la cognizione del dolore di carlo emilio gadda prof .ssa nunzia soglia

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la cognizione del dolore di carlo emilio gadda prof .ssa nunzia soglia
“LA COGNIZIONE DEL DOLORE
DI CARLO EMILIO GADDA”
PROF.SSA NUNZIA SOGLIA
Università Telematica Pegaso
La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda
Indice
1
GENESI DEL ROMANZO --------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
TRAMA -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 4
3
ANALISI ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5
4
STILE ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 6
5
BRANI ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 7
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda
1 Genesi del romanzo
Romanzo a sfondo autobiografico e psicanalitico, nel quale Gadda ha voluto rappresentare
lo stato di angoscia esistenziale dell’uomo contemporaneo (Attalienti). Emblema dello
sperimentalismo linguistico di Gadda, La cognizione del dolore appare ancora oggi un romanzo di
grande attualità, narrando al suo interno di dinamiche interiori, quei viaggi dell’io all’interno
dell’inconoscibile.
Nel 1936 morì la madre di Carlo Emilio Gadda, con la quale lo scrittore aveva un rapporto
conflittuale. Fu anche per la morte di Adele Lehr, e in relazione alla scelta di vendere la casa
paterna in Brianza, in cui la madre aveva vissuto, che lo scrittore cominciò a stendere i primi
abbozzi del romanzo La cognizione del dolore, composto tra il 1938 e il 1941. Il romanzo venne
inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista Letteratura. Vide poi la luce nel 1963 (Einaudi).
Anche questo romanzo resta incompiuto. Molte opere di Gadda rimasero incompiute o furono
pubblicate molto tempo dopo la loro composizione perché Gadda non riteneva le sue opere
adeguate. Visse con i suoi scritti con la stessa totale ritrosia con cui visse i rapporti umani.
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2 Trama
La vicenda è ambientata in un paesaggio totalmente improbabile, nell’immaginario Stato
sudamericano del Maradagál (che somiglia alla Brianza del Ventennio), nell’immediato dopoguerra
di una contesa bellica che l’ha opposto al confinante Parapagál, e della quale entrambi i paesi si
ritengono vincitori. L’azione è ambientata tra la fine degli anni 20 e la fine degli anni 30.
I protagonisti sono una anziana signora e il figlio, il grosso e vorace Gonzalo Pirobutirro (da
pere butirro che il padre si ostinava a coltivare con pessimi risultati). L’uomo ama il silenzio, la
solitudine, è incapace di inserirsi nella società che lo circonda e di arrendersi al conformismo
imperante, mentre la madre non sogna altro che il figlio si inserisca nell’umano consorzio. I due
personaggi sono costruiti con una straordinaria verve satirica, che sconfina deliberatamente nel
tragico.
La seconda parte vede il rapporto madre-figlio sempre più esasperato. Gonzalo è spesso
lontano da casa per motivi di lavoro, il fratello minore è morto in guerra; la madre rimane sola a
vagare per le stanze e pensare ai figli. Una sera Gonzalo torna da un viaggio, lei gli prepara la cena
e lo studia timorosa, come se avesse soggezione di lui. Il figlio ha uno slancio e l’abbraccia, ma
l’arrivo del servitore interrompe il momento di affetto. Gonzalo, irritato dal suo sudiciume e
dall’aspetto miserando, lo caccia dalla stanza. Qualche tempo dopo, Gonzalo sorprende in cucina la
madre con diversi abitanti di Lukones. Non sopporta tale invasione della sua casa, s'infuria con la
madre e la minaccia («se ti trovo ancora una volta nel branco dei maiali, scannerò te e loro»).
Preparata la valigia, parte.
I due cugini ingaggiati dal cavalier Trabatta, durante una sorveglianza notturna al castello,
avvertono un suono di passi all'esterno. Escono per verificare un'eventuale presenza di ladri e,
seguendo rumori sospetti, penetrano nella villa di Gonzalo, dove rinvengono tracce di passaggio di
intrusi. Danno l'allarme agli abitanti di Lukones, che accorrono alla villa: la madre di Gonzalo è
trovata nella sua camera, moribonda, vittima di una violenta aggressione.
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3 Analisi
All’origine di tutto c’è il risentimento di Gonzalo verso l’eccessiva severità della madre:
Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la madre ci fosse
qualcosa di irreparabile, di più atroce di ogni guerra: e d’ogni spaventosa morte.
Il romanzo prende le mosse dal dolore dello scrittore, dalla sua nevrosi, da quella malattia
che lo portò a rinchiudersi in un mondo fatto di incubi e manie di persecuzione. Il punto di
riferimento, insomma, è questo ingegner Gonzalo, proiezione dello stesso autore, che cerca in tutti i
modi di allontanare la madre: ci sono barriere, non c’è dialogo. Madre e figlio non si incontrano
mai; quando lo fanno, è solo per annunciare un nuovo allontanamento. E tra loro? La guerra, le
difficoltà economiche, la nevrosi, tutta una serie di ostacoli che costruiscono una barriera
indistruttibile, un muro che impedisce a Gonzalo di avvicinarsi a lei. Le cause del dolore, insomma,
sono tante. Le ipotesi, ricavabili dalla vicenda biografica dello scrittore.
L’insoddisfatto bisogno d’affetto scatena l’ira rabbiosa del figlio contro la bontà che la
signora manifesta invece verso gli altri.
Il romanzo pare scritto coi nervi (G.Contini), in stile acceso, visionario. Toni grotteschi e
satirici si alternano ad altri più lirici, tenerissimi nelle loro immagini e metafore.
La cognizione del dolore offre al lettore numerosi spunti di riflessione sulla condizione
esistenziale dell’uomo, sempre più tormentato dalle sue ansie e angosce, da quel male oscuro che si
annida nella psiche del protagonista. Dominato dalla sottile arte della contaminatio, il romanzo
gaddiano allude al Fascismo, attraverso riferimenti indiretti, quali la proiezione dell’io e soprattutto
attraverso la dislocazione in un paese di fantasia di ciò che in realtà accade in Italia.
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4 Stile
Stravolgere i generi e le regole che ad essi sono legate è stata sempre una prerogativa dello
scrittore – ingegnere, il quale rappresenta un caso a sé nel panorama della letteratura neorealistica
del Novecento italiano. Singolarità della cultura e dello stile, fanno di Carlo Emilio Gadda un
monstrum, una sintesi perfetta di quelle teorie assimilate sia durante i suoi studi scientifici che
durante la lettura delle opere di scrittori e filosofi.
Quella di Gadda è una letteratura che lascia spazio alla libertà, alla commistione di registri
linguistici, alla extratemporalità, all’intreccio tra lirico e tragico. Ne deriva una narrazione anomala,
singolare ma certamente affascinante. La sua scrittura complessa, labirintica, trova ne La cognizione
del dolore la sua massima espressione.
L’esperimento linguistico – letterario di Gadda continua quindi all’insegna dello stravolgimento
delle norme stilistico – narrative, concludendosi quindi con la non conclusione. Una conclusione
degna di Gadda, che, attraverso le pagine de La cognizione del dolore ha aperto un significativo
spiraglio sull’introspezione psicologica, inaugurata da Svevo ed ancor presente nella letteratura
contemporanea.
Come la struttura, anche la lingua della Cognizione del dolore è costruita per accumulo
dispersivo di elementi e le contraddizioni già emerse nella trama vengono sottolineate dalla
mescolanza di toni lirici e drammatici, solennità epica, satira e grottesco, al fine di ritrarre la
contraddittorietà della realtà.
La precisione dei termini scientifici si accosta a termini lirici, il registro basso è affiancato a un
lessico aulico, i riferimenti a oggetti specifici e concreti rinunciano all’evocazione e all’allusività, in
uno stile barocco che tende a riprodurre la complessità dell’esistenza umana
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5 Brani
1) Recentemente s’erano sparse altre voci, tutte assai tristi: o addirittura disgustose. Che
fosse iracondo, oltreché uno scioperato, lo si sapeva da un pezzo. Adesso circolava la diceria che,
iracondo, in accessi bestiali di rabbia usasse maltrattamenti alla vecchia madre: smentiti per altro
dalla Peppa, la lavandaia, ch’era particolarmente dimestica della Signora, e ne riceveva le più dolci
ed umane confidenze….: e quindi anche quella reiterata denegazione, della carità e dell’amor
materno. Povera Signora!…. Arrivava inatteso. Partiva quando tutti lo credevano a leggere.
Dicevano che fosse vorace, e avido di cibo e di vino; e crudele: questo già fin da ragazzo: con le
lucertole, che bacchettava perfidamente, coi polli del Giuseppe (il primo Giuseppe, il predecessore
dell’attuale), che inseguiva ferocemente con una sua pazza frusta, arrivando perfino, certe volte,
tanto era lo spavento, a farli sollevar da terra e quasi volare, pensate! pensate! volare! come fossero
falconi, i polli!
Avendogli un dottore ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio, e col sussidio del calcolo,
dimostrato come pervenga il gatto (di qualunque doccia cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in
sulle quattro zampe, che è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell’impulso, egli
precipitò più volte un bel gatto dal secondo piano della villa, fatto curioso di sperimentare il
teorema. E la povera bestiola, atterrando, gli diè difatti la desiderata conferma, ogni volta, ogni
volta! come un pensiero che, traverso fortune, non intermetta dall’essere eterno; ma, in quanto
gatto, poco dopo morì, con occhi velati d’una irrevocabile tristezza, immalinconito da
quell’oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte.
Vorace, e avido di cibo e di vino: crudele: e avarissimo: tanto da recarsi a piedi alla stazione
del Prado; mentre tutti i signori veri ci andavano in carrozza, dal Batta o da Miguel Chico, o con
automobile propria: o almeno con la corriera. E per avarizia voleva licenziare le donne, lavandaie,
domestiche e altre, che assistevano la vecchia signora nel governo di casa, spilluzzicandone qualche
soldino o qualche boccon di pane, cioè dagli avanzi delle sue imbandigioni crapulose.
José, il peone, all’osteria del Alegre Corazón, confermava specificamente questo vizio
dell’avarizia, uno de’ più brutti e che la chiesa più severamente condanna; e lamentava il poco vino
prodotto e il molto che doveva continuamente erogare nel bottiglione dei proprietari, spillando di
botte. D’altronde la Peppa, la Battistina, il trattore Manoel Torre, e il suo garzone e messaggero
Pepito distributor dei fiaschi, attestavano concordi come i signori Pirobutirro, Madre e figlio, non
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consumassero se non vini bianchi del Résqueta o de la Sierra Encantadora, che il Torre stesso
forniva loro puntualmente, e di qualità, come pure ai frati dell’Eremo, da dir la Messa: o tutt’al più
di quelli chiari e leggieri del Nevado o dello Zanamuño. Gli altri feudatari e salumai della plaga
erano lodevolmente astemi, pensò il dottore mentre seguitava ad andare, sferzandosi il polpaccio
destro (che aveva pieno e robusto, e ciclistico) con quel suo bastoncello di ciliegio. Tutto ciò poteva
spiegare la evidente indulgenza, e anzi parzialità, del briccone di Manoel Torre nei confronti del
Pirobutirro figlio: si sa, gli osti, per loro uno che non beve vino è da mandarlo in galera….
Qualcuno poi finì per osservare, con dimolta umanità e con una certa gloria, che a Lukones c’è
un’aria particolarmente sottile, affamatrice: o almeno stimolatrice d’un sano appetito, per chi arriva
su smorto da Pastrufazio, intossicato d’urbanità e d’urbanesimo, e da quella raziocinante
piattitudine che ne costituisce il clima.
2) Sí, sí: erano consideratissimi, i fracs. Signori seri, nei “restaurants” delle stazioni, e da
prender sul serio, ordinavano loro con perfetta serietà “un ossobuco con risotto”. Ed essi, con cenni
premurosi, annuivano. E ciò nel pieno possesso delle rispettive facoltà mentali. Tutti erano presi sul
serio: e si avevano in grande considerazione gli uni gli altri. Gli attavolati si sentivano sodali nella
eletta situazione delle poppe, nella usucapione d’un molleggio adeguato all’importanza del loro
deretano, nella dignità del comando. Gli uni si compiacevano della presenza degli altri, desiderata
platea. E a nessuno veniva fatto di pensare, sogguardando il vicino, “quando è fesso!”. Dietro
l’Hymalaia dei formaggi, dei finocchi, il guardasala notifica le partenze: “!Para Corrientes y
Riconquista! !Sale a las diez el rápido de Paraná! !Tersero andén!”.
Per lo più, il coltello delle frutta non tagliava. Non riuscivano a sbucciar la mela. O la mela gli
schizzava via dal piatto come sasso di fionda, a rotolare fra scarpe lontanissime. Allora, con voce e
dignità risentita, era quando dicevano: “Cameriere! ma questo coltello non taglia!”. Tra i cigli,
improvvisa, una nuvola imperatoria. E il cameriere accorreva trafelato, con altri ossibuchi: ed
esternando tutta la sua costernazione, la sua piena partecipazione, umiliava sommessa istanza appiè
il corruccio delle Loro Signorie: (in un tono più che sedativo): “provi questo, signor Cavaliere!”: ed
era già trasvolato. Il quale “questo” tagliava ancora meno di quel di prima. Oh, rabbia! mentre tutti,
invece, seguitavano a masticare, a bofonchiare addosso agli ossi scarnificati, a intingolarsi la lingua,
i baffi. Con un sorriso appena, oh, un’ombra una prurigine d’ironia, la coppia estrema ed
elegantissima, lui, lei, lontan lontano, avevan l’aria di seguitar a percepire quella mela, finalmente
immobile nel mezzo la corsía: lustra, e verde, come l’avesse pitturata il De Chirico. Nella quale,
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bestemmiando sottovoce, alla bolognese, ci intoppavano ogni volta le successive ondate dei fracsossibuchi, per altro con lesti caldi in discesa, e quasi in rimando, l’uno all’altro: alla Meazza, alla
Boffi. Erano degli strameledísa buccinati via come sputi di vipera, non tanto sottovoce però da non
arrivare a capir cosa fossero: da dietro pile di piatti in tragitto, o di bacinelle di maionese, o cataste
d’asparagi di cui sbrodolava giù burro sciolto sul lucido; perseguiti poi tutti, tutt’a un tratto, da
improvvise trombe marine di risotti, verso la proda salvatrice. Tutti, tutti: e più che mai quei signori
attavolati. Tutti erano consideratissimi! A nessuno, mai, era venuto in mente di sospettare che
potessero anche essere dei bischeri, putacaso, dei bambini di tre anni.
Nemmeno essi stessi, che pure conoscevano a fondo tutto quanto li riguardava, le proprie unghie
incarnite, e le verruche, i nèi, i calli, un per uno, le varici, i foruncoli, i baffi solitari. Neppure essi,
no, no, avrebbero fatto di se medesimi un simile giudizio.
E quella era la vita.
Gonzalo, il protagonista, insofferente della imbecillaggine generale e delle baggianate della
ritualistica borghese, per restaurare il suo spento desiderio di vivere si limita a chiedere e insieme a
prescrivere a se medesimo questi due farmachi: silenzio e solitudine
In Gonzalo vige ed opera una continua critica della dissocialità altrui: la quale raggiunge
ben più grave fattispecie che non raggiunga la sua. La sua propria dissocialità si limita a chiedere
e insieme a prescrivere a se medesimo i due farmachi restauratori della affranta sua lena, dello
spento desiderio di vivere: questi farmachi hanno un nome nella farmacologia della realtà, della
verità: si chiamano silenzio e solitudine. Il suo male richiede un silenzio tecnico e una solitudine
tecnica: Gonzalo è insofferente della imbecillaggine generale del mondo, delle baggianate della
ritualistica borghese; e aborre dai crimini del mondo
Nella Parte Seconda del romanzo, precisamente al Quinto Capitolo, un temporale permette
alla madre di Gonzalo di pensare, di ricordare attraverso una serie di flashback, un insieme ben
descritto di oggetti:
Pensava con dolcezza a questo suo primo figlio, rivedendolo bimbo, assorto e studioso. E
adesso già curvo, noiato sopra l’errare dei sentieri. Rientrò, dal terrazzo, nella grande stanza. Le
mosche avevano ripreso, dileguata la tempesta, a sorvolare la tavola: dov’erano i giornali, coi
nuovi avvenimenti, ch’erano succeduti ad altri. Così d’anno in anno, di giorno in giorno; per tutta
la serie degli anni, dei giorni. E i fogli, ben presto, ingiallivano. Quando le mosche, per un
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momento, si ristavano dal loro carosello, e anche il moscone verde, un attimo; allora nel cosmo
labile di quella sospensione impreveduta udiva più distinto il tarlo a cricchiare, cricchiare
affaticatamente, con piccoli strappi, nel vecchio secrétaire di noce ch’ella non riusciva più a
disserrare. Il giuoco della chiave si era smarrito nella successione dei tentativi, o, forse, nelle
ombre dolorose della memoria. Ci doveva esser il ritratto… i ritratti… i gemelli di madreperla…
forse, anche le due lettere… le ultime!… le forbicine da lavoro, il ventaglio nero, di pizzo… Quello
che le avevano regalato in palude, quando si era accomiatata dai colleghi, dalle poche alunne…
più d’una febbricitante, tutte avevano voluto il suo bacio… Ma non le mancavano, por suerte, delle
forbicine di riserva: tre paia, anzi.
Ed erano state le nozze.
Se il suo pensiero discendeva, dal ricordo di quei due bimbi, agli anni vicini, all’oggi… le
pareva che la crudeltà fosse troppa: simile, ferocemente, a scherno.
Perché? Perché? Il volto, in quelle pause, le si pietrificava nell’angoscia: nessun battito
dell’anima era più possibile: forse ella non era più la madre, come nell’urlo dei parti, lacerato,
lontano: non era più persona, ma ombra. Sostava così, nella sala, con pupille cieche ad ogni
misericorde ritorno, immobilità scarnita da vecchiezza; per lunghe falcate del tempo. E l’abito di
povertà e di vecchiezza era come un segno estremo dell’essere portato davanti ai volti dei ritratti,
dove alìgeri fatui, sul vuoto, orbiteranno entro il sopravvivente domani. Poi, quasi un rito della
stagione, improvvisa, le giungeva l’ora dalla torre; liberando nel vuoto i suoi rintocchi persi,
eguali. E le pareva memento innecessario, crudele. Nel tempo finito d’ogni estate, traverso il
mondo che l’aveva lasciata così. Le mosche descrivevano pochi cerchî nella grande sala, davanti ai
ritratti, sotto i dardi orizzontali della sera. Con una mano, allora, stanca, si ravviava i capelli
sbiancati dagli anni, effusi dalla fronte senza carezze come quelli di Re Lear. Superstiti ad ogni
fortuna. Ed ora nel silenzio, discendendo il tramonto, vanite le tempeste della possibilità. Ella
aveva tanto imparato, tanti libri letto! Alla piccola lucerna lo Shakespeare: e ne diceva ancora
qualche verso, come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della
conoscenza, e adesso l’orrore della notte.
Nel cielo si erano dissipati i vapori, e i fumi, su dalla strozza de’ camini, di sotto pentola,
delle povere cene della gente. S’erano dissoluti come una bontà della terra: incontro alla stella
vesperale, per l’aria azzurrina del settembre. su, su, dov’è la bionda luce, dai camini neri; che si
adergono con vigore di torri al di là dell’ombre e delle inazzurrate colline, dietro alberi, sopra i
colmigni lontani delle ville.
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Aveva udito il rotolare del treno… il fischio d’arrivo… Avrebbe voluto che qualcuno le fosse
vicino, all’avvicinarsi della oscurità.
Ma il suo figliolo non appariva se non raramente sul limitare di casa
La pagina è intrisa di dolore, una sofferenza esasperata dal comportamento del figlio. La
cognizione, la ricerca del dolore progredisce attraverso scene ben costruite, un linguaggio che lascia
senza fiato il lettore. Eppure, il messaggio è semplice: questa donna ricorda, sola, il passato; ricorda
sola e muore sola.
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