l`ostrica e la perla

Transcript

l`ostrica e la perla
LibertàEdizioni
Alessio Pollutri
L’OSTRICA E LA PERLA
ROMANZO
LibertàEdizioni
L’OSTRICA E LA PERLA
PREMESSA
Questo libro è ispirato dalla storia vera di un ragazzo che
riuscì a guarire da gravi problemi psichiatrici.
È ispirato dai suoi racconti e dalle pagine di un diario
che il più delle volte mi hanno lasciato emozionato e
frastornato.
Con la stessa incapacità di giudizio vi offro questa storia, impregnata di tutta la mia ignoranza scientifica ed
esistenziale ma graffiata da una magia poetica che in un
modo o nell’altro è riuscita a restituirmi un amico.
Alessio Pollutri
Ogni riferimento a persone, a divinità o a classi sociali è
assolutamente colorato dalle tonalità grottesche e passionali del “luogo comune” popolare. A voi
l’indulgenza di accoglierlo con l’occhio critico
dell’essere umano. Lo stesso occhio che, guardando avanti, inciampa sul sasso.
7
8
PRIMA PARTE
A Massimo...
Un vecchio e un bambino si preser per mano
e andarono insieme incontro alla sera
la polvere rossa si alzava lontano
Francesco Guccini, Il vecchio e il bambino
9
CAPITOLO PRIMO
Il ragazzo è malato
1.

È malatissimum signoram, le ripetos que est
terribilmentem malatus!
 Ancora una volta, la prego! Mi dica cos’ha! Vi
scongiuro.
Una vecchina camminava lentamente lungo il corridoio,
il suo ginocchio sinistro tendeva verosimilmente verso
l’interno.
 No! Le ho detto di no!
 Guardate il viso della donna che v’implora! Non
negategli il conforto d’un avanzo di speranza. Son
qui, è vero, e vi supplico a gran voce. Ma l’amore
pel mio bimbo mi morde sì feroce!
 No! Le ho detto di no!
 Crudele!
La vecchina aveva ormai percorso quasi sette mattonelle
dal suo risveglio ed il suo ginocchio sinistro toccava effettivamente il suolo, piegato verso l’interno.
Aveva un passato misterioso ai più dell’ospedale, ma
tutto era conservato in un diario grandissimo, pieno di
fogli e foto. Era posato sul piccolo mobile a rotelle vicino al suo letto ed ogni mattina prima di andare al bagno
lei lo baciava. Alla sera, quando tornava dal bagno, le
donava un altro bacio e dopo essere riuscita ad infilarsi
sotto le coperte, a notte fonda, le sue labbra si posavano
un’ultima volta sul diario e si addormentava.
 Oh dotto mio signore, è una mamma che vi prega!
Dai, datemi un avanzo di speranza, eh su!
 Signoram
est
malatus!
Malatus!
Malaaaaaaaaaaaaaaaatus!
La voce del dottore si soffermò sul tragico peso della
vocale. Guardava la signora dall’alto e la sua testa era
10
piegata leggermente in avanti per dare un’intonazione
più grave alla voce. La sua mano era protesa verso il
soffitto. Dei lampi irruppero dalle finestre.
La donna scoppiando in lacrime raccolse la tibia ed il
perone della vecchina e brandendoli al crudele misantropo disse:
 Nooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!
Le sue narici erano dilatate, la sua testa era piegata
all’indietro e sul suo collo pendevano collane d’aglio e
peperoncino. Le sue vesti erano nere e dalle tasche fuoriuscivano rosari e santini.
 Insensibile al mio canto, mi dispero, sola, e piango.
La zizza che vi amò si secchi di punto in bianco!
Che se mai voi avrete un figlio... aaaah... taccia la
mia lingua sennò poi faccio un danno. E soltanto
Iddio lo sa che vi darei io pe’ malanno! Non sapete
voi cos’è il sorriso d’un figliuolo, non sapete voi
cos’è custodire ’sto tesoro! Io l’ho avuto in grembo,
io l’ho allattato e l’ho cresciuto. E mo’ voi volete
negarmi il vostro aiuto? Come potete Come potete?
La vecchina intanto si era avvicinata saltellando su un
piede alla signora e cercava, goffamente, di riappropriarsi della sua gamba. Alle spalle della donna, cercava
di seguire le direzioni del suo slancio ma le sue mani si
muovevano troppo rapidamente e la vecchina non riusciva ad afferrarla.
 Siete un uomo, soltanto un uomo! Non posso
chieder tanto, insensibile all’amore e intaccabile al
mio pianto!
Il dottore si ricompose, sistemò il suo camice ed il suo
cappello e guardando freddamente la donna negli occhi
le disse:
 Signoram...
io sono stato donna!... Et vostro
figlium est malatus!
Un grido li interruppe.
11
2.
Non c’è più mamma! Non c’è più!
Dalla porta vicina il ragazzo si era svegliato e aveva
cominciato a sbraitare.
Come gocce che da stalattiti scivolano giù nel profondo
della grotta, provocando cerchi di risonanza nel gelido
lago sotterraneo. Una dopo l’altra, sempre con la stessa
cadenza. Calme, ipnotiche.
 Non c’è più, mamma, non c’è più!
Il ragazzo urlava fortissimo, disteso sul letto.
 È scomparso, l’hanno portato via! Non c’è più, non
c’è più!
Ogni muscolo si contraeva disperato, era come se tutto
il corpo fosse una bocca che urlava. La testa si piegava
all’indietro tirando i muscoli del collo e mentre le parole
uscivano, alcune più forti ed altre più deboli, la sua
schiena si arcuava portando il petto verso l’alto.
 Tutto è buio! Tutto è buio, tutto è buio!
Le gambe si piegavano e si adagiavano ora a destra ora
a sinistra. Le sue braccia erano aperte lungo i fianchi ed
i polsi forzavano sui cinturini di pelle che lo arginavano.
Le sue dita erano contratte, alcune falangi più piegate
delle altre e i palmi si muovevano a scatti cambiando le
angolazioni.
 Lascialo! Lascialo! L’hanno preso!... L’hanno
spento! Tutto è buio!
Le gocce continuavano a piovere una dopo l’altra.
L’infermiera finalmente arrivò e fece uscire i genitori, li
pregò di attendere fuori. La madre piangeva e non voleva uscire. Il padre cercava di controllarsi e riuscì a portare la moglie nel corridoio. L’infermiera diede uno
sguardo al ragazzo che continuava a dimenarsi e le gocce cominciarono a scendere più velocemente, come un
esercito di piccoli bersaglieri che corrono uno dopo
l’altro.
 Sole!... No... mamma... no!Tutto è buio!

12
C’erano delle onde, c’era dell’acqua, c’erano delle gocce che lo travolgevano. La pioggia, anche la pioggia è
fatta di gocce e anche la pioggia lo colpiva.
Il corpo del ragazzo si dimenava senza tregua, sotto la
pioggia.
Le gocce del calmante continuavano ostinate a varcare il
fronte, infinite.
Le sue parole diventavano dei mugugni, ed i respiri
sempre più dei sospiri. Il suo corpo si abbandonò al suolo. La sabbia bagnata gli si attaccava al viso. Non sentiva dolore, soltanto voglia di dormire.
I cinturini si adagiarono sul letto.
Le gocce continuarono a colpirlo.
L’infermiera gli fece un prelievo e fece rientrare i genitori.
3.
Le infermiere nell’ospedale erano selezionate duramente. Gli infermieri non erano selezionati.
Alle infermiere era concesso tanto, potevano sbagliare
delle dosi, potevano essere scorbutiche e potevano intercambiare i risultati delle analisi tra i pazienti. Ma a nessuna era assolutamente permesso di non essere bionda!
Le parrucche erano accettate ma a parità di punteggio
sarebbe stata selezionata quella naturalmente dotata.
Le infermiere erano tante, così tante che spesso le vedevi occupate nelle faccende più inutili e ti chiedevi:
 Ma come fanno a fare tutto ciò ed essere anche nelle
stanze con i pazienti?
In quell’ospedale ce la facevano, o per lo meno di sicuro
“tutto ciò” lo facevano.
Le infermiere erano fredde e decise con i pazienti e sensibili e passionali con i mariti.
Le infermiere non avevano mariti.
C’era soltanto un’ossessione per le infermiere, onorare
l’antico giuramento d’Ippocrate:
13
“Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea
e per gli dèi tutti e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio,
questo giuramento e questo impegno scritto:
di stimare il mio maestro di questa arte come mio padre
e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e
che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò
quest’arte, se essi desiderano apprenderla;
di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti
orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio
maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati
dal giuramento del medico, ma nessun altro.
Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo
le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno e offesa.
Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un
farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.
Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la
mia arte. Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di
questa attività.
In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei
malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e
fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle
donne e degli uomini, liberi e schiavi.
Di quanto io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini,
tacerò ciò che non sia necessario divulgare, ritenendo
come un segreto cose simili.
E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non
lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell’arte,
onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro.”
Ed il nuovo giuramento deliberato dal comitato centrale
FNOMCeO il 23 marzo 2007:
14
“Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto
che compio e dell’impegno che assumo, GIURO:
di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di
giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento;
di perseguire la difesa della vita, la tutela fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico,
culturale e sociale, ogni mio atto professionale;
di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno,
prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo
l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario;
di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona;
di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico;
di promuovere l’ alleanza terapeutica con il paziente
fondata sulla fiducia e sulla reciproca informazione, nel
rispetto e condivisione dei principi a cui si ispira l’arte
medica;
di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e
della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze;
di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina;
di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente alla mia competenza e alle mie doti morali;
di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale,
atti e comportamenti che possano ledere il decoro e la
dignità della professione;
di rispettare i Colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;
di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del
medico;
di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e
di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione
dell’autorità competente;
15
di osservare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o
che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia
professione o in ragione del mio stato;
di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione.”
Le infermiere non erano medici e quel giuramento non
l’avevano mai fatto. Ma non azzardatevi mai a ricordarglielo.
16
CAPITOLO SECONDO
Quel giorno pioveva
1.
Un solo forte e vibrante rintocco.
La casa di Dio si apriva al suo pianto. Dentro la Chiesa
la pioggia filtrava dal tetto usurato e malridotto.
Le gocce cadevano a piombo dalle crepe più grandi, altre si insinuavano e strisciavano lungo le pareti, percorrevano le curve, accarezzavano i rilievi e si gettavano
nel lago che ormai riempiva le navate. Come dei lividi
su di un corpo violentato, macchie d’umidità indebolivano le pareti ed il soffitto. Dall’enorme cupola si scrostavano sorrisi d’angeli e tutti i Santi, chi prima e chi
dopo, abbandonavano il cielo per affogare al suolo.
Dal basso nulla più emergeva, un’unica lastra uniforme
d’acqua ricopriva tutto e si udiva soltanto il frastuono
delle gocce che la perforavano.
Come dei pugni disperati contro una parete, la pioggia si
colpiva senza tregua accusandosi per tutto ciò che stava
nascondendo e distruggendo.
Il campanile era crollato, quello era stato il suo ultimo
rintocco, il suo ultimo grido. La campana era precipitata
nella navata centrale ed era affogata in profondità.
Schizzi d’acqua avevano ricoperto il viso della Madonna che ne piangeva la morte.
Pioveva ininterrottamente da tanto tempo, troppo.
Uno dopo l’altro i cavi d’acciaio su cui era aggrappata
la croce iniziavano a cedere ed il volto di Gesù era ora
rivolto al cielo come se implorasse il Padre per una tregua su quell’ulteriore calice amaro.
Un’unica vetrata era ancora intatta e la luce della luna
regalava un pallido riflesso di colore. La sola parte illuminata rappresentava una donna vestita di bianco
nell’atto di muovere delle palme verdi, il suo cielo era
17
rosso e blu. Dalle altre vetrate distrutte entravano raffiche di vento e nel oscurità sembravano tutte provenire
da quella palma verde mossa dalla giovane donna in
bianco.
Quello stesso vento si insinuava nelle canne del grande
organo che spiccavano al di sopra dell’entrata e ne fuoriuscivano fischi gregoriani.
Le piccole balconate laterali avevano ceduto ed erano
quasi completamente crollate, se ne scorgevano soltanto
piccole sporgenze frastagliate.
Le navate laterali, avendo il soffitto più basso, erano
quasi completamente colme di pioggia e a destra, dove
ormai il soffitto non c’era più, il livello dell’acqua era
collegato all’esterno e lo sguardo si apriva su un’infinita
distesa scura dalla quale saltuariamente si intravedevano
spuntare le rovine di un mondo sommerso.
Nella navata centrale della Chiesa, sospeso a mezz’aria,
il vecchio era immobile. Il suo corpo era nudo ma le sue
rughe erano così abbondanti da sembrare pieghe di un
abito sgualcito. Era magrissimo e il suo corpo era piccolo ed esile. Il suo volto era scavato dalla pala della sofferenza e dalla sua testa pendevano capelli lunghissimi,
più lunghi della sua stessa statura, che sfioravano
l’acqua disegnandovi linee e punti. Volteggiava
nell’aria, avvolto dall’oscurità e percosso dalla pioggia.
Tutte le tensioni del suo corpo erano concentrate sulla
mandibola chiusa in una morsa strettissima.
I suoi occhi erano aperti e fissavano l’orizzonte attraverso le mura crollate.
Sembrava cercare qualcosa, fissava profondamente tutto
ciò che sfiorava. La sua testa cominciò a voltarsi a destra e a sinistra, dolcemente, molto lentamente. Guardava tutto, cercava. Osservava in alto e in basso, ovunque
e sempre con la stessa intensità. Poco a poco iniziò a
muoversi sempre più veloce, in tutte le direzioni, roteava sfruttando tutti gli assi possibili ed in continua accelerazione. Il suo sguardo si fece più vago, vuoto, non
fissava più nulla di preciso e si lasciava trasportare dal
turbine della testa. I suoi lunghissimi capelli roteavano
18
nell’aria e nel momento in cui sembrava aver raggiunto
la sua massima accelerazione, un’ennesima spinta nacque dall’esile collo e la testa si staccò di colpo. Partì velocissima tracciando una diagonale verso l’alto, verso la
cupola. Attraversò una grande crepa e si arrestò
all’improvviso subito dopo aver raggiunto l’esterno. Il
resto del corpo cadde nell’acqua all’interno della Chiesa.
All’esterno la pioggia sembrava ancora più forte e violenta, la luna era coperta dalle immense nuvole scure e
l’unica luce proveniva dai frequenti lampi che squarciavano il cielo. La testa era leggermente inclinata verso
l’alto, i capelli bagnati pendevano disegnando una lunga
tonaca bianca. Le sue vecchie e stanche palpebre non
riuscivano a muoversi sotto i colpi della pioggia, e la
mandibola sembrava non trattenere più la sua stretta
morsa.
Con immenso sforzo gli occhi si aprirono, il suo sguardo era deciso, coraggioso, sembrava lanciare una sfida
al cielo. La sua bocca si spalancò.
Dalle sue labbra fuoriuscì lentamente una lunga lingua
rossa, viva, protesa verso l’alto, sembrava non finisse
mai. Su di essa era adagiato un corpo piccolissimo, disteso in posizione fetale. Era così piccolo da entrare
completamente sulla larghezza della sua lingua.
Tutto all’improvviso si riempì di giallo.
Come se qualcuno avesse lanciato un secchio di vernice
gialla su di un quadro già terminato in ogni suo dettaglio. Una vernice particolare, capace di mantenere gli
stessi contorni, le stesse figure e gli stessi elementi. La
Chiesa era distrutta, la pioggia continuava a cadere forte
e violenta, il paesaggio era sommerso nell’acqua, una
vecchia testa senza più il suo corpo volteggiava nell’aria
e delle immense nuvole riempivano il cielo. Ma tutto era
giallo, in tutte le sue sfumature.
Il piccolo corpo cominciò a ingrandirsi, la lingua era attaccata al suo ombelico. Era giallo, dorato, con una pelle
tesa e luccicante. Continuando a ingrandirsi, non lasciava capire di che sesso fosse, era un essere androgino e
non fermava la sua espansione. La sua testa era rotonda
19
e non sembrava avere dei dettagli sul viso, era un corpo
essenziale nelle sue linee esteriori e sempre più grande.
La pioggia gli rimbalzava addosso come se lo volesse
lucidare.
Il Vecchio ritirò la lingua e di conseguenza si ritrovò
con le labbra posate sul suo ombelico, gli occhi semichiusi. L’enorme essere giallo si ripiegò su se stesso per
abbracciare e stringere a sé la testa del Vecchio. Il corpo
si richiuse così tanto da nasconderla completamente
formando una grande palla gialla. Ogni linea si era fusa
con le altre. Come risucchiato in quell’abbraccio, tutto il
giallo apparso in precedenza si era concentrato in
quell’unica enorme sfera.
Lentamente salì nel cielo sciogliendo le nuvole. La
Chiesa era distrutta, la Terra era ancora un enorme lago
di lacrime ma finalmente la notte era finita, la pioggia
lentamente cessò e tutto si riappropriò di un suo proprio
colore.
Nel cielo, adesso, brillava nuovamente il Sole.
20
CAPITOLO SECONDO BIS
L’ispirazione
1.
L’Ispirazione è una dea bendata, come la Fortuna.
C’è una leggenda mitologico\metropolitana che racconta di un giorno in cui la Fortuna camminando a tentoni
in giro per l’Olimpo si scontrò, come spesso accadeva,
con qualcuno che passava lì per caso. Quella volta era
l’Ispirazione a trovarsi lì.
L’Ispirazione era stata bendata da poco, e per lei
l’oscurità era ancora un problemone. Era abituata a correre libera come una cavalla selvaggia e da quando Atena l’aveva privata del sole, si era sentita smarrita e perduta per sempre.
Bisogna tener presente che Atena non era molto delicata
in quel che faceva, ogni giorno tratteneva qualcuno tirandolo per le braccia, per i capelli o per le orecchie. E
anche nei suoi bendaggi (pratica che aveva cominciato
ad adoperare per imporre un cieco raziocinio) si lasciava
andare e bellicose manovre per la sua incapacità di realizzare semplici nodi con il fiocco.
Tutto ciò aveva profondamente intimidito l’Ispirazione
che piccola e fragile si lasciava violentare da Dionisio
tra i cespugli divini.
La Fortuna l’aveva scontrata mentre beveva e danzava
nell’Olimpo “underground” e per gioco se l’era portata
con sé. La Fortuna le aveva insegnato tutto! Aveva dato
occhi alle sue mani, alle sue gambe ed al suo ventre. Le
aveva ridato la fiducia in se stessa e da allora
l’Ispirazione era diventata la sua migliore amica. Giocavano ovunque e riuscivano a vedere cose che agli altri
sfuggivano ed a trovar piacere e sorprese lì dove gli altri
non andavano a cercare.
Come dicono i vecchi:
21
“Se ti lasci abbracciare dall’Ispirazione ti presenterà
alla sua amica Fortuna, ma non per questo se incontri
la Fortuna ci sarà con lei l’Ispirazione.”
(Ciò per dire che la Fortuna continuava anche ad avere
una sua vita privata al contrario dell’Ispirazione che era
entrata in una relazione ossessiva con la sua amica).
22
CAPITOLO TERZO
La Notte
1.
Erano dei mezzi stivali di cuoio marrone scuro. Avevano dei lacci cilindrici dal diametro di almeno tre millimetri e colorati con piccole strisce orizzontali marroni e
nere. La punta era arrotondata e le cuciture creavano un
piccolo bordo in rilievo come nei classici mocassini. La
suola era di gomma e sul lato si intravedeva la dentatura
tipica degli scarponi da montagna. La suola aveva lo
stesso colore globale della scarpa e nella parte anteriore
era leggermente curvata verso l’alto. Nella parte posteriore invece c’era un leggero tacco in cui era intagliata
la stessa dentatura. La cucitura della punta si biforcava
in due linee tratteggiate sui lati. Un filo correva verso
l’alto affiancando i fori dei lacci, l’altro scendeva verso
il basso fino a toccare la suola, dieci centimetri prima
del tallone. Un centimetro di vuoto e poi il filo riemergeva disegnando la forma dell’osso e scomparendo
nell’altra metà della scarpa. Le cuciture erano fatte con
del filo leggermente più chiaro del resto. Sulla parte alta
della scarpa c’era un bordo nero di due centimetri e vicino all’estremità interne sporgevano due gancetti per
lato in sui si intrecciavano i lacci prima di annodarsi. Il
pantalone del piede destro copriva la parte superiore
della scarpa mentre l’altra era resa completamente visibile dalle pieghe del tessuto.
La scarpa destra si strusciava su quella di sinistra, come
se la volesse accarezzare dolcemente. La suola strofinandosi sulle cuciture provocava dei suoni ruvidi percettibili grazie al silenzio del corridoio.
Era notte, la madre stava dormendo nella stanza del ragazzo su una grande sedia allungabile.
23
Il padre era seduto fuori, sulle sedie di plastica e fissava
le pareti gialle del corridoio. Aveva il viso rilassato e il
suo intero corpo sembrava non pensare a nulla.
Soltanto i suoi piedi si muovevano, soltanto loro si
prendevano il diritto di sentirsi persi, di muoversi nel
vuoto alla ricerca d’aiuto. I piedi si prendevano il diritto
di sentirsi in difficoltà, incapaci di adempiere alle proprie responsabilità, ai propri doveri. In quelle carezze le
scarpe si liberavano dalla sensazione d’essere colpevoli,
chiudevano gli occhi come fanno i bambini sperando
che quando li riapriranno tutto sia tornato come prima.
Le scarpe si disperavano alla ricerca della via d’uscita,
alla ricerca del buon passo da fare; si accartocciavano su
se stesse urlando con il loro ruvido pianto il desiderio di
volare leggere e di non dover trasportare quei pesanti
piedi nel fango di un sentiero piovoso. Tutto il corpo del
padre dalla punta dei capelli all’apice esterno dei malleoli
era preoccupato e concentrato sul bene del ragazzo.
Ma quei piedi... quei piedi avrebbero tanto voluto essere ancora dei figli.
2.
Nella stanza vicina, la vecchia era appena tornata dal
viaggio ai servizi igienici e, seduta sul suo letto, baciava
il diario. Lo stringeva forte nelle mani e nonostante ciò
ripetutamente le cadeva sulle gambe a causa del peso.
Lei lo riprendeva, passionale e tenace, e continuava a
baciarlo. Con la lingua.
Gli occhi del padre erano ancora fissi a guardare la parte. In basso, i suoi piedi si strusciavano sempre più veloci, sempre più forte, come in preda ad un irrefrenabile
prurito allergico.
La Notte passava silenziosa tra i corridoi dell’ospedale,
chiudeva le porte delle stanze e spegneva le luci e le televisioni di chi, addormentatosi, le aveva dimenticate
accese. La Notte quando passava in pediatria si soffermava a rimboccare le coperte dei bambini, accarezzava i
24
loro visini esausti e li baciava augurandogli la più bella
delle notti. Augurava a quei piccoli corpi aggrediti dalla
natura matrigna, di riuscire a volare lontano per qualche ora, di riuscire ad abbandonare quel luogo di sofferenza e battaglia per concedersi una notte di serenità e
gioco. Gli augurava di tuffarsi in tutto ciò che meritavano e di cui avevano il pieno diritto. Passava la mano sulle loro guance, pregando per la loro guarigione e accarezzandoli gli sussurrava nelle orecchie la più dolce
ninna nanna.
La Notte era il cognome di un’infermiera. Per predisposizione genetica le era stato assegnato il turno serale e
lei, che aveva a cuore la sua missione, aveva cercato in
ogni modo di trovare gli aspetti importanti, magici e filosofici, del lavorare all’ospedale mentre tutti dormivano.
Appena arrivava salutava le sue colleghe gentilmente e
le osservava andare via.
Dopodiché si chiudeva nello spogliatoio e indossava il
suo camice. Era un lungo camice scuro pieno di stelle
fosforescenti. Aveva un lungo cappuccio pieno di brillantini che le si adagiava sulla schiena e sulla testa un
grande cappello conico decorato con gli stessi motivi
del camice. Indossava una parrucca fosforescente (le
avevano assegnato il turno di notte anche a causa di suoi
orribili capelli scuri che lei prontamente aveva sostituito
con una bella parrucca giallo shocking, faro
nell’oscurità) ed impugnava spesso una bacchetta incantata che terminava anch’essa con una grande stella luminosa.
Le sue scarpe confluivano in una punta stretta e lunghissima che si arrotolava a “coda di maialino” verso l’alto.
Aveva dei tacchi a spillo alti dieci centimetri, fragili e
delicati.
Era una persona estremamente dolce e premurosa ed era
sostenuta e motivata dai suoi forti ideali. Aveva studiato
molto per arrivare lì e adesso i suoi pazienti erano la sua
sola ragione di vita.
25
3.
Quando La Notte entrò nella stanza del ragazzo la
mamma russava sulla grande sedia allungabile. Le sue
dita snocciolavano macchinalmente i granelli del rosario
e dietro di lei un grande poster con la faccia sorridente
di Gesù benediva e proteggeva la stanza.
Quando La Notte entrò, gli occhi di Gesù la fissarono.
All’inizio la dolce infermiera non ci fece caso ma dopo
poco, mentre era china ad accarezzare il ragazzo, vide
che la grande testa del poster si era ruotata di quasi centottanta gradi per cercar di sbirciare sotto la lunga gonna
di stelle.
L’infermiera, indignata, lo guardò severa. Gesù arrossendo si ricompose.
Dopo un attimo di esitazione, La Notte si rimise a lavoro e si avvicinò alla piccola lampada per spegnerla. Gesù dal suo poster, iniziò a muovere le mani e la bocca
per cercar di attirare l’attenzione della donna senza far
rumore. Lei non vedendolo posò le sue mani
sull’interruttore ed allora Gesù, non potendosi più trattenere, tossì. La crocerossina, sorpresa, si girò e lo
guardò ricordandogli che c’era qualcuno che meritava di
dormire in quella stanza. Gesù le fece segno di avvicinarsi, facendole capire che doveva assolutamente dirle
una cosa:
 Sorella, la luce di Dio risplenda in questa stanza per
scaldare il cuore dei sofferenti.
 Lo stesso Dio che illumina la stanza è colui che
inchioda al letto questo ragazzo. Non ci sarà
“faccione sorridente” che potrà ostacolarmi dal mio
dovere.
 Sorella, agli assetati sarà data acqua come ai
sofferenti sarà dato il ristoro e la guarigione. Beato
questo ragazzo perché di lui è il regno dei cieli.
 Che il tuo Dio si occupi del suo regno, nell’attesa io
onorerò e glorificherò soltanto la mia Missione. I
miei ragazzi ed i miei bambini sono troppo giovani
per il regno dei cieli. Loro meritano il regno dei
26
prati, il regno del mare e delle montagne ed io farò
di tutto per evitare di portarmeli via!
 Sorella, faccia un po’ quel che vuole, ma la prego di
non spegner quella luce.
 Stai zitto sottospecie di colapasta!
Gesù, ferito dagli apprezzamenti poco simpatici
dell’infermiera, si chiuse in se stesso mugugnando a
bassa voce:
 Io volevo soltanto aiutarti...
L’infermiera, ritrovando la sua dolcezza, spense delicatamente la luce e passò la mano sulla fronte del ragazzo.
Come un terremoto che si avvicina il ragazzo cominciò
a tremare.
4.
Tutto è buio! Tutto è buio!
Il ragazzo si era alzato di scatto dal letto ed aveva cominciato a correre in tutte le direzioni. Aveva le braccia
rigide lungo i fianchi e nel piccolo spazio della stanza
era costretto a correre con piccoli passi che scaricavano
il suo peso a destra e a sinistra. Come un pinguino.
Aveva gli occhi sbarrati e balzellava sbattendo contro
tutto e tutti.
La Notte, sorpresa dal risveglio del ragazzo, si rinchiuse
nel piccolo bagno adiacente e, fissando lo specchio, parlò a se stessa.
Era l’occasione che da anni stava attendendo. Aveva
rimboccato coperte dal primo giorno in cui era arrivata
in quell’ospedale ed anche se ciò aveva assunto tanta
importanza nella sua vita, in cuor suo aveva sempre sperato di veder gli occhi di un suo paziente. Condannata a
custodirli sempre in quello stato di morte apparente, La
Notte sognava il loro risveglio, la loro resurrezione. Il
ragazzo era sveglio e quei rumori che sentiva nascere
contro la porta del bagno, dovevano essere senz’altro
dovuti alla testa del ragazzo che gli sbatteva contro, inarrestabile nella sua corsetta.
27
Ma come ci si comporta con una persona sveglia? Cosa
bisogna fare per essergli d’aiuto e quale aiuto poteva offrirgli?.
La Notte, fissandosi solennemente nello specchio, sciolse uno dopo l’altro i bottoni del suo camice. Lo sfilò dai
piedi e dopo averlo ripiegato con cura lo posò sulla sedia del bagno. Le stelle brillavano ancora. Allo stesso
modo fece con il suo cappello, lo sfilò dai piedi e dopo
averlo ripiegato con cura lo posò sopra al camice. Il suo
reggiseno e le sue mutande erano bianchissime e ciò la
faceva sentire più vicina ai candidi camici delle sue colleghe. Con determinazione si levò la parrucca fosforescente e raccolse un piccolo scrigno dorato che portava
sempre con sé e che aveva posato per anni in tutti i bagni dei suoi pazienti, con la speranza di aver l’occasione
di aprirlo. Lo aprì e, dopo mistici fumi colorati che ne
uscirono, La Notte alzò al cielo una magnifica parrucca
bionda. Era fatta con veri capelli biondi di vere donne
del nord ed era perfettamente adattabile alla forma del
suo cranio. L’aveva fatta forgiare da un vecchio parrucchiere che, dopo aver raccolto capelli per anni, si era ora
rinchiuso in una caverna nel bel mezzo delle foreste tra
l’inferno e il paradiso e, silenzioso e saggio, tesseva capigliature per pochi eletti. Lei era stata scelta e ciò
l’aveva fatta sempre sentire predestinata a qualcosa di
grande. Quel momento era arrivato.
Indossò i tacchi a spillo ed aprì la porta.
5.
Il ragazzo era disteso nel letto e sua madre gli era vicino. Il suo corpo aveva ancora degli spasmi ma il viso
era sereno e rilassato. La piccola luce sul tavolino era
accesa ed i suoi occhi erano chiusi.
In mutande e reggiseno, davanti al letto, La Notte era
pietrificata.
L’adrenalina, come la pallina di un flipper appena lanciata da un’enorme molla, aveva rimbalzato in ogni an28
golo del suo corpo. Adesso, come se gli fosse stata tolta
la corrente all’improvviso, l’adrenalina si era trasformata in lacrime e scivolava sul viso senza più suoni e luci.
Come la pallina che scende verso il basso, sfiorando tutte le molle ormai spente e finisce nel mare oscuro che
avvolge l’aldilà delle levette del flipper.
 Pazza scellerata! Non t’azzardar mai più! Esci di
qua! Esci!!
L’infermiera si voltò di scatto e corse via. I suoi capelli
frustarono l’aria e polvere di stelle si depose al suolo.
Gesù, dopo un attimo di esitazione, saltò fuori dal poster
e corse dietro alla donna.
6.
Sul tetto dell’ospedale, La Notte fissava le stelle, sue
sole amiche di una vita che non aveva mai avuto senso.
Le chiamava a gran voce una per una e le ringraziava, le
salutava e le implorava d’aiuto chiedendogli il coraggio
di saltare. Anche questa volta, nessuno rispose.
Le stelle non l’avevano mai aiutata. Aveva riposto in
loro ogni preghiera ed aveva sempre vissuto nella convinzione di essere ascoltata e protetta, ma non era mai
stato così. Quella sera aveva ricevuto l’ennesima delusione ed ora, arrabbiata e in lacrime, sentiva l’intera debolezza della sua determinazione. Non riusciva a guardare né in basso né in alto. Il suo sguardo si perdeva
dritto davanti a sé e si sentiva svuotare davanti a quel
grande orizzonte.
Un piccolo punto lontano si stava avvicinando diventando sempre più grande. Era luminoso e brillante come
una stella. Quando fu a pochi metri di distanza, La Notte
poté scoprirne i lunghi capelli scuri, il meraviglioso sorriso, le ali in cartapesta ed il rotondo vestitino azzurro.
Era lei da bambina e volava felice, stella tra le stelle.
L’infermiera si ricordò di tutte le feste in cui aveva volato come un fata; di quando all’asilo danzava fra i tanti
costumi colorati. Si ricordò di tutti i preparativi che oc29
correva fare per assemblare quel bel costume e di come
fosse emozionata nel mostrarsi in quel modo. Si ricordò
di come veniva derisa dai suoi compagni e di quel carnevale in cui riempirono il suo meraviglioso costume di
orribile schiuma da barba. La sua maledetta bacchetta
magica non era servita a niente.
Piena di rabbia e di delusione, La Notte esplose in un
urlo infuocato che bruciò le ali della piccola fata azzurrina.
In bilico sul bordo del precipizio, la bambina che ancora
era in lei si gettò nel baratro frantumandosi al suolo in
mille pezzetti.
La Notte, guardando dritta davanti a sé, si sentì leggera
e vuota.
Gesù arrivò correndo in quel momento. Scorse
l’infermiera sull’orlo e rallentò i suoi passi. Le si avvicinò ed in silenzio le porse la mano. La donna si voltò,
ancora avvolta nel fumo, riempì gli occhi di Gesù con il
suo sguardo e lentamente distese il braccio tremante.
Gesù la tirò dolcemente a sé ed accarezzandole i capelli
la prese fra le braccia. La Notte adagiò il viso sulla sua
spalla e chiuse gli occhi.
30
CAPITOLO QUARTO
La solitudine e la compagnia
1.
Posato a un lato corto del divano c’era un piccolo specchio quadrato. Sopra il camino, nella sala, un grande
specchio delimitato da una bella cornice settecentesca.
Sotto il camino, nello spazio destinato un tempo alla legna e al fuoco, uno specchio quadrato ne chiudeva
l’apertura. La grande vetrata era stata sostituita da grandi specchi affinché nessuno sguardo potesse perdersi
nell’immensità del mare. Le pareti erano piene di cornici e tutte le cornici erano riempite da specchi.
Era seduto sul divano, lo sguardo fisso davanti a sé.
Ovunque gli occhi si posassero, degli specchi gli riflettevano il suo presente di pelle avvizzita e lunghi capelli
bianchi. Era seduto con la schiena adagiata ai cuscini,
composto, con le mani posate sulle gambe piccole e
magre.
Le sue pupille scorrevano lentamente da destra a sinistra, aggrappate al riflesso della sua immagine. Passava
ore ad osservare ogni dettaglio del suo viso, ogni ruga
lasciatagli da un passato che aveva smesso di vivere.
Nella casa regnava il silenzio più assoluto, un silenzio
caratterizzato dalla perenne presenza della pioggia.
Il suo respiro gelido era più caldo dell’aria che lo circondava e ciò lo rendeva visibile. Usciva dal naso e dalla bocca e si disperdeva nella stanza. Il suo respiro sfiorava gli specchi e il contatto generava dei suoni.
Il vecchio era seduto sul divano immobile, ascoltava la
pioggia ed il suo respiro.
31
2.
Sui libri è scritto che un pesciolino rinchiuso in una bolla di vetro si senta estremamente solo e che mettendogli
uno specchio davanti i suoi livelli ormonali migliorino.
I pesci sono estremamente stupidi, il vecchio era estremamente pesce, la stupidità è estremamente vecchia.
In ogni angolo della casa pendevano come delle ragnatele le pelli avvizzite del vecchio.
Come della mozzarella fondente, la sua pelle si attaccava a qualunque cosa sfiorasse. Si allungava filamentosa
seguendo i suoi successivi movimenti e disegnava nella
casa la scia del passato. Il suo presente veniva passo dopo passo limitato all’immobilità.
Muto come un pesce osservava gli specchi.
Il bimbo giocava nella sua culla. Come stoffe lacerate e
invecchiate, la pelle decorava anche quella stanza. Ne
sfiorò un tratto. Il vecchio, immobile nel salone del piano di sotto, ebbe un brivido.
Il bimbo continuò a toccare con le piccole mani delicate
il sipario che lo circondava.
Gli specchi, solleticati, sorrisero.
Per il vecchio la casa iniziava e finiva nella sala, tra i
suoi specchi. Ciò nonostante i due piani dell’edificio erano ricolmi del suo passaggio.
Il bimbo cominciò a portare dei piccoli pezzi di pelle
nella sua bocca, per assaggiare e scoprire.
Il vecchio, sorpreso da quelle nuove sensazioni, cominciò a ridere fortissimo. Nel silenzio della casa quelle risate rimbalzarono in tutte le direzioni.
Il bimbo, aggrappandosi e dimenandosi, riuscì a uscire
dalla sua culla e, come un precoce funambolo, gattonò
tra le fila della ragnatela. Sorreggendosi su una, ne
mangiava un’altra e pian piano ripulì completamente la
stanza.
Mentre il piccolo mangiava, dabbasso il vecchio rideva
a squarciagola. Più lui rideva, più lui si muoveva e più
lui si muoveva, più pelle lasciava nel suo piccolo spazio
vitale.
32
Quando il bimbo apparve a quattro zampe giù dalle scale, ormai nel salone non si scorgeva quasi più nulla. Il
vecchio giaceva in qualche angolo schiacciato dalle sue
risate e dal suo passato.
Il bimbo continuava la sua avventura e ad un certo punto, attraverso la fitta matassa i suoi occhioni si intrecciarono a quelli del vecchio. Il solletico cessò come quando
è la propria mano a passar una piuma sui piedi.
Il bimbo mangiava, il vecchio immobile lo osservava.
Il vecchio indietreggiò confuso. Ormai nulla lo separava
dal piccolo. Correva veloce toccando più oggetti possibili per tessere una tana.
Il bimbo gattonando mangiava tutto.
Il vecchio si ritrovò davanti ad uno specchio, faccia al
muro. Posò la mano sulla spalla del suo riflesso e ciò lo
rassicurò. Vide un altro specchio vicino, lo prese. Un
altro non era troppo distante, prese anche quello. In un
attimo dispose davanti a sé tantissimi specchi di differenti misure e angolazioni. Posò la mano sui suoi mille
riflessi e si sentì pronto per affrontare il bimbo.
Lui non tardò ad apparire. Sul suo musetto pendevano
brandelli di pelle.
Il piccolo ruggì.
Il vecchio miagolò. Ma subito dopo si voltò cercando lo
sguardo del suo esercito e trovatolo alzò in aria le sue
lunghissime unghie trascurate e gettò al bimbo uno
sguardo di sfida.
Il bimbo rigurgitò della pelle e ciò per il vecchio fu
troppo. Si avventò su di lui.
Il bimbo si attaccò alla sua esile gamba. Il vecchio si
voltò per cercar l’aiuto dei suoi alleati, nessuno si muoveva. Capì di esser stato tradito e si lasciò andare alla
disfatta.
Ogni volta gli lasciava avere un’ illusione di vittoria e
dopo lo sollevava con le sue esili braccia mostrandogli
la sua forza nascosta e lui, in alto, rideva felice.
Il bimbo mangiò ciò che restava del suo passato e lo
guardò, tendendogli il futuro.
33
3.
Le gocce cadevano ritmicamente. Dalla vasca fuoriuscivano soltanto i piedi e la testa.
Nell’acqua calda il vecchio godeva immensamente. Nonostante ciò lo sgocciolio costante e penetrante del lavandino lo infastidiva. La sua mano si alzò grondante e
cadde sulla manopola ancora bollente, chiudendola con
tutta la sua forza. Le gocce continuavano a cadere.
La vasca era rosa, come le piastrelle che riempivano il
pavimento e si arrampicavano sui muri. Le piastrelle sul
muro erano disposte come delle piante rampicanti.
L’idea era di posizionarle un po’ sfalsate e a differenti
altezze. Delle linee che correvano più in alto, altre che si
arrestavano prima. L’idea era quella di riprodurre una
pianta rampicante, ma i quadrati rosa delle piastrelle ci
riuscivano poco. Di certo si faticava a scorgerne la natura selvaggia, ma il risultato estetico era interessante. Il
vapore acqueo fuoriusciva dalla vasca come dalla bocca
di un vulcano.
I piedi spugnosi, sul fresco bordo in ceramica, mettevano in mostra un set di cinque unghie rovinate dal tempo
ma decorate dal vecchio con un fortissimo smalto rosso.
La sua testa era posata sulla curva ergonomica della vasca. Gli occhi lucenti verso l’alto e le labbra rosse, come
le unghie, si aprivano liberando un canto stonato.
Era così stonato che la pianta di piastrelle rampicanti si
appassì e si riversò all’interno della stanza in curve cadenti. Dell’intonaco si staccò e cadde al suolo. Adesso
l’immagine era più realistica e le piastrelle potevano
davvero sembrare delle piante appassite. Un design molto barocco.
Il vecchio cantava a squarciagola e le sue membra danzavano travolte dal pathos musicale. Le onde assediavano il bagno.
All’improvviso, come risucchiata da un turbine, tutta
l’acqua confluì nel buco dello scolo ed apparvero delle
piccole mani.
34
Con non poco sforzo la testa del bimbo fuoriuscì dallo
stesso foro. Guardò il vecchio negli occhi e ruttò.
Il bimbo si sedette davanti al vecchio nella vasca. Aveva
una parrucca bionda e ogni suo ditino era ornato da un
anello con grandi pietre colorate.
Il bimbo si voltò verso le piante di piastrelle e le innaffiò con il pomo della doccia. Le piante si rianimarono
subito e crebbero belle e forti. L’acqua gli fece così bene che sui rami più grandi nacquero dei frutti. Nel bagno ora pendevano ovunque delle banane in ceramica,
delle mele, dell’uva e delle pere. Erano pieni di colori
forti e lucenti. I rami arrivavano fino al bimbo e gli porgevano il dono. Lui, disteso nella vasca rosa, snocciolava chicchi d’uva e si lasciava lavare.
Il vecchio, continuando a cantare nella vasca ormai vuota, versava brocche d’acqua calda sulla testa del bimbo.
L’acqua si apriva scivolando su tutto il corpicino e lui
adorava sentirla scorrere sulla sua schiena. Gli procurava dei brividi di piacere e il calore lo inondava completamente.
Il vecchio, dopo averlo asciugato, lo portava nel letto ed
il bambino, profumato tra lenzuola profumate, si addormentava dopo poco.
4.
La sua mano era rugosa e dura come il guscio di
un’ostrica, quella del bambino vi era adagiata dentro
come una perla.
Cullati dalle onde del divano i loro occhi si riposavano
e, sui fondali, la mano si contraeva dolcemente proprio
come la conchiglia che nell’acqua si apre e socchiude a
ritmo della corrente. La perla era piccolina, candida e
morbida. Rotolava sui calli dell’ostrica, tra le sue rughe,
e si posava nelle sue concavità.
Le alghe danzavano intorno e banchi di pesci scorrevano veloci e colorati. I raggi del sole si spezzettavano attraversando l’acqua e una piccola scheggia di luce acca35
rezzò l’anziana crosta sul fondo. L’ostrica si socchiuse
sotto il peso di quella mollica di sole e gli occhi si contrassero leggermente. Era da poco passato il momento
più caldo della giornata e i due si godevano quel tepore
tra i cuscini del loro oceano domestico, mano nella mano.
Il sole cominciò a scaldare sempre di più e sui loro corpi
assonnati colarono gocce di sudore. L’afa estiva respirava lentamente nella stanza ed i loro corpi cedevano
alla forza del calore. Nell’ostrica, sul divano, restarono
solamente i loro quattro occhi, tutto il resto era spalmato
tra i cuscini.
Come una palpebra il mollusco si socchiudeva ritmicamente e, dopo una breve resistenza, anch’esso cedette
alla stanchezza, si chiuse completamente e cadde dal divano assonnato. I quattro occhi sgusciarono via e rotolarono, come biglie, sulla sabbia del salone di casa.
I loro percorsi si incrociavano e veloci affrontavano le
piccole dune per poi correre nelle discese e sfrecciare
sorridenti sotto la luminosità di quel pomeriggio
d’agosto.
L’occhio del bambino sbatté contro il piede d’un tavolino. La sabbia intorno a lui divenne nera ed apparvero
delle lacrime silenziose che bagnarono il suolo rendendolo ancora più scuro. Gli occhi del vecchio si avvicinarono saltellando lentamente. La sabbia intorno
all’occhio colpito diventava sempre più scura e spuntarono piccolissimi alberi secchi. L’occhio sano del bimbo
cercò di avventurarsi alla ricerca d’aiuto ma rimase imprigionato tra i rovi che circondavano gli alberi. Arrivarono anche delle piccolissime iene che lentamente si avvicinavano alle prede ferite.
Gli occhi del vecchio osservavano la scena da poco lontano e non riuscirono ad intervenire subito, sorridenti.
C’erano le iene, c’erano le spine, c’era l’oscurità ed i
rami secchi; arrivarono anche due avvoltoi che si appollaiarono in attesa del boccone e le grida del bambino si
mischiavano a quelle dei corvi che gracchiavano nelle
caverne di quel bosco scuro.
36
Gli anziani fari di quell’animo commosso cominciarono
a svolazzare intorno a quella macchia nera come gabbiani. Soffiarono dolcemente sugli occhi del piccolo
portando via la sabbia scura. Le sue grida cessarono sotto quel vento confortevole e le sue labbra si contorsero
in smorfie buffissime.
Gli occhi del vecchio erano vicini a quelli del bambino
e, come spesso accade nei piccoli, il pianto si trasformò
in riso. Sugli alberi sbocciarono le foglie più verdi che
mai persona narrò.
Quando i genitori rientravano i pianti del pomeriggio
erano sempre lontani ed i due si facevano trovare in
qualche parte della casa felici, ostrica e perla.
5.
Ogni volta, sulla soglia di casa, il suo sguardo partiva
lontano, troppo lontano. L’orizzonte infinito del mare
era come il coltello del più crudele assassino che lentamente tagliava via le croste dalle antiche ferite e scivolava, con apparente precauzione, verso la carne viva. Si
inzuppava nel sangue come un biscotto e girava, accarezzando tutti i nervetti.
Ogni volta, sulla soglia di casa, il suo sguardo non poteva più staccarsi dall’orizzonte e, con melanconico masochismo, passava le labbra sui bordi di tutte le ferite,
accarezzandole una ad una. Era come se tutti i suoi ricordi fossero una corda ingarbugliata dentro il suo corpo
con un’estremità legata all’orizzonte. Quando era dentro
casa, e la linea combaciava con quella delle pareti vicinissime, la corda restava ad ammuffire nell’umidità del
suo organismo, ma quando le porte si aprivano e centimetro dopo centimetro la linea dell’orizzonte si allontanava sempre di più, la corda veniva tesa, si srotolava , si
allungava e fuoriusciva con tutte le sue alghe e cozze.
Era come una barca che, dopo anni di immobilità nel
porto, decide di prendere il largo dimenticandosi di slegare la corda d’attracco.
37
Prima di richiudere la porta il vecchio ritirava a sé la
lunga fune ed il suo sguardo ridiscendeva lentamente su
terra tornando in casa passo dopo passo. Sulla via del
ritorno i suoi occhi si soffermavano sul bimbo che gattonava al di là della soglia domestica. Lo osservava posare le sue piccole mani sull’erba e guardare tutto con
delle espressioni buffe e meravigliate. Con immenso
sforzo faceva un passo in avanti, oltrepassando la soglia
per prendere il piccolo e rientrare in casa.
Per tutti ormai era un vegetale domestico, nessuno era a
conoscenza di quei passi.
6.
Sul divano, sui tavoli e sulle sedie c’erano giornali e libri di cucito. Sul naso del vecchio si adagiavano degli
occhialini rotondi e la sua testa era protesa in avanti per
leggere e imparare qualcosa da quei testi. Il piccolo pascolava tranquillo per la casa giocando nei suoi mondi
immaginari. Le mani del vecchio si agitavano velocemente, le braccia erano posate sulle gambe e tra le sue
dita si intrecciavano dei lunghi uncinetti per tessere la
lana. Girava le pagine con la lingua e, anche mentre
leggeva, le sue mani continuavano a provare e riprovare
senza sosta. Solo in alcuni momenti si fermavano, la testa si piegava leggermente su un lato e le mani davano
un piccolo colpo secco per staccare il capello e continuare a tessere il maglioncino. Sui giornali, alcune signore
intimidivano l’aspirante sarto rivelandogli le difficoltà
che si incontrano nel momento in cui si devono tessere
le maniche. Il vecchio ebbe un’altra piccola esitazione,
tirò via altri capelli e decise di fare un bel gilè per non
prendere troppi rischi.
Sui cuscini ed al suolo si sparpagliavano i capelli che
sfuggivano all’uncinetto e tra giornali, capelli, specchi,
fogli di carta e metri srotolabili, il salone era diventato
un vero atelier di cucito. Il viso del vecchio era totalmente immerso nella sua opera, la sua lingua era schiac38
ciata tra le labbra nervose fuoriuscendo di poco a lato e i
suoi sopraccigli erano contratti verso il basso. I lunghissimi capelli cominciavano a diventare sempre più radi.
A fine serata il vecchio afferrò al volo il bambino che
casualmente gattonava nei paraggi, lo posò sulla sedia e
gli mise addosso il gilè con enorme soddisfazione. Il
piccolo lo fissava con uno sguardo spaesato muovendo
le piccole braccia ed il vecchio gioiva nel vedere come
gli stesse bene il color grigio-chiaro. Sul suo viso spiccava un enorme sorriso e dopo essersi tolto gli occhiali
applaudì forte per incitare il suo modello a fare lo stesso. Il piccolo lo imitò ma subito dopo si immobilizzò
per far un piccolo rigurgitino sul vestitino nuovo.
La testa del vecchio lo guardava felice, il suo cranio era
calvo.
7.
Fuori pioveva fortissimo ed il vecchio urlava a gran voce. I suoi capelli erano schiacciati al suolo dalla pioggia
ma le sue braccia si allungavano a dismisura per cercare.
Dal suo esile corpo si erano diramati tantissimi rami,
come quelli che da un albero si involano verso il cielo
per offrire le foglie al sole. I rami del vecchio si involavano verso il basso e non offrivano nulla a nessuno.
Cercavano con affanno nella pioggia.
Rovesciavano i sassi, le case, gli alberi, il suolo. Lanciavano tutto all’aria, tutto lontano, cercando senza tregua, instancabilmente. Con la leggerezza con cui ci si
libera di un lenzuolo, il vecchio impose le sue tante mani sul terreno ed il tappeto erboso partì lontano, seguito
da ogni specie di substrato. Un braccio si lanciò nel mare e cercò fin sotto il letto di Poseidone. Nelle bocche
dei pesci e nei fori dei minerali. Niente.
La pioggia continuava a cadere verso il basso scontrandosi con le ultime cose che restavano, trovandone sempre di meno. Più il vecchio cercava e più tutto scompariva sotto lo slancio della sua disperazione.
39
La pioggia, non avendo più un suolo su cui posarsi, cadeva a picco verso il basso, poi tornava su e turbinava in
varie direzioni prima di risalire e riscendere e girare e
risalire ancora.
Il vecchio era solo, in mezzo al nero di un mondo privato di qualunque cosa materiale. La pioggia cadeva da
tutte le direzioni, il cielo e gli inferi erano stati gettati
via.
Come se fosse sospeso nel vuoto dell’universo.
Lui e la pioggia.
Nessuna stella lo circondava, tutto era stato eliminato
dalle sue infinite mani. Del bimbo nessuna traccia.
Il vecchio si voltò, entrò in una delle gocce di pioggia e
cadde con lei.
40
CAPITOLO QUINTO
La malattia
1.
La bottiglia dell’acqua era nell’angolo in alto a destra
del tavolino.
Il bicchiere di vetro era affianco alla bottiglia.
L’etichetta della bottiglia aveva le informazioni nutrizionali verso l’esterno ed il disegno della montagna innevata accostato al bicchiere di vetro.
 No!
Con uno scatto la sua mano sinistra aveva afferrato la
bottiglia e l’aveva girata, ora l’immagine della montagna era di fronte a lui.
Al centro del tavolo c’era una confezione di succo di
frutta all’ananas, un parallelepipedo verticale in cartone
che ne conteneva un litro. Era blu con una scritta bianca
sul lato lungo e un’immagine colorata del frutto esotico.
Attorno al succo di frutta aveva disposto delle monete
da venti centesimi ed aveva creato una circonferenza
dorata.
 Tu devi sederti lì!
Il padre seguiva le indicazioni da tante ore e ancora non
era stato trovato il suo posto.
 Non lì, siediti sul letto.
 Anzi, allungati sul letto.
Il ragazzo si era alzato e aveva posizionato un cuscino
sulla pancia del padre.
La madre aveva aperto la porta per entrare e in questo
modo aveva fatto cadere gli asciugamani che erano appesi al lato interno della porta.
 Attenta! - le aveva gridato il ragazzo.
La madre aveva riagganciato gli asciugamani ma subito
lui era corso per invertirne la posizione.
41
I genitori si scambiarono uno sguardo pieno
d’impotenza. Come sassolini sulla riva di un fiume, gli
occhi della madre erano stati levigati e bagnati dalle onde del pianto e si offrivano lucidi allo sguardo del marito. Seduti sul letto si stringevano la mano, si sostenevano vicendevolmente osservando il loro bambino.
 No! No, tu non devi stare lì, vai vicino alla porta.
Papà! Ti avevo detto di sdraiarti.
La madre corse fuori dalla stanza. Tutto era accaduto
così all’improvviso, lei non riusciva a capire, era sconvolta.
2.
Era un tardo pomeriggio estivo, il ragazzo si preparava a
partire per la sua vacanza con gli amici. Quando aveva
ricevuto la proposta i suoi occhi si erano inondati
d’emozione e anche se non rispose subito, tutti capirono
che il messaggio gli era arrivato. Qualche giorno dopo
aveva timidamente parlato con la madre confidandole la
notizia e chiedendole se poteva andare. La madre felicissima aveva acconsentito senza la minima esitazione e
si era resa disponibile ad aiutarlo.
Prima di partire aveva preso pochissime cose ma le aveva ordinate, disfatte, riordinate, cambiate e riordinate
ancora. Aveva catalogato tutto ciò che portava e tutto
ciò di cui aveva bisogno, scrivendo con colori differenti
quello che era pronto e quello che era ancora da cercare.
Era uscito un pomeriggio con la madre per prendere le
piccole cose che mancavano e, emozionato, aveva sistemato i nuovi acquisti vicino agli altri già pronti.
Il pomeriggio del gran giorno, a casa non c’era nessuno,
entrambi i genitori lavoravano. La madre lo aveva salutato al mattino dicendogli che sarebbe passata a prenderlo per portarlo all’autobus dove avrebbe trovato i suoi
amici pronti a partire.
42
Aspettando che la madre arrivasse il ragazzo aveva abbassato tutte le persiane e sistemato la sua camera come
se la stesse abbandonando per un lunghissimo periodo.
Finalmente arrivò il momento in cui il clacson suonò e il
ragazzo si precipitò per veder chi fosse.
 Scendo!!
Aveva aperto la porta e subito prima di chiuderla si era
ricordato di prendere le chiavi, la madre glielo aveva
chiesto. Rientrò, prese le chiavi, uscì e chiuse la porta.
Fece girare la serratura.
Fuori casa il sole stava tramontando e la luce cominciava a tingersi di sera, il ragazzo cercò l’interruttore per
accendere la lampada esterna. Era vicino al campanello
di casa e, premendolo, il dito scivolò anche sull’altro
interruttore facendolo suonare. Si girò e si diresse verso
l’auto che lo attendeva all’ingresso del sentiero ghiaioso. All’improvviso, da dietro la porta chiusa a chiave,
qualcuno rispose.
 Chi è?
Il ragazzo fu percosso da un brivido di paura e non riuscì a parlare.
La voce dall’altro lato insistette
 Chi è?
Il ragazzo sentì che qualcosa si muoveva dietro la porta
e ciò lo spaventò ancora di più, non riusciva a muoversi,
era pietrificato. La casa doveva essere perfettamente
vuota, la cucina era vuota, la camera dei genitori era
vuota, i bagni erano vuoti, non c’era nessuno in quella
casa e per nessuna ragione al mondo quella voce aveva
diritto di esprimersi.
 Chi è?
Ancora una volta.
Non udendo risposta la porta si aprì dopo aver fatto girare una chiave nel senso inverso a quello di poco prima.
Brividi gelidi percorsero il ragazzo in ogni angolo del
suo corpo.
I suoi capelli erano lunghissimi, più lunghi del suo stesso corpo. Era nudo ma le sue rughe erano così abbon43
danti da sembrare pieghe di un abito sgualcito. Era magrissimo ed il suo corpo era piccolo ed esile. Il suo volto
era scavato dalla pala della sofferenza.
Il vecchio lo guardò fisso negli occhi, il ragazzo non
riusciva a distogliere lo sguardo.
Come uno di quei fiori notturni che lentamente si schiudono alla sera, le antiche labbra si aprirono nella penombra rossastra.
Bianchi, viola ed azzurri petali delicati uscirono dalla
sua bocca mentre un rauco e timido canto respirava nelle orecchie del ragazzo immobile.
Le mani di ogni parola gli accarezzavano il viso ed il
canto divenne sempre più intonato e avvolgente. I petali
rossi e soffici.
Gli occhi del vecchio erano lucidi, luminosi.
I corpi dei due erano immobili, soltanto la bocca del
vecchio si muoveva.
Tra i due c’era una distanza piena di magnetismo, era
come se si conoscessero da sempre ed allo stesso tempo
si stessero riscoprendo dopo non essersi quasi mai visti.
Delle lacrime scivolarono sulle guance del vecchio rotolando dolcemente tra le pieghe delle rughe. La voce divenne leggermente rimbombante e si dipinse di un corposo riverbero.
Le labbra rallentarono il movimento fino a chiudersi del
tutto. Petali rossi circondavano i due ed il lontano canto
continuava a leccare il ragazzo come la lingua ruvida di
una gatta che affettuosamente lava i suoi piccini.
Il vecchio gli si avvicinò e lo abbracciò, il ragazzo non
oppose la minima resistenza e si strinse a lui.
Quando al mattino riaprì gli occhi ci mise del tempo ad
accorgersi che era sera. Delle teste, delle voci, tutto era
mischiato a delle forti luci che penetravano attraverso le
palpebre. Era in vacanza, finalmente al mare, ma era disteso su qualcosa che sembrava essere un letto. Delle
persone lo assistevano da vicino. Le braccia gli formicolavano e faticava a muovere le dita. La madre e il padre
erano lì in vacanza con lui. C’era anche altra gente che
non conosceva, tutti parlavano e sembravano commen44
tare le sue reazioni. La stanza era illuminata, troppo illuminata e nell’odore mancavano il mare, la gioia e le
pinete.
Sembrava che tutti stessero gridando, i suoni erano forti,
le luci erano forti, gli odori erano forti. Il mondo stava
gridando con tutti i suoi sensi e a lui dava fastidio, dava
terribilmente fastidio. Avrebbe voluto parlare ma non ce
la faceva, le parole si spegnevano nei polmoni prima
ancora che l’aria potesse prendere una forma. Richiuse
gli occhi e si riaddormentò.
3.
- Figlio, figlio... mio amato figlio! Quale intruglio
ha sedotto il tuo cuor di giglio? Oh figlio, figlio...
dov’è il tuo taglio? Ho gli occhi chiusi sul grande
abbaglio! Sul tuo letto mi piego oh figlio mio ed il
mio cuor cade ed io lo lego, e lui ricade, ed io lo lego, e lui ricade... ed io lo lego...
Figlio, figlio... povero agnello, immolato e perso
nel suo naviglio! Oh figlio, figlio... tra i denti piglio
il mio cuor stretto. Che ti sia faro, oh figlio mio, nel
viaggio amaro del nostro addio. Figlio, figlio, dov’è
lo sbaglio?! Ascolta il grido del mio sonaglio! Vieni, torna qui, ti prego figlio, torna qui...
Percorri, un passo dopo l’altro, il tratturo della tua
giovinezza, oh figlio bello, erba buona ti sta attendendo, oh figlio caro. La vacca grassa del tuo destino si secca al sole. Cavalcala figlio mio, cavalcala!
Sali in sella alla vacca grassa e corri... dannato Iddio... corri!
Figlio, figlio... dov’è il sigillo? Prendete me come
bersaglio! E tu sveglio, figlio, sveglio!
La madre, levò lo sguardo verso il letto e si accorse che
il figlio non c’era più. Lui si era alzato da tempo ed era
andato in bagno.
45
4.
Davanti alla porta del bagno il ragazzo attendeva che si
liberasse.
La porta accanto, quella delle donne, si aprì. La vecchia,
scricchiolante e cigolante, trascinò le sue ossa fuori dalla stanza.
Il ragazzo cominciò ad urlare. Tutti i passanti si fermarono e lo fissarono. Lui, dopo un breve inizio di epilessia, si arrestò riconoscendo l’anziana signora.
 Le chiedo scusa, signora.
Lei emise un respiro, vuoto, rimbombante, facendogli
cenno con la mano. Delle mosche uscirono dalla sua
bocca.
 È che spesso mi capita di vedere un vecchio, e mi
terrorizza.
Il ragazzo dimenticando la voce della sua vescica cominciò lentamente a seguire la vecchia.
 È da anni che mi capita ed è per questo che son qui.
Non ce la faccio più, vorrei tanto andarmene. Ma il
buio mi avvolgerà. Il sole se ne va, scompare, si
spegne. Le onde lo spengono. Ed il buio mi
avvolge, mi stringe la gola. Forte.
Due dita della vecchia caddero al suolo emettendo un
Do ed un Sol.
 Non dimenticherò mai la prima volta che lo vidi...
5.

Sei il solito sciocco!
Gli disse bonariamente la madre stringendolo forte al
petto.
Lui piangeva fortissimo ed il sangue che usciva dalla
gengiva ferita stava sporcando il vestito primaverile della mamma.
 Dai, sta’ tranquillo il dente ti ricrescerà e se mai un
giorno ti rimetterai a correre sui tetti dei treni salta
di più, salta in alto, in alto, in alto!
46

Io non ci salgo più sul treno... - disse il piccolo tra
un singhiozzo e l’altro.
 Ora andiamo a casa e vedrai che tutto andrà meglio!
 No, non voglio andar a casa!
Il suo musetto era ancora sporco di sangue ma il volto
sembrava aver ripreso sicurezza e determinazione.
Qualunque cosa la mamma dicesse in quel momento per
lui non andava bene, si voltò ed iniziò a correre nella
direzione opposta a quella del piccolo treno in cemento.
Il sole stava tramontando e nel parco si iniziavano ad
accendere i lampioni seminati tra gli alberi.
All’inizio la mamma non lo seguì ma dopo qualche minuto cominciò a cercarlo urlando il suo nome.
Nessuno rispondeva, si sentivano soltanto i lontani motori delle auto che si apprestavano ad andar via e le voci
degli ultimi giocatori di tennis rimasti sul campo per
qualche sfida serale.
L’aria era calda e la madre si sentiva tranquilla nella sua
ricerca, accarezzata soltanto dalla leggera sensazione di
non riuscire mai a fare la cosa giusta.
Mentre percorreva il perimetro del laghetto artificiale,
sentì dei passi correre velocemente verso di lei, si voltò
e il bambino le saltò tra le braccia stringendola forte e
chiedendole di tornare a casa.
Il bambino si era rinchiuso nel bagno della struttura
sportiva per piangere con la bocca insanguinata. Si era
guardato allo specchio fissato sopra il lavandino, aveva
fatto scorrere dell’acqua e si era pulito la ferita. Aveva
spento la luce e ripassando davanti allo specchio aveva
visto l’immagine del vecchio. Era corso via.
6.

Non dimenticherò mai la seconda volta che lo vidi...
Doveva essere lì da qualche parte ma per il momento
vagava nel bianco, un’immensa foresta di bianco,
un’infinita distesa di neve senza neve. Galleggiava da
47
giorni in un ambiente totalmente bianco, e sentiva
spesso la concentrazione indebolirsi e spaventarsi.
Ogni suo movimento sembrava inutile, aveva la
possibilità di muoversi in tutte le direzioni eppure aveva
la sensazione di rimanere sempre nello stesso posto.
Non esistevano punti di riferimento ed anche le sue
sensazioni personali pian piano si lasciavano inebriare e
disorientare. Galleggiava, rotolava, aspettava che
accadesse qualcosa nello stesso modo in cui un bambino
attende nel ventre materno, senza sapere bene cosa
aspettare, senza sapere bene di stare attendendo.
Eppure doveva essere lì da qualche parte e questo a lui
bastava per continuare ad attendere e cercare. Tutto era
vuoto ed il vuoto lo riempiva, come l’aria riempie i
polmoni. Entrava negli occhi, nelle orecchie, nel naso e
nella bocca.
Le sue pupille partirono all’indietro.
 Mamma dove sono i biscotti?
 Ah, scusa, sono ancora nella busta, nell’ingresso
accanto alla porta
Il bambino li aveva afferrati con particolare gioia ed era
corso sul divano per prepararsi ad una lunghissima colazione. Era riuscito ad ottenere un giorno di libertà. Aveva chiesto con trepidazione, coraggio e imprudenza di
restare un giorno a casa, di non andare a scuola, e la
mamma aveva acconsentito.
Quella mattinata gli sembrava infinita, nella sua testa
aveva già immaginato tantissime cose da fare per approfittare di quelle meravigliose cinque ore.
Tanto per cominciare aveva improvvisato un tavolo davanti al televisore ed era pronto a divorare biscotti guardando le avventure di qualche personaggio animato.
La mamma gli passò accanto e sorrise osservando la sua
gioia.
Impugnò la bottiglia del latte e mentre lui continuava a
fissare lo schermo, lei gliela rovesciò lentamente sulla
testa. Il latte scivolò sul tutto il suo corpo e all’inizio ciò
lo fece sussultare ma un attimo dopo, senza rendersene
conto, prese anche lui la tazza e se la rovesciò addosso.
48
Dal televisore sgorgò un fiume di latte che lo travolse.
Tutti i personaggi del cartone animato gli danzavano intorno rovesciando brocche. Le onde lo travolgevano
sbattendolo contro il divano ed il tavolo. Era scivolato
nella tazza, fuori pioveva, non lo aveva fatto apposta.
Tutto divenne improvvisamente bianco e prima che
l’immagine sparisse dai suoi occhi, vide il viso del vecchio riflesso sullo schermo rotto del televisore.
Con enorme fatica riuscì a riemergere, fece un grande
respiro ed aprì gli occhi.
Intorno a lui si ergevano immense montagne che costeggiavano i tre quarti della grande circonferenza del
lago. La superficie era calmissima e si percepiva soltanto una leggera corrente che spingeva verso l’unico arco
di cerchio, dal quale non spuntavano rocce e che si apriva su un orizzonte infinito di cielo azzurro. Da
quell’apertura si udiva un grande frastuono e ciò lasciava immaginare che il lago non arrivasse fino
all’orizzonte ma che terminasse prima in una grande cascata.
Il vecchio era immerso fino al collo ed i suoi lunghi capelli si aprivano a ventaglio sulla superficie del lago.
Fece dei grandi respiri e alzò lo sguardo.
In alto, in mezzo al cerchio formato dalle cime delle
montagne, c’erano degli alberi sospesi nell’aria.Erano
tagliati orizzontalmente a metà e la parte inferiore terminava in tante e differenti radici. Tra una metà e l’altra
c’era uno spazio riempito da una grande molla. Grazie a
queste molle, le parti superiori degli alberi passavano
dall’uno all’altro per prendere differenti sostanze nutritive. Il momento dello scambio era spettacolare ed avveniva quattro volte l’anno. Tra i rami del bosco vivevano delle donne. Erano rannicchiate come dei piccoli
uccelli, con i piedi posati sul ramo e le gambe totalmente piegate. Le loro schiene erano dritte e le natiche sfioravano il ramo. Erano immobili e nessuno sa dir da
quanto tempo. Le donne erano nude ed avevano dei lunghissimi seni che pendevano giù dai rami oltrepassando
di molto la lunghezza dell’intero albero. Dai seni piove49
va del latte che alimentava il lago e la cascata. Quando
gli alberi si scambiavano, alcuni volavano più in alto e
altri vi passavano sotto, tutto era regolato perfettamente
ed i lunghi seni regalavano uno spettacolo meraviglioso.
Lo spostamento li faceva tutti oscillare in mille direzioni
e il latte fuoriusciva abbondante a causa degli sbalzi di
pressione.
Il vecchio alzando lo sguardo riuscì soltanto a vedere la
fitta pioggia bianca ed i seni da cui fuoriusciva. Piccolissime a causa della distanza, si intravedevano anche le
radici.
Chiuse gli occhi sotto la dolce pioggia ed assaggiò il latte, era buonissimo.
All’improvviso sentì dei respiri, un coro di respiri, un
respiro grandissimo, sincronizzato, avvolgente. Un respiro umano come quello delle civette, un respiro umano come quello di un uomo, di una donna o di un bambino. Le donne.
Non conosceva il colore dei loro capelli, il loro sguardo,
le loro labbra. Nessuno gli aveva detto da dove venissero e perché ora fossero lì. Nessuno gli aveva detto se
con loro sarebbe stato possibile parlare, incontrarsi,
guardarsi. Nessuno gli aveva detto che avrebbe rincontrato una donna, e lui non voleva incontrare nessuno.
Ma sentiva da quegli alberi un richiamo famigliare ed
antico. Si lasciò sedurre.
In un attimo tutta la speranza che da tempo lasciava invecchiare nelle cantine del suo animo sgorgò dai suoi
occhi, dal suo sorriso, dalle sue orecchie. Era una speranza a cui la fermentazione aveva regalato dell’anidride
carbonica, come ad un sidro normanno. Non era affatto
diventata aceto, aveva soltanto aumentato il suo livello
alcolico e la sua pressione. Era stata chiusa con un tappo
e lei in silenzio continuava a gridare e pregare nel buio
della sua cella di vetro; ogni preghiera, ogni pianto ed
ogni grido disperato liberava delle bollicine che salivano verso l’alto e spingevano sul tappo di sughero.
Nelle sue orecchie era entrato un meraviglioso respiro,
poi un altro, poi un altro ancora. Il prigioniero vedeva la
50
grazia, il naufrago la terra, Adamo sentiva risorgere il
respiro di Eva. il tappo esplose fortissimo nell’aria volando lontano.
Lì dove le montagne entravano nel latte come biscotti,
la roccia era scivolosa e dovette provare diverse volte la
salita di piccoli tratti prima di trovare il percorso migliore. Ciò nonostante in breve tempo lo trovò e subito partì
carico verso la vetta. Salendo pensava a cosa ci potessero fare quelle donne sui rami, cercava di darsi da solo
delle risposte nell’attesa di udire la loro voce.
Cercava di ricordarsi come potesse essere lo sguardo di
un essere umano e fissava in continuazione uno specchio, non per ricordarsi il suo volto, ma per cercare
d’immaginarne altri.
Mentre continuava la salita alternando lo sguardo tra le
rocce e lo specchio i suoi occhi videro scorrere riflessi
di tantissime donne. Si succedevano una dopo l’altra,
accavallandosi, coprendosi, sostituendosi. Le sue gambe
si fermarono, i suoi occhi si immersero nell’immagine
ed i suoi capelli come rami di un salice si aprirono per
ricadere un po’ più larghi in modo da inglobare
l’oggetto. Quando il viso del vecchio riemerse tra le foglie, era arrivato in cima.
Lì l’orizzonte si apriva al cielo, nessun’altra montagna
appariva nel campo visivo. Era nel punto più alto di
qualunque altra cosa. L’atmosfera che lo circondava era
pesante, il cielo era bianco, con sfumature di grigio e
rosa e l’aria era densa, le nuvole arrivavano fino a lui
circondandolo.
Lontano davanti a sé, si intravedevano le ombre degli
alberi. Lo specchio gli scivolò dalle mani e il vecchio si
mise a correre.
La montagna terminava netta con uno strapiombo. In
basso si potevano scorgere le sporgenze frastagliate ed il
lago di latte era coperto dalle nuvole che lo sovrastavano. Tra lui e il piccolo grappolo di alberi galleggianti
c’era il vuoto.
Il vento faceva oscillare i lunghissimi seni penzolanti e
scuoteva le foglie. Il vecchio senza riflettere un istante
51
mosse il primo passo nel vuoto, seguito da un secondo,
da un terzo e da un quarto. Ogni passo si spostava in livelli differenti come se ci fossero degli scalini invisibili,
come se potesse sfruttare lo spessore, la densità e la
morbidezza dell’aria. Ogni passo veniva ammortizzato
lentamente verso il basso per poi risalire. Aveva lo
sguardo fisso davanti a sé e si abbandonava a questa
danza con la stessa naturalezza con cui avrebbe camminato su una strada sterrata.
Quando arrivò vicino agli alberi il suo cuore batteva forte e i suoi capelli mossi dal vento si intrecciavano alle
foglie.
Con le mani afferrò il ramo più vicino, vi si aggrappò e
dopo essersi seduto cercò il modo per farsi largo. I rami
erano molto grandi e quasi tutti offrivano la possibilità
di sostenere del peso. Cercò di spostare delle foglie che
lo intralciavano e la sua mano si arrestò all’improvviso
al contatto con un corpo solido, morbido e caldo. Ovunque posava lo sguardo scovava delle piccole donne rannicchiate sui rami, tantissime, dappertutto, chi più vicina, chi più lontana. Si voltò verso il corpo che aveva
sfiorato e ne incrociò lo sguardo.
I loro occhi erano dolci, senza alcuna pretesa, senza alcuna aggressione. Le foglie dei rami bianchissime, come il latte e come il cielo, risaltavano sulla loro tenera
pelle rosa.
Il vecchio esitava, confuso, sulla soglia della tenerezza.
Le sue secche rughe solitarie, come una vecchia spugna
gettata nell’acqua, assorbivano ogni atomo di ciò che
stava osservando riempiendo delicatamente ogni singolo
microscopico poro della sua pelle. Si sentiva sempre più
morbido e disteso ma non azzardava un passo per paura
di spaccarsi, come solo una vecchia spugna secca riesce
a fare. Una mano gli sfiorò il viso, si posò sulla sua
guancia, il vecchio chiuse gli occhi.
Sul suo corpo cominciò a sentire il contatto di altre mani, una di loro lo strinse a sé. La testa posata sul petto
della donna si scioglieva al suono del suo cuore, ogni
52
battito lo inondava e gli echeggiava nel vuoto
dell’animo.
La donna lo prese fra le braccia e dolcemente lo passò a
un’altra che le stava vicino, anche lei lo passò a un’altra
e così fecero tutte. Il vecchio sorrideva e ad occhi aperti
assaporava ogni passaggio. Quando lo cominciarono a
lanciare più in alto rideva, respirava, si apriva, godeva.
I suoi lunghi capelli bianchi volteggiavano nell’aria ed il
suo esile corpo rinvigoriva ad ogni contatto.
Infine esausto sprofondò fra le mille braccia.
Una delle donne avvolse intorno alle sue spalle il lunghissimo, giovane ed abbondante seno e ne posò sulle
labbra del vecchio la nutriente estremità. La sua bocca si
socchiuse sul dono e ne estrasse il succo.
Il vecchio succhiava e lasciava che il latte lo riempisse.
Come fili di seta il liquido usciva dal pozzo e scivolando nelle sue viscere cuciva intorno ad ogni organo un
nuovo abito candido. Ogni volta che le sue guance rientravano aspirando, schizzi di vernice disegnavano sulla
volta del suo palato il più meraviglioso dei dipinti.
All’interno di questa Chiesa immacolata il filo bianco
cominciò a muoversi in ogni direzione, senza più sprofondare nello stomaco. Divenne qualcosa di più corposo
e materiale. Strisciava sulla lingua del vecchio invitandola a danzare. Lui aprì gli occhi e vide il viso della
donna a pochi centimetri dal suo, le loro labbra si toccavano mentre le braccia incominciarono a cercarsi prima
delicate poi forti e passionali. Il vecchio strinse a sé il
corpo della donna ed il suo cuore ora bussava contro il
suo petto. Ad un battito rispondeva l’altro e il dialogo
divenne sempre più forte, sempre più veloce. Il vecchio
le accarezzava il viso, i capelli, le braccia, le spalle e le
loro bocche rimanevano vicine.
Gli occhi dell’uno perforavano con mille aghi gli occhi
dell’altro ed i loro corpi erano avvolti nei bianchi capelli
del vecchio. Scivolando lungo le braccia la sua mano si
strinse a quella della donna. Il cuore della donna esplose
in milioni di farfalle che volarono in ogni direzione ed il
53
rosso del sangue si impresse all’istante sulle foglie bianche degli alberi.
Il vecchio era immobile, inginocchiato su un robusto
ramo. Tra i capelli e nelle mani soltanto delle foglie rosse. Il vecchio soffiò. Soffiò forte sulle mani, soffiò forte
tra i tanti rami, in alto ed in basso, soffiò fino a svuotarsi
completamente ed accasciarsi esausto.
Mentre lui riposava le rosse foglie volavano via dai rami
lasciando gli alberi nudi ed il vecchio solo.
Al suo risveglio il cielo era rosso, dipinto dalle foglie
che lo avevano percorso, e intorno a sé soltanto desolazione. Le donne erano ancora tutte lì, secche come i rami e immobili come l’aria. La loro pelle rosa era sparita
lasciando posto a delle corazze di pietra.
Il vecchio gridò forte nell’orecchio di ognuna senza avere la minima risposta.
A quel punto una dopo l’altra le scaraventò con rabbia
giù dall’albero. Le donne pietrificate cadevano roteando
sui vari assi ma senza modificare minimamente la loro
posizione. Sprofondavano nel lago di latte dipinto di
rosso dalle foglie che vi si erano depositate.
Seduto su un ramo il vecchio cominciò a piangere.
Le sue lacrime scivolavano giù nel lago e come un fiume ridavano movimento al latte ormai stagno. Le foglie
roteavano l’una contro l’altra e come un’immensa folla
si avvicinavano alla cascata spinte dalla corrente. Le lacrime scorrevano in piena disegnando nel cielo un percorso pieno di curve e tornanti.
Nel lago il colore si trasformava come ne mutava la
densità. Il rosso ed il bianco cedevano il posto ad un acqua cristallina.
Il vecchio era abituato alla solitudine, ciò nonostante il
pianto era inarrestabile.
Si alzò in piedi sul ramo e spingendo sulle sue esili
gambe saltò nel vuoto.
Il ramo secco si spezzò sulla spinta.
Il vecchio aprì le braccia e come un angelo in caduta libera percorse i tantissimi metri che lo separavano al la-
54
go lasciandosi graffiare dall’aria che invano cercava di
trattenerlo.
Quando sprofondò ormai il latte si era completamente
disperso e sul fondale si intravedevano le statue femminili ancora immobili. Il cielo era azzurro dipinto dal
fiume di lacrime cristalline che lo percorreva.
Il vecchio nuotò in profondità per scambiare un ultimo
sguardo con la donna. Poi riemerse e disteso sulla superficie si lasciò trasportare dalla corrente verso la cascata.
Prima di cadere alzò lo sguardo verso gli alberi e li vide
svolazzare nell’aria, secchi. Le molle li stavano spingendo per il loro ciclo nutrizionale. Non c’erano più foglie né seni che penzolavano ma lo spettacolo era sempre grande.
Quando fu travolto dalla cascata il frastuono era enorme
e perse ogni cognizione fisica.
Con grande fatica, il bimbo si trascinò tra gli scogli e,
sfinito, si accasciò sul sentiero sabbioso. Alzò subito gli
occhi alla cascata e vide che le montagne disegnavano
la forma di un occhio gigante che piangeva.
7.

Non dimenticherò mai la terza volta che lo vidi...
Prima di poter cominciar a parlare, il ragazzo si voltò e
vide che la vecchina era seduta sul letto, la lingua spalmata sul suo diario.
Indignato si alzò e se ne andò,
Era notte fonda nell’ospedale. Nei corridoi brillavano le
luci di emergenza.
Il ragazzo si fermò un istante a contemplare la costellazione “Exit” e dopo lasciò i suoi occhi impregnarsi delle
sette luci della “Grande Toilette”. Continuò a camminare e, uscendo dal segno di “Andrologia”, evitò le luci
cadenti della nebulosa “Radiologia”. In breve tempo si
rese conto di essersi perso e con affanno cercò le luci di
55
“Medicina Interna”. Dopo averle trovate scese con lo
sguardo verso il basso, fino ad incontrare la luce di “Ufficio informazioni”. A quel punto percorse una traiettoria verso sinistra e si imbatté nel cero splendente della
“Madonnina da ospedale”, quello doveva essere il Nord.
Aprì le sue braccia perpendicolarmente e davanti a sé
individuò l’Est. “Psichiatria” sarebbe sorta da lì. Non gli
restava che attendere.
Suo padre, seduto su una sedia di plastica lungo i corridoi, fissava la parete gialla dell’ospedale.
Le luci di emergenza erano molto deboli e intorno a loro
si creavano nuvole d’oscurità. Il ragazzo cercava di non
vederle. Allo stesso tempo però, ne era terribilmente attratto. Voleva cercar di capire, cercar di affrontarle. Le
guardava, le sfiorava con le dita e provava a scovarne la
malvagità.
Dopo poco indietreggiava spaventato. Iniziava a sentire
il rumore del mare, le onde, le grida, il sale.
Nella sua bocca c’era tanto sale.
 Quanto è grande il mare, papà?
 Tanto, è grandissimo. È così grande che non ne vedi
la fine.
 Ma se corro veloce veloce veloce finisce prima o
poi?
 Sì, anche se non la vedi, c’è sempre una nuova terra
al di là del mare. Spesso è molto, molto lontana, ma
è lì dopo quella linea dritta vicino al sole.
 E tocco anche il sole se arrivo laggiù?
 Sì, poi però ti bruci tutto e devi ritornare nell’acqua
per spegnerti!
 E come mi spengo?
 Così!
Con un movimento brusco il padre aveva fatto ribaltare
la piccola canoa nell’acqua e urlando e ridendo si schizzavano a vicenda.
Era da poco spuntato il sole all’orizzonte e come ogni
mattina d’estate i due si erano svegliati prestissimo per
correre sul piccolo pontile davanti casa, saltare sulla canoa e remare in un mare che ancora riposava.
56
Il loro viaggio non durava molto, spesso era solo
l’occasione per svegliarsi con un bel bagno fresco e poi
tornare a casa per far colazione con la mamma; ma per
il piccolo era il momento più bello della giornata.
Il pontile era affiancato a destra ed a sinistra da una piccola scogliera artificiale ed al di là di questa c’era la
sabbia solcata da ciuffi d’erba secca e pungente.
L’acqua era sempre cristallina e si intravedevano banchi
di pesci piccolissimi nuotare veloce in ogni direzione.
Una mattina il piccolo si svegliò e corse verso il pontile
per aspettare il padre.
Fuori era ancora tutto buio e il sole sembrava non aver
nessuna intenzione di svegliarsi.
Spaventato dall’oscurità era corso dentro casa e si era
precipitato nella stanza dei genitori per svegliarli.
Nel letto non c’era nessuno, le coperte erano ordinate e
distese come se fossero state appena rimboccate. Dovevano essere già svegli.
Il piccolo era corso in camera sua ed anche lì il letto era
in ordine come se nessuno ci avesse dormito più da
tempo.
Nella cucina non c’era nessuno, nessuna traccia di un
passaggio, nessun segno di una colazione. Le tazze, i
bicchieri ed i piatti erano negli scaffali. I biscotti erano
spariti. Il rubinetto era chiuso e le manopole sembravano incrostate come se non fossero state mosse per tanto
tempo.
Nel garage non c’era nessuno, nessuna auto, nessuna bicicletta, soltanto vecchi arnesi da lavoro gettati qua e là
in maniera disordinata. Era un disordine ormai svuotato
della passione che l’aveva generato. Non c’erano tracce
di lavori recenti. Erano sparsi al suolo e sul tavolo, come se fossero in posa, immortalati in un museo ove si
cerchi di riprodurre il lavoro delle antiche botteghe.
Il bambino aveva sentito un rumore d’acqua, uno scarico, una doccia, un rumore che poteva benissimo provenire dal bagno. Era corso in casa, aveva spalancato la
porta e non aveva trovato nessuno. Tutto era pulito e ordinato e l’acqua sembrava non scorrervi da tempo.
57
Era sceso nel salone e dalla grande vetrata aveva scorto
la pioggia che all’esterno cadeva fortissima.
I suoi occhi si erano riempiti di speranza e aveva fatto
uno scatto improvviso verso la porta d’ingresso, verso il
pontile.
La sabbia era morbida, l’erba era schiacciata dalla pioggia e non pungeva più i piedi.
Il mare era mosso, grandi onde si scontravano sugli scogli e schizzi d’acqua si alzavano verso il cielo, andando
contro la pioggia che cadeva. Ribelli.
Non c’era più nulla legato al pontile, nessuna traccia
della canoa.
Il bambino non era riuscito più a trattenersi ed era scoppiato in lacrime.
La casa era una piccola costruzione indipendente a
qualche chilometro da un villaggio di pescatori. Era vicinissima al mare ed era collegata ad una grande strada
grazie a un piccolo viottolo di ghiaia che partendo dalla
cantina si inoltrava in una fitta pineta. Era un edificio in
mura bianche, con le finestre dipinte di verde. Un unico
blocco suddiviso su due piani più una piccola costruzione adiacente trasformata in cantina.
Una grande vetrata riempiva quasi completamente la
facciata del primo piano offrendo alla sala una magnifica visuale. Quando al mattino il sole si svegliava la sala
era la prima a riempirsi della sua luce che riflettendosi
sui vari oggetti creava morbide ombre. Il pavimento
manifestava il suo caldo color sabbia e tutto ciò cullava
delle meravigliose colazioni.
Il bambino piangeva sotto la forte pioggia, incapace di
far qualsiasi altra cosa, solo, pietrificato.
Si distese al suolo raggomitolandosi per combattere il
freddo. I suoi capelli erano lunghissimi, più lunghi del
suo stesso corpo. Era nudo ma le sue rughe erano così
abbondanti da sembrare pieghe di un abito sgualcito.
Era magrissimo ed il suo corpo era piccolo ed esile. Il
suo volto era scavato dalla pala della sofferenza.
Quando le luci di “Psichiatria” sorsero, il suo corpo giaceva ancora al suolo.
58
8.
Il ragazzo camminava per il suo paese senza rivolgere la
parola a nessuno, il suo sguardo era fisso davanti a sé e
sembrava immerso in angoscianti pensieri. La sua testa
si voltava a destra e a sinistra senza tregua, come se si
volesse liberare di qualcosa che gli oscurava la vista. Da
tempo si era isolato respingendo ogni mano che gli si
era protesa in aiuto. Camminava senza destinazioni precise a tutte le ore. Era impossibile da avvicinare ed i
suoi amici lo guardarono con tristezza, poi con compassione e dopo ancora iniziarono a ridere di lui per
sdrammatizzare e mettere a tacere per sempre quella vocina stridula che la sua visione accendeva. Sembrava
essere un corpo vuoto che camminava ed era orribile e
angosciante assaporare le debolezze del cervello umano,
quando lo vedevi sentivi dentro di essere una macchina
vulnerabile e schifosamente alla mercé di tutto quel che
ti circondava.
Tra i cespugli, sui marciapiedi, compariva il viso incavo
del vecchio. Il suo volto era inespressivo, si limitava a
sbucare dietro ogni angolo e sotto ogni cosa. Appariva e
spariva come una maschera, a volte velocemente altre
volte un po’ più piano. Il ragazzo camminava e cercava
con lo sguardo di evitare quel viso, ma ovunque lui si
nascondesse il vecchio lo raggiungeva e il suo sguardo
gli riempiva gli occhi. Spesso il ragazzo cominciava a
correr, altre volte lo trovavi raggomitolato su se stesso
che piangeva. Ma per tutti era davvero difficile
giustificarlo ed in breve tempo ci si abituò alla sue
pazzie.
Si srotolarono dei mesi e degli anni lungo il cammino
dell’impotenza ma l’abitudine non riuscì mai a strozzare
la speranza che avvolgeva e nutriva i suoi genitori. I
suoi momenti di lucidità erano così sinceri e profondi da
non sembrare affatto semplice scintille di una brace
pronta a spegnersi.
59
9.
Mentre versava il the tutti la osservavano attendendo di
capire il motivo di quell’incontro. Il the scendeva lentamente, molto lentamente e nella sua testa cercavano di
comporsi le parole giuste per riuscire a esprimere la sua
umile richiesta. Il the continuava a scendere lentamente,
ma non così tanto da esitare a riempire la tazzina e a
strabordare da questa mentre la mano della donna continuava a fissare il liquido con il contenitore inclinato in
avanti. I ragazzi restarono impassibili e il marito posò la
mano su quella della moglie e la guidò verso il basso
affinché potesse posare le teiera.
 Vi prego di scusarmi, vi scongiuro di lasciar posar
queste parole su di voi senza soffiarle subito via.
Non avrei mai pensato di dover arrivare a tanto, ma
siete la mia ultima speranza.
Ricordo il giorno in cui festeggiavamo i suoi compleanni, voi eravate tutti lì, con i visi sporchi di pomodoro e le mani sporche della terra su cui rotolavate. Ricordo i giorni in cui qualcuno di voi veniva
a citofonare e poi risuonava ancora ed ancora, per
ogni cosa un citofono, un grido, una scampanata,
una corsa. Ricordo le porte che si aprivano e chiudevano, voi che entravate, ricordo la gioia che mi
dava vedervi insieme, ricordo come era stancante
starvi dietro e come spesso avrei gridato per farvi
tacere tutti. Mi manca ognuna delle vostre voci e
cerco quella di mio figlio nelle vostre orecchie...
D’inverno lo vedevo a volte solo in casa, davanti al
televisore, le luci spente e la pioggia che picchiava
alle finestre, bastava una vostra telefonata e tutto si
colorava, la sua voce scorreva veloce e lui scappava
nella sua stanza per non farsi sentire. C’erano tanti
segreti, tante avventure, tanto movimento, dov’è
ora? Vi prego scusatemi!... Non so più che fare,
non so più dov’è!
La donna si alzò dalla sedia, il suo sguardo non si era
mai allontanato dalla tazzina del the, si diresse verso
60
l’ingresso, aprì la porta e cominciò a suonare il campanello. Sempre più veloce e forte.
 Suonate, vi prego, venite, citofonate, correte!
Suonate, suonate, suonate, suonate!
Il suo viso si riempì di lacrime e adagiò la testa sulla
porta continuando a suonare meccanicamente il campanello.
I ragazzi si scambiavano delle occhiate imbarazzate ed
ognuno ripercorreva nella sua memoria quelle giornate,
quei colori e quelle emozioni.
Quando la madre riuscì a calmarsi tutti parlarono e la
tavola si riempì di proposte e possibilità. Prima di separarsi decisero di organizzare una vacanza tutti insieme e
promisero di parlare con il ragazzo non appena lo avessero incontrato, cercando in lui uno spiraglio di lucidità.
Come a noi crudelmente è noto, quella partenza non avvenne mai e l’evento lo portò soltanto ad immergersi in
una crisi più acuta che lo condusse nell’ospedale dove
questa storia troverà epilogo.
61
CAPITOLO SESTO
Trasformismo
1.
La prima volta che passò non se ne rese conto, era seguito dal suo gruppo di specializzandi ed era troppo occupato a compiacersi del suo prestigio per posare gli occhi sulla gente. Ma ciò nonostante qualcosa lo invogliò
a ripassare vicino a quella sala d’attesa, qualcosa si era
inconsciamente registrato sulla sua retina e sentiva il bisogno di capire di cosa si trattasse.
 Et ripetetes meco: Ego medicum es, tu medicum es,
lui malatus est, nosotros medicis siam, vosotros
malatis siet, loro malatis sont.
Senza accorgersene iniziò a girare intorno a quella stanza gettando rapidi sguardi all’interno.
 L’unicum et solo splendor vitae salutem est.
Più continuava a girare intorno a quell’unica sala e più
specializzandi si allontanavano. In breve tempo la scia
si dileguò ed il dottore si ritrovò da solo a girare in tondo. La sua natura iraconda e permalosa lo avrebbe,
normalmente, costretto a richiamare a sé quella massa di
puerili esempi della deboscia generazionale. Ma quel
giorno qualcosa di più importante aveva catturato tutte
le sue attenzioni e girava, sempre più veloce, intorno a
quella sala. Gettava rapidi sguardi nell’unica vetrata vicino alla porta d’accesso e da lì riusciva a scorgere cosa
ci fosse all’interno. Non si permetteva di soffermarsi ad
osservare per non donare minimamente l’immagine del
dottore perdigiorno, eppure sentiva una voglia irrefrenabile di farlo e richiamando a sé rimasugli ancestrali
d’impertinenza piantò i suoi piedi davanti alla vetrata e
spiaccicò il viso sulla parete per lottare contro la sua
miopia e riuscire a veder qualcosa.
62
2.
I suoi occhi fecero il giro di tutte le sedie, si soffermarono sui dettagli approssimativi di ogni paziente seduto
ad attendere, osservarono i loro comportamenti stressati
ed il loro modo di reagire di fronte ai differenti sintomi
e poi all’improvviso il dottore riprese la sua corsa. I suoi
passi erano ancora più veloce e continuavano a percorrere il perimetro di quelle mura.
L’aveva vista, era lì, seduta. Che brutta che era. Oddio,
oddio.
Correva.
Il pavimento cominciò lentamente a consumarsi e adesso, quando passava vicino alla vetrata, doveva spingersi
sulle punte dei piedi per vedere meglio. Ma ci riusciva,
eccome se ci riusciva.
Lei era ancora lì, con tutto il suo gonfiore grasso e cortisonico che traboccava da tutti i lati. Via.
La sua corsa era come una marcia rapidissima, cercava
in ogni modo di conservare un certo contegno anche se i
pochi capelli ormai schizzavano in tutte le direzioni ed
il colletto della camicia fuoriusciva leggermente da un
lato del camice.
I sentimenti dentro il suo corpo si mescolavano e in breve gli si diffuse nell’animo un vapore di compassione.
Ciò lo costrinse a tossire. Reagiva sempre così di fronte
a quell’emozione. Strisciando al suolo si trascinò fino
alla porta e l’aprì.
3.
Lei era seduta a poche sedie di distanza da lui.
Lui tossiva senza contegno piegato dai dolori polmonari.
Aveva degli orecchini grandi e pacchiani da signora aristocratica, le sue guance erano paffute e ogni centimetro
del suo corpo parlava di squilibri ormonali. Aveva dei
seni abbondanti che le colavano sulla pancia e il cranio
era avvolto da una cuffietta verde, in lattice. Aveva le
63
dita piene di anelli e lo sguardo estremamente melanconico e triste. Emanava un odore particolarissimo che ti
portava a prender le distanze, ma non era affatto puzza.
La sua aura era pesantissima ed era difficilissimo starle
vicino.
Il dottore, tossendo al suo fianco, aveva subito riconosciuto in lei tutto ciò che per anni lo aveva terrorizzato e
che conosceva benissimo. I lineamenti del suo viso erano troppo squadrati e dietro quegli occhi scorgeva le cascate irruente di uno spirito ribelle costretto a piegarsi e
soffrire. Conosceva benissimo il dolore allucinante che
avvolge la testa quando la si costringe a indossare una
parrucca, una parrucca vera. Tutto tira tantissimo e la
testa impazzisce, fa malissimo e gli antidolorifici diventano il pane quotidiano. Conosceva benissimo quella
cuffietta che ci si pone sul cranio per farlo riposare, inutilmente, e conosceva benissimo tutti i rischi e le controindicazioni che possono incontrarsi dopo quelle operazioni, dopo che con estremo coraggio si decide di
cambiare sesso. Era allucinante il contrasto che nasceva
nell’incontro di un animo così deciso e di un corpo che
non l’ha seguito fino in fondo. Quel signore ora era diventato una donna a tutti gli effetti, ma a che costo!
L’animo del dottore era in subbuglio e la tosse aumentava sempre di più, con estrema fatica si avvicinò centimetro dopo centimetro alla signora, la tosse era inarrestabile e fortissima, posò la sua mano sulla spalla di lei
e con uno sforzo sovrumano disse:
 Tutto benem signoram?
Senza riuscire ad attendere una risposta svenne sulle sue
gambe.
64
CAPITOLO SETTIMO
Dottor Savio Curam
1.
Il suo vero nome era Chiara del Prato, era nata in un
paesino di montagna da una famiglia di pastori e produttori di formaggi. Fin da piccola aveva mostrato interessi nei confronti dell’organismo animale e di come poterlo curare nei momenti di debolezza. Amava passare il
suo tempo nelle stalle delle mucche ed era affascinata
da come riuscissero a trasformare l’erba e il fieno in
quel latte buonissimo che ogni mattina versava magicamente in un secchio di latta. Vedere quel liquido trasformarsi a sua volta in formaggio era un’ulteriore emozione ed in breve tempo sentì il bisogno di saperne di
più, di conoscere più cose possibili sulla natura e su tutto ciò che la circondava. Ogni mattino si svegliava per
aiutare i genitori prima di andare a scuola e al rientro si
precipitava ad aiutarli in altre faccende. In ogni attimo
di pausa aveva un libro con sé e passava le giornate tra
mucche, formaggi e studi.
C’erano giorni in cui si soffermava fuori casa, tra le
montagne e collezionava sassi, fili d’erba, insetti e fiori.
2.
Allo sbocciare dell’adolescenza suo padre morì. Chiara
doveva a lui tutte le sue conoscenze sui formaggi e sulla
natura. Era stato il suo primo maestro e lei ne era profondamente innamorata. La tristezza forgiò il suo stelo
ed i suoi petali si adagiarono verso l’interno, nascondendone il cuore. Lavorava tantissimo e sostituiva il padre in tutto ciò che poteva.
65
Le sue collezioni seccarono e si deteriorarono nelle scatole di latta, tra le ceneri della sua infanzia.
Sua madre si dava da fare senza tregua e riversò il dispiacere nel continuare l’impresa del marito, per non far
morire i suoi sogni e tutto ciò che aveva costruito.
Chiara crebbe forte, decisa ed estremamente introversa.
Quando il liceo finì era pronta a dare tutta se stessa per i
formaggi, ma era così brava ed intelligente che la madre
s’impegnò per convincerla a continuare gli studi. La ragazza non riuscì a deluderla ed alla fine dell’estate partì
per iniziare i corsi di medicina.
3.
L’esperienza della città riaccese la sua passione per tutto
ciò che la circondava, vedere le montagne trasformarsi
in palazzi e le mucche diventare automobili
l’affascinava come il pianto di un essere umano e la capacità di un cuore di continuare a battere anche fuori da
un corpo. Incontrò tanta gente e fece tantissime nuove
esperienze ma i grandi cambiamenti non riuscirono minimamente a mutare la sua dedizione allo studio ed al
lavoro. La madre la ricompensò dell’aiuto che aveva
sempre dato alla famiglia regalandole il denaro ottenuto
dall’assicurazione in seguito all’incidente del padre ma,
nonostante ciò, Chiara continuò a lavorare ininterrottamente tutte le sere e tutti i giorni e in molti ne cercavano
la ragione.
Trascorse i primi anni dell’università immersa nello
studio e nel lavoro senza negarsi, però, il tempo per gustare i sapori della città, per scoprire ed incontrare le
persone.
Il suo animo naufragava tra mari tempestosi ma
dall’esterno nessuno scorgeva un filo di vento.
Quando i suoi studi stavano per terminare una malattia
improvvisa la privò anche della madre. L’ulteriore dolore lasciò uscire della sua bocca, dai suoi occhi e dal suo
cuore la bufera che la travolgeva e nessuno la vide mai
66
più. Il suo conto in banca si azzerò e quando anni dopo
ottenne la laurea, sulla pergamena brillava il nome del
dottor Savio Curam.
4.
Chiara giaceva vicino ai corpi dei suoi genitori, tra
l’erba, le rocce e gli insetti. Savio rappresentava
l’unione di tutti e tre.
Aveva utilizzato tutti i suoi risparmi per farsi asportare i
seni e farsi modificare i lineamenti. Si era sottoposta ad
una cura di testosterone ma aveva deciso di non farsi
asportare gli organi sessuali. Non c’era riuscita e sentiva
di non volerlo.
Aveva terminato gli studi con i massimi voti e nonostante le paure, le fragilità e la confusione del suo spirito, aveva trovato in se stessa nuova forza e nuova bellezza.
Quando anni dopo la sua compagna le confidò di non
poter aver figli, Savio capì che anni prima qualcuno
l’aveva guidato nelle sue scelte e, dopo aver interrotto la
cura ormonale, riuscì a rimanere “incinto”. In quel momento il cerchio si era chiuso e l’intera famiglia resuscitava nel suo corpo grazie a quella scienza che da sempre
le era stata vicino.
Dopo nove mesi il dottor Savio Curam partorì un bambino e anche se, biologicamente, ne fu la madre, per il
piccolo il dottore fu sempre il padre e ciò rafforzò in lui
la sensazione di aver ridato vita a tutta la sua famiglia.
Fiero del suo sapere e del suo agire, il dottore divenne in
breve tempo un punto di riferimento per la medicina nazionale e, primario dell’ospedale in cui si svolge la nostra storia, dispensava polvere di scienza e conoscenza a
pazienti, medici e studenti devoti.
67
5.
Quando quel giorno vide tra le sedie della sala d’attesa,
quella donna distrutta dal suo osare, nel suo animo si
risvegliarono tutte le paure che aveva avuto negli anni
della sua giovinezza. Sola e pensosa aveva progettato la
sua trasformazione nell’intimità della sua corazza usurata. Il suo animo si sentiva stretto in quel corpo piegato e
malridotto dagli eventi passati. Il dottor Savio Curam
sentiva che la vita di Chiara era morta insieme a quella
dei suoi genitori, e sentiva che per sopravvivere doveva
permettere al suo animo di far uscire le ali e liberarsi del
suo baco. Negli anni universitari non era riuscita a condividere con nessuno questi pensieri e lavorando ininterrottamente aveva covato la sua decisione sentendo la ali
spingere sotto quella pelle morta.
Quando quel mattino incontrò la donna tutte queste emozioni si riaccesero e una tenerezza sconosciuta guidò
ogni giorno che passò con lei. Si prese carico di ogni cura e di ogni scelta ed in breve tempo le condizioni della
donna migliorarono visibilmente.
68
CAPITOLO SETTIMO BIS
L’ignoranza
Reputo che ciò che esalti lo sciocco e lo differenzi dal
saggio, sia la sua incapacità d’opporre critica. Ciò che
ammiro nel colto è la sua capacità di varare possibilità
differenti, il suo animo pieno di esempi, di esperienze e
di conoscenze gli permette di paragonare qualunque cosa a tante altre e la sua ricerca del Bene risulterà più facile. Ritengo che lo sciocco sia colui che segue e non si
ascolta, colui che nei limiti della sua ignoranza non trova gli strumenti per controbattere, per difendere un suo
pensiero e non accettar tutto come unica verità. Credo
che lo sciocco si accontenti, senza possibilità di scelta e
d’opinione. Ciò che amo del saggio, di quello vero, sono
la sua apertura e la sua umiltà. Scontrandosi ogni giorno
con i limiti del suo spirito e con l’immensità di tutto
quel che c’è da conoscere il saggio è rassegnato e pacato
nel profondo ma continua a divorare le mele dell’Eden
per divertimento personale, per devozione alla Curiosità, alla Speranza ed al Sogno. Il limite è il miglior amico
del saggio e l’uno sa bene che non potrà vivere senza
l’altro. Il saggio ama la tensione di quella relazione e sa
che l’importante non è batterlo perché, come una fenice,
il limite rinascerà sempre più lontano. L’uomo e la donna che sanno, amano quella tensione perché è madre di
ogni cosa nuova, di tutte le invenzioni e di tutte le scoperte; ciò è divertente, affascinante, stimolante e aiuta
far star bene.
Credo che sia veramente stupido chi è rassegnato, chi si
lascia schiacciare dal limite senza opporre la minima resistenza, chi non sente il bisogno di cercare.
69
Sì, reputo veramente dei gran deficienti quelli che non
protestano, che non difendono, quelli che credono di aver già scoperto tutto e quelli che si considerano incapaci di capir qualunque cosa.
Credo che sia un peccato e quindi lo considero stupido.
Credo che davvero siano possibili moltissime cose e
qualunque pensiero tu abbia nella testa, oh caro lettore,
credo sinceramente che ci sia un modo per realizzarlo.
70
CAPITOLO SETTIMO TRIS
A molti dei nostri genitori o anche
contro la disillusione
Come prova di quanto detto poco prima, ci tengo anche
a ringraziare profondamente la generazione dei nostri
genitori e molte altre generazioni passate. Non so da cosa sia dipeso ma ritengo estremamente superficiale giudicare vani gli sforzi fatti da chi ci ha preceduto. Molti
di loro magari si son moderati e trasformati nel corso
della vita e c’è chi ritiene contraddittori molti di questi
cambiamenti, c’è chi getta luci scoraggianti su come le
speranze siano crollate e su quanto fossero utopistici alcuni ideali. Ma guardandomi intorno vedo gente diversa
coabitare nel rispetto reciproco, vedo molti diritti umani
diventati cosa scontata per alcuni paesi e vedo tanti passi avanti verso la libertà di ognuno all’interno di un
gruppo. Ciò non cancella minimamente il fatto che queste cose preziose siano eccezione lussuosa per una piccola parte del pianeta e che ci siano ancora tante cose da
fare per il bene di tutti ma, se non altro, mi riempie di
speranza e mi fa riflettere su come ogni volta che gli esseri umani si sono uniti per far qualcosa, le conseguenze
non sono mai state vane.
Credo che molti dei nostri genitori possano dormire sereni e smetterla di dire che ciò che hanno fatto non sia
servito a niente, è diseducativo e falso. Forse avevano
soltanto delle aspettative troppo grandi.
71
CAPITOLO OTTAVO
Notizie su La Notte
1.
“Caro ragazzo,
ti scrivo da molto lontano per ringraziarti di quello che
hai fatto per me. Incontrarti è stata la più grande fortuna
della mia vita ed anche se tu hai ben altre cose a cui
pensare in questo momento, voglio che tu sia consapevole del bene che mi hai dato.
Ho atteso per anni la mia occasione, l’opportunità di far
vedere al mondo intero di cosa fossi capace senza mai
approfittare di ciò che giorno dopo giorno la vita mi
tendeva. Ho sempre avuto bisogno di dover mostrare
agli altri di essere all’altezza ed a me stessa di non essere come gli altri mi descrivevano. Fin da bambina sono
stata derisa per le mie scelte, per come mi vestivo, per
tutto ciò che amavo. Qualunque cosa facessi era stupida,
sciocca ed inutile. Qualunque cosa indossassi era ridicola e brutta. Qualunque cosa dicessi era banale, infantile
e di poca importanza.
Con il passare del tempo me ne sono convinta anche io.
Ho iniziato a dare per scontato che fosse così e di conseguenza ho accettato a testa bassa tutto ciò che mi veniva imposto. Mi sono aggrappata alla fede in tutto ciò
che un giorno avrebbe potuto ricompensarmi, sicura e
convinta in cuor mio, che la mia condotta avrebbe avuto
la sua vendetta, che un giorno qualcuno si sarebbe accorto di quel che sono davvero.
Ti ringrazio perché tu non hai mostrato agli altri ciò che
sono ma me lo hai sbattuto in faccia, lo hai mostrato a
me stessa. E se gli altri non mi ricompenseranno mai,
adesso lo potrò fare io.
72
Grazie a te sono diventata l’infermiera di me stessa, mio
caro, ti ringrazio per aver chiamato l’ambulanza, per esserti accorto che il malato era grave.
In quello stesso giorno ho incontrato Gesù, ed il suo
amore mi sta incendiando inesorabilmente. La sua infinita passione mi sta facendo percorrere i mie giorni come una cavalla selvaggia, ed io adesso voglio soltanto
correre e prendermi il vento in faccia.
Spero con tutto il mio cuore che tu possa guarire e sappi
che ti porterò sempre con me e ti sarò grata in eterno.
Sono sicura che ci rivedremo e non sarà di certo in
quell’orrendo ospedale.
Ti abbracciamo forte,
Gabriella e Gesù.”
2.
Nel grande poster accanto al letto del ragazzo, ora non
appariva soltanto il faccione di Gesù. Accanto al suo,
con uno sguardo innamorato e vivo era apparso quello
di Gabriella La Notte. Ogni giorno l’immagine cambiava e mostrava al ragazzo ciò che loro stavano facendo, il
loro umore. La donna si era tuffata senza la minima
paura nel mondo Poster ed era riuscita ad attraversare il
muro con la forza della sua voglia di vivere.
Un leggero vento di melanconia entrò nella stanza ed il
ragazzo osservò i capelli arruffati del sant’uomo, il suo
sorriso. Osservò le loro mani strette e gli occhi che si
accarezzavano.
Il paesaggio dietro di loro sembrava essere magnifico ed
il ragazzo ebbe un brivido d’invidia.
La mamma chiuse la finestra, la melanconia stagnò e
divenne tristezza.
Quando nell’ospedale si sparse la voce di ciò che era
accaduto a La Notte, molte infermiere vollero cercar
d’imitarla. Ognuna di loro in segreto custodiva il poster
del proprio idolo e appiccicatolo al muro, vi si gettava
contro senza timore.
73
Sovente si udiva il frastuono di qualche infermiera che
si sfracellava contro la parete, ed iniziarono ad accavallarsi i loro ricoveri al pronto soccorso.
Molto meno sovente, ma importante almeno per aumentar la speranza, si perdevano le informazioni su qualcun’altra ed allora tutte le infermiere friggevano
d’invidia e si intestardivano contro il loro idolo. Ora per
una ragione, ora per un’altra, le infermiere iniziarono a
mancare, ad essere inutilizzabili.
Quando la vecchina fu colta da un arresto cardiaco, nel
suo reparto non c’era nessuno.
74
CAPITOLO NONO
Il funerale
1.
Il ragazzo disteso sul letto vedeva scorrere davanti alla
sua porta tante persone, vestite nei modi più bizzarri e
stravaganti. Avevano tutti un aspetto felice e frizzante,
si abbracciavano e si salutavano calorosamente come se
non si vedessero da tempo.
Non potendo resistere il ragazzo si alzò ed uscì nel corridoio.
C’era gente dappertutto, ogni angolo dell’ospedale era
pieno di persone che erano così belle e decorate da sembrare oggetti d’arredo.
Sentendo delle voci alle sue spalle si voltò e un grosso
uomo panzone lo scontrò
 Perdona, perdona!
L’omone gli fece un grasso sorriso ed i suoi denti in oro
luccicarono.
Sulle scale, all’angolo del corridoio, ridevano e correvano una dozzina di bambini, vestiti da un insieme di
bracciali, al polso più piccoli, al ventre più grandi. Erano sottili ed ognuno di un coloro differente. L’ascensore
si aprì ed apparve una coppia che aveva sulla testa delle
enormi teste di gabbiano in gomma piuma. Sulle braccia
avevano delle grandi ali ed appena videro gli altri iniziarono ad agitarle calorosamente. Una piuma volò via e
cadde ai piedi del ragazzo.
Chinandosi per raccogliere la piuma, il ragazzo si accorse di camminare su un bellissimo tessuto di velluto rosso, si guardò intorno e vide che ovunque nel corridoio
c’era dello stupendo tessuto colorato, cercò di seguirlo e
individuò vicino al bagno un gruppo di donne che parlavano fra di loro. Avevano delle gonne lunghissime,
così lunghe da aver riempito il corridoio con le loro scie.
75
Il loro busto era decorato con piercing in ceramica colorata, come un mosaico, ed i loro visi erano cosparsi di
piccoli pezzi di specchio. Erano meravigliose.
Mentre nel corridoio tutti gridavano, parlavano, cantavano e si abbracciavano, seduto sulla sedia in plastica, il
padre del ragazzo si era finalmente addormentato e la
testa gli si adagiò di scatto sulla spalla destra.
2.
A un certo punto, dalla piccola stanza della vecchina,
uscì, volando, un flauto traverso, si arrestò al centro del
corridoio e tutti tacquero ascoltando il suo canto.
Dalla stessa stanza, trasportato da vecchio uomo, uscì il
letto pieno di fiori e profumi su cui avevano adagiato la
vecchia.
Il ragazzo pietrificato assisteva alla scena.
Tutti i presenti iniziarono a girare intorno formando disegni con gli schieramenti. I vecchi si separarono dal
gruppo ed andarono a prendere sette galline che avevano portato su in precedenza. Le disposero sul letto insieme alla morta ed attesero. Il flauto suonava, tutti cantavano sottovoce.
Da sotto il letto apparve un essere vestito di nero, con
indosso una tutina aderente. Il suo viso era coperto
dall’abito e su tutto il corpo era disegnato uno scheletro.
Il teschio sorrideva. Era un costume grottesco, come
quelli che appaiono nella cultura messicana. Dal collo
pendeva una sciarpa di piume viola.
L’intonazione del canto cambiò e tutti si inginocchiarono. Rannicchiati al suolo continuavano a muoversi seguendo direzioni e disegni conosciuti.
Lo scheletro girava intorno al letto e di conseguenza intorno alla vecchia e alle galline.
Una delle bestiole cominciò a muovere le ali, era ferma
sul ventre della vecchia. La morte la sfidava con delle
urla gracchianti. I presenti ebbero un istante di pausa, i
loro piedi fluttuarono in aria aggrappati ai respiri. La
76
gallina prese il volo e tutti saltarono su cantando e gridando.
Sul ventre della vecchia una delle sette galline aveva
deposto un uovo e, come il rito vuole, la vita aveva vinto sulla morte.
3.
L’euforia raggiunse l’apice quando l’uovo fu consegnato ai familiari più stretti della vecchina e la tutina della
morte fu bruciata. Il fuoco che divampò dal falò fece
scattare tutti i sensori anti-incendio dell’ospedale e iniziò a piovere in tutti i corridoi. L’acqua pian piano
spense il fuoco e sulle ceneri della morte esplosero gli
ultimi canti liberatori.
In mezzo alla pioggia, il più vecchio tra i presenti prese
tra le mani il grande diario della vecchina e disse delle
frasi incomprensibili per il ragazzo. Tutti i presenti alzarono al soffitto i loro diari e tutti insieme posarono le
labbra, delicate e pudiche, sui preziosi libri.
“A tutti voi che sarete giunti qui da lontano, scrivo il più
caloroso benvenuto. La morte mi avrà già abbracciato
nella sua magrezza e spero per lei che nessuna gallina
abbia cagato l’uovo.
Se ciò invece è accaduto spero che il pulcino che ne nascerà non debba passare ciò che ho passato io durante la
mia malattia. La vita ha vinto sulla morte, ma che cazzo
me ne frega? Mentre io soffrivo dov’era la vita?
Dov’erano i pulcini e dove eravate voi? Radunati qui
intorno per festeggiare il vostro carnevale sulla mia pellaccia. Anche io li avrei voluti festeggiare! Anche io avrei voluto vestirmi a mio turno da morte ed anche io
avrei voluto abbracciarvi! Disgraziati maledetti. Andatevene e lasciatemi morire in pace.”
La pioggia cadeva ancora nel corridoio mentre tutti, con
la testa bassa, sfilavano lungo la via d’uscita. Qualcuno,
77
confuso e sconcertato, scambiava qualche parola con il
vicino.
Quando il lettino rimase solo in mezzo all’ospedale ed
in mezzo al mondo, il ragazzo si avvicinò e scorse delle
lacrime sul viso della morta.
La sua rabbia l’aveva privata dell’ultima possibilità di
riavere un abbraccio dalla sua famiglia, dal suo gruppo,
dalla sua gente. Fedele alle sue convinzioni e ferita nel
profondo, non aveva voluto cedere, aveva voluto rifiutare il “lieto fine” con cui marchiavano tutti prima di dimenticarli per sempre. Ma adesso era lì, sola e morta, e
sentiva che anche questo non era bello.
4.
Quando il giorno dopo la misero nella bara, il ragazzo
era l’unico presente. Nella camera ardente dell’ospedale
erano state posizionate tante sedie. Pensavano che si sarebbero riproposte scene di festa e movimento. Il ragazzo era in piedi davanti a lei e la osservava con curiosità,
cercando di estrapolare il segreto di quel particolare stato psico-fisico.
Il padre entrò nella stanza, si sedette su una sedia di plastica e si mise a fissare le mura bianche.
Degli addetti dell’ospedale entrarono, chiesero delle informazioni al ragazzo e dopodiché chiusero la bara e la
portarono via.
Il vecchio iniziò a tirare dei forti pugni sul coperchio,
dei forti pugni che rimbombavano all’interno ma che
all’esterno non si udivano molto. Gli addetti avevano
fatto un buon lavoro mettendo una lastra di metallo tra il
suo corpo ed il legno. I pugni si perdevano in quel breve
intermezzo e mentre lui dentro si dimenava follemente,
gli altri all’esterno lo portavano via.
Il bimbo era nella sua culla e gli addetti arrivarono anche lì. Una pesante lastra luccicante gli fu posta come
cielo e facendolo scivolare sulle rotelle lo portarono via.
78
Era notte quando li sotterrarono e pioveva forte. Misero
la bara poco distante dal bambino. La culla in breve
tempo si riempì di terra e al piccolo iniziò a mancare
l’aria. Il suo cuore vibrava così forte che il vecchio ne
intendeva i battiti. Era indiavolato al pensiero che il piccolo potesse morirgli accanto e con tutte le sue forze
scalciava e spingeva. Lo sforzo in breve tempo lo affaticò tanto ed anche il suo ossigeno iniziò a scarseggiare.
La roccia dello scoglio era tagliente ed il bambino senza
accorgersene si ferì dappertutto ma era fuori, respirava.
Un’enorme mano spuntava dall’acqua, era grande, immensa. Lentamente si seccava, come una rosa, come le
tante rose che coprivano la bara della vecchina mentre
la portavano via.
5.
Chiuso nella sua camera, aveva i cinturini stretti ai polsi
e la flebo che sgorgava dall’alto.
Non si ricordava di nulla, non capiva minimamente cosa
fosse successo. Ogni volta gli capitava così. Lui era
stanco, nel letto. Non ce la faceva più a sentire il peso di
qualche tubo aggrappato al suo braccio. Era stanco di
sentir dolore in ogni parte del corpo, di dover dipendere
dall’aiuto degli altri. Era stanco di dover lottare contro
qualcosa che dentro di sé si rivoltava e lo schiacciava al
suolo in pochi minuti, qualcosa che senza controllo poteva ucciderlo. Voleva rilassarsi e dormire ma ogni volta si risvegliava circondato da schermi e computer bizzarri che cercavano di tener sotto controllo il suo corpo.
Perché il suo stesso corpo lo trattava così? E poi c’era il
buio, quel buio che lo avvolgeva strozzandolo. Perché?
Il ragazzo si faceva continuamente delle domande, ma il
più delle volte le evitava ed iniziava ad essere ossessionato da tutto ciò che lo circondava, ogni minimo problema poteva diventare una catastrofe ed il caos doveva
essere padroneggiato dalle sue mani.
79
CAPITOLO DECIMO
La sagoma di cartone
1.

Spregevole essere del sottobosco sociale, come hai
potuto farmi ancora del male? Li vedi i calli sul mio
cuore di mamma? Lo vedi come riposa il mio velo
di sposa?
 Le chiedo scusa.
 Colpirmi alle spalle mentre naufrago a valle. Che
idiota che sono e che son sempre stata. Ah misera
me, ah misera me!
 Le chiedo scusa.
 Da quanto tempo va avanti il mistero, mentre
fuggiva io dove diavolo ero?
 Le chiedo scusa.
 Da quanto tempo, ti ho chiesto! Pessimo uomo, da
quanto tempo? Rispondi!?
 Le chiedo scusa.
La donna afferrò la maglia dell’esile cinese e cominciò
a scuoterlo con forza e passione. Il suo volto era la maschera della disperazione. Le sue mani puzzavano
d’aglio.
 Flagellami mondo, distruggimi tutta poi prendi il
mio corpo e dove vuoi butta! Sparisci tu altro...
lasciami sola...
Il giovane forestiero le lasciò un ultimo sguardo di
compassione e timidamente andò via.
La donna afferrò la sagoma di cartone tra le mani e la
strappò piena di rabbia, delusione e sconforto.
80
2.
Da diversi giorni, un giovane cinese girava
nell’ospedale in incognito. Era vestito da infermiera ed
indossava una splendida parrucca bionda. L’unica cosa
che lo differenziava era il largo cappello conico dal quale non si era voluto separare.
Aveva gli occhi scuri e le sue dita, sommate, erano ventuno. La mano sinistra ne aveva sei e ciò gli aveva causato seri problemi durante l’infanzia.
Il giovane uomo aveva percorso i corridoi a qualunque
ora della giornata, trasportando con sé la sagoma in cartone del papà del ragazzo, il marito della mamma.
La donna era riuscita soltanto a sapere che era stato assunto da lui e che l’uomo era fuggito via. Schiacciato
dalla sua impotenza e dalle sue responsabilità aveva deciso di farla finita, di tagliar via il problema, di trasformarsi in sagoma di cartone per smettere di pensare e di
farsi del male.
3.
Quando il ragazzo lo venne a sapere nulla poté trattenerlo. I suoi pensieri si accavallarono uno sull’altro e in
breve tempo era fuori dall’ospedale che correva. Le flebo al suolo rotte, i gradini saltati, la madre dietro di lui
che urlava.
Come aveva immaginato il padre era al mare, sugli scogli. Seduto immobile, lo sguardo fisso davanti a sé.
Appena si voltò e li vide, inclinò la testa di scatto sul
lato sinistro e sorrise. Afferrò una palla di mare e la lanciò al ragazzo.
Il giovane lo guardava confuso.
La madre, impaurita da quello strano sguardo demoniaco, prese un grande crocifisso e vi si nascose dietro. Sulla croce, Gesù baciava appassionatamente Gabriella.
Il padre fece un agile saltello e si mise in piedi su una
grande roccia. Le sue gambe erano tese e la schiena drit81
ta, le mani, seguite dalle braccia, gesticolavano nell’aria
come quelle di un prestigiatore. Aveva i capelli arruffati
e il viso particolarmente pallido. Le labbra violacee ed il
sorriso stampato tra le guance creavano delle fossette in
cui confluivano le rughe dei suoi grandi occhi.
Rivolgendosi al ragazzo disse:
 Su, da bravo, lancia!
Dopo una leggera esitazione lui lanciò la palla verso il
padre. L’uomo si voltò verso la moglie e inviò la palla
di mare verso di lei. La donna non la prese, barricata
dietro la sua trincea di santi. La sfera rotolò silenziosa al
suolo e si disperse in una piccola onda che si franse su
un sasso.
Il padre prese allora un sasso e lo lanciò verso il figlio,
lui glielo rilanciò ed il padre, facendo una pausa verso la
madre, lanciò il sasso e le disse:
 Gioca!
La donna non rispose.
La testa dell’uomo si muoveva a scatti veloci inclinandosi a destra e a sinistra, poi si fermava e fissava la
donna ed il ragazzo spalancando la bocca, i suoi occhi
erano immensi e penetranti.
Raccolse altri piccoli sassi e li lanciò addosso alla donna
continuando ad urlare
 Gioca! Gioca! Gioca!!
La donna si faceva scudo con il braccio e restava in silenzio. Non riusciva a staccare gli occhi dal marito.
Sei contenta eh? Sei contenta?! Sono un pessimo
padre, e un orribile figlio, ono scappato, non ce l’ho fatta! Non è colpa mia! Si era rotta la ruota... lo sai anche
tu! Lo sai anche tu!!
L’uomo raccolse della ghiaia e piangendo gliela gettò
vicino alle gambe, le sue urla si strozzavano nei singhiozzi.
La moglie si alzò e lo strinse fra le braccia.
Il marito l’abbracciò forte e pianse sulla sua spalla.
82
3.
Il ragazzo, sugli scogli, osservava la loro casa in lontananza. Era passato tanto tempo da quando lo avevano
portato via e la casa gli mancava Si avvicinò ai genitori
e abbracciandoli gli disse che dovevano tornare in ospedale. Loro lo guardarono con gli occhi pieni di lacrime e
sorridendo si incamminarono.
Sotto le stelle Gesù e Gabriella continuavano a baciarsi.
Sulla strada del ritorno passarono vicino alla casa della
famiglia del padre e lui, prendendo il figlio sotto braccio, gli disse:
 Guarda lassù, la seconda finestra a sinistra era la
cameretta di quando ero piccolo.
 Ma dai, non credevo che aveste una casa così
grande! Non me l’avevi mai fatta vedere.
Il padre restò in silenzio qualche secondo posando gli
occhi lucidi su quelle mura.
 Ho cercato di dimenticarlo anche io- disse alla fine
con voce bassa.
La mamma, dopo aver scambiato uno sguardo emozionato con il marito, prese il ragazzo sotto braccio e, indicando verso l’alto, gli disse:
 Sei proprio bello come tuo nonno. Quando si
affacciava a quella finestra le donne svenivano.
Sentendo quelle parole il padre si allontanò di qualche
passo.
 Voglio veder delle foto allora!
Il padre camminò ancora un po’ in direzione della casa e
si fermò davanti alla porta. Dopo si voltò e li raggiunse.
Guardò il ragazzo e annuì sorridendo.
 Domani ti porterò degli album!
I tre non parlarono più e tornarono nella stanza
d’ospedale. Addormentandosi il ragazzo si sentì finalmente come non si sentiva da tempo.
83
CAPITOLO UNDICESIMO
Il branco
1.
I piccoli passi del bambino rimbombavano nella chiesa.
A quattro zampe gironzolava tra le navate sorridendo.
Il vecchio correva dietro le grandi colonne e si nascondeva per divertirlo. A parte loro due non c’era nessun
altro.
La cappella dell’edificio, come un grande occhio, apriva
leggermente la palpebra e dei raggi di luce inondavano
tutto e poi sparivano velocemente mentre si richiudeva.
Il bambino si guardava intorno e vedeva il vecchio apparire ovunque, mostrava soltanto alcune parti del suo
corpo e spesso era dietro tante colonne contemporaneamente.
Le lastre di marmo sul pavimento erano molto lisce e le
macchie nere che coloravano la pietra gli davano la nausea. Qualcuno urlava dietro l’abside. Poi taceva.
Le colonne iniziarono a muoversi. Strisciavano sul suolo liscio e dritte si invertivano i posti o viaggiavano, chi
più veloce chi più lenta, nei corridoi della chiesa.
Il vecchio aveva del sangue sulla bocca e fissando il
bambino negli occhi gli diceva parole incomprensibili.
Il piccolo camminava, silenzioso e saggio.
Tantissimi uccelli uscirono da un confessionale in legno
scuro ed il viso del vecchio divenne enorme.
 Spegni la televisione figliuolo! Che piacere ci trovi
nel vedere codesti film orribili!
Il ragazzo cambiò canale ma l’immagine del vecchio
non spariva.
 Deficiente devi girare il telecomando...
Una voce parlò.
84
Il ragazzo girò il telecomando ed effettivamente, adesso,
tutto funzionava correttamente. Il ragazzo spense la tv e
si accovacciò nel suo letto.
Nell’addormentarsi si sentì finalmente come non si sentiva da tempo.
2.
Qualcuno si alzava, le finestre, il suono, i capelli. Qualcuno suonava i capelli, tesi, molto tesi. Respiravano forte, fischiavano. Delle sedie si spostavano, il padre, la
madre, la musica. Un forte coro cantava nei prati fioriti
del parco comunale, era primavera e finalmente si poteva andare a giocare lasciando cadere le magliette al suolo per il caloroso clima. Adorava giocare a calcio, la
palla era caduta nel fiume. Il fiume scorreva veloce,
suonava, cosa suonava il fiume? Le pietre si scontravano fra loro. Poi silenzio, e poi ancora baccano. La luce,
la luce.
Il buio, il velo lo avvolse. No, c’era luce.
La luce sul comodino vicino al letto era ancora accesa.
Come sempre.
Il ragazzo cambiò posizione e con gli occhi semichiusi
cercò di riaddormentarsi.
Delle voci in corridoio attirarono la sua attenzione. Era
strano sentir parlare nel cuore della notte. Abitualmente
ciò voleva dire brutte notizie, risvegli angosciosi, corse
d’infermiere per placare le crisi, punture, sudore, confusione, forte confusione. A volte voleva anche dire che
qualcuno aveva improvvisamente ceduto e che la notte
lo aveva avvolto per sempre. Era bruttissimo sentir parlare in quelle ore.
Il ragazzo cambiò ancora posizione e sentì dei rumori
provenire dall’esterno. Non erano né ambulanze né automobili che parcheggiavano lasciando impronte di copertoni al suolo.
Era un vociare alternato, delle domande e delle risposte
sottili. Come un bambino che costruisce un castello di
85
sabbia in riva al mare e che ritmicamente viene distrutto
dall’onda che arriva. Questo vociare cresceva e si riempiva fino a crollare sotto l’onda del più responsabile che
lanciava uno “Sssshh” nell’aria.
Il ragazzo si incuriosì di tutta questa vita notturna e sgusciò fuori dalle coperte per scoprire cosa stesse accadendo.
Prima che potesse scendere dal letto, il concerto iniziò.
3.
Il ragazzo spalancò la finestra e vide tutti i suoi amici in
basso. Dopo un inizio timido si stavano lasciando andare al più grande baccano. Suonavano e cantavano come i
lupi alla luna. Quella notte era lui la luna e si lasciava
travolgere dalle note che gli afferravano forte le spalle,
le mani, il viso e le gambe.
Era la prima volta che venivano a trovarlo, la prima volta dopo la grande crisi.
Il ragazzo, ancora assonnato, si lasciò travolgere dalla
sorpresa ed incredulo assorbiva ogni nota che lo sfiorava.
Dall’alto della rupe cominciò ad ululare ed il branco rispose a gran voce. Con delle enormi ali si gettò dalla finestra, la luna si rifletteva sul suo lucente pelo e la musica ammortizzava ogni suo passo nel vuoto. Il silenzio
non era permesso.
Correvano nella foresta, di notte, al buio, tutti insieme.
Nulla faceva paura. Il freddo si scioglieva sul loro caldo
respiro ed i loro occhi s’immergevano vicendevolmente
uno nell’altro. La musica danzava nuda sotto le stelle,
svelando la sua antica magia. Riscoprendo
quell’ancestrale potere che spesso, chini sui loro libri
del conservatorio, avevano dimenticato.
Una birra pascolava tranquilla in riva al fiume, il branco
la vide e la puntò. Il loro galoppo unanime la raggiunse
veloce e senza opporre resistenza la bottiglia si adagiò,
gemente e succube. Con brandelli d’etichetta tra i denti
gli amici ridevano schiumosi, e la musica, ancora nuda,
86
si gettava nel fiume cantando. I suoi capelli bagnati le si
adagiavano sulla schiena.
Senza farsi attendere l’onda arrivò in un istante. Aveva
una sirena lampeggiante e non era un’ambulanza.
Il castello si lasciò travolgere e sulla sabbia restò soltanto una piccola collina bagnata. Il parcheggio deserto.
Sulla rupe, in alto, il ragazzo ululava, ancora incredulo
di quel meraviglioso risveglio.
Perché non si riesce ad essere solidali e fraterni davanti
alla vita come lo si è davanti ad una malattia comune o
davanti ad un problema comune, come lo si è dopo una
guerra o dopo una tragedia? Perché all’uomo è possibile
dimenticare ciò che ha passato? Perché non è abbastanza forte il fatto che tutti siam condannati a morte per unirci nell’affrontare con piacere la vita? Sarebbe così
bello, sarebbe così bello...
Con questi pensieri il ragazzo chiudeva nuovamente gli
occhi, le sue dita profumavano di musica.
 Ehi!
Una voce sgusciò tra le persiane prima che potesse
chiuderle.
 Aspetta, aspetta,aspetta, ti prego riapri!
Il ragazzo si sporse dalla finestra e guardò in basso, lei
era lì.
4.
Il sole si era nascosto dietro la luna, le si era avvicinato
molto per guardare anche lui il meraviglioso sguardo
che si scambiarono i due ragazzi in quella calda serata.
Il sole era così vicino che la luce della luna illuminava
tutto il parcheggio, era rossa ed il cielo pieno di stelle.
L’aria era tiepida e l’ennesima estate stava per terminare. Il cielo si era riempito di musica, la polizia era arrivata, i suoi amici erano scappati, il silenzio era tornato e
in questo frangente durato poco più di mezz’ora il ragazzo era stato coperto da una valanga di sensazioni differenti. Ma adesso nel parcheggio non era rimasta che
87
una persona, soltanto una voce bassa e delicata lo chiamava e da sola riusciva a colpirlo ancora più forte.
Il corpo del ragazzo era pietrificato. Dal giorno della
grande crisi non l’aveva più rivista o forse sì e non se ne
era accorto, fatto sta che era la prima volta in cui la rivedeva lucidamente e sentiva ogni muscolo del suo corpo cominciare a contrarsi a causa dell’emozione. Con
tutte le sue forze cercava di controllarsi, di restare
sull’immagine, di lasciar stamparsi nel suo animo quella
splendida visione che lo aveva sorpreso in quella notte
speciale.
 Ciao... come va?
Avrebbe voluto risponderle, vomitarle addosso tutto lo
scompiglio che lo riempiva, avrebbe voluto scendere giù
e camminare con lei sotto le stelle, avrebbe voluto chiedere il suo aiuto e nutrirsi del suo sorriso, avrebbe voluto abbracciarla come sempre aveva fatto e lasciarsi avvolgere dalla sua energia colorata. Avrebbe voluto raccontargli delle sue visioni, dirle quanto gli dessero fastidio le flebo, parlarle della vecchina, di suo padre, delle
infermiere, voleva raccontarle le sue paure e come lo
terrorizzasse il sentirsi incapace di controllare se stesso.
Avrebbe voluto chiederle come stava e ascoltare la sua
voce, avrebbe voluto baciarla e addormentarsi tra le sue
braccia.
Invece era lì pietrificato. Nonostante i grandi miglioramenti fatti in quei giorni il suo corpo era gelato ed ogni
emozione veniva allontanata per resistere e non cedere
alla follia. I suoi occhi erano l’unica cosa che restava
viva e se lei avesse potuto vederci dentro avrebbe visto
delle mani lunghissime che cercavano disperatamente di
arrivare da lei e sfiorarle il viso. Oh, sì, lei le sentiva
quelle mani e nonostante il ragazzo non manifestasse in
nessun modo la sua felicità nel rivederla, lei era lì, sotto
la finestra, innamorata e confusa.
 Scendi?
 No
Il ragazzo rispose in maniere secca e fredda, la sua voce
usciva dalla bocca molti secondi dopo aver udito la do88
manda. Prima che si potessero concretizzare, le parole,
si combattevano fra loro nel suo animo turbato.
 Posso salire?
 No.
Da dietro le spalle della Luna, il Sole si affacciò leggermente per veder meglio. Entrambi li guardavano melanconicamente respirando quella tensione piena
d’emozioni contrastanti. Ognuno desiderava che accadesse qualcosa ma tutti si sentivano estremamente impotenti, rassegnati, incapaci di comprendere e d’agire di
conseguenza.
Il sole lentamente si sporse sempre di più, osservò la
Luna, osservò i ragazzi e sospirando s’incamminò verso
il basso, si nascose dietro il mare, lontano, e continuò a
guardarli da lì, mettendo fine a quella notte magica ed
incominciando un nuovo giorno.
La ragazza lasciò che i suoi occhi si riempissero di tutto
quello che potevano regalarle quelli del ragazzo e poi si
voltò e si incamminò verso l’uscita.
89
CAPITOLO DODICESIMO
Scusami

Non ci capisco nulla, a volte inizio a credere
davvero che l’uomo sia una macchina e che tutto ciò
che lo circondi sia gestito da un’orchestra di
meccanismi complessi. Non lo dico per sminuire la
sua bellezza, anzi, trovo fantastico il fatto che
l’elettricità possa creare emozioni e che tutte quelle
cose poetiche e spirituali siano qualcosa di
materiale, qualcosa che possa variare con semplici
cambiamenti. A volte, quando mi trovo davanti a
lui, davvero comincio a pensare che qualcosa nella
sua testa si sia semplicemente rotto. Non lo so,
merda. All’inizio mi affascinavano un sacco i suoi
racconti e sentivo una passione incredibile in quello
che diceva. Ora sono vuoti, ripetitivi e chiusi in se
stessi. Non c’è stato più dialogo e ora addirittura
non risponde neanche più. Non capisco
minimamente cosa si possa fare, come poterlo
aiutare. Son la prima a diffidare un sacco dal dire
semplicemente che una persona sia “malata”, ma
ogni volta che lo vedo è l’unica cosa che mi viene in
mente. Credo che ognuno possa dire quel che vuole
e credere quel che vuole e se ciò lo fa star bene...
ben venga. Ma quando poi non si riesce a stare né
con gli altri né con se stessi, allora credo che
qualcosa non va. Dicono che con i medicinali si
possano ristabilire quegli ingranaggi che si son
“rotti”, però credo anche che se le relazioni umane
sono magicamente capaci di “rompere” dei
meccanismi con il solo e grande potere del vissuto,
dei comportamenti, degli scambi relazionali, delle
esperienze e delle emozioni, credo che con queste
relazioni i meccanismi sia possibile anche ripararli...
ma boh! Cazzo, non ci capisco nulla... Forse ha
preso una droga, il cervello si è rotto e punto.
90
A volte non vedo più la persona, mi sembra di star
davanti ad un vegetale, ad un oggetto, e ciò mi
devasta. Il suo corpo è lì ma davvero sembra un
contenitore vuoto. Non so che fare.
Quando finì di parlare posò la testa sulla mia spalla, mi
abbracciò forte e si addormentò dopo poco. Io
l’avvolgevo nelle braccia e fissavo il soffitto. I nostri
corpi erano nudi.
Ti chiedo scusa.
91
92
SECONDA PARTE
... ed a suo nonno Andrea
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante
“mi piaccion le fiabe, raccontane altre”
Francesco Guccini, Il vecchio e il bambino
93
CAPITOLO UNO
La vecchia casa
1.
Il padre quella notte non aveva chiuso occhio, aveva lasciato che gli altri si addormentassero ed era nuovamente uscito. Aveva ripercorso la strada all’incontrario ed
era tornato davanti alla sua vecchia casa. Le luci delle
finestre erano accese. Dopo una lieve esitazione si era
avvicinato al davanzale del piano terra. Delle tendine
bianche erano colorate dalla calda luce della stanza. Posò le mani sui freddi mattoni e l’umidità gliele bagnò.
Mentre continuava a fissare le pareti da molto vicino,
dalle tendine apparve il viso di una vecchia signora. Incrociando i loro sguardi entrambi si spaventarono, ma
subito l’uomo si scusò del disturbo e salutò la signora.
Lei aprì la finestra e contraccambiando il saluto lo fermò e lo invitò ad entrare. L’uomo inizialmente rifiutò,
poi disse di voler fare un piccolo giro nella casa, raccontandole di quando lui ci aveva vissuto. La vecchina aprì
la porta e lo fece entrare.
2.
La casa era caldissima ed estremamente rustica. Le pareti ed i mobili erano impregnati dell’odore del camino
e della vecchiaia. Molte cose erano cambiate ma
nell’insieme tutto era come prima. L’uomo esplorava la
casa e la vecchina senza dir nulla lo seguiva lentamente.
Sembrava un po’ malaticcia e tossiva spesso. Quando fu
vicino alle scale si voltò per chiedere il consenso della
donna e lei, sorridendo bonariamente, lo invitò a salire
dicendogli che nell’attesa avrebbe preparato una tisana
calda. Le scale scricchiolavano, l’uomo le percorse ve-
94
locemente e si arrestò davanti al corridoio che portava
alle stanze da notte. Era buio ed il buio cancellava le
piccole cose che erano cambiate con il passare degli anni. Lentamente fece dei passi in direzione della sua
stanza. Quando fu davanti alla porta posò delicatamente
la mano sulla maniglia e provò a girarla, ma questa era
bloccata e la porta non si apriva. Prima che potesse riprovare i suoi occhi si posarono in basso, vicino al battiscopa. La carta da parati era strappata in un angolino.
L’uomo si inginocchiò e toccando il muro rabbrividì. In
quell’angolo della parete da bambino aveva intagliato,
grattato e colorato la forma della sua manina.
3.
C’ qualcun?
Da dietro la porta qualcuno aveva parlato.
L’uomo sorpreso si alzò di scatto.
 Sì, mi scusi, credevo che non ci fosse nessuno.
 Sssshh... parl pian l preg.
Era una voce legnosa. Scandiva a scatti le parole come
se ne tagliasse ogni suono. Era una voce particolarmente
antica e inquietante.
 Pe favor s’avvicin all port.
L’uomo reagì immediatamente e nel momento in cui si
posizionò davanti alla porta sentì un formicolio invadergli il corpo e nel suo animo una sensazione di abbandono. Più si abbandonava e più vedeva le immagini
scomparire. Spaventato oppose resistenza e si ritrovò
davanti alla porta.
 Cosa è stato?
 No paur, lasciat andar.
 Chi sei?
 No ho rispost pe t mo, lasciat andar e m incontrera.
 Ma cosa diavolo succede?
L’uomo cercò di forzare la maniglia per aprire la porta e
non riuscendoci si precipitò verso le scale ma il suo corpo non reagiva, era pietrificato. Era come se gli impulsi

95
nervosi non arrivassero alle periferie e ogni movimento
gli risultava estremamente faticoso. Ancora una volta un
immenso formicolio gli partì da dietro la testa e lo avvolse completamente provocandogli brividi dappertutto.
 Lasciat andar, seguim, lasciat andar.
L’uomo cercò di non opporre resistenza, tutto pian piano scompariva e vedeva solamente dei contorni vibranti.
Aveva estremamente paura ed il cuore gli batteva così
forte che credette di perderlo, ma proprio mentre tutto
sembrava arrivare al massimo dell’insopportabilità si
sentì catapultato al di là della porta.
4.
C’erano tante linee dritte e verticali, come delle vecchie
antenne della tv, dappertutto. Era un paesaggio profondissimo e si scorgevano linee verticali ovunque, alcune
fluttuavano nell’aria ed altre erano ben posizionate,
sembravano disegnare una specie di suolo. L’uomo cercava di controllare il suo corpo ma percepiva che inviando degli impulsi nervosi erano le linee a muoversi,
il suo corpo non si vedeva da nessuna parte. Tutto era
nero e le linee grigie. Sulla parte superiore delle linee ce
ne erano alcune orizzontali e ciò le identificava ancora
di più a delle antenne della tv. Nuovamente l’uomo sentì
una sensazione d’abbandono e seguendola vide il paesaggio trasformarsi, cambiar di colore. Le linee erano
ancora l’elemento più presente ma sembravano iniziare
a ruotare veloce e a cambiare di posizione. Non si potevano riconoscere un suolo ed un cielo, si scorgevano
soltanto tante linee muoversi.
All’improvviso tutto scomparve e un colore che non saprei descrivervi invase la retina dell’uomo. Andava oltre
le onde a cui siamo abituati ed era di una lucentezza
particolare. Dei suoni acutissimi lo avvolsero e si sentì
cullare in una sensazione bellissima.
 Veng d u pianet lontan, son arrivat sul terr secol f m
pe ragion che no comprender sol or son riuscit a un
96
relazion co qualcun.
L’uomo era totalmente avvolto in sensazioni e colori e
la voce entrava nelle sue orecchie senza provocare in lui
particolari reazioni. Sentì soffiare forte sul suo viso,
molto molto forte ed all’improvviso si ritrovò nel corridoio, davanti alla porta.
Girò la maniglia e la porta si aprì.
5.
La stanza era avvolta nella luce della luna che entrava
dalla finestra spalancata. Le tende bianche si muovevano spinte dal vento e lasciavano intravedere il davanzale
in ferro battuto che dava sulla stradina. Sopra il letto
una sfera fluttuava ed era difficile scorgerne la consistenza ed il colore. Un’altra sfera era al centro della
stanza in direzione della finestra, alla sua sinistra il letto
ed alla sua destra una piccola poltroncina e un vecchio
armadio di legno. Sotto l’armadio si intravedevano i riflessi sferici di una terza sfera, leggermente più piccola
delle altre. La sfera centrale cadde di peso al suolo. Immobile per qualche istante lasciò echeggiare nella stanza
il forte rumore che l’aveva accolta scontrandosi con le
assi di legno del pavimento. Dolcemente rotolò verso
l’uomo, ancora immobile all’ingresso della stanza.
L’attrito provocò un ruvido scivolare.
I piedi dell’uomo si incontrarono con la sfera e ciò fece
sorgere ulteriori brividi sulla sua schiena provata. La
grande sfera ai suoi piedi si separò in tantissime piccole
palline che iniziarono a vibrare e volteggiare intorno a
lui come un immenso sciame d’api. La sfera che si trovava sotto l’armadio sgusciò via e si alzò nell’aria andando verso il letto. L’altra sfera si spostò da questo e si
scontrarono. L’impatto non fece rumore ma tutto iniziò
a tremare. Le palline avvolsero l’uomo ricoprendolo di
una materia calda e viscida. Dall’unione delle due sfere
si creò una sfera ancora più grande che galleggiava al
centro della stanza, al suo interno sembrava stesse co97
minciando a pulsare qualcosa. L’uomo si sentì spingere
in avanti, come se quello strato gelatinoso che lo avvolgeva lo stesse guidando da qualche parte. La sua mano
si alzò e si posò sulla grande sfera. Ancora brividi, tremolii, luci e suoni.
Gelatinosamente la gelatina fu risucchiata dalla grande
palla. Scivolò via dal suo viso, dai suoi piedi e dal suo
petto, si concentrò tutta sul suo braccio e, coagulando,
rotolò su questo posandosi infine sulla mano che sovrastava la sfera.
Si era trasformata ed ora sulla sua mano era seduto un
piccolo cavalluccio marino di legno. Blu e giallo.
98
CAPITOLO DUE
Il cavalluccio marino
1.
Era un pomeriggio primaverile, l’uomo era un bambino
e stava giocando negli infiniti prati che rivestivano il vicinato. Dalla collina vide le barche tornare nel porticciolo del paese e, come al solito, si precipitò felice per accogliere il ritorno del vecchio, a quei tempi giovane e
padre.
Li vedeva arrivare, saltar fuori dalla barca e prendere le
corde pesanti e bagnate per attraccare ai grandi maniglioni arrugginiti. Ogni volta il padre si voltava, prima
d’iniziare le operazioni di scarico, e prendeva il piccolo
fra le braccia. Lui era sempre contentissimo di vederlo
tornare e amava guardare il mare dalla collina e le barche che partivano e arrivavano.
 Vai al negozio prendi i fiori più belli e corri a casa a
darli alla mamma. Dille che arrivo!
Il piccolo si precipitava a far tutto ciò che gli era stato
chiesto e correva a casa per invadere di gioia la camera
della mamma.
2.
Immobile, silenziosa, tranquilla, luminosa e fresca.
Il bimbo arrivava correndo e saltava nel letto.
La mamma era costretta da anni a vivere allungata a
causa di una malattia che la corrodeva ed immobilizzava
di giorno in giorno. Nonostante ciò aveva mantenuto
una serenità mista a rassegnazione che imbiancava quella stanza di tranquillità. Tantissime volte era andata ad
accogliere il marito al porto, tantissime volte si era allontanata con lui verso l’orizzonte ed il loro amore era
99
impregnato di salsedine. Da quando il piccolo era nato
la sua mobilità era precipitata e rapidamente era stata
costretta al letto.
 Papà sta per arrivare, questi sono per te!
L’abbracciava sempre forte.
3.
Il padre entrò in casa e corse nella stanza della moglie
per salutare la sua famigliola.
 Ehi tu! Apri la borsa!... Vieni qui!
Il piccolo era saltato giù dal letto e si era gettato ai piedi
del padre per frugare tra le sue cose.
 Cos’è?
 Aprilo! È un regalo!
Aveva trovato un oggetto avvolto nella carta di giornale
e con curiosità stava distruggendo l’involucro.
Era un cavalluccio marino di legno, verniciato a mano
di giallo e di blu, sul suo corpo si scorgevano delle gocce di vernice che erano scivolate e si erano indurite. Era
grande come il palmo della sua manina e in basso, alla
sua coda, erano attaccate delle cordicelle che creavano
un cono di fili. Alla base del cono c’era un disco di legno che serviva a mantenere i fili ben distanti. Scendevano perpendicolarmente verso il basso e si legavano a
dei tubicini di ferro vuoti e di differenti grandezze. I tubicini sbattendo tra loro suonavano.
4.
Tin tin tin tin tin...
Il bambino aveva cominciato a muovere velocemente
l’oggetto per sentirne la voce. Scuoteva la cordicella legata alla testa del cavalluccio e immaginava che questo
corresse nell’oceano tra le rocce e gli altri pesci.
Nella stanza accanto la mamma gridava.
100
Tin tin tin tin tin...
Sempre più forte il bambino soffiava delle onde sul suo
amico di legno per farlo cantare a squarciagola. Sapeva
bene che la mamma aveva spesso degli attacchi e che
quelle urla ormai erano soltanto delle macchie alla sua
serenità. Ogni volta erano sempre lancinanti e tristi. Il
bambino soffiava sui bastoncini di ferro per coprire la
voce della mamma con il melodioso suono metallico.
Il padre si occupava della donna cercando di contenere
il panico. Ogni volta con infinito amore.
Tum tum tum tum tum tum...
Il suo cuore in quei momenti batteva all’impazzata, inchiodato nel letto sembrava una mandria di bisonti che
cercava di uscirgli dal petto.
Tin tin tin tin tin tin...
Quella notte il cuore non resse e tra le braccia di suo
marito, del suo migliore amico e del suo amante gli occhi della donna si chiusero per sempre.
Il bambino si addormentò ed il cavalluccio marino, fuori
alla finestra, cantava la voce del vento.
101
CAPITOLO DUE BIS
Ho paura di morire
1.
Sento il mio corpo darmi un piccolo allarme di malattia
e subito mi ricorda che invecchio, che mi indebolisco,
che arriverà anche per me il momento in cui qualcosa
andrà male, in cui non potrò far più quel che voglio per
correre da un ospedale all’altro. Ho paura di morire e di
soffrire ed è come se dentro di me l’avessi già fatto tante volte, ne vedo le immagini e le emozioni, vedo il colore della mia pelle e la fine di ogni cosa. Ho davvero
paura e quando sento il mio corpo sbiancare e raffreddarsi me ne chiedo davvero il perché, sento che ci siam
già passati. Sì, in questa sera magica sento davvero questo ricordo, ne sento i sapori. Le immagini che mi perseguitano riempiono, silenziose, l’aria che mi circonda e
sento un fragilissimo ricordo cercar di aggrapparsi alla
mia coscienza. Sento di perderlo, sento che tra pochi
minuti penserò ad altro, sento che è sottilissimo il limite
di quest’emozione e presto tornerò a sdrammatizzare
come ho fatto dal primo giorno in cui sono nato. Eppure, in questo momento non ho voglia di soffrire e di morire ed è ingiusto. Lo trovo profondamente ingiusto e
crudele. Ho paura di morire e di soffrire e aspetto scrivendo che mi passi.
102
CAPITOLO TRE
L’alieno
1.

Tu padr, trovat m. I son, lontan lontan lontan.
Cavallucci marin. Content ch t si arrivat ogg.
Cavallucci marin, pianet lontan! Ann ann ann i co t,
sempr vicin. Ogg grand moment. I venut sull Terr
pe fecondar ovul d nuov pianet. Sfer co sfer far
nuov sfer. T ha mess man sul nuov sfer tu padr d
nuov sfer. Pe far nuov sfer i avev bisogn d sfer mi
pianet e sfer de tu pianet, i ho passat ann e ann e ann
pe sfer tu pianet. Prim de tu padr i già sull terr. Tant
tant alien s nasconden nel oggett de cas. I guardar e
fecondar. I content de t. T ha mess fuoc a nuov sfer.
Grazi, grazi, i molt content. I partir co nuov pianet, i
partir nel univers, tu venir co m?
Il cavalluccio di legno posato sulla mano dell’uomo aveva parlato muovendo a scatti la sua boccuccia fibrosa.
L’uomo confuso e frastornato lo fissava senza reagire.
 I partir, t venir co m?
 ...
 T venir co m?
 ...
 I partir un, i partir du, i partir tr...
 ...
 Vabbun, i partir! Guard sempr ciel, nuov sfer d
pianet grazi a t viv! Tant sfer nel ciel... tu guardar,
guardar! Cia, stamm bun!
Il cavalluccio era diventato piccolissimo e si era perso
sulla superficie della grande sfera. Questa aveva cominciato a vibrare e, generando tanto calore intorno a sé, si
era allontanata passando attraverso le finestre. Lasciando dietro di sé una scia di luce si era immersa
nell’infinità dell’universo.
103
2.
L’uomo era rimasto qualche minuto immobile a fissare
la finestra, dopo si era guardato intorno, riscoprendo le
pareti di quella camera che lo aveva ospitato per tanti
anni.
 (colpo di tosse) (colpo di tosse) La tisana è pronta
buon uomo!
Come risvegliato da un lunghissimo sogno, uscì dalla
stanza e scese le scale.
 Eh! Il tempo passa per tutti! (colpo di tosse) (colpo
di tosse) (colpo di tosse)
 Sì, è vero. Eppure molte volte sembra davvero non
volersi allontanare. Passa e resta lì avvinghiato ad
ogni centimetro del tuo corpo.
 (colpo di tosse) (colpo di tosse)
La vecchia servì la tisana e versandola nella tazza tossì... nella tazza.
I due bevvero silenziosi e si lasciarono accarezzare dal
calore.
 Grazie mille signora, le sono veramente grato di
avermi dato l’opportunità di rivedere questa casa.
Grazie davvero...
 Di nulla, torni pure quando vuole... (colpo di tosse)
 Buonanotte.
 Buona... (colpo di tosse)... notteL’uomo si incamminò fuori ed i suoi occhi s’immersero
nel cielo abbandonandosi al mistero di tutto quel che esso potesse contenere.
3.
Prima di tornare all’ospedale si diresse verso casa, la
sua nuova casa. Aveva promesso al figlio di passare a
prendere un album con delle foto della sua famiglia e
quel suggestivo ritorno al passato ora lo riempiva di
domande e di melanconia.
104
Sapeva bene che sua madre si era ammalata dopo la sua
nascita, a causa della sua nascita, e che suo padre, il
vecchio pescatore, quella sera non sarebbe mai dovuto
rimanere solo con il nipote. Sarebbe stata soltanto colpa
sua se entrambi i genitori per una ragione o per un’altra
fossero morti. Aveva sempre voluto che il piccolo ne
restasse fuori e aveva sempre agito per proteggerlo da
quell’orribile sentimento che invece aveva marchiato la
sua vita fin dalla nascita. Al bambino non avevano mai
detto nulla d’importante sulla famiglia paterna e soprattutto avevano sempre negato che lui avesse conosciuto
suo nonno.
Nonno Andrea era morto anni prima che il piccolo nascesse, punto.
Adesso, però, sentiva che era arrivato il momento di affrontare il passato, la malattia del figlio lo stava inchiodando nuovamente contro le sue responsabilità e non
voleva rendersi colpevole di un’altra sventura. Voleva
uscire da quel vortice che in un modo o in un altro lo
strozzava da anni trascinandolo sempre ad indossare il
cappuccio del carnefice. Il peso sulla sua schiena lo costringeva a strisciare passo dopo passo e non ce la faceva più.
 Non è colpa mia se sono nato! Non è colpa mia se
sei rimasto solo senza la mamma! Non è colpa mia
se bucammo quella maledettissima ruota! Non
volevo che morissi e avrei fatto di tutto per salvarti!
Non è colpa miaaaa!!!Non è colpa mia! Non è colpa
miaaaaaaaa!!!!
In piedi sul pontile davanti casa, l’uomo urlava al mare
la sua rabbia ed il suo dispiacere. All’orizzonte vedeva
la guarigione di suo figlio e con i denti adesso voleva
remare per toccare il sole.
105
CAPITOLO QUATTRO
L’album
1.
Come un grande albero cavo di cui all’esterno appaiono
soltanto fasci tubolari di corteccia ed un grande vuoto al
centro, così il vecchio camminava passo dopo passo. In
alcuni punti lo sguardo poteva attraversarlo da un lato
all’altro, in altri potevi scorgere il buio dello spazio interiore. Del suo corpo apparivano soltanto alcune delle
parti esteriori. La gamba sinistra era apparentemente
uguale a come era sempre stata, ma se la guardavi da
dietro potevi accorgerti di come era vuota all’interno; la
parte posteriore era stata erosa. Lo stesso valeva per
molte parti del suo corpo.
Il bimbo era dentro di lui e giocava ad arrampicarsi, le
sue piccole mani trovavano appigli solidi sulla dura corteccia interna e con rumorosi sospiri forzava sulle sue
braccia per salire in cima. Il vecchio camminava passo
dopo passo ed il suo esile corpo non sembrava minimamente affaticato dal peso aggiunto.
Mentre i raggi del sole filtravano nelle fessure del viso,
il bimbo appariva nel ventre dell’uomo, le sue mani si
tenevano strette alla solida pelle che assomigliava alle
sbarre di una cella di diversi spessori, con la differenza
che il piccolo non si sentiva minimamente imprigionato.
La spiaggia si distendeva dorata al suolo ed il vecchio
guardava lontano, il suo pensiero si perdeva in quel mare che per anni aveva atteso il suo ritorno. I raggi del sole sfioravano i suoi occhi e lui dolcemente li chiudeva,
le palpebre stringendosi creavano tante piccole rughe
che scorrevano sul suo viso dipingendovi linee e curve.
Le stesse rughe fuoriuscivano dal suo corpo e disegnavano linee nel cielo e sulla sabbia; su quella antica sab-
106
bia che lo aveva visto crescere ed invecchiare, e che per
anni aveva custodito i segreti del suo amore.
Il bimbo arrivò nella testa del vecchio quando ormai il
sole stava tramontando, attraverso piccole fessure riusciva a scorgere il paesaggio ed il gioco di ombre lo divertiva tantissimo. Era molto stanco e mentre l’uomo si
incamminava verso casa, lui si distese sulla sua lingua e
si addormentò.
Il vecchio strinse forte la mandibola sorridendo, gli era
grato di tutto.
2.
Quando al mattino riaprì gli occhi, la mamma era già
sveglia e sul tavolo della piccola camera brillava una
ridente colazione.
 Il dottore mi ha detto che non c’è alcun motivo per
cui non posso regalarti una buonissima colazione,
allora sono corsa al bar che ti piace tanto e l’ho
svaligiato! Buongiorno!
Il ragazzo, non ancora sveglio del tutto, rotolò giù dal
letto e si avventò sui cornetti.
 Sono anche passata a casa e con papà ho preso
l’album di fotografie che avevi chiesto, abbiamo
ritrovato quello in cui ci sono le foto di quando i
nonni erano giovani... vedrai come assomigli al
nonno!
Un cornetto corse via dalla camera spaventato
dall’ingordigia con cui il ragazzo divorava tutto.
 A casa ho anche fatto una lavatrice, steso i panni, e
visto che c’ero ho anche cucinato.
 Vuol dire che a pranzo potrò mangiare cose fatte da
te?
 No, per la fretta ho tutto dimenticato lì! Non puoi
immaginare che mattinata movimentata.
La donna continuò a mitragliarlo di informazioni per
qualche ora, il ragazzo mangiando i cornetti cercava di
107
spingerli con dei movimenti peristaltici verso le orecchie per tapparle.
Sua madre era cambiata, aveva un vestito verde-acqua,
senza maniche, che terminava al ginocchio. Aveva una
collana di perle e una borsetta nera con manico dorato.
Dalle sue tasche fuoriuscivano scontrini.
Quando ormai il tavolo era vuoto il ragazzo la fissò con
gli occhi sbarrati, lei continuava a parlare ed avendo finito le cose da dire adesso stava emettendo suoni senza
senso e sopratutto senza sosta.
 Guardiamo l’album? - la supplicò.
La donna si azzittì, lo guardò e con enorme energia e
gioia gli disse:
 Certo! Chiamo papà!
3.
Il ragazzo aprì l’album e rabbrividì.
Avevano il nonno una parrucca bionda e lui le unghie
rosse. Giocavano in sala, in cucina, in camera, ovunque.
Nelle foto il bimbo era quasi sempre sorridente e il nonno brillante. C’erano sempre loro due, solo loro due, altri che loro due. Il padre aveva custodito quell’album
come un tesoro nel fondo del suo armadio.
Dopo che era morta la moglie il nonno si era rintanato
in casa e non era mai più uscito. Viveva dei suoi ricordi,
per i suoi ricordi e nei suoi ricordi. Il bimbo gli aveva
ridato la vita, lo aveva ringiovanito e stimolato in mille
nuove avventure.
Il ragazzo scorreva le pagine in lacrime, confuso, arrabbiato e allo stesso tempo felice di riscoprire quelle immagini. Era come se quel libro fosse enorme, ogni pagina lo sorprendeva e sconcertava.
 Perché non me lo hai mai fatto vedere, perché?
Ogni singola immagine calzava perfettamente i piedi dei
tantissimi ballerini seduti nel suo animo. Tutti nello
stesso momento si erano alzati e danzavano senza sosta
nelle sue vene e capillari.
108
I tamburi rimbombavano nel suo cervello.
Il padre stringeva la mano della moglie e lo guardava
senza riuscire a dargli risposta.
Guardava quella foto e non riusciva a crederci.
Era bionda, bellissima, aveva gli occhi del padre ed il
suo stesso sorriso.
In quella foto scattata sicuramente quando erano giovani, i suoi nonni riassumevano nella loro immagine
un’intera epoca.
Ma non era questo che interessava, colpiva, terrorizzava
ed esaltava il ragazzo.
La nonna, quella donna mai vista prima era così familiare, così conosciuta. Il suo cuore batteva forte, fortissimo, come se stesse per esplodere.
Farfalle! Il vestito della donna nella foto era pieno di
farfalle, pieno zeppo di vermi trasformati in fate! Ovunque, sul ventre, sulla gonna, sulle spalle, ovunque farfalle di diversi colori. Il ragazzo non capiva, non riusciva a
capire quel che nel suo animo si riassumeva perfettamente ma che restava così difficile da elaborare!
Era la donna più bella che avesse mai visto. No, l’aveva
già vista, ed era bella come allora!
 No! No!
Il ragazzo cominciò a urlare forte.
 Voglio la luce! Ridatemi la luce! Sole!
Urlava fortissimo e si dimenava al suolo in preda alle
convulsioni.
La foto gli cadde sul viso e l’altra metà dell’immagine
che meno lo aveva affascinato gli si rivelò ancora più
mostruosamente spaventosa.
Lui tremava al suolo e le sue urla ormai erano incomprensibili ma il viso del nonno gli si era impresso nel
più profondo dell’animo.
Capiva tutto e non capiva niente, ma per il momento
tremava, terrorizzato dal buio.
Lo stesso buio che da anni lo costringeva ad accendere
le luci prima di dormire, lo stesso che poteva inchiodarlo al suolo nel bel mezzo di una partita di calcetto con
gli amici, il buio di un sole che sparisce anche se è an109
cora lì per tutti gli altri, quel maledetto buio che lo obbligava a prendere pillole ogni giorno e a fare il pazzo
in continuazione. Lo stesso buio che quella sera d’estate
aveva oscurato il cielo portando la pioggia.
Lo stesso buio che il bambino aveva scoperto in mezzo
agli scogli, nel mare. Il buio dal quale il nonno lo aveva
salvato. E il buio in cui il suo amato nonno era stato sotterrato.
4.
La mano del vecchio si teneva stretta a quella del bambino come l’ostrica che si serra disperatamente per proteggere la sua perla. Seppure bagnate e stanche, nulla
poteva più separarle.
Sotto la tenue luce delle stelle il suo corpo sembrava ancora più magro ed esile, ma unito a quello del bambino
sprigionava una vitalità incredibile.
Il cielo era ancora scuro ma lentamente le stelle stavano
sprigionando il giorno.
Ognuna si ingrandiva sempre di più, regalando luce.
Come dei pori che si dilatano fino ad unirsi completamente, il giorno si faceva largo nei bocchettoni
dell’universo.
Il bimbo osservava meravigliato. Il vecchio senza dir
nulla lo asciugava con i suoi lunghissimi capelli, improvvisamente morbidi e caldi, e contemplavano insieme l’alba di quel nuovo giorno.
Il vecchio amava il momento in cui le stelle erano enormi, quando tra l’una e l’altra si intravedevano ancora
i raggi della notte e la luce delle grandi sfere iniziava a
diventare azzurrina. Le stelle sono come dei bocchettoni
che si aprono e si chiudono, di notte sono al minimo
della loro apertura e, pian piano, durante l’alba si ingrandiscono per cedere il posto ad enormi sfere azzurre
così grandi che a noi par di vedere un unico manto uniforme.
110
La pioggia si esauriva sottile e debole e le onde si placavano dolcemente, aprendosi ad un orizzonte infinito.
Il vecchio prese il bimbo per la mano e si diresse verso
casa.
Le loro ombre li seguivano lungo il sentiero, srotolate al
suolo dal sole che sorgeva.
I gabbiani dall’alto si fermarono a guardare.
Le ombre erano invertite. Dietro al vecchio, il bimbo era
disteso con la mano verso l’alto, vuota. Dietro al bimbo,
il vecchio offriva la sua mano al basso, vuota.
Ogni passo le ombre si allungavano sempre di più. Incollate per sempre ai loro piedi ed impigliate eternamente a quegli scogli.
Una perla si adagiò al suolo e cominciò a rotolare tra le
sue pendenze.
111
CAPITOLO CINQUE
Quel giorno
Era il 26 febbraio del 1984, Massimo aveva un anno e
cinque mesi. Era a casa e giocava con il nonno in sala.
Da quando era nato era riuscito a risvegliare in nonno
Andrea dei sentimenti e delle energie che da anni lo avevano abbandonato. I genitori di Massimo spesso erano fuori per lavoro e quindi il nonno aveva avuto
l’occasione di godere a pieno della sua compagnia e si
era lasciato inondare dalla sua vitalità.
Quel giorno pioveva fortissimo ed era tardi. Troppo tardi per riuscire ancora a restare svegli, i genitori sarebbero dovuti tornare, ma dov’erano? Nonno Andrea non
riuscì a resistere ed i suoi occhi si chiusero. Massimo
gattonando colpì una porta e questa si aprì. Pioveva fortissimo e le sue manine scivolavano sulla terra bagnata.
Dopo poco il nonno si svegliò e cominciò a cercare il
piccolo ovunque. Non lo trovava e ciò lo terrorizzò. La
porta era aperta. Il vecchio uomo si precipitò fuori, varcando quella linea che da anni non aveva più oltrepassato. Correva nel fango cercando ovunque. Massimo non
c’era. I lunghi capelli del vecchio erano schiacciati dal
peso della pioggia ed i suoi occhi erano persi nel terrore
di non ritrovare il piccolo. Arrivato vicino agli scogli si
arrampicò goffamente sulle pietre scivolose e sporgendo
gli occhi dall’altro lato vide Massimo cadere nell’acqua.
Senza alcuna esitazione il vecchio si gettò a sua volta.
Le onde si scontravano violente sulle rocce. Nonno Andrea riuscì ad afferrare il piccolo ed a stringerlo forte a
sé. L’aria era gelida, come l’acqua e come il vento che
soffiava su tutto. Spinto dalle onde il vecchio fu scaraventato vicino agli scogli e, imponendo le sue anziane
gambe contro la roccia, riuscì a proteggersi ed a proteggere Massimo. Con immenso sforzo cercò di emergere
ma altre onde lo avvolsero alle spalle. Prima di esser risucchiato dal ritorno dell’acqua, riuscì a posare Massi112
mo in una nicchia fra i sassi abbastanza alta da non esser inondata. Il cielo era scurissimo come l’acqua, come
il vento e come la pioggia. Gli occhi dell’uno erano aggrappati ferocemente agli occhi dell’altro ed i loro corpi
si allontanarono sempre di più. Il piccolo vide il vecchio
perdersi in tante direzioni, riapparire e perdersi ancora.
Quando i genitori arrivarono il bimbo era svenuto per il
freddo e per il nonno era troppo tardi.
Dopo aver visto l’album Massimo migliorò tantissimo,
continuò a scrivere e raccontare di questa relazione particolare con il fantasma di suo nonno ma il suo organismo non reagì mai più con violenza. Adesso ha a sua
volta dei figli e per tutti noi resta totalmente pazzo... ma
siamo infinitamente grati a suo nonno di poter continuare a suonare tutti insieme e di sognare universi lontani e
fantasmi.
113
INDICE
7
Premessa
9
PRIMA PARTE
10
Capitolo primo
17
Capitolo secondo
21
Capitolo secondo bis
23
Capitolo terzo
31
Capitolo quarto
41
Capitolo quinto
62
Capitolo sesto
65
Capitolo settimo
69
Capitolo settimo bis
71
Capitolo settimo tris
72
Capitolo ottavo
75
Capitolo nono
80
Capitolo decimo
84
Capitolo undicesimo
90
Capitolo dodicesimo
93
SECONDA PARTE
94
Capitolo uno
99
Capitolo due
102
Capitolo due bis
103
Capitolo tre
106
Capitolo quattro
112
Capitolo cinque
Stampato in Italia
nel giugno 2010 per conto di
LibertàEdizioni