Abissi inesistenti

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Abissi inesistenti
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Autrici (classe 3 B linguistico )
Martina Buzi
Chiara Cecchini
Ilaria Santorsola
Laura Annarilli
Marta Mancini
Abissi inesistenti
Finestra sul nulla o introduzione
Il nulla non è mai stato nulla. Di fatto raramente si è presa in considerazione tale “verità”. Eppure il
concetto di nulla c’è e ricorre nella poesia e nella vita di Ungaretti almeno quanto lo fa nella nostra.
La poesia ungarettiana è stata la motrice che ci ha aperto al mondo di ciò che non esiste ma, per
arrivare a recepirne la presenza, siamo dovute passare attraverso un livello intermedio che possiamo
definire “il nonnulla”. Ipotizziamo un rapporto tra due persone ormai divenuto statico, immobile,
fossilizzato sulla routine; ebbene: a ben guardare, paradossalmente, ciò che le unisce è il nulla
inconsapevole ovvero un nulla di cui nessuno ha chiara coscienza. Solamente con la rottura di
questo “equilibrio”, mediante una minuscola dose di tutto, per l’appunto il nonnulla, che sia una
dimostrazione di affetto o uno sguardo, ci si può rendere conto di quello che non c’è mai stato o che
non c’è più: il nulla appunto. Sarà proprio questo “quasi nulla” parte della nostra interpretazione del
segreto della poesia ungarettiana.
Ungaretti è colui che più si sentiva simile al nonnulla: un frammento, una scheggia, un relitto
sfuggito alle devastanti mani del nulla. Ed è proprio questa sua condizione di mediatore tra il tutto e
il nulla che lo renderà profondamente sensibile all’argomento. Durante la sua vita, infatti, Ungaretti
sarà impegnato intensamente in un compito di primaria importanza: la testimonianza. Si renderà
superstite di questo continuo annientamento da parte del nulla e lo documenterà attraverso la poesia.
Tale argomento però non ha unito il nostro gruppo di lavoro, anzi vi è stata una netta frattura: una
metà visualizzava il tutto e il nulla come due sfere separate anche se comunicanti l’una con l’altra;
l’altra metà rappresentava il nulla privo di confini e onnipresente, che ingloba il tutto stesso. Siamo
convenute tutte nell’intendere i due enti troppo grandi agli occhi di un uomo, ma ci siamo proposte,
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se proprio non ci era possibile concepirne l’essenza, perlomeno di percepirlo e delinearne l’idea. Gli
aspetti che abbiamo pensato di approfondire sul nulla sono principalmente due: il nulla per il poeta
è una causa o un effetto? E, soprattutto, è un ostacolo o può convertirsi in uno strumento?
E ancora: il principio del nulla va rintracciato nella sua consuetudine alla morte, nella guerra e nelle
perdite o invece risiede nella sua interiorità ed è stato alimentato e dilatato dalle tragedie a lui
capitate? In altre parole per parafrasare Leopardi, la sua origine è storica o esistenziale? E ancora:
Ungaretti come ha saputo rispondere al nulla? Come la sua poesia testimonia la presa di coscienza
(“il nonnulla”) del nulla e come tenta di non farsi inghiottire da esso? E infine: possiamo accostare
il nulla di Ungaretti al tema dell’infinito nell’omonimo idillio leopardiano? Ci sono somiglianze e/o
divergenze?
Capitolo primo
L’angolo di giornale strappato al nulla della guerra.
Siamo tra il 1914 e il 1918, la Grande Guerra è agli sgoccioli.
Assistiamo ad un fervore tutto italiano, al quale il giovane Ungaretti non può sottrarsi: il fuoco
interventista sembra bruciare molti nostri patrioti e, con loro, Ungaretti che aspetta il richiamo alle
armi: è in arrivo però la sua prima delusione
“Mi hanno dichiarato inabile al servizio di guerra, e mi hanno mandato qui, dove ho trovato molta
cordialità ed anche un po’ di noia. Spero di ristabilirmi bene, un po’ di esaurimento. E’ tanto che
sono spossato. Spero di poter fare domanda in gennaio di essere richiamato al mio reggimento. Per
me tutto è rischiare. Unica gioia, unico modo di sentirsi in pienezza di vita.”1
Tanta la delusione, tanta la tensione, l’inquietudine e il disagio che trasudano da questa lettera
diretta a Prezzolini, ma allo stesso tempo grande è la speranza, l’attesa, il fervore e il vitalismo dati
dall’idea dell’entrata in guerra. Si tratta di un Ungaretti vivo, dominato dalle passioni che non
attende altro che il richiamo al reggimento. Ama il rischio perché è quest’ultimo che fa battere il
cuore, che fa rimbombare il petto di emozioni, che fa sentire vivo. L’attesa è vissuta con slanci di
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Giuseppe Ungaretti, “Lettere a Giuseppe Prezzolini 1911-1969” edizioni Storia e letteratura. Roma 2000
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vitalismo patriottico fin quando la tanto agognata risposta arriva. Ungaretti partirà per la guerra
come soldato semplice, in quanto,
“Non partecipavo alla guerra per ricevere gli applausi”2.
Ben presto però, il “fuoco interventista” viene spento dal temporale della guerra che lo travolge e
sconvolge con tutta la sua disumanità. Le prime morti, il terrore, la trincea, la precarietà ghiacciano
l’ardore iniziale che ora appare quasi pietoso e insensato. Giorno dopo giorno, per 10 mesi,
assistiamo al tormentoso e fruttuoso cambiamento interiore di Ungaretti. Le sue poesie scritte su
angoli di giornale rubati, dall’andamento diaristico, ci offrono molto più di quello che la storia può
raccontare. Ma d’altra parte già qualche tempo addietro il Manzoni scriveva:
Perché infine che cosa ci dà la storia? degli eventi che non sono, per così dire, conosciuti che
dall'esterno; ciò che gli uomini hanno fatto; ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno
accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro risultati fortunati e sfortunati, i discorsi coi
quali hanno fatto o cercato di fare prevalere la loro passione e la loro volontà su altre passioni o
altre volontà, per mezzo dei quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, in una
parola hanno rivelato la loro individualità: tutto questo e qualcos’altro ancora è passato sotto
silenzio dagli storici; e tutto questo è dominio della poesia.[…].3
Rafforzano le parole di Manzoni, quelle di Aldo Onorati, giornalista contemporaneo:
“Se i documenti ci intrigano e talvolta ci esaltano, o ci abbattono nelle sconfitte, sono le descrizioni
contenute nelle lettere dal fronte, magari di un soldato quasi analfabeta, a far tremare il profondo
dell’essere.” 4
La poesia a differenza dello scritto storico, non documenta soltanto ma ha la capacità (specie
quando è grande poesia) di evocare, di emozionare, di parlare con ed al nostro io: ogni verso, parla
e sembra un relitto sopravvissuto al mare del nulla. Le parole sembrano galleggiare nel nulla bianco della pagina, senza un punto che le ancori. E’ proprio nel luogo simbolo della Grande
Guerra, la trincea, dove sembra avvenire la scoperta del nulla, di quel profondo abisso che inghiotte
tutto, che ci dilania le membra, al quale però, talvolta, un brandello, una fibra viene strappata e
risparmiata. Forse proprio allora nasce in Ungaretti la consapevolezza dell’essere “un naufrago”,
una scheggia sfuggita, sopravvissuta al nulla, e si origina simultaneamente il dovere di farsi non
soltanto testimone dell’umanità insanguinata ma poeta capace di riconsegnare con il canto della sua
poesia l’uomo alla sua natura, di riportare l’individuo alla sua umanità. Quella stessa poesia, che
nasce nel e dal fango, che sopravvive alla morte della e nella trincea, stupisce perché sboccia e
fiorisce in mezzo a questo “nulla”. Quel canto che, presto, gli diventa caro come il respiro, che gli
permette di evadere “in quella terra di nessuno” e si trasforma in un modo per reagire ad un mondo
capovolto e mutilato dalla guerra.
Il bisogno di scrivere si fa in Ungaretti pressante, schiacciante, insaziabile. Vede infatti nella poesia
la sua unica àncora di salvezza, e ci si attacca senza più lasciarla, tanto è forte l’istinto primordiale
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Mario Barenghi, Ungaretti – un ritratto e cinque studi, Mucchi, 1999, pag. 207
A. Manzoni, Lettre à monsieur Chauvetsur l'unité de temps et de lieudans la tragédie, traduzione italiana di E. Bonora,
in A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di E. Bonora, Torino, Loescher, 1980
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Tratto dall’articolo di giornale “Il lato nascosto” di Aldo Onorati
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della sopravvivenza. La voce della sua poesia allora diventa un’urgenza irrefrenabile, quasi un grido
poiché “Soltanto la poesia- l’ho imparato terribilmente, lo so-la poesia sola può recuperare
l’uomo.”5
Di certo Ungaretti non è il poeta dell’abbandono e della rinuncia. E’ il poeta che canta con forza e
dolore della fragilità umana, la sua precarietà e che riscopre l’attaccamento alla vita, la stessa vita
che emerge in tutta la sua irripetibilità nel paradosso della morte, e che riscopre la bellezza
dell’esistere vegliando il compagno morto:
“Un’intera nottata/buttato vicino/a un compagno/massacrato/con la sua bocca/digrignata/volta al
plenilunio/con la congestione/delle sue mani/penetrata/nel mio silenzio/ho scritto/lettere piene
d’amore. / Non sono mai stato/tanto/attaccato alla vita.” 6
Si tratta di Veglia, forse una delle poesie più drammaticamente espressive della e sulla guerra. Il
poeta imprigiona nel tempo, con parole intense, un momento di nulla, di contrasti, di luce e tenebre,
di morte e di vita. Accanto a Veglia che ci offre un’immagine visiva della guerra, abbiamo una
poesia emblematica che ci trasmette tutto il dolore e il senso di perdita che Ungaretti prova giorno
dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto: è Sono una creatura:
“Come questa pietra/del San Michele / così fredda /così dura / così prosciugata /così
refrattaria/così totalmente/disanimata/Come questa pietra/è il mio pianto/che non si vede. / La
morte/si sconta/vivendo.” 7
Il pianto trattenuto è simbolo di estremo dolore che non trova sfogo nelle lacrime; questa
incapacità/impossibilità di umanizzare la propria sofferenza sembra degradarlo a un non-essere, a
un qualcosa di inanimato, ad una pietra appunto. Però sembra perché, anche se non si vede, ciò che
lo rende umano, c’è
“Ma nel cuore/ nessuna croce manca/ è il mio cuore il paese più straziato 8.”
E, paradossalmente, ciò che lo rendo umano, vivo, animato è il dolore, la sofferenza stessa.
Il suo essere uomo, la sua vita allora sembra pendolare tra due poli: tra “un fiore colto” e “l’altro
donato”, tra l’impulso della vita e la consapevolezza della gratuità della vita donata. Il poeta
insomma, sembra accorgersi pian piano di essere egli stesso una parte del nulla, di essere un
frammento che ha senso solo se visto nell’ insieme, se visto prima dello sgretolamento, del distacco
dall’armonia del tutto. Ma la coscienza del nulla, il riconoscere la sua esistenza come un qualcosa di
troppo grande per essere visto dove è nata? Sul luogo siamo tutte più che d’accordo: la trincea,
come abbiamo cercato di dimostrare finora Ma ciò su cui ora ci interroghiamo è se il nulla
scaturisca dal suo vissuto, quindi sia esclusivamente una “storica” conseguenza, oppure se sia il
frutto di una ricerca del poeta e quindi, se sia stato Ungaretti stesso, per così dire, “la causa di
questo nulla” Ed ancora: il nulla può essere interpretato come ostacolo alla volontà, o invece è come
strumento, un mezzo grazie al quale Ungaretti trova l’ispirazione e porta a maturazione completa il
proprio cambiamento? Insomma: “nulla frutto storico o scoperta esistenziale”? Il gruppo è
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Tratto da Walter Mauro, Vita di Giuseppe Ungaretti, 1990, Camunia editore
Veglia, da Roberto Antonelli e M.Serena Sapegno Il senso e le forme, volume 5 .pag.115
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Sono una creatura, op.cit. pag. 118
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ibidem
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sostanzialmente concorde nella risposta alla seconda domanda: il nulla ci sembra soprattutto uno
strumento, quel qualcosa che incita, esalta, ispira Ungaretti nella stesura delle sue poesie; è quasi la
fonte che lo alimenta alla quale quest’ultimo attinge direttamente una volta riconosciutane
l’esistenza. Invece, sul primo interrogativo, il gruppo è su posizioni diverse: alcune di noi pensano
al nulla come a qualcosa di preesistente, quindi a qualcosa che non è stato causato dalla guerra:
quest’ultima, quasi come un nonnulla, ha soltanto aiutato a portare alla luce un pensiero, una
riflessione, una scoperta tutta Ungarettiana: la guerra insomma ha portato ad evidenza ciò che era
già in potenza nel poeta. La maggioranza invece trova che Il nulla si incarni nelle circostanze di
quel tempo caratterizzato dalla estrema fragilità e fugacità della vita, dalla consuetudine alla morte,
dalla paura e dal tormento prodotti dalla guerra. E’ proprio la guerra e ciò che essa provoca, a
causare in Ungaretti la percezione del nulla. E’ stato proprio l’osservare l’io frantumato a fargli
pensare che prima ci dovesse essere un’armonia: un’armonia violentemente e repentinamente
strappata dal nulla. Un nulla che è ben visibile e che lo circonda, che permea la trincea e avvolge i
compagni caduti.
Ma nonostante ciò, è proprio al fronte con la morte, il dolore, la paura come “coinquilini” che
Ungaretti non trova altra espressione, altra prospettiva al di fuori della speranza, della vita, della
gratitudine, della ginestra leopardiana in mezzo al nulla.
Capitolo secondo: la siepe, la guerra e la poesia
Giuseppe Ungaretti, dopo aver vissuto in Brasile dal 1936 al 1942, decise di tornare in Italia, poiché
aveva ottenuto la cattedra di professore di letteratura italiana moderna e contemporanea. Durante il
periodo di insegnamento in Italia, il poeta si appassionò alla poetica leopardiana tanto da sostenere
approfondite lezioni per i suoi studenti. Questi giocarono un ruolo fondamentale nella vita del
poeta: il lavoro diventa un momento per costruire un rapporto profondo con i suoi alunni. Spesso si
intratteneva con loro dopo le lezioni; si dimenticava addirittura di scendere dal tram se il dialogo
con alcuni di essi si faceva interessante. Ungaretti gli spiegava la letteratura sulla lavagna attraverso
i suoi egregi appunti: non erano di certo scarabocchi, anzi, vere e proprie critiche letterarie. Difatti il
poeta non si limitava a esprimere ciò che voleva trasmettere Leopardi nelle sue liriche, bensì ne
commentava la maggior parte. In particolar modo fornì una importante e originale interpretazione
dell’Infinito: “L’Infinito è un idillio ironico”.9 Secondo Ungaretti, questo famoso componimento di
Leopardi, poiché in realtà a ben vedere è una “rappresentazione del finito” (in quanto ci parla
un’esperienza momentanea, finita) acquisisce una valenza chiaramente ironica. Ma in questa sede
9
Lezione di preparazione ai Colloqui fiorentini, a cura della professoressa Flavia Ubaldini
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non ci interessa tanto cogliere la valenza ironica dell’Infinito, quanto ragionare sul rapporto infinitonulla
A nostro parere sia il Leopardi del L’infinito che Ungaretti avevano il sentore di un determinato
‘nulla’ (Ungaretti) “infinito” (Leopardi), ma non riuscivano a comprenderlo ossia non riuscivano a
portarlo a coscienza; la miccia della consapevolezza è, per così dire, innescata da un elemento
esterno (la guerra appunto, come abbiamo già mostrato nel capitolo primo in Ungaretti, la siepe in
Leopardi) Se però in entrambi i poeti la spinta avviene dall’esterno (la siepe come simbolo del
visibile e del finito; la guerra come esperienza storica del nulla), gli esiti finali, ci sembrano molto
diversi. Vediamoli.
Per il poeta recanatese la siepe “spinge, lancia” l’infinito che in un primo momento spaventa e
disorienta, (il cor si spaura) tuttavia successivamente egli scrive che ‘tra questa immensità
s’annega il pensier mio’ ed infine conclude la poesia con ‘e il naufragar m’è dolce in questo mare.”
Quindi, possiamo affermare che il ‘naufragio’ leopardiano è un qualcosa di sostanzialmente
positivo, poiché permette di abbandonarsi all’immensità sentendo così la dolcezza del naufragar.
Pertanto, se all’inizio questo “infinito” fa intimorire l’animo di Leopardi, poiché è talmente vasto
che non si può conoscere, a fine poesia il poeta si tranquillizza e quasi abbraccia questa vastità che
mai potrà comprendere interamente. Dunque, la perdita del ‘finito’ non è negativa anzi, è il motore
che produce un’esperienza di piacere (almeno in questo stadio della sua poetica).
Soffermiamoci ora sul motivo ungarettiano della guerra: indubbiamente esso è l’elemento che
permette a Ungaretti di venire a conoscenza del “nulla”; rispetto a Leopardi però, gli esiti sono
molto differenti. Per Ungaretti la consapevolezza del “nulla” non provoca alcun piacere, anzi: la
guerra è l’elemento che lo porta al dolore, all’angoscia, alla abissale sofferenza. È proprio in
“trincea”, per così dire, che il poeta si accorge della precarietà della vita. Insomma: l’urto con il
reale (nulla storico) provoca un radicale cambiamento interiore (nulla “esistenziale) Abbiamo
riscontrato questa acquisizione di conoscenza – coscienza soprattutto nella poesia Fratelli; tutto il
componimento infatti, sottolinea la fragilità dell’uomo, il suo senso di precarietà esistenziale, come
è evidente nell'immagine della foglia appena spuntata. Il poeta è consapevole dell'incertezza della
vita, soprattutto nella situazione in cui si trova; difatti lo mostra nel verso "[...] uomo cosciente
della sua fragilità".
Però l’acquisizione del nulla non lo imprigiona in uno inerme nichilismo, poiché c’è una
riappropriazione di vita in quanto egli comincia a scrivere poesie in trincea cercando di testimoniare
il ‘relitto sopravvissuto al mare del nulla’. Il relitto viene identificato come ‘frammento’ che riesce
a rimanere esistente nonostante il trascorrere del tempo della guerra. Le parole con cui scrive i suoi
componimenti sono l’essenza del suo pensiero, poiché celano un segreto che talvolta è difficile da
comprendere anche per il poeta stesso. In questa maniera autore e lettore stringono un patto
confidenziale in forza del quale quest’ultimo si impegnerà a scoprire questo ‘segreto’. Le parole
secondo Ungaretti sono come frammenti sfuggiti dal ‘nulla’ che solo il poeta può raccordare. Egli si
identifica quindi come ‘naufrago’ (ricordando il pensiero leopardiano), poiché tramite la parola
pura, dunque quella strappata dal ‘nulla’, riesce a mettersi in contatto con “l’infinto”
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Ma chiariamo bene che significa parola pura e, soprattutto, cosa comporta la sua “conquista” per
Ungaretti. Indubbiamente riguardo a ciò ha svolto un ruolo importante la lezione dei grandi
simbolisti francesi come Mallarmè e Apollinaire. Mallarmè per Ungaretti rappresenta l'ideatore di
una lingua nuova basata sulla parola pura, libera da connotazioni comuni e in grado di esprimere
l'inesprimibile; Apollinaire invece è considerato il precursore di una poesia visiva, “concreta”,
caratterizzata
da
spazi
bianchi.
Giuseppe Ungaretti si ispirò a questi simbolisti francesi per creare una poesia del tutto originale in
cui ogni parola utilizzata risultava, infatti, il frutto di una perpetua e continua ricerca fondata sul
determinare significati molto ampi in pochi e coincisi spazi. Il suo unico ristoro fu, quindi, cercare e
trovare sé stesso nella parola, era il suo modo di progredire umanamente.
Insomma: per Ungaretti, la parola è pura quando “riacquisisce” la sua verginità, la sua innocenza
ossia quando brucia tutte le “impurità “che il tempo ha incrostato con l’uso quotidiano. Ma tale
“scoperta” porta anche ad un’altra conseguenza centrale: la parola pura quasi scolpita tra gli spazi
bianchi, isolata fino all’estremo, diventa anche lo strumento capace di metterci in comunicazione
con l’assoluto, poiché è in grado di diventare una bussola che guida e veicola il mistero ed il segreto
presente nell'io di ognuno di noi, illuminandolo e permettendo di scorgerne attimi di verità. La
parola diventa, quindi, l'oggetto di un lungo studio e si trasforma in un qualcosa alonato di magia in
grado di suggerire più che rappresentare. La poesia diventa, quindi, la sua nascita, la sua prima
conquista, la conquista del valore che può assumere una semplice parola quando si arriva a colmarla
del suo significato.
Conclusione
Ci teniamo a sottolineare che le nostre sono delle ipotesi interpretative che non hanno ovviamente la
pretesa di essere né esaustive né tantomeno blindate in una ferrea logica argomentativa. In fondo i
“colloqui” con Ungaretti ci hanno fatto riflettere, interrogare e avanzare ipotesi più che formulare
certe risposte e alla fine di questo nostro lavoro, tra mille difficoltà e mille discussioni, ci sembra di
essere arrivate ad una conclusione: la parola scoperta nella sua purezza ha permesso al poeta
Ungaretti, che abbiamo “incontrato”, di curare le profonde ferite causate in lui dalla guerra. La
genesi del nulla e della devastazione è quindi da rintracciare in trincea, e sarà solo successivamente
alimentato dalla desolazione del poeta. Anche se le cicatrici resteranno per sempre dentro di sé.
Ma nonostante per Ungaretti il naufragar non sia affatto dolce, è proprio da questo ambiente così
ostile che scaturisce il rimedio disarmante e meraviglioso: la parola. La parola è quindi l’unica via
di uscita, che porta in salvo il poeta, ma non è che la conseguenza dello sterminio. Il vero segreto
della poesia, si trova proprio in questo nulla, in questo pantano di devastazione da cui fiorisce il
tutto. In quella minuscola dose di tutto racchiusa nel nulla, il nonnulla, che mette in comunicazione
con il tutto. Non per questo crediamo di aver scoperto il segreto della poesia, che è inconoscibile e
inaccessibile, di fronte al quale la stessa parola è impotente.
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“A volte è un lavoro lungo, che si fa in pochi momenti. Poesie brevissime mi richiedono sei mesi di
lavoro, non sono mai a posto! Si seguono con l’orecchio, non si sa poi cosa sia questo orecchio,
non si sa che cosa sia… perché l’orecchio poi va dietro al significato, va dietro al suono, va dietro
a tante cose… non si sa insomma… tutto deve finire col combinare e col dare la sensazione che sia
espressa la poesia, no? Non si è mai espressa veramente, si è sempre scontenti, no? Si è sempre
scontenti. Si vorrebbe che fosse detto diversamente, ma la parola, la parola è IMPOTENTE, non
riuscirà mai a dare il SEGRETO che è in noi, mai… lo avvicina.”10
Ma se è vero che “la meta è partire”, aldilà della veridicità della nostra tesi, allora possiamo dire
che il nostro è stato un grande viaggio formativo.
Bibliografia essenziale
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Aldo Onorati “Il lato nascosto”
Roberto Antonelli e M.Serena Sapegno Il senso e le forme, volume 5
Walter Mauro, Vita di Giuseppe Ungaretti, 1990, Camunia editore
Portale della Rai
Materiali del corpo docente dell’Istituto per la preparazione al seminario su G . Ungaretti
Giuseppe Ungaretti, intervista RAI, 1960.