Ccà luci a fera - VerbaVolant Edizioni

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Ccà luci a fera - VerbaVolant Edizioni
Concetto Tarascio
Ccà luci a fera
Tradizioni siciliane di Floridia
(Proverbi, Modi di dire, Ricette)
nella memoria dell’autore
Prefazione della
Prof.ssa Filomena Migneco Frasca
Illustrazioni di Antonio Mangiafico
VERBAVOLANT
e d i z i o n i
Copyright 2013 by VerbaVolant edizioni
La pubblicazione delle immagini è stata gentilmente
concessa dal disegnatore Antonio Mangiafico
Via Ragusa 52, 96100 Siracusa
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ISBN: 978-88-89122-71-6
Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy
Stampa Priulla srl - Palermo
La foto della pagina successiva è di Andrea Tarascio
U sapiri è megghiu di l’aviri
Meglio la conoscenza che la ricchezza
PREFAZIONE
Il filologo fiorentino Gino Capponi, in una lettera del 16 giugno 1863 indirizzata a Giuseppe Pitrè, scriveva: “Quanto ai proverbi è lavoro che raccomando di mandare innanzi, perché l’avvio mi sembra buono”.
Allora gli studi di paremiologia erano agli albori e il Pitrè, nel dare inizio
a quella che fu poi una colossale raccolta in ben quattro volumi, aveva delle
perplessità. Oggi l’interesse per i proverbi ha un posto notevole negli studi
di antropologia culturale perché, come aveva intuito il grande filosofo greco
Aristotele, i proverbi sono frammenti di un’antica sapienza.
Tutto un ricco patrimonio culturale fatto di esperienza, di riflessioni, di
sentimenti è stato filtrato e sigillato nei proverbi che ci sono stati tramandati
nel corso dei secoli. I proverbi nella loro icasticità sintetizzano e illuminano situazioni di vita riscoprendo ai nostri occhi, distratti dal frenetico affaccendarci e dall’assillo martellante delle informazioni mediatiche, i valori
elaborati da una saggezza antica e pur sempre attuale. Erano questi i valori
della nostra civiltà contadina ancora viva nella nostra gente fino alla metà
del secolo scorso. Una civiltà profondamente legata al mondo della natura,
alla sacralità degli affetti familiari e sociali, al senso del dovere, alla pratica
della pazienza in un’accezione lunga del tempo nel ciclico alternarsi delle
stagioni.
I proverbi richiamano queste realtà e richiamano anche la concezione della vita velatamente pessimistica di noi siciliani, legata alle nostre
origini greche, e un fondo di malinconia lasciataci dagli Arabi che per
un certo periodo dominarono la nostra isola. Nei proverbi si riflette, infatti, anche la complessa e stratificata storia della Sicilia, posta al centro
del Mediterraneo; in alcuni di essi sono rimasti conservati termini ormai
completamente caduti dall’uso comune come il carrinu, antica moneta
coniata da Carlo d’Angiò e adoperata nel Regno delle due Sicilie (L’amuri ri vinu nun vali ‘n carrinu, cioè: l’amore fra frequentatori di osterie
non vale un soldo).
Tutto questo ricco patrimonio culturale non avrebbe resistito all’inesorabile demolizione del tempo e sarebbe rimasto fatalmente sommerso
nell’oblio se l’opera intelligente e paziente degli studiosi di paremiologia
non l’avesse salvato.
La raccolta di proverbi di Concetto Tarascio, che porta il titolo particolarmente significativo Ccà luci a fera, è opera molto importante perché aggiunge un tassello prezioso alla storia di Floridia.
La nostra comunità cittadina e particolarmente i giovani gliene saranno
grati.
Filomena Migneco Frasca
1. BENESSERE E POVERTÀ
Ccà luci a fera,
na stu pizzu ‘i cantunèra
[Qui è tutta la luce, (quella presente) in questo angolo di strada]
Il termine fari na fera rappresenta l’atteggiamento di chi, in possesso di consistenti risorse, le mette in mostra, o in piazza, con modi appariscenti e con
clamore. Affermare, al contrario, ccà luci a fera, na stu pizzu ‘i cantunèra
vuol far capire che ci troviamo di fronte a una “piccola cosa”, modesta, senza pretese. È l’atteggiamento, cioè, di chi non possiede nulla oltre a quello
che mostra ma in cui, tuttavia, ripone tutto il suo orgoglio. Immaginiamo,
ad esempio, di assistere a un mercato paesano (a fera), ben fornito e dove
i commercianti cercano di vendere la propria merce con incoraggiamenti
chiassosi e plateali, facendo appunto na fera. Ipotizziamo, invece, di imbatterci in un piccolo chiosco o in una bancarella di un ambulante all’angolo di
una strada (u pizzu ‘i cantunèra), illuminati, come si usava una volta, da una
lampada ad acetilene. Il commerciante potrà offrirci ben poco e, comunque,
solo ciò che può esporre e, se questa è l’unica cosa che ha, lui lo farà con tutto
il suo orgoglio. Ecco che possiamo dire: Ccà luci a fera!, detto a volte anche in
modo interrogativo: “Ccà luci a fera?”, cioè “tutto qui?”.
Mia madre usava spesso questa espressione quando, di fronte a qualche
pretesa mia o di mio fratello, allora ragazzini, non poteva soddisfare le nostre esigenze e, allargando le braccia, diceva: Ccà luci a fera. Questa frase
era spesso sostituita dall’altra: Si ‘u vuoi è chistu, e si nunn u vuoi, è sempri
chistu (Se lo vuoi è questo, e se non lo vuoi, è sempre questo). E il capriccio
svaniva.
Senza sordi nun si canta missa
[Senza soldi non si canta messa]
Bisogna essere consci che con la richiesta di fare eseguire una funzione religiosa particolarmente sontuosa, come una “messa cantata”, si va incontro
a una spesa per il sostegno dei costi (il prete, l’organista, il coro). Come dire:
se non si ha denaro sufficiente è inutile chiedere un bene o una prestazione
che difficilmente potrà essere concessa in modo gratuito e, quindi, è meglio
non intraprendere progetti o iniziative se non si hanno le risorse adeguate.
Tutto ha un prezzo.
Cu’ javi sordi ‘n burzittinu,
si fa Pasqua, Natali e San Martinu
[Chi ha soldi nel borsellino, si fa Pasqua, Natale e San Martino]
È la contrapposizione tra la ricchezza e la povertà, tra l’opulenza e la miseria.
In una visione materialistica e consumistica, chi è benestante può trascorrere
in maniera adeguata tutte le feste che vuole. Con le sue disponibilità
finanziarie può comprare quanto necessario per allestire affollati cenoni
o procurarsi merito nei confronti degli altri con regali o sovvenzioni. Il
proverbio è di chiaro stampo floridiano per via del riferimento alla tradizione
dell’11 novembre, festa di San Martino, in occasione della quale si preparano
in gran quantità le famose frittelle (i zzippuli) da distribuire poi a parenti e
amici. Più disponibilità, più zeppole da preparare. Più zeppole da distribuire,
più amici che possono ringraziare…
O futtèca o rubbèca
[O imbroglio o furto]
La miseria in cui versava la maggioranza della popolazione faceva scattare
la molla dell’invidia e del sospetto, che si tramutavano poi in maldicenza nei
confronti di chi conduceva una vita agiata. Per chi accumulava un rapido
patrimonio, la sentenza dei malipinsanti (malpensanti) era inesorabile: o ha
imbrogliato qualcuno (futtèca) o si è appropriato di qualcosa (rubbèca). E
questo parlar male (u sparrari) può provocare danni anche irreparabili: si
dice infatti A lingua nunn havi ossa, ma rumpi l’ossa (la lingua non ha ossa,
ma rompe le ossa).
Cu’ futti vivi nâ vutti,
e cu’ zappa vivi l’acqua
[Chi imbroglia beve nella botte e chi zappa beve l’acqua]
Corollario del proverbio precedente: chi imbroglia e, di conseguenza, riesce a raggiungere un elevato livello di benessere, è raffigurato come chi ha
talmente tanto vino da poter bere direttamente dalla botte, mentre l’onesto
lavoratore, che non può permettersi la piacevole bevanda, deve accontentarsi di bere solo acqua.
Cu’ manìa, ‘nn addisìa
[Chi maneggia, non desidera]
Chi tratta beni materiali, chi ha le mani in pasta o, in generale, chi maneggia
denaro (javi u manìu), può permettersi quanto più gli aggrada e realizzare
quanto desidera, senza patire il desiderio, tipico di chi invece non ha molto e
brama dalla voglia di possedere.
Cu’ picca javi, caru teni
[Chi possiede poche cose, le tiene molto strette]
E oltre a tenerle strette, le stima molto e le valorizza in maniera ancora
maggiore.
Evìta a tina quannu è china.
Quannu u funnu pari,
a nenti servi u evitari
[Risparmia (il vino) quando la botte è piena. Quando appare il fondo (della
botte) a niente serve risparmiare]
Piccola guida del risparmiatore che ricorda il proverbio latino est modus in
rebus (in ogni cosa ci vuole moderazione).
Ricordo che i vecchi antichi dicevano iavìta e iavitari al posto di evìta ed
evitari. Qualcuno sostituisce a nenti servi con è na bbabbanìa (è una stupidaggine).
Si evìta quannu si pò
e si sfarda quannu cci vò
[Si risparmia quando si può e si consuma quando ci vuole]
Per una sana e oculata gestione familiare tutti i componenti dovrebbero
risparmiare, evitando inutili sprechi e rinunciando all’acquisto di futili oggetti. Allo stesso tempo, per non incorrere in situazioni di frustrazione, è
bene concedersi qualche svago, permettersi qualcosa che si desidera o, come
diciamo noi, passàrisi u pitittu (togliersi la voglia). L’abilità sta proprio nel
raggiungere il “punto di equilibrio” tra la parsimonia e la prodigalità, anche
se sappiamo bene che regolarsi nelle quantità è un’arte veramente difficile.
Quando qualcosa viene sciupata o addirittura persa si dice che se ne fa
malu ‘nchicu (cattivo impiego), mentre quando ve ne è in abbondanza diciano che nâ putemu jittari facci facci (ce la possiamo buttare faccia faccia, cioè
sprecare o dissipare).
Mancia di lu ta mancia e viritinni beni
[Mangia del tuo mangiare e sàziatene bene]
Alcuni sostituiscono il verbo viritinni con satritinni. Il proverbio ricorda,
comunque, il passo evangelico del possidente che, con estrema cupidigia,
pensava solo ad accaparrare ricchezze dicendo a se stesso: “Anima mia, hai
a disposizione molti beni, ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti. Ma Dio gli disse:
Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”.
Leva e nun metti, nunn è funtana ca surgi
[Prendere e non reintegrare, non è come una fonte (d’acqua) che sgorga da sola]
Il tema del risparmio è frequente nei proverbi e la saggezza antica ci invita a
evitare gli sprechi, introducendo il paragone con una fonte d’acqua sorgiva
che non deve essere alimentata ma che sgorga da sé. E quindi, se si continua
ad attingere a una forma di risparmio senza rifondere quanto si preleva, in
poco tempo il patrimonio sarà dilapidato e prosciugato, finendo inevitabilmente in miseria.
Chianci u mortu e futti u vivu
[Piange il morto e frega il vivo]
Il proverbio calza bene nei confronti di chi ama lamentarsi di qualcosa che
gli manca, per poi approfittare della pietà altrui e “rimediare” o addirittura
“arraffare”.
In origine, l’espressione era costruita per la situazione di vedovanza, perché recitava A cattiva, chianci u mortu e pensa ô vivu (la vedova, piange il
morto e pensa al vivo, cioè a rifarsi un’altra vita). A dimostrazione delle origini della lingua siciliana, la vedova è detta cattiva per derivazione dal latino
captiva (prigioniera), termine utilizzato per identificare le donne prigioniere
del dolore provocato dal lutto. Una curiosità: a Palermo c’è una terrazza, prospiciente il mare, denominata “Passeggiata delle Mura delle Cattive” perché
un tempo era frequentata dalle vedove che si tenevano a una certa distanza
dagli altri abituali luoghi di passeggio della città.
Sordi fanu sordi e pirocchi fanu pirocchi
[Soldi fanno soldi e pidocchi fanno pidocchi]
La ricchezza induce altra ricchezza e la povertà (rappresentata in modo figurato dai pidocchi) porta ad altra povertà o, perfino, all’indigenza: solita
contrapposizione nella quale la ricchezza è sempre vista con l’occhio dell’invidia. Si dice anche Cu’ javi sordi spenni e cu’ nunn havi spinna (chi ha soldi
spende e chi non ne ha resta con il desiderio). Il verbo spinnari, che appunto
significa “desiderare ardentemente”, è propriamente attribuito ai bambini
piccoli che, si diceva, potessero morire per un’avida brama di cibo (dal latino
ex desiderio perire).
SARBA A PEZZA PI QUANNU VENI U PURTUSU
Casi a lieri, scìppili dê peri
[Le case in affitto, riprendile (tirandole) dai piedi]
È risaputo che il conduttore di una casa in affitto, spesso, non mette molta
cura nella manutenzione dell’immobile. Il padrone di casa, consapevole dei
danni e delle spese cui dovrà andare incontro, spera di recuperare quanto
prima la proprietà, ricorrendo anche ad azioni decise.
..
Ogni ficateddu ‘i musca è sustanza
[Ogni fegatino di mosca è sostanza]
Come dire: ogni piccolo aiuto serve; qui non si butta niente.
Sarba a pezza pi quannu veni u purtusu
[Conserva la stoffa per quando il vestito si buca]
I miei nonni, che hanno tirato su una famiglia numerosa con tanti sacrifici,
ci hanno insegnato a essere previdenti e a conservare quanto riutilizzabile
per future occorrenze: in particolare, i pezzetti di stoffa che avrebbero potuto servire per mettere i toppi (le toppe) ai vestiti che si consumavano o si
bucavano.
Nell’attuale contesto economico e sociale, dove regna il principio dell’“usa e getta”, questo proverbio è decisamente anacronistico.
U bbeni ‘i Giufà nun nesci di ccà
[Il bene di Giufà non esce di qua]
Giufà è un personaggio letterario che, nella tradizione popolare siciliana,
identifica un individuo credulone e privo di ogni malizia, che, facile preda di
truffatori di ogni genere, a varie riprese viene derubato dei suoi beni.
Con questo proverbio si vuole far capire che, se in un nucleo familiare
si sposta un bene tra un componente e un altro, in un gioco a somma zero,
rimane tutto in famiglia (nun nesci di ccà).
POESIE
Amuri fora tempu
[Amore fuori tempo]
La prima poesia, intitolata Amuri fora tempu, era contenuta in un foglietto,
riprodotto nella pagina seguente, che il caro zio Pippo (u zzu Pippu), fratello
di mia madre, aveva acquistato negli anni ‘50 da un venditore-cantastorie
ambulante, tale Gaetano Grasso1.
Tratta di un esilarante e improbabile amore fra anziani (fora tempu) e a
mio zio piaceva tanto leggermela, nel suo laboratorio di sarto (mastru custureri) all’angolo tra Via Foscolo e Via Ariosto. Ci facevamo belle risate e lui,
sempre per ridere, usava il passaggio della poesia li dinari ca dicisti/ unni fu
ca li mittisti? (i denari che hai detto / dove li hai messi?) quando, nella vita di
tutti i giorni, si parlava di soldi e di fantomatici risparmi.
Alla fine zio Pippo mi ha regalato il foglietto tutto consumato che io conservo come suo ricordo.

1 Gaetano Grasso (1895 – 1978). Autodidatta, semianalfabeta, può veramente definirsi un
cronista del suo tempo, avendo scritto e portato in piazza avvenimenti effettivamente successi. Si spostava da un paese all’altro a piedi e, in un secondo tempo, in bicicletta. I “fogli”
con le storie, in quel periodo, dovevano essere sottoposti al visto della polizia ed era vietato
l’uso dei cartelloni e del dialetto; tuttavia, egli riusciva a trascinare il pubblico e il suo nome
è rimasto tra quelli dei più conosciuti cantastorie di Catania.
Se fate silenzio
e ascoltate tutti a me
vi assicuro che riderete
di questa bella poesia
io vi parlo senza affanni
di una vecchia di settant’anni
Successe a S. Giovanni
nel mese di febbraio
che ‘sta vecchia così grande
se ne scappa con il calzolaio
era un po’ gobbo
ottant’anni aveva compiuto
Ma il maestro aveva saputo
che la vecchia aveva denari
raccolti da tanto tempo
mastro infame calzolaio
per comprarsi la suola
se ne scappa mastro Cola
Ma il cervello gli vola
e pensava ai denari
ride sotto le lenzuola
che aveva fatto un grande affare
la vecchia dormiva e russava
e dalla puzza si crepava
Mastro Cola si alzava
e cercava di arraffare
la valigia rovistava
per trovare i denari
e la vecchia si sveglia
salta su e si rompono le fibbie
Lanciò subito un urlo
quando lo vide rovistare
si ruppe la maniglia
e non si poté più chiudere
la valigia avete rotto
brutto calzolaio sconclusionato
Veramente è peccato
hai ragione cara Rosa
tu non sai cosa ho cercato
il mio pensiero non riposa
i denari che dicesti
dove fu che li mettesti
Come fu che credesti
che io avevo tanto denaro
ora mai che fuggisti
tu mi devi maritare
altrimenti ti alzo le mani
senza fare più baccano
E le liti incominciarono
colpi di forma in quel giorno
tutte le persone si affacciarono
che ci fu una gran scenata
con la forma la ferì
mastro Cola se ne andò
La zia Rosa partì
in caserma andò a raccontare
maresciallo santo Dio
non mi vogliono sposare
mi levò l’onore caro
mastro Cola lo scarparo
Mascalzone quell’uomo avaro
vi inganno come dite
ora poniamo riparo
figlia quanti anni avete
se siete minorenne
si scrive una querela
Maresciallo non s’offenda
settant’anni devo fare
ha agito per denari
in galera lo dovete buttare
Mi fece fuggire e mi lasciò
e la valigia mi sfaciò
COSI RUCI
RICETTE
Curiosando in una vecchia agenda del 1956, utilizzata da mio padre durante un corso di formazione per Maresciallo Capo Officina dell’Esercito, tra
appunti di Meccanica ed Elettronica, ho notato alcune pagine con la calligrafia di mia madre. Nella prima di queste ho letto Dosa Cannola (Ricetta
dei Cannoli) e mi sono allora ricordato che lei aveva approfittato delle pagine lasciate vuote da mio padre per annotare alcune delle ricette della nostra
tradizione familiare. Le ricette trovate, scritte in un miscuglio di italiano e
siciliano, non sono tante e allora le ho integrate e trascritte nella doppia lingua, con l’aiuto di alcune amiche di mia madre, in particolare dâ Signura
Tina e dâ Signura Nnuccia, e della Professoressa Migneco Frasca, memoria
storica delle tradizioni floridiane. Mio fratello, appassionato di cucina, specie di quella tradizionale siciliana, ha poi supervisionato tutto il lavoro.
Alcune di queste ricette mi ricordano quei momenti dell’infanzia e
dell’adolescenza trascorsi a Floridia. In particolare non posso dimenticare
l’anno scolastico 1956-57 durante il quale ho frequentato la terza elementare, alla scuola dâ Stazioni (cioè alla scuola elementare vicino alla stazione
ferroviaria1). Durante quell’inverno, secondo l’antica tradizione, nella notte
tra il primo e il 2 novembre, i murticeḋḋi (le anime dei defunti), oltre ad alcuni regalini, mi lasciarono i cosi ruci (i dolci), quali i mustardi e a cutugnata.
Personalmente amo molto i dolci della nostra tradizione che rimandano al
mondo arabo e mediorientale.
La cucina della Sicilia sud-orientale affonda certamente le radici nell’epoca della colonizzazione dei Greci, noti per l’opulenza alla quale erano usi
i ricchi benestanti. Ed era quella una cucina molto elaborata, basata su una
concezione epicurea che favoriva il godimento in luogo del semplice concetto di nutrizione.
1La ferrovia a scartamento ridotto Siracusa-Ragusa-Vizzini cessò l’esercizio proprio nel 1956, il 30 di
giugno.
Le successive dominazioni, in particolare quella araba, hanno poi lasciato
segni inequivocabili negli usi alimentari dell’isola.
In verità, quella che ricordo io è una cucina legata prevalentemente a
tradizioni contadine, dove abbondavano i piatti unici: mia madre mi diceva
che, nelle lunghe serate invernali, la pietanza abituale era quella dâ minescia
di favi (della minestra di fave), semplice ma, allo stesso tempo, nutriente.
Ricordo anche mio nonno che prediligeva a ‘nzalata di pumaroru e cipuḋḋa
cû pani abbagnatu (l’insalata di pomodoro e cipolla con il pane inzuppato).
C’è da dire, inoltre, che il clima e il sole della nostra isola consentono
di avere un’abbondante presenza di aromi naturali, quali l’aglio, l’origano,
il basilico, la menta, il finocchietto, che permettono di esaltare cibi semplici
e di immediata preparazione. Pensiamo a un banale “intingolo” (abbagnu),
preparato con olio, sale, origano e limone, e con questo condimento gustare
na fiḋḋuzza di carni arrustuta (una fettina di carne arrostita) o na feḋḋa di
pisci spada (una fetta di pesce spada): decisamente tutta un’altra cosa!
Un solo rimpianto: è proprio difficile realizzare quanto trascritto nelle
pagine seguenti se si è fuori dalla Sicilia. Le temperature, i ciauri (i profumi)
e, talvolta, anche particolari prodotti locali non possono essere esportati.
Rizzetti
Ricette
Alivi salati
Alivi â stimpirata
Minescia ‘i San Giuseppi
Pasta e patati
Bobba
Purpetti di risu e patati
Parmiggiana di mulinciani
Scacciati
Olive salate
Olive alla stemperata
Minestra di San Giuseppe
Pasta e patate
Peperonata
Polpette di riso e patate
Parmigiana di melanzane
Focacce
Minnulata o latt’ ‘i mènnula
‘Iancumanciari
Giggilena
Turruni di mennula
Cutugnata
Mustarda di ficazzi
Salaminu turcu
Zzippuli
Cannola
Mandorlata o latte di mandorla
Biancomangiare
Croccante al sesamo
Torrone di mandorla
Cotognata
Mostarda di fichi d’India
Salamino turco
Zeppole
Cannoli
ALIVI1 SALATI
Pigghiati na chilata d’alivi beḋḋi virdi e lavàtili bbonu. Mittìtini na quattrina
di junti2 ‘nta na boccia di vitru e junciti quarchi pizzuḋḋu di carota, tagghiata a discu, nu spicchiu d’agghia senza munnalla, pizzuḋḋa d’accia3 e ‘n pipi
spezzi rrussu sanu. Arripititi a stissa cosa finu a qannu a boccia è china. A
menza boccia, mittìtici menzu limiuni (di chiḋḋi senza u chimicu) cu tutta
a scorcia.
Ora, u forti è salari l’acqua. Allura, ‘nta na pignata mittiti na para di litra
d’acqua e na patata beḋḋa pulita. Poi prujunciti a picca a picca u sali finu
e girati cu na cucchiara di lignu. Quannu a patata acchiana ‘i supra, allura
l’acqua è salata ô puntu precisu. Ma nanna, ca nun vuleva fari tutta ‘st’opra,
squagghiava centuvinicincu grammi di sali ‘nta ‘n litru d’acqua.
Sduvacati l’acqua salata nâ boccia finu a cummigghiari âlivi. Priparati appoi na cruna cû finucchieḋḋu rrizzu, ca servi pi fari stari sempri âlivi
ammoḋḋu.
‘Ntuppati a boccia cû cummogghiu e aspittati na misata prima di manciari âlivi.
1aliva: oliva, dal latino olea. Nel territorio circostante Floridia sono presenti varie qualità di olive.
Tra quelle tradizionali ricordiamo: a sarausana (la siracusana), prodotta da piante generalmente
di grandi dimensioni che hanno una media resa di olio; a ianculiḋḋa (la palliduccia), caratterizzata
dal frutto di colore un po’ chiaro e a ogghialora (l’oliera) dal frutto piccolino ma con una gran resa
d’olio. Da queste olive si estrae un olio extravergine di alta qualità, di colore verde e dal profumo e
dal sapore intenso (chiḋḋu ca sapi ‘i pampina, quello che sa di foglia). Durante la raccolta autunnale,
prima di avviare le olive al frantoio, si sceglievano quelle di dimensioni più grandi da destinare alla
salatura.
2junta: quanto sta tra le mani giunte a coppo.
3accia: sedano, dal latino apium. Secondo il Pasqualino, il termine è la trasformazione di apium, apia
in appia e, infine, in accia.
OLIVE SALATE
Prendete un chilo di olive verdi e lavatele bene. Mettetene quattro misure
(eseguite con le mani a coppo) in un vaso di vetro e aggiungete qualche pezzetto di carota, tagliata a dischetti, uno spicchio d’aglio con la buccia, pezzetti di sedano e un peperoncino rosso intero. Fate la stessa cosa fino a quando il
vaso è pieno. A metà, mettete mezzo limone non trattato, con tutta la buccia.
Ora, la cosa importante è salare l’acqua. Allora, mettete in una pentola
un paio di litri d’acqua e una patata ben pulita. Poi aggiungete a poco a poco
il sale fino e girate con un cucchiaio di legno. Quando la patata sale a galla
allora l’acqua è salata al punto giusto. Mia nonna, che non voleva fare tutto
questo procedimento, scioglieva 125 grammi di sale in un litro d’acqua.
Travasate l’acqua salata nel vaso di vetro fino a coprire le olive. Preparate
poi una corona col finocchietto selvatico, che serve per far rimanere le olive
sempre sott’acqua.
Mettete un coperchio ermetico sul vaso e aspettate circa un mese prima
di mangiare le olive.
INDICE
Prefazione5
Introduzione7
Nota linguistica e fonetica
10
1. Benessere e Povertà
2. Vizi e Virtù, Pregi e Difetti
3. Vita, Costumi e Società
4. Amici e Vicini, Figli e Parenti
5. Lavoro e Natura
6. Fortuna e Destino
13
20
35
56
67
81
Modi di Dire riferiti a persone
Modi di Dire riferiti a situazioni
Modi di Dire - esclamazioni e intercalari
89
111
154
Poesie165
Filastrocche170
Babbiati177
Ricette181
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