Ceci tuera cela - Maurizio Pistone

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Ceci tuera cela - Maurizio Pistone
Maurizio Pistone
Ceci tuera cela
La conoscenza nell’età dell’Internet
1.
In un episodio notissimo di Notre Dame de Paris, il perverso monaco Claude Frollo,
indicando da una parte un libro a stampa, dall’altra la grande cattedrale, mormora enigmatico:
“Ceci tuera cela” (Questo ucciderà quello).
Il turpe arcidiacono voleva dire che la vecchia sapienza simbolica, incarnata nel grande
“libro di pietra”, sarebbe stata sostituita dalla nuova scienza razionalistica, impressa dai
caratteri mobili. Naturalmente non voleva dire che le cattedrali sarebbero state distrutte, né
che la gente avrebbe cessato di frequentarle. Ma che il rapporto della società con la
conoscenza, e la natura stessa della conoscenza, avrebbero visto un profondo cambiamento.
2.
Fra i grandi cambiamenti portati dal libro stampato c’è quello di aver trasformato la
conoscenza in una merce.
In Grecia la conoscenza viveva in luoghi collettivi: la piazza, il teatro, la palestra, la
scuola, il banchetto. La polis greca era una società face to face; il ceto colto era formato da
poche decine, al massimo poche centinaia di persone, che si conoscevano direttamente e si
incontravano tutti i giorni. Il politico parlava nell’assemblea, l’avvocato nel tribunale
popolare, il poeta cantava nel teatro, nei luoghi sacri o nei simposii, il filosofo insegnava dove
capitava. Le parole del politico, del filosofo, dello scienziato, venivano ripetute nelle botteghe
e nelle vie, i canti del poeta venivano intonati nei banchetti, gli inni per i vincitori dei giochi
entravano nel patrimonio degli scolari. Qualcuno ci guadagnava anche dei bei soldini. Il
sapiente – il sofista – si faceva pagare per i suoi insegnamenti. L’avvocato – il logografo – si
faceva pagare per scrivere arringhe difensive. Ma i soldi che il maestro riceveva dall’allievo,
che il logografo riceveva dal cliente, erano il compenso per l’atto della composizione: l’opera
composta diventava immediatamente patrimonio di tutti gli ascoltatori.
In seguito, con il diffondersi del libro manoscritto, il sapiente componeva un testo, che
poi veniva amorevolmente e scrupolosamente copiato a mano. Chi poteva permetterselo
comprava il lavoro di copisti di professione, ma l’autore non aveva più nessun controllo sulla
sua opera, una volta che il manoscritto originario avesse cominciato a viaggiare per il mondo.
Pur con questi mezzi limitati, la fama di un grande studioso raggiungeva ogni angolo
dell’Impero, poi dell’Europa cristiana (analogamente nel mondo islamico ecc.). Grandi autori
potevano guadagnare anche allora dei bei soldini: i mecenati erano disposti a spendere somme
ingenti per ottenere armoniosi versi in loro onore. Ma né l’autore, né il mecenate, erano in
alcun modo padroni dell’opera finita.
Col libro a stampa cambia tutto. La stampa è la prima forma moderna di produzione
industriale in serie. Il libro è prodotto da un imprenditore, l’editore, che acquista materie
prime e forza lavoro, e mette sul mercato un prodotto finito: un libro stampato in un numero
predeterminato di esemplari – tutti uguali. Il libro (così anche il disco ecc.) è venduto come
tutte le altre merci, ad un prezzo prestabilito, e il prezzo del prodotto comprende anche il
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compenso del lavoro intellettuale: i diritti d’autore. La conoscenza è diventata parte
inseparabile della merce libro.
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Occorsero secoli per passare dall’incunabolo di Frollo ad una folla di autori che vivono
esclusivamente di diritti d’autore, ad un’industria libraria che vive sul mercato obbedendo
soltanto alle leggi del mercato. Ma una volta iniziato, il processo era ormai inarrestabile, e
ogni tentativo di regolare l’editoria con i vecchi sistemi (Index librorum prohibitorum in testa)
era destinato ad un misero fallimento.
I diritti d’autore non sempre sono proprietà dell’autore stesso, prima o poi diventano
proprietà dell’editore, in conseguenza anche della loro innaturale durata: secondo la
legislazione vigente, fino a settant’anni dopo la morte dell’autore! Qualcuno dei miei pazienti
lettori è in grado di dire così, su due piedi, nome e cognome dei suoi bisnonni e pro-prozii
morti prima del 1940?
Sia chiaro che qui non si vuole sostenere che i diritti d’autore sono il MALE. Il mercato
capitalistico ha messo a disposizione dell’umanità un’infinita quantità di beni di consumo, ed
il mercato librario – di cui i diritti d’autore sono una componente essenziale – ha messo a
disposizione dei lettori un’immensa mole di sapere; e soprattutto, ha emancipato la
produzione e la diffusione della cultura da ogni forma di controllo politico o religioso –
qualcuno ci prova sempre, naturalmente, ma deve fare i conti con le leggi di mercato, che
prima o poi hanno la meglio.
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Poiché il libro è prodotto in un numero finito e predeterminato di esemplari,
l’imprenditore è in grado di esercitare un completo controllo su tutte le copie. La legge vieta
che altri imprenditori producano lo stesso libro senza l’esplicito consenso del primo.
La stessa cosa riguarda ogni altra produzione industriale. Nella società artigianale, non
esistevano brevetti – la parola esisteva, ma aveva un significato diverso, di licenza concessa
dal sovrano allo svolgimento di un’attività produttiva. Produttori e corporazioni tentavano di
mantenere il segreto di una particolare lavorazione, ma una volta che il segreto era violato,
non avevano nessuna possibilità di rivalersi sugli imitatori. Quando Luigi XIV fece venire da
Venezia in Francia alcuni maestri vetrai, gli artigiani della laguna non ebbero scampo, e si
videro sfuggire dalle mani il monopolio della loro arte.
Nella società industriale il brevetto ingloba l’invenzione, la conoscenza, il pensiero
nell’oggetto stesso. Copiare un brevetto è un reato punito dalla legge, come il furto del bene
in cui esso è incorporato. Questo non sarebbe possibile se l’oggetto non fosse il risultato di
una produzione industriale su larga scala. Non si potrebbero tutelare brevetti su oggetti
prodotti in esemplari singoli da una folla di artigiani.
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Le cose si complicano nel caso delle opere destinate all’esecuzione. Io posso comprare
una partitura musicale, ed è come se comprassi un qualunque libro. Ma nel momento in cui la
eseguo di fronte ad un pubblico, c’è il pericolo che il diritto d’autore sfugga all’imprenditore,
così come la musica vola via dalle pagine dello spartito. È necessario mettere in campo
un’intera folla di ispettori – veri e propri gabellieri – che tengono sotto controllo tutte le
occasioni di esecuzione pubblica di un’opera musicale, teatrale o di altro genere.
Finché la cosa riguarda grandi teatri ed occasioni di un certo rilievo, la cosa è possibile.
Assume invece aspetti paradossali quando il controllo si esercita su ogni singola esecuzione.
Qualunque rappresentazione amatoriale, qualunque festicciola privata, qualunque recita
scolastica può cadere – e talvolta di fatto cade! – sotto l’occhiuto controllo degli ispettori
della SIAE – o dei loro equivalenti negli altri paesi1.
Col cambiare della tecnica, il sistema comincia a mostrare i suoi limiti. In teoria una
maestra che fa imparare ai propri alunni una poesia a memoria compie una violazione del
diritto d’autore. Lo studente che va in biblioteca armato di matita e taccuino, idem. Ma la cosa
è stata trascurabile fino all’invenzione delle fotocopiatrici; allora s’è reso necessario inventare
una normativa un po’ barocca che dice quale percentuale del testo è possibile copiare, in
quante copie ecc. Ma tanto i laboratori di fotocopie distribuiscono tessere per la copiatura fai
da te: il cliente copia, e loro fanno finta di non vedere.
6.
Adesso accendiamo il computer, andiamo sull’Internet. Ceci tuera cela. Tutto quanto
abbiamo detto finora, non vale più.
Naturalmente, questo non vuol dire che il libro stampato scomparirà dalla faccia della
terra. Internet non ucciderà il libro, così come il libro non ha distrutto le cattedrali, né la
comunicazione verbale diretta.
Gli ingenui pensano che la differenza stia nel mezzo tecnico. La scatola magica. Apri il
libro dei misteri, ed esce il diavoletto: “Comanda, Padrone!” Il computer ha le lucine, il libro
non le ha. Il computer ha le musichette, il libro non le ha2.
Chi invece ha subito capito la questione sono stati i produttori di software. Fin da
quando il software era distribuito su dischetti magnetici, e solo alcuni arditi collegavano il
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Chi scrive si è occupato, in gioventù, di musiche e danze popolari, ed ogni occasione di incontro in
centri culturali di quartiere, piazze di paese ecc. richiede la compilazione di un dettagliato borderò
con l’elenco completo dei brani eseguiti e dei rispettivi autori – comprese le composizione di
autore ignoto (“Courento della Val Varaita – brano tradizionale; Gigo Vitouno – autore ignoto.”).
Alcuni vecchi suonatori gli confidarono che la SIAE è fra i responsabili della morte della musica
popolare: nelle osterie c’era sempre uno con la fisarmonica che si metteva a suonare, ma ad un
certo punto arrivava l’ispettore, con un registratore nascosto, e il giorno dopo andava dall’oste e gli
appioppava una bella multa. Risultato: gli osti hanno vietato di suonare nelle osterie.
Tutta la discussione fra “esperti” scolastici a proposito della Lavagna Interattiva Multimediale ne è
la dimostrazione: la LIM è una rivoluzione didattica – perché? – perché con la LIM invece delle
pagine di un libro fai vedere dei Power Point! – Ah.
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computer alla cornetta del telefono con uno strano aggeggio dotato di microfono e
altoparlantino, chi compra il software in realtà non compra l’oggetto materiale – il dischetto,
il nastro magnetico, il CD. No, chi compra il software compra una licenza d’uso.
L’acquirente non diventa proprietario di nulla.
Internet era ancora di là da venire, ma i produttori di software sapevano che il diritto
d’autore non è più una cosa legata all’oggetto materiale – al supporto. Il supporto è
indifferente; nell’era dell’Internet è del tutto superfluo. Già oggi CD e DVD e Blue Ray
potrebbero sparire dalla faccia della terra, e musica e software e immagini e film
continuerebbero a viaggiare lungo le larghe bande che circondano il pianeta.
La conoscenza è entrata nella fase della sua infinita, immateriale, istantanea, gratuita
replicazione e diffusione. È così, e non c’è misura restrittiva che lo possa impedire.
Applicare le vecchie norme sul diritto d’autore alla circolazione sulla Rete è come governare
la Borsa con leggi nate al tempo dell’abigeato e del pascolo abusivo.
7.
La storia dell’economia elenca diverse teorie sul prezzo delle merci. Ma gira gira,
ridotte all’osso, tutte ricollegano il prezzo dell’oggetto finale ad un valore che dipende dal
costo di produzione. Ci possono essere oscillazioni, anche molto forti, intorno a questo
valore; ma queste oscillazioni non hanno un’ampiezza illimitata. Un bene che al produttore
costa mille euro, non si potrebbe vendere a centomila, o a dieci. Il sistema non funzionerebbe.
Invece, per quanto riguarda il software, non è così. Il prezzo del software è sempre un
prezzo politico, non ha niente a che vedere con i costi di produzione.
Compro un CD con la registrazione di un’opera lirica, eseguita dai migliori artisti del
panorama mondiale. Per realizzare questo CD si sono messi insieme centinaia di specialisti,
fra cantanti, strumentisti, coristi, tecnici del suono, tecnici dell’incisione ecc. Gli strumenti
usati per l’esecuzione e la registrazione rappresentano un capitale che può misurarsi in decine
milioni di euro. E poi grafici, esperti della comunicazione, del marketing. La lavorazione è
durata settimane, in certi casi mesi. La messa a punto del progetto può aver coinvolto
musicologi, filologi, storici, studiosi di varie discipline, anche per anni. Questo CD si trova
sul mercato a poche decine di euro.
Spiegatemi perché Photoshop deve costare venti volte tanto. Non venitemi a raccontare
che c’è una relazione tra le risorse umane impiegate a produrre quel programma e il prezzo
finale. E ho scelto uno dei programmi più diffusi sul mercato mondiale - sicuramente più
diffuso di qualunque opera lirica.
Il programma che ha trasformato Internet in un fenomeno di massa è stato Netscape. Era
prodotto da un'azienda che lo metteva in circolazione a meno (chi si ricorda?) di cinquanta
dollari con la formula dello shareware – di fatto per l’utente privato era gratuito. Intervenne
la Microsoft, che per conquistare quel mercato, e distruggere quella che stava diventando
un’imbarazzante concorrenza, cominciò a distribuire Internet Explorer gratis (a quel tempo
era un programma a parte, non era ancora integrato nel sistema operativo).
Da zero a qualche decina a parecchie centinaia, in alcuni casi qualche migliaio di
dollari. Qualcuno può sostenere che queste enormi differenze sono legate ai diversi costi di
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produzione? Così come la differenza di prezzo tra un panino al prosciutto, una bicicletta, una
Rolls Royce e un aviogetto?
Il prezzo di un prodotto industriale fisico comprende una parte fissa (fra cui il costo di
progettazione: la conoscenza) ed una parte che dipende dal numero degli esemplari: mano
d’opera, materie prime, distribuzione ecc. Nel caso del software, questa seconda parte non
esiste. Può essere mantenuta la finzione della scatola di cartone e del dischetto di plastica, ma
la maggior parte del software commerciale viene distribuito attraverso la rete. Il produttore
non sa quante copie del suo software sono in circolazione, se non viene informato da una
folla di gabellieri che tutti gli Stati del mondo mandano in giro – in genere con scarsa
efficacia. Anche per il software distribuito su dischetti, io posso procurarmi il programma con
qualunque mezzo, e poi limitarmi a pagare la licenza d'uso.
8.
Nel sistema tradizionale dei diritti d’autore, i diritti di esecuzione sono un’estensione
dei diritti inglobati nell’opera stampata. Nel caso del software, questo sistema è stato
ulteriormente esteso a forme di circolazione delle conoscenze che non hanno più nulla a che
vedere con prezzo della conoscenza inglobata in un numero finito di copie materiali. Non è
più possibile spiegare il prezzo di una singola copia di un software in termini di calcolo
costi/ricavi, che è alla base del funzionamento di un’impresa sul mercato capitalistico. Non si
può far pagare un tanto a copia, quando tecnicamente è impossibile avere un controllo sul
numero delle copie – neppure con capillari e asfissianti ispezioni poliziesche.
Prima che la cosa fosse teorizzata, è avvenuta spontaneamente una trasformazione
radicale. Buona parte del software che circola al mondo è uno shareware, e il pagamento della
quota è lasciato alla buona volontà dell’utente. Il software open source da anni è uscito dal
mondo semiclandestino degli hacker, per diventare la base di interi settori industriali. Lo
stesso Internet non esisterebbe senza standard e programmi di pubblico dominio. I difensori
del vecchio sistema agitano le teorie economiche correnti e dicono che non può esistere
un’economia basata sul lavoro volontario e la riproducibilità gratuita del prodotto. Ma
quando la teoria fa a pugni con la realtà, è un problema della teoria, non della realtà.
E non si tratta solo di software open source. Se io ho un problema, posso rivolgermi a
qualcuno sulla rete, e troverò qualcuno che ha avuto lo stesso problema, e ha trovato la
soluzione. Oppure nessuno c’è ancora riuscito, e forse ci riuscirò io per primo, e metterò la
soluzione a disposizione degli altri. Anni fa avevo cercato inutilmente nelle biblioteche della
mia città la versione originale yiddish di una canzone di cui conoscevo la traduzione inglese
cantata da Joan Baez. Qualche giorno fa mi è tornata la stessa curiosità. In pochi secondi ho
trovato la storia della canzone, il testo originale, tutto quanto sulla Wikipedia. Chissà, magari
accorderò la chitarra e proverò a cantarla, asma permettendo. Se sapessi come fare, farei
pervenire qualche centesimo di siclo d’argento come diritti d’autore ai discendenti dei due
compositori, che sono probabilmente morti un bel po’ di anni fa – ma meno di settanta
sicuramente. Se non li troverò, non credo che se ne avranno a male.
Milioni di persone che non si conoscono lavorano insieme a costruire un ipertesto di
miliardi di pagine che copre tutta la terra. Ognuno lo fa per una motivazione propria, come
capita in tutte le grandi operazioni collettive. Molti sperano di guadagnarci, alcuni lo fanno
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per altruismo, altri per esibizionismo, alcuni hanno intenzioni turpi ecc. ma non è questo che
cambia il risultato. È rinata l’agorà, che però non è più la piccola piazza di un buco di città di
poche migliaia di abitanti, dove tutti si incontrano di persona. È una piazza di milioni di
persone, potenzialmente di miliardi, costantemente interconnessa. Non esiste una teoria
economica capace di spiegarla, ma non sembra che nessuno per ora se ne preoccupi.
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Questo non vuol dire, ovviamente, che tutto quello che c’era prima scompare. Non
scompare il mercato dei libri stampati; non scompaiono tutte le altre forme di mercato e di
comunicazione. Non vuol neanche dire che il sistema dei diritti d’autore, quale è stato fino ad
oggi, sia una brutta cosa, la proprietà è un furto e roba del genere. È che il contesto cambia
completamente, ed è a questo nuovo contesto che tutte le altre forme di mercato devono fare
riferimento: non il contrario. Non si può far finta che non sia cambiato nulla.
Tout passe. Non si può regolare Internet con leggi nate al tempo della composizione
tipografica con caratteri fusi nel piombo.
10.
Il cittadino greco abitava in una casa che era poco più di una spelonca, e quindi stava il
più possibile a ciondolare per vie e piazze; e dalla mattina alla sera incontrava venditori di
frutta secca e di tranci di pesce, politicanti che promettevano meraviglie in cambio di un voto,
flautiste che offrivano sesso per poche monetine, filosofi che si accapigliavano per far
trionfare le loro teorie di fronte ad un pubblico diviso in rumorose tifoserie, venditori di
incantesimi e ciarlatani di ogni genere. Lo stesso avviene sull’Internet, su una scala più ampia
di una mezza dozzina di ordini di grandezza. Un enorme bazar anarchico, che funziona
proprio perché è anarchico. Un sistema che può reggersi solo in base a regole proprie, così
come il mercato capitalistico, al suo sorgere, respinse ogni regola che non fosse la propria
regola – con grande sconcerto dei conservatori. Ed oggi l’anarchia dell’Internet non sopporta
più di essere inquadrata secondo regole ad essa estranee: neppure le regole dell’anarchia del
mercato.
Désormais, ceci a tué cela.
Castelnuovo don Bosco, 1° Gennaio 2010
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