle neo relazioni umane, lo sviluppo della
conoscenza rinvia alle capacità cognitive delle persone, "liberate" da un
allentamento dei vincoli strutturali del sistema. All'organizzazione resta
ancora una volta il compito di "persuadere" i lavoratori a dedicare le loro
"capacità di iniziativa”.
3.2. La crisi dell'ordine fordista ha universalmente imposto il problema
della "flessibilità" come riferimento dominante nella prassi e nel pensiero
organizzativo. La "flessibilità" però è generalmente concettualizzata in
modo inadeguato, come "destrutturazione", cioè come meno
organizzazione (Rullani, 1994) .
Per realizzare il governo della complessità in forme nuove, superiori ai
meccanismi riduzionistici dello standard e del piano non basta insistere
sull’ "adattamento reciproco”; è necessario un diverso principio ordinatore,
22
tale da assicurare un'efficace azione di coordinamento e controllo anche in
condizioni di maggiore complessità, e tale da salvaguardare in forme
nuove la coerenza e la condivisione della conoscenza.
Il fordismo ha costruito il suo potenziale di governo della complessità e
di flessibilità produttiva ricomponendo i compiti attraverso piani (+
routines, + negoziazioni), pagando un prezzo in termini di irreversibilità,
di chiusura dei circuiti firm specific di produzione della conoscenza, e di
crescente corporativizzazione del sistema.
Di fronte ai segni di crisi del modello fordista, è evidente la tendenza a
sostituire la “competenza” al job, e la “collaborazione” al piano. Il fordismo
reale però ha sempre ammesso margini, anche ampi, di discrezionalità e
di autoregolazione, soprattutto nelle sue aree periferiche di insufficiente
controllo della varietà esterna (in particolare nei “servizi”). L’attuale
enfasi su competenza e cooperazione non rappresenta certo l'emergere di
un nuovo principio regolatore dell'organizzazione, semmai testimonia di
un ragionevole ripiegamento (o ripiego) rispetto a formulazioni esasperate
del fordismo.
La realtà degli ultimi decenni però non può essere vista solo come
“esaurimento” del modello fordista; la sua crisi anzi è tutt’uno con il
manifestarsi delle potenzialità delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (ICT) come nuovo principio di ordinamento della
complessità. Fin dall’inizio le riflessioni sull’automazione hanno
evidenziato che la qualità delle nuove tecnologie investiva non solo il
rapporto uomo-macchina ma anche le logiche di coordinamento e controllo
nell’azione organizzativa.
Già nelle loro prime applicazioni interne al sistema fordista, le
tecnologie dell'informazione si qualificano immediatamente come
"tecnologie organizzative" per il loro impatto sui processi informativi e
decisionali.
Gli "effetti" della tecnologia non si limitano ai contenuti tecnologicamente
imposti del lavoro (job), ma toccano il livello delle interdipendenze e della
loro regolazione (struttura). In quanto capaci di assicurare coerenza e
condivisione
delle
conoscenze,
le
tecnologie
dell'informazione
interferiscono e si intrecciano con le tecnostrutture a cui erano demandati
il "lavoro intellettuale" e l'integrazione dei compiti, nella fabbrica fordista
Le potenzialità di evoluzione organizzativa insite nelle ICT diventano
poi evidenti con la diffusione delle macchine flessibili, con i sistemi di
simulazione e soprattutto con l'interconnessione telematica di soggetti e
sistemi. Lo spazio organizzativo investito dalle ICT si allarga ai rapporti
interfunzionali, alla cooperazione fra imprese, al rapporto produzioneconsumo, facendo emergere nuove modalità di strutturazione ai diversi
livelli.
Matura così l'idea di un’evoluzione radicale nelle forme organizzative
della produzione industriale, e cambiano di segno le riflessioni sul
"superamento" dell'organizzazione scientifica del lavoro. In quanto
23
costrutto cognitivo, l'organizzazione "scientifica" infatti è investita in
pieno da mutamenti tecnologici che interessano la qualità della conoscenza
e che si propongono come principio ordinatore alternativo nel governo
della complessità:
- nell'universo dell'elaboratore e della macchina flessibile, la fissità del
compito lascia spazio a scelte reversibili, a conoscenze ricombinabili in
una pluralità di configurazioni e di connessioni;
- il riferimento al piano (e alle gerarchie proprietarie) come medium di
connessione, appare limitativo a fronte di connessioni telematiche che
permettono una divisione del lavoro più estesa.
Vengono quindi meno alcuni aspetti centrali del modello organizzativo
fordista, a partire dall’esigenza di centralizzazione decisionale, come
garanzia di omogeneità e di integrazione. In una prospettiva “postfordista”
omogeneità e integrazione sono assicurate dall'esistenza di un terreno
comunicativo comune all'interno del quale diventano possibili scambi
informativi non ambigui tra unità o soggetti diversi, cioè dall'esistenza di
linguaggi e di canali capaci di mantenere la validità dei significati anche al
di fuori del contesto particolare e di trasferire i segnali a bassi costi e
senza distorsioni. D'altra parte, potenza di calcolo e modelli di simulazione
consentono l'esplorazione di una varietà elevata di alternative, fra cui
selezionare la soluzione appropriata al contesto.
Il paradigma organizzativo emergente non è un modello compiuto e non
rappresenta una descrizione adeguata dei processi organizzativi “reali” 4.
Già oggi però una prospettiva che legge i fenomeni organizzativi in
termini di produzione e circolazione delle conoscenze sembra in grado di
dare significato e prospettiva unitaria a fenomeni emergenti centrali
nell'esperienza organizzativa contemporanea:
a. Gli accordi e i rapporti di cooperazione fra imprese sono generalmente
oggetto di studi condotti in termini di economia dei costi di transazione.
Il cuore del problema viene identificato nella specificità delle
transazioni che determina il fallimento del mercato e causa una
"trasformazione fondamentale" delle transazioni verso altre forme
organizzative. Il tema della "specificità" è però sviluppato tutto in
termini di controllo dei comportamenti opportunistici, anziché in
termini di governo della complessità e di controllo delle interdipendenze
attraverso la produzione di conoscenze e competenze "firm specific". Il
risultato è l'identificazione degli accordi di cooperazione come categoria
"intermedia" di transazioni, economicamente giustificabile in situazioni
particolari, quando il mercato avrebbe effetti perversi e la gerarchia
costi eccessivi.
4
E contiene del resto problematiche largamente irrisolte, relative all'appropriabilità delle
conoscenze prodotte e immesse in un circuito allargato di condivisione, e relative quindi alla
distribuzione del surplus e alla suddivisione del rischio
24
In realtà, un'analisi di questo tipo spiega ben poco dell'impetuoso
processo di esternalizzazione, subfornitura e terziarizzazione che sta
provocando la disaggregazione dei sistemi fortemente integrati
dell'organizzazione fordista. Gli stessi processi evolutivi trovano invece
un principio di spiegazione unitaria considerando l'organizzazione dal
punto di vista della produzione e circolazione della conoscenza,
considerando quindi la divisione del lavoro cognitivo, le competenze
specifiche, il loro costo e la loro valorizzazione in un circuito allargato,
la ricombinazione delle conoscenze attraverso rapporti di collaborazione
pluralistici e reversibili.
b.
Cooperazione
interfunzionale,
unità
operative
integrate,
organizzazioni piatte, sono tutti aspetti che tendono a convergere verso
un progetto di “cambiamento“ organizzativo (radicale quanto
proteiforme) tutto concepito sotto il segno della destrutturazione dei
sistemi "gerarchico-burocratici", dell'autonomia e della competenza. La
chiave interpretativa prevalente di tali processi è tutta in termini di
dinamismo ambientale e di flessibilità garantita da soluzioni
organizzative
"non
burocratiche",
lavoro
di
gruppo,
responsabilizzazione, autonomia professionale. Mutatis mutandis, si
assiste al (ricorrente) ritorno dei temi dei modelli “organici“, delle
risorse umane e del management partecipativo.
Pur cogliendo alcuni aspetti emergenti5, questa chiave interpretativa
finisce per cercare rifugio nelle virtù dell’organizzazione informale,
senza cogliere la vischiosità, la difficile governabilità, la scarsa capacità
di produrre e ritenere innovazioni, la chiusura, che sono tipiche dei
sistemi organizzativi tutti costruiti sulla competenza individuale e
sull'interazione sociale.
Considerando l'organizzazione dal punto di vista della produzione e
circolazione della conoscenza, gli stessi fenomeni emergenti possono
invece trovare collocazione in un disegno più articolato. In questa
prospettiva, lo sviluppo di centri autonomi, l'intelligenza distribuita e
forme di integrazione meno centralizzate trovano il loro fondamento
nella varietà delle possibili configurazioni concrete dell'attività
produttiva, connessa alle macchine flessibili e a soluzioni tecniche
definite in forme virtuali e reversibili. Se ogni unità organizzativa è
continuamente chiamata a ridefinire i suoi rapporti con le altre unità (e
altri soggetti) per governare una maggiore varietà (di prodotti, di
rapporti, di bisogni), essa dovrà essere dotata di iniziativa ("quasi
imprenditoriale") e dovrà essere in grado di stabilire e governare
transazioni con l’esterno e di garantire lo sviluppo delle capacità
interne.
5
Ma già molti anni fa Perrow notava il vizio di costruire artificiosi mostri “burocratici” per poi
sferrare contro di essi epiche battaglie.
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In questo senso, la vitalità di ogni contesto locale (unità, nodo) è
condizione essenziale per lo sviluppo della rete, e assumono perciò
rilievo le competenze e le conoscenze implicite, la condivisione di
esperienza, l'"informale", pur con tutti i vincoli e le vischiosità dei
processi naturali e sociali.
D'altra parte la connessione fra i diversi contesti (unità, nodi) dovrà
avvenire con modalità che consentano trasferibilità delle conoscenze,
comunicazione a basso costo, estensione e mobilità delle relazioni. La
conoscenza che assume rilievo allora è quella astratta, insieme con le
transazioni contrattuali e i sistemi di garanzia che le presidiano, e il
linguaggio "formale", pur con la perdita di informazioni e con i vincoli
che essi comportano.
Parlare di empowerment e di competenze, di dimensione culturale
dell'organizzazione e di organizzazioni piatte, può indubbiamente
cogliere alcuni aspetti dell’evoluzione in corso, ma è teoricamente
inadeguato (e rischia di essere regressivo) se il circuito di produzione
della conoscenza non viene colto nella sua complessità (locale e globale,
contestuale e astratto, implicito e formale) certo non comprimibile in
una logica di neo relazioni umane.
3.3. L'interrogativo già posto in generale [più organizzazione o meno
organizzazione?] può essere utilmente riproposto in riferimento alle "reti
cognitive", identificate come paradigma "postfordista" di divisione del
lavoro cognitivo (Di Bernardo e Rullani, 1990).
Assumendo una definizione ampia di "organizzazione", la risposta è
certamente "più organizzazione", nel senso di predisposizione artificiale,
razionale e costosa di mezzi e modalità per l'azione di coordinamento e
controllo delle attività (investimento in linguaggi, canali, capacità
relazionali).
La risposta potrebbe anche essere "meno organizzazione" se è riferita al
governo centralizzato, alla predeterminazione ex ante e alle forme
concrete in cui questa logica si è ampiamente concretizzata.
Certo, l'uso frequente di termini come "autoorganizzazione",
"deverticalizzazione", "interazione comunicativa", "reti aperte", e molti
altri, oltre a lasciar intravedere qualche venatura ideologica e
volontaristica, induce a prefigurare una divisione del lavoro cognitivo
totalmente trasparente, non gerarchizzata, scevra di connotazioni di
potere quanto carica di illimitate potenzialità per l'iniziativa dei soggetti
(anche quelli marginalizzati nella stratificazione organizzativa fordista) .
Dissolvere l'organizzazione in interazione comunicativa, è anche questo
un radicato schema mentale di matrice Relazioni Umane, ed è operazione
che non può trovare maggiore legittimità per il fatto di sostituire la
matrice psicologica con le tecnologie dell'informazione. L'evoluzione
dell'organizzazione verso forme di integrazione policentriche e reversibili
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non può essere vista come integrale liquefazione del monolito fordista,
dissolto senza residui in comunicazione o in linguaggio. Per marcare la
distanza rispetto a una immagine angelicata delle reti cognitive, basterà
accennare ad alcuni passaggi obbligati perché le potenzialità del nuovo
paradigma tecnologico si traducano in azione organizzativa.
a. Fra i molti problemi aperti nella transizione verso nuove forme di
divisione del lavoro e di connessione (su cui si devono sperimentare,
inventare, costruire risposte diverse dal passato) quelli più evidenti
forse riguardano l'incentivo a investire in linguaggi, bene pubblico per
eccellenza, l'appropriazione del valore creato in forma interattiva e
immateriale, le istituzioni di garanzia delle interazioni allacciate nelle
reti 6.
b. Sul tema critico della "flessibilità", l'analisi dell'organizzazione dal
punto di vista della produzione e circolazione della conoscenza sembra
portare a conclusioni, per certi aspetti, opposte a quelle cui perviene il
buon senso convenzionale.
A fronte di un aumento della complessità, ridurre la divisione del lavoro
("gerarchico-funzionale"),
ridurre
il
carattere
prescrittivo
("burocratico") e aumentare l'autonomia dei soggetti e delle unità
organizzative (puntando sull'autoregolazione, l'intelligenza diffusa e i
processi informali) non sono di per sé scelte incongrue, ma certo sono
scelte di breve respiro.
Reali progressi nella divisione del lavoro cognitivo richiedono potenti
strutture di circolazione e condivisione del sapere (a basso costo). La
"interazione comunicativa" non è un frutto spontaneo; non basta
liberarsi di sovrastrutture superflue per liberare un tesoro nascosto di
creatività e di cooperazione; linguaggi e reti comunicative sono
concepibili solo come costruzioni artificiali e dunque richiedono un
investimento costoso a tutti i soggetti che intendono inserirsi nel
circuito cognitivo. In buona sostanza, dietro alla fragile immagine della
flessibilità "informale", sta un lavoro complesso di "formalizzazione" del
sapere produttivo per renderlo utilizzabile nella rete, cioè trasferibile
sia fra unità dell'organizzazione, sia fra diverse organizzazioni
(trasferibile nei diversi aspetti: di conformità alle tecnologie di
connessione, di comprensione non equivoca, di garanzia dei contenuti e
del loro impiego) .7
6
Per certi versi è una situazione inversa a quella della teoria dei costi di transazione che, dominata
dal rispetto dei contratti e dai costi dell'opportunismo, solo di questi aspetti fondamentalmente si
occupa.
7
E' difficile prefigurare l'estensione, la profondità e il costo di questo lavoro di formalizzazione, ma è
certo istruttivo riandare con il pensiero alle difficoltà, alle resistenze, ai traumi connessi con la
scientificazione taylorista.
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c. Parlare di linguaggi di connessione (di molteplicità delle relazioni, di
allargamento dell'accesso alle conoscenze) descrive solo una faccia del
paradigma organizzativo in formazione. L'altra faccia, altrettanto
essenziale, è quella della selezione concreta delle relazioni fra le molte
potenzialmente accessibili, di assunzione del rischio e di appropriazionedistribuzione del valore creato.
Se il "linguaggio" evoca la dimensione della pluralità e della
potenzialità, per tematizzare il momento della selezione e
dell'attualizzazione può essere usato il termine "progetto".
L’assonanza del termine con tutto il filone di riflessione organizzativa e
di pratica manageriale che si riferisce al project management non è
arbitraria. Anche nella tradizione del project management è infatti
centrale l'idea di accesso a un tessuto di competenze specialistiche,
aggregate in una forma unica e reversibile (Genco e Maraschini, 1997),
e sono presenti alcune tematiche organizzative critiche per l’operare
della “rete”:
- la pluralità dei livelli e dei ruoli che articolano il circuito cognitivo
(sistemisti e specialisti, componentisti, realizzatori ecc.);
- la criticità della formalizzazione dell'informazione nell'innervare un
tessuto relazionale complesso;
- le sofisticate costruzioni contrattuali in termini di rischi, di garanzie, di
trasferimento e uso delle conoscenze.
Se non si vuole indulgere a una visione angelicata della “interazione
comunicativa” nelle reti, rimane necessario operare sul tessuto dei
"linguaggi" dotandosi di strumenti organizzativi che facciano da filo e
forbici per la costruzione di "progetti".
Non è inoltre fuori luogo chiedersi se tutti saranno invitati alla festa della rete, se ci sarà un biglietto,
chi farà gli onori di casa, quale sarà l'abito da cerimonia, chi sarà lasciato fuori dove è pianto e
stridore di denti.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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