l`ostrica e la perla
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l`ostrica e la perla
LibertàEdizioni Alessio Pollutri L’OSTRICA E LA PERLA ROMANZO LibertàEdizioni L’OSTRICA E LA PERLA PREMESSA Questo libro è ispirato dalla storia vera di un ragazzo che riuscì a guarire da gravi problemi psichiatrici. È ispirato dai suoi racconti e dalle pagine di un diario che il più delle volte mi hanno lasciato emozionato e frastornato. Con la stessa incapacità di giudizio vi offro questa storia, impregnata di tutta la mia ignoranza scientifica ed esistenziale ma graffiata da una magia poetica che in un modo o nell’altro è riuscita a restituirmi un amico. Alessio Pollutri Ogni riferimento a persone, a divinità o a classi sociali è assolutamente colorato dalle tonalità grottesche e passionali del “luogo comune” popolare. A voi l’indulgenza di accoglierlo con l’occhio critico dell’essere umano. Lo stesso occhio che, guardando avanti, inciampa sul sasso. 7 8 PRIMA PARTE A Massimo... Un vecchio e un bambino si preser per mano e andarono insieme incontro alla sera la polvere rossa si alzava lontano Francesco Guccini, Il vecchio e il bambino 9 CAPITOLO PRIMO Il ragazzo è malato 1. È malatissimum signoram, le ripetos que est terribilmentem malatus! Ancora una volta, la prego! Mi dica cos’ha! Vi scongiuro. Una vecchina camminava lentamente lungo il corridoio, il suo ginocchio sinistro tendeva verosimilmente verso l’interno. No! Le ho detto di no! Guardate il viso della donna che v’implora! Non negategli il conforto d’un avanzo di speranza. Son qui, è vero, e vi supplico a gran voce. Ma l’amore pel mio bimbo mi morde sì feroce! No! Le ho detto di no! Crudele! La vecchina aveva ormai percorso quasi sette mattonelle dal suo risveglio ed il suo ginocchio sinistro toccava effettivamente il suolo, piegato verso l’interno. Aveva un passato misterioso ai più dell’ospedale, ma tutto era conservato in un diario grandissimo, pieno di fogli e foto. Era posato sul piccolo mobile a rotelle vicino al suo letto ed ogni mattina prima di andare al bagno lei lo baciava. Alla sera, quando tornava dal bagno, le donava un altro bacio e dopo essere riuscita ad infilarsi sotto le coperte, a notte fonda, le sue labbra si posavano un’ultima volta sul diario e si addormentava. Oh dotto mio signore, è una mamma che vi prega! Dai, datemi un avanzo di speranza, eh su! Signoram est malatus! Malatus! Malaaaaaaaaaaaaaaaatus! La voce del dottore si soffermò sul tragico peso della vocale. Guardava la signora dall’alto e la sua testa era 10 piegata leggermente in avanti per dare un’intonazione più grave alla voce. La sua mano era protesa verso il soffitto. Dei lampi irruppero dalle finestre. La donna scoppiando in lacrime raccolse la tibia ed il perone della vecchina e brandendoli al crudele misantropo disse: Nooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo! Le sue narici erano dilatate, la sua testa era piegata all’indietro e sul suo collo pendevano collane d’aglio e peperoncino. Le sue vesti erano nere e dalle tasche fuoriuscivano rosari e santini. Insensibile al mio canto, mi dispero, sola, e piango. La zizza che vi amò si secchi di punto in bianco! Che se mai voi avrete un figlio... aaaah... taccia la mia lingua sennò poi faccio un danno. E soltanto Iddio lo sa che vi darei io pe’ malanno! Non sapete voi cos’è il sorriso d’un figliuolo, non sapete voi cos’è custodire ’sto tesoro! Io l’ho avuto in grembo, io l’ho allattato e l’ho cresciuto. E mo’ voi volete negarmi il vostro aiuto? Come potete Come potete? La vecchina intanto si era avvicinata saltellando su un piede alla signora e cercava, goffamente, di riappropriarsi della sua gamba. Alle spalle della donna, cercava di seguire le direzioni del suo slancio ma le sue mani si muovevano troppo rapidamente e la vecchina non riusciva ad afferrarla. Siete un uomo, soltanto un uomo! Non posso chieder tanto, insensibile all’amore e intaccabile al mio pianto! Il dottore si ricompose, sistemò il suo camice ed il suo cappello e guardando freddamente la donna negli occhi le disse: Signoram... io sono stato donna!... Et vostro figlium est malatus! Un grido li interruppe. 11 2. Non c’è più mamma! Non c’è più! Dalla porta vicina il ragazzo si era svegliato e aveva cominciato a sbraitare. Come gocce che da stalattiti scivolano giù nel profondo della grotta, provocando cerchi di risonanza nel gelido lago sotterraneo. Una dopo l’altra, sempre con la stessa cadenza. Calme, ipnotiche. Non c’è più, mamma, non c’è più! Il ragazzo urlava fortissimo, disteso sul letto. È scomparso, l’hanno portato via! Non c’è più, non c’è più! Ogni muscolo si contraeva disperato, era come se tutto il corpo fosse una bocca che urlava. La testa si piegava all’indietro tirando i muscoli del collo e mentre le parole uscivano, alcune più forti ed altre più deboli, la sua schiena si arcuava portando il petto verso l’alto. Tutto è buio! Tutto è buio, tutto è buio! Le gambe si piegavano e si adagiavano ora a destra ora a sinistra. Le sue braccia erano aperte lungo i fianchi ed i polsi forzavano sui cinturini di pelle che lo arginavano. Le sue dita erano contratte, alcune falangi più piegate delle altre e i palmi si muovevano a scatti cambiando le angolazioni. Lascialo! Lascialo! L’hanno preso!... L’hanno spento! Tutto è buio! Le gocce continuavano a piovere una dopo l’altra. L’infermiera finalmente arrivò e fece uscire i genitori, li pregò di attendere fuori. La madre piangeva e non voleva uscire. Il padre cercava di controllarsi e riuscì a portare la moglie nel corridoio. L’infermiera diede uno sguardo al ragazzo che continuava a dimenarsi e le gocce cominciarono a scendere più velocemente, come un esercito di piccoli bersaglieri che corrono uno dopo l’altro. Sole!... No... mamma... no!Tutto è buio! 12 C’erano delle onde, c’era dell’acqua, c’erano delle gocce che lo travolgevano. La pioggia, anche la pioggia è fatta di gocce e anche la pioggia lo colpiva. Il corpo del ragazzo si dimenava senza tregua, sotto la pioggia. Le gocce del calmante continuavano ostinate a varcare il fronte, infinite. Le sue parole diventavano dei mugugni, ed i respiri sempre più dei sospiri. Il suo corpo si abbandonò al suolo. La sabbia bagnata gli si attaccava al viso. Non sentiva dolore, soltanto voglia di dormire. I cinturini si adagiarono sul letto. Le gocce continuarono a colpirlo. L’infermiera gli fece un prelievo e fece rientrare i genitori. 3. Le infermiere nell’ospedale erano selezionate duramente. Gli infermieri non erano selezionati. Alle infermiere era concesso tanto, potevano sbagliare delle dosi, potevano essere scorbutiche e potevano intercambiare i risultati delle analisi tra i pazienti. Ma a nessuna era assolutamente permesso di non essere bionda! Le parrucche erano accettate ma a parità di punteggio sarebbe stata selezionata quella naturalmente dotata. Le infermiere erano tante, così tante che spesso le vedevi occupate nelle faccende più inutili e ti chiedevi: Ma come fanno a fare tutto ciò ed essere anche nelle stanze con i pazienti? In quell’ospedale ce la facevano, o per lo meno di sicuro “tutto ciò” lo facevano. Le infermiere erano fredde e decise con i pazienti e sensibili e passionali con i mariti. Le infermiere non avevano mariti. C’era soltanto un’ossessione per le infermiere, onorare l’antico giuramento d’Ippocrate: 13 “Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per gli dèi tutti e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto: di stimare il mio maestro di questa arte come mio padre e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò quest’arte, se essi desiderano apprenderla; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro. Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte. Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa attività. In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi. Di quanto io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non sia necessario divulgare, ritenendo come un segreto cose simili. E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell’arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro.” Ed il nuovo giuramento deliberato dal comitato centrale FNOMCeO il 23 marzo 2007: 14 “Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, GIURO: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento; di perseguire la difesa della vita, la tutela fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario; di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona; di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico; di promuovere l’ alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e sulla reciproca informazione, nel rispetto e condivisione dei principi a cui si ispira l’arte medica; di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina; di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente alla mia competenza e alle mie doti morali; di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, atti e comportamenti che possano ledere il decoro e la dignità della professione; di rispettare i Colleghi anche in caso di contrasto di opinioni; di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico; di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente; 15 di osservare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato; di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione.” Le infermiere non erano medici e quel giuramento non l’avevano mai fatto. Ma non azzardatevi mai a ricordarglielo. 16 CAPITOLO SECONDO Quel giorno pioveva 1. Un solo forte e vibrante rintocco. La casa di Dio si apriva al suo pianto. Dentro la Chiesa la pioggia filtrava dal tetto usurato e malridotto. Le gocce cadevano a piombo dalle crepe più grandi, altre si insinuavano e strisciavano lungo le pareti, percorrevano le curve, accarezzavano i rilievi e si gettavano nel lago che ormai riempiva le navate. Come dei lividi su di un corpo violentato, macchie d’umidità indebolivano le pareti ed il soffitto. Dall’enorme cupola si scrostavano sorrisi d’angeli e tutti i Santi, chi prima e chi dopo, abbandonavano il cielo per affogare al suolo. Dal basso nulla più emergeva, un’unica lastra uniforme d’acqua ricopriva tutto e si udiva soltanto il frastuono delle gocce che la perforavano. Come dei pugni disperati contro una parete, la pioggia si colpiva senza tregua accusandosi per tutto ciò che stava nascondendo e distruggendo. Il campanile era crollato, quello era stato il suo ultimo rintocco, il suo ultimo grido. La campana era precipitata nella navata centrale ed era affogata in profondità. Schizzi d’acqua avevano ricoperto il viso della Madonna che ne piangeva la morte. Pioveva ininterrottamente da tanto tempo, troppo. Uno dopo l’altro i cavi d’acciaio su cui era aggrappata la croce iniziavano a cedere ed il volto di Gesù era ora rivolto al cielo come se implorasse il Padre per una tregua su quell’ulteriore calice amaro. Un’unica vetrata era ancora intatta e la luce della luna regalava un pallido riflesso di colore. La sola parte illuminata rappresentava una donna vestita di bianco nell’atto di muovere delle palme verdi, il suo cielo era 17 rosso e blu. Dalle altre vetrate distrutte entravano raffiche di vento e nel oscurità sembravano tutte provenire da quella palma verde mossa dalla giovane donna in bianco. Quello stesso vento si insinuava nelle canne del grande organo che spiccavano al di sopra dell’entrata e ne fuoriuscivano fischi gregoriani. Le piccole balconate laterali avevano ceduto ed erano quasi completamente crollate, se ne scorgevano soltanto piccole sporgenze frastagliate. Le navate laterali, avendo il soffitto più basso, erano quasi completamente colme di pioggia e a destra, dove ormai il soffitto non c’era più, il livello dell’acqua era collegato all’esterno e lo sguardo si apriva su un’infinita distesa scura dalla quale saltuariamente si intravedevano spuntare le rovine di un mondo sommerso. Nella navata centrale della Chiesa, sospeso a mezz’aria, il vecchio era immobile. Il suo corpo era nudo ma le sue rughe erano così abbondanti da sembrare pieghe di un abito sgualcito. Era magrissimo e il suo corpo era piccolo ed esile. Il suo volto era scavato dalla pala della sofferenza e dalla sua testa pendevano capelli lunghissimi, più lunghi della sua stessa statura, che sfioravano l’acqua disegnandovi linee e punti. Volteggiava nell’aria, avvolto dall’oscurità e percosso dalla pioggia. Tutte le tensioni del suo corpo erano concentrate sulla mandibola chiusa in una morsa strettissima. I suoi occhi erano aperti e fissavano l’orizzonte attraverso le mura crollate. Sembrava cercare qualcosa, fissava profondamente tutto ciò che sfiorava. La sua testa cominciò a voltarsi a destra e a sinistra, dolcemente, molto lentamente. Guardava tutto, cercava. Osservava in alto e in basso, ovunque e sempre con la stessa intensità. Poco a poco iniziò a muoversi sempre più veloce, in tutte le direzioni, roteava sfruttando tutti gli assi possibili ed in continua accelerazione. Il suo sguardo si fece più vago, vuoto, non fissava più nulla di preciso e si lasciava trasportare dal turbine della testa. I suoi lunghissimi capelli roteavano 18 nell’aria e nel momento in cui sembrava aver raggiunto la sua massima accelerazione, un’ennesima spinta nacque dall’esile collo e la testa si staccò di colpo. Partì velocissima tracciando una diagonale verso l’alto, verso la cupola. Attraversò una grande crepa e si arrestò all’improvviso subito dopo aver raggiunto l’esterno. Il resto del corpo cadde nell’acqua all’interno della Chiesa. All’esterno la pioggia sembrava ancora più forte e violenta, la luna era coperta dalle immense nuvole scure e l’unica luce proveniva dai frequenti lampi che squarciavano il cielo. La testa era leggermente inclinata verso l’alto, i capelli bagnati pendevano disegnando una lunga tonaca bianca. Le sue vecchie e stanche palpebre non riuscivano a muoversi sotto i colpi della pioggia, e la mandibola sembrava non trattenere più la sua stretta morsa. Con immenso sforzo gli occhi si aprirono, il suo sguardo era deciso, coraggioso, sembrava lanciare una sfida al cielo. La sua bocca si spalancò. Dalle sue labbra fuoriuscì lentamente una lunga lingua rossa, viva, protesa verso l’alto, sembrava non finisse mai. Su di essa era adagiato un corpo piccolissimo, disteso in posizione fetale. Era così piccolo da entrare completamente sulla larghezza della sua lingua. Tutto all’improvviso si riempì di giallo. Come se qualcuno avesse lanciato un secchio di vernice gialla su di un quadro già terminato in ogni suo dettaglio. Una vernice particolare, capace di mantenere gli stessi contorni, le stesse figure e gli stessi elementi. La Chiesa era distrutta, la pioggia continuava a cadere forte e violenta, il paesaggio era sommerso nell’acqua, una vecchia testa senza più il suo corpo volteggiava nell’aria e delle immense nuvole riempivano il cielo. Ma tutto era giallo, in tutte le sue sfumature. Il piccolo corpo cominciò a ingrandirsi, la lingua era attaccata al suo ombelico. Era giallo, dorato, con una pelle tesa e luccicante. Continuando a ingrandirsi, non lasciava capire di che sesso fosse, era un essere androgino e non fermava la sua espansione. La sua testa era rotonda 19 e non sembrava avere dei dettagli sul viso, era un corpo essenziale nelle sue linee esteriori e sempre più grande. La pioggia gli rimbalzava addosso come se lo volesse lucidare. Il Vecchio ritirò la lingua e di conseguenza si ritrovò con le labbra posate sul suo ombelico, gli occhi semichiusi. L’enorme essere giallo si ripiegò su se stesso per abbracciare e stringere a sé la testa del Vecchio. Il corpo si richiuse così tanto da nasconderla completamente formando una grande palla gialla. Ogni linea si era fusa con le altre. Come risucchiato in quell’abbraccio, tutto il giallo apparso in precedenza si era concentrato in quell’unica enorme sfera. Lentamente salì nel cielo sciogliendo le nuvole. La Chiesa era distrutta, la Terra era ancora un enorme lago di lacrime ma finalmente la notte era finita, la pioggia lentamente cessò e tutto si riappropriò di un suo proprio colore. Nel cielo, adesso, brillava nuovamente il Sole. 20 CAPITOLO SECONDO BIS L’ispirazione 1. L’Ispirazione è una dea bendata, come la Fortuna. C’è una leggenda mitologico\metropolitana che racconta di un giorno in cui la Fortuna camminando a tentoni in giro per l’Olimpo si scontrò, come spesso accadeva, con qualcuno che passava lì per caso. Quella volta era l’Ispirazione a trovarsi lì. L’Ispirazione era stata bendata da poco, e per lei l’oscurità era ancora un problemone. Era abituata a correre libera come una cavalla selvaggia e da quando Atena l’aveva privata del sole, si era sentita smarrita e perduta per sempre. Bisogna tener presente che Atena non era molto delicata in quel che faceva, ogni giorno tratteneva qualcuno tirandolo per le braccia, per i capelli o per le orecchie. E anche nei suoi bendaggi (pratica che aveva cominciato ad adoperare per imporre un cieco raziocinio) si lasciava andare e bellicose manovre per la sua incapacità di realizzare semplici nodi con il fiocco. Tutto ciò aveva profondamente intimidito l’Ispirazione che piccola e fragile si lasciava violentare da Dionisio tra i cespugli divini. La Fortuna l’aveva scontrata mentre beveva e danzava nell’Olimpo “underground” e per gioco se l’era portata con sé. La Fortuna le aveva insegnato tutto! Aveva dato occhi alle sue mani, alle sue gambe ed al suo ventre. Le aveva ridato la fiducia in se stessa e da allora l’Ispirazione era diventata la sua migliore amica. Giocavano ovunque e riuscivano a vedere cose che agli altri sfuggivano ed a trovar piacere e sorprese lì dove gli altri non andavano a cercare. Come dicono i vecchi: 21 “Se ti lasci abbracciare dall’Ispirazione ti presenterà alla sua amica Fortuna, ma non per questo se incontri la Fortuna ci sarà con lei l’Ispirazione.” (Ciò per dire che la Fortuna continuava anche ad avere una sua vita privata al contrario dell’Ispirazione che era entrata in una relazione ossessiva con la sua amica). 22 CAPITOLO TERZO La Notte 1. Erano dei mezzi stivali di cuoio marrone scuro. Avevano dei lacci cilindrici dal diametro di almeno tre millimetri e colorati con piccole strisce orizzontali marroni e nere. La punta era arrotondata e le cuciture creavano un piccolo bordo in rilievo come nei classici mocassini. La suola era di gomma e sul lato si intravedeva la dentatura tipica degli scarponi da montagna. La suola aveva lo stesso colore globale della scarpa e nella parte anteriore era leggermente curvata verso l’alto. Nella parte posteriore invece c’era un leggero tacco in cui era intagliata la stessa dentatura. La cucitura della punta si biforcava in due linee tratteggiate sui lati. Un filo correva verso l’alto affiancando i fori dei lacci, l’altro scendeva verso il basso fino a toccare la suola, dieci centimetri prima del tallone. Un centimetro di vuoto e poi il filo riemergeva disegnando la forma dell’osso e scomparendo nell’altra metà della scarpa. Le cuciture erano fatte con del filo leggermente più chiaro del resto. Sulla parte alta della scarpa c’era un bordo nero di due centimetri e vicino all’estremità interne sporgevano due gancetti per lato in sui si intrecciavano i lacci prima di annodarsi. Il pantalone del piede destro copriva la parte superiore della scarpa mentre l’altra era resa completamente visibile dalle pieghe del tessuto. La scarpa destra si strusciava su quella di sinistra, come se la volesse accarezzare dolcemente. La suola strofinandosi sulle cuciture provocava dei suoni ruvidi percettibili grazie al silenzio del corridoio. Era notte, la madre stava dormendo nella stanza del ragazzo su una grande sedia allungabile. 23 Il padre era seduto fuori, sulle sedie di plastica e fissava le pareti gialle del corridoio. Aveva il viso rilassato e il suo intero corpo sembrava non pensare a nulla. Soltanto i suoi piedi si muovevano, soltanto loro si prendevano il diritto di sentirsi persi, di muoversi nel vuoto alla ricerca d’aiuto. I piedi si prendevano il diritto di sentirsi in difficoltà, incapaci di adempiere alle proprie responsabilità, ai propri doveri. In quelle carezze le scarpe si liberavano dalla sensazione d’essere colpevoli, chiudevano gli occhi come fanno i bambini sperando che quando li riapriranno tutto sia tornato come prima. Le scarpe si disperavano alla ricerca della via d’uscita, alla ricerca del buon passo da fare; si accartocciavano su se stesse urlando con il loro ruvido pianto il desiderio di volare leggere e di non dover trasportare quei pesanti piedi nel fango di un sentiero piovoso. Tutto il corpo del padre dalla punta dei capelli all’apice esterno dei malleoli era preoccupato e concentrato sul bene del ragazzo. Ma quei piedi... quei piedi avrebbero tanto voluto essere ancora dei figli. 2. Nella stanza vicina, la vecchia era appena tornata dal viaggio ai servizi igienici e, seduta sul suo letto, baciava il diario. Lo stringeva forte nelle mani e nonostante ciò ripetutamente le cadeva sulle gambe a causa del peso. Lei lo riprendeva, passionale e tenace, e continuava a baciarlo. Con la lingua. Gli occhi del padre erano ancora fissi a guardare la parte. In basso, i suoi piedi si strusciavano sempre più veloci, sempre più forte, come in preda ad un irrefrenabile prurito allergico. La Notte passava silenziosa tra i corridoi dell’ospedale, chiudeva le porte delle stanze e spegneva le luci e le televisioni di chi, addormentatosi, le aveva dimenticate accese. La Notte quando passava in pediatria si soffermava a rimboccare le coperte dei bambini, accarezzava i 24 loro visini esausti e li baciava augurandogli la più bella delle notti. Augurava a quei piccoli corpi aggrediti dalla natura matrigna, di riuscire a volare lontano per qualche ora, di riuscire ad abbandonare quel luogo di sofferenza e battaglia per concedersi una notte di serenità e gioco. Gli augurava di tuffarsi in tutto ciò che meritavano e di cui avevano il pieno diritto. Passava la mano sulle loro guance, pregando per la loro guarigione e accarezzandoli gli sussurrava nelle orecchie la più dolce ninna nanna. La Notte era il cognome di un’infermiera. Per predisposizione genetica le era stato assegnato il turno serale e lei, che aveva a cuore la sua missione, aveva cercato in ogni modo di trovare gli aspetti importanti, magici e filosofici, del lavorare all’ospedale mentre tutti dormivano. Appena arrivava salutava le sue colleghe gentilmente e le osservava andare via. Dopodiché si chiudeva nello spogliatoio e indossava il suo camice. Era un lungo camice scuro pieno di stelle fosforescenti. Aveva un lungo cappuccio pieno di brillantini che le si adagiava sulla schiena e sulla testa un grande cappello conico decorato con gli stessi motivi del camice. Indossava una parrucca fosforescente (le avevano assegnato il turno di notte anche a causa di suoi orribili capelli scuri che lei prontamente aveva sostituito con una bella parrucca giallo shocking, faro nell’oscurità) ed impugnava spesso una bacchetta incantata che terminava anch’essa con una grande stella luminosa. Le sue scarpe confluivano in una punta stretta e lunghissima che si arrotolava a “coda di maialino” verso l’alto. Aveva dei tacchi a spillo alti dieci centimetri, fragili e delicati. Era una persona estremamente dolce e premurosa ed era sostenuta e motivata dai suoi forti ideali. Aveva studiato molto per arrivare lì e adesso i suoi pazienti erano la sua sola ragione di vita. 25 3. Quando La Notte entrò nella stanza del ragazzo la mamma russava sulla grande sedia allungabile. Le sue dita snocciolavano macchinalmente i granelli del rosario e dietro di lei un grande poster con la faccia sorridente di Gesù benediva e proteggeva la stanza. Quando La Notte entrò, gli occhi di Gesù la fissarono. All’inizio la dolce infermiera non ci fece caso ma dopo poco, mentre era china ad accarezzare il ragazzo, vide che la grande testa del poster si era ruotata di quasi centottanta gradi per cercar di sbirciare sotto la lunga gonna di stelle. L’infermiera, indignata, lo guardò severa. Gesù arrossendo si ricompose. Dopo un attimo di esitazione, La Notte si rimise a lavoro e si avvicinò alla piccola lampada per spegnerla. Gesù dal suo poster, iniziò a muovere le mani e la bocca per cercar di attirare l’attenzione della donna senza far rumore. Lei non vedendolo posò le sue mani sull’interruttore ed allora Gesù, non potendosi più trattenere, tossì. La crocerossina, sorpresa, si girò e lo guardò ricordandogli che c’era qualcuno che meritava di dormire in quella stanza. Gesù le fece segno di avvicinarsi, facendole capire che doveva assolutamente dirle una cosa: Sorella, la luce di Dio risplenda in questa stanza per scaldare il cuore dei sofferenti. Lo stesso Dio che illumina la stanza è colui che inchioda al letto questo ragazzo. Non ci sarà “faccione sorridente” che potrà ostacolarmi dal mio dovere. Sorella, agli assetati sarà data acqua come ai sofferenti sarà dato il ristoro e la guarigione. Beato questo ragazzo perché di lui è il regno dei cieli. Che il tuo Dio si occupi del suo regno, nell’attesa io onorerò e glorificherò soltanto la mia Missione. I miei ragazzi ed i miei bambini sono troppo giovani per il regno dei cieli. Loro meritano il regno dei 26 prati, il regno del mare e delle montagne ed io farò di tutto per evitare di portarmeli via! Sorella, faccia un po’ quel che vuole, ma la prego di non spegner quella luce. Stai zitto sottospecie di colapasta! Gesù, ferito dagli apprezzamenti poco simpatici dell’infermiera, si chiuse in se stesso mugugnando a bassa voce: Io volevo soltanto aiutarti... L’infermiera, ritrovando la sua dolcezza, spense delicatamente la luce e passò la mano sulla fronte del ragazzo. Come un terremoto che si avvicina il ragazzo cominciò a tremare. 4. Tutto è buio! Tutto è buio! Il ragazzo si era alzato di scatto dal letto ed aveva cominciato a correre in tutte le direzioni. Aveva le braccia rigide lungo i fianchi e nel piccolo spazio della stanza era costretto a correre con piccoli passi che scaricavano il suo peso a destra e a sinistra. Come un pinguino. Aveva gli occhi sbarrati e balzellava sbattendo contro tutto e tutti. La Notte, sorpresa dal risveglio del ragazzo, si rinchiuse nel piccolo bagno adiacente e, fissando lo specchio, parlò a se stessa. Era l’occasione che da anni stava attendendo. Aveva rimboccato coperte dal primo giorno in cui era arrivata in quell’ospedale ed anche se ciò aveva assunto tanta importanza nella sua vita, in cuor suo aveva sempre sperato di veder gli occhi di un suo paziente. Condannata a custodirli sempre in quello stato di morte apparente, La Notte sognava il loro risveglio, la loro resurrezione. Il ragazzo era sveglio e quei rumori che sentiva nascere contro la porta del bagno, dovevano essere senz’altro dovuti alla testa del ragazzo che gli sbatteva contro, inarrestabile nella sua corsetta. 27 Ma come ci si comporta con una persona sveglia? Cosa bisogna fare per essergli d’aiuto e quale aiuto poteva offrirgli?. La Notte, fissandosi solennemente nello specchio, sciolse uno dopo l’altro i bottoni del suo camice. Lo sfilò dai piedi e dopo averlo ripiegato con cura lo posò sulla sedia del bagno. Le stelle brillavano ancora. Allo stesso modo fece con il suo cappello, lo sfilò dai piedi e dopo averlo ripiegato con cura lo posò sopra al camice. Il suo reggiseno e le sue mutande erano bianchissime e ciò la faceva sentire più vicina ai candidi camici delle sue colleghe. Con determinazione si levò la parrucca fosforescente e raccolse un piccolo scrigno dorato che portava sempre con sé e che aveva posato per anni in tutti i bagni dei suoi pazienti, con la speranza di aver l’occasione di aprirlo. Lo aprì e, dopo mistici fumi colorati che ne uscirono, La Notte alzò al cielo una magnifica parrucca bionda. Era fatta con veri capelli biondi di vere donne del nord ed era perfettamente adattabile alla forma del suo cranio. L’aveva fatta forgiare da un vecchio parrucchiere che, dopo aver raccolto capelli per anni, si era ora rinchiuso in una caverna nel bel mezzo delle foreste tra l’inferno e il paradiso e, silenzioso e saggio, tesseva capigliature per pochi eletti. Lei era stata scelta e ciò l’aveva fatta sempre sentire predestinata a qualcosa di grande. Quel momento era arrivato. Indossò i tacchi a spillo ed aprì la porta. 5. Il ragazzo era disteso nel letto e sua madre gli era vicino. Il suo corpo aveva ancora degli spasmi ma il viso era sereno e rilassato. La piccola luce sul tavolino era accesa ed i suoi occhi erano chiusi. In mutande e reggiseno, davanti al letto, La Notte era pietrificata. L’adrenalina, come la pallina di un flipper appena lanciata da un’enorme molla, aveva rimbalzato in ogni an28 golo del suo corpo. Adesso, come se gli fosse stata tolta la corrente all’improvviso, l’adrenalina si era trasformata in lacrime e scivolava sul viso senza più suoni e luci. Come la pallina che scende verso il basso, sfiorando tutte le molle ormai spente e finisce nel mare oscuro che avvolge l’aldilà delle levette del flipper. Pazza scellerata! Non t’azzardar mai più! Esci di qua! Esci!! L’infermiera si voltò di scatto e corse via. I suoi capelli frustarono l’aria e polvere di stelle si depose al suolo. Gesù, dopo un attimo di esitazione, saltò fuori dal poster e corse dietro alla donna. 6. Sul tetto dell’ospedale, La Notte fissava le stelle, sue sole amiche di una vita che non aveva mai avuto senso. Le chiamava a gran voce una per una e le ringraziava, le salutava e le implorava d’aiuto chiedendogli il coraggio di saltare. Anche questa volta, nessuno rispose. Le stelle non l’avevano mai aiutata. Aveva riposto in loro ogni preghiera ed aveva sempre vissuto nella convinzione di essere ascoltata e protetta, ma non era mai stato così. Quella sera aveva ricevuto l’ennesima delusione ed ora, arrabbiata e in lacrime, sentiva l’intera debolezza della sua determinazione. Non riusciva a guardare né in basso né in alto. Il suo sguardo si perdeva dritto davanti a sé e si sentiva svuotare davanti a quel grande orizzonte. Un piccolo punto lontano si stava avvicinando diventando sempre più grande. Era luminoso e brillante come una stella. Quando fu a pochi metri di distanza, La Notte poté scoprirne i lunghi capelli scuri, il meraviglioso sorriso, le ali in cartapesta ed il rotondo vestitino azzurro. Era lei da bambina e volava felice, stella tra le stelle. L’infermiera si ricordò di tutte le feste in cui aveva volato come un fata; di quando all’asilo danzava fra i tanti costumi colorati. Si ricordò di tutti i preparativi che oc29 correva fare per assemblare quel bel costume e di come fosse emozionata nel mostrarsi in quel modo. Si ricordò di come veniva derisa dai suoi compagni e di quel carnevale in cui riempirono il suo meraviglioso costume di orribile schiuma da barba. La sua maledetta bacchetta magica non era servita a niente. Piena di rabbia e di delusione, La Notte esplose in un urlo infuocato che bruciò le ali della piccola fata azzurrina. In bilico sul bordo del precipizio, la bambina che ancora era in lei si gettò nel baratro frantumandosi al suolo in mille pezzetti. La Notte, guardando dritta davanti a sé, si sentì leggera e vuota. Gesù arrivò correndo in quel momento. Scorse l’infermiera sull’orlo e rallentò i suoi passi. Le si avvicinò ed in silenzio le porse la mano. La donna si voltò, ancora avvolta nel fumo, riempì gli occhi di Gesù con il suo sguardo e lentamente distese il braccio tremante. Gesù la tirò dolcemente a sé ed accarezzandole i capelli la prese fra le braccia. La Notte adagiò il viso sulla sua spalla e chiuse gli occhi. 30 CAPITOLO QUARTO La solitudine e la compagnia 1. Posato a un lato corto del divano c’era un piccolo specchio quadrato. Sopra il camino, nella sala, un grande specchio delimitato da una bella cornice settecentesca. Sotto il camino, nello spazio destinato un tempo alla legna e al fuoco, uno specchio quadrato ne chiudeva l’apertura. La grande vetrata era stata sostituita da grandi specchi affinché nessuno sguardo potesse perdersi nell’immensità del mare. Le pareti erano piene di cornici e tutte le cornici erano riempite da specchi. Era seduto sul divano, lo sguardo fisso davanti a sé. Ovunque gli occhi si posassero, degli specchi gli riflettevano il suo presente di pelle avvizzita e lunghi capelli bianchi. Era seduto con la schiena adagiata ai cuscini, composto, con le mani posate sulle gambe piccole e magre. Le sue pupille scorrevano lentamente da destra a sinistra, aggrappate al riflesso della sua immagine. Passava ore ad osservare ogni dettaglio del suo viso, ogni ruga lasciatagli da un passato che aveva smesso di vivere. Nella casa regnava il silenzio più assoluto, un silenzio caratterizzato dalla perenne presenza della pioggia. Il suo respiro gelido era più caldo dell’aria che lo circondava e ciò lo rendeva visibile. Usciva dal naso e dalla bocca e si disperdeva nella stanza. Il suo respiro sfiorava gli specchi e il contatto generava dei suoni. Il vecchio era seduto sul divano immobile, ascoltava la pioggia ed il suo respiro. 31 2. Sui libri è scritto che un pesciolino rinchiuso in una bolla di vetro si senta estremamente solo e che mettendogli uno specchio davanti i suoi livelli ormonali migliorino. I pesci sono estremamente stupidi, il vecchio era estremamente pesce, la stupidità è estremamente vecchia. In ogni angolo della casa pendevano come delle ragnatele le pelli avvizzite del vecchio. Come della mozzarella fondente, la sua pelle si attaccava a qualunque cosa sfiorasse. Si allungava filamentosa seguendo i suoi successivi movimenti e disegnava nella casa la scia del passato. Il suo presente veniva passo dopo passo limitato all’immobilità. Muto come un pesce osservava gli specchi. Il bimbo giocava nella sua culla. Come stoffe lacerate e invecchiate, la pelle decorava anche quella stanza. Ne sfiorò un tratto. Il vecchio, immobile nel salone del piano di sotto, ebbe un brivido. Il bimbo continuò a toccare con le piccole mani delicate il sipario che lo circondava. Gli specchi, solleticati, sorrisero. Per il vecchio la casa iniziava e finiva nella sala, tra i suoi specchi. Ciò nonostante i due piani dell’edificio erano ricolmi del suo passaggio. Il bimbo cominciò a portare dei piccoli pezzi di pelle nella sua bocca, per assaggiare e scoprire. Il vecchio, sorpreso da quelle nuove sensazioni, cominciò a ridere fortissimo. Nel silenzio della casa quelle risate rimbalzarono in tutte le direzioni. Il bimbo, aggrappandosi e dimenandosi, riuscì a uscire dalla sua culla e, come un precoce funambolo, gattonò tra le fila della ragnatela. Sorreggendosi su una, ne mangiava un’altra e pian piano ripulì completamente la stanza. Mentre il piccolo mangiava, dabbasso il vecchio rideva a squarciagola. Più lui rideva, più lui si muoveva e più lui si muoveva, più pelle lasciava nel suo piccolo spazio vitale. 32 Quando il bimbo apparve a quattro zampe giù dalle scale, ormai nel salone non si scorgeva quasi più nulla. Il vecchio giaceva in qualche angolo schiacciato dalle sue risate e dal suo passato. Il bimbo continuava la sua avventura e ad un certo punto, attraverso la fitta matassa i suoi occhioni si intrecciarono a quelli del vecchio. Il solletico cessò come quando è la propria mano a passar una piuma sui piedi. Il bimbo mangiava, il vecchio immobile lo osservava. Il vecchio indietreggiò confuso. Ormai nulla lo separava dal piccolo. Correva veloce toccando più oggetti possibili per tessere una tana. Il bimbo gattonando mangiava tutto. Il vecchio si ritrovò davanti ad uno specchio, faccia al muro. Posò la mano sulla spalla del suo riflesso e ciò lo rassicurò. Vide un altro specchio vicino, lo prese. Un altro non era troppo distante, prese anche quello. In un attimo dispose davanti a sé tantissimi specchi di differenti misure e angolazioni. Posò la mano sui suoi mille riflessi e si sentì pronto per affrontare il bimbo. Lui non tardò ad apparire. Sul suo musetto pendevano brandelli di pelle. Il piccolo ruggì. Il vecchio miagolò. Ma subito dopo si voltò cercando lo sguardo del suo esercito e trovatolo alzò in aria le sue lunghissime unghie trascurate e gettò al bimbo uno sguardo di sfida. Il bimbo rigurgitò della pelle e ciò per il vecchio fu troppo. Si avventò su di lui. Il bimbo si attaccò alla sua esile gamba. Il vecchio si voltò per cercar l’aiuto dei suoi alleati, nessuno si muoveva. Capì di esser stato tradito e si lasciò andare alla disfatta. Ogni volta gli lasciava avere un’ illusione di vittoria e dopo lo sollevava con le sue esili braccia mostrandogli la sua forza nascosta e lui, in alto, rideva felice. Il bimbo mangiò ciò che restava del suo passato e lo guardò, tendendogli il futuro. 33 3. Le gocce cadevano ritmicamente. Dalla vasca fuoriuscivano soltanto i piedi e la testa. Nell’acqua calda il vecchio godeva immensamente. Nonostante ciò lo sgocciolio costante e penetrante del lavandino lo infastidiva. La sua mano si alzò grondante e cadde sulla manopola ancora bollente, chiudendola con tutta la sua forza. Le gocce continuavano a cadere. La vasca era rosa, come le piastrelle che riempivano il pavimento e si arrampicavano sui muri. Le piastrelle sul muro erano disposte come delle piante rampicanti. L’idea era di posizionarle un po’ sfalsate e a differenti altezze. Delle linee che correvano più in alto, altre che si arrestavano prima. L’idea era quella di riprodurre una pianta rampicante, ma i quadrati rosa delle piastrelle ci riuscivano poco. Di certo si faticava a scorgerne la natura selvaggia, ma il risultato estetico era interessante. Il vapore acqueo fuoriusciva dalla vasca come dalla bocca di un vulcano. I piedi spugnosi, sul fresco bordo in ceramica, mettevano in mostra un set di cinque unghie rovinate dal tempo ma decorate dal vecchio con un fortissimo smalto rosso. La sua testa era posata sulla curva ergonomica della vasca. Gli occhi lucenti verso l’alto e le labbra rosse, come le unghie, si aprivano liberando un canto stonato. Era così stonato che la pianta di piastrelle rampicanti si appassì e si riversò all’interno della stanza in curve cadenti. Dell’intonaco si staccò e cadde al suolo. Adesso l’immagine era più realistica e le piastrelle potevano davvero sembrare delle piante appassite. Un design molto barocco. Il vecchio cantava a squarciagola e le sue membra danzavano travolte dal pathos musicale. Le onde assediavano il bagno. All’improvviso, come risucchiata da un turbine, tutta l’acqua confluì nel buco dello scolo ed apparvero delle piccole mani. 34 Con non poco sforzo la testa del bimbo fuoriuscì dallo stesso foro. Guardò il vecchio negli occhi e ruttò. Il bimbo si sedette davanti al vecchio nella vasca. Aveva una parrucca bionda e ogni suo ditino era ornato da un anello con grandi pietre colorate. Il bimbo si voltò verso le piante di piastrelle e le innaffiò con il pomo della doccia. Le piante si rianimarono subito e crebbero belle e forti. L’acqua gli fece così bene che sui rami più grandi nacquero dei frutti. Nel bagno ora pendevano ovunque delle banane in ceramica, delle mele, dell’uva e delle pere. Erano pieni di colori forti e lucenti. I rami arrivavano fino al bimbo e gli porgevano il dono. Lui, disteso nella vasca rosa, snocciolava chicchi d’uva e si lasciava lavare. Il vecchio, continuando a cantare nella vasca ormai vuota, versava brocche d’acqua calda sulla testa del bimbo. L’acqua si apriva scivolando su tutto il corpicino e lui adorava sentirla scorrere sulla sua schiena. Gli procurava dei brividi di piacere e il calore lo inondava completamente. Il vecchio, dopo averlo asciugato, lo portava nel letto ed il bambino, profumato tra lenzuola profumate, si addormentava dopo poco. 4. La sua mano era rugosa e dura come il guscio di un’ostrica, quella del bambino vi era adagiata dentro come una perla. Cullati dalle onde del divano i loro occhi si riposavano e, sui fondali, la mano si contraeva dolcemente proprio come la conchiglia che nell’acqua si apre e socchiude a ritmo della corrente. La perla era piccolina, candida e morbida. Rotolava sui calli dell’ostrica, tra le sue rughe, e si posava nelle sue concavità. Le alghe danzavano intorno e banchi di pesci scorrevano veloci e colorati. I raggi del sole si spezzettavano attraversando l’acqua e una piccola scheggia di luce acca35 rezzò l’anziana crosta sul fondo. L’ostrica si socchiuse sotto il peso di quella mollica di sole e gli occhi si contrassero leggermente. Era da poco passato il momento più caldo della giornata e i due si godevano quel tepore tra i cuscini del loro oceano domestico, mano nella mano. Il sole cominciò a scaldare sempre di più e sui loro corpi assonnati colarono gocce di sudore. L’afa estiva respirava lentamente nella stanza ed i loro corpi cedevano alla forza del calore. Nell’ostrica, sul divano, restarono solamente i loro quattro occhi, tutto il resto era spalmato tra i cuscini. Come una palpebra il mollusco si socchiudeva ritmicamente e, dopo una breve resistenza, anch’esso cedette alla stanchezza, si chiuse completamente e cadde dal divano assonnato. I quattro occhi sgusciarono via e rotolarono, come biglie, sulla sabbia del salone di casa. I loro percorsi si incrociavano e veloci affrontavano le piccole dune per poi correre nelle discese e sfrecciare sorridenti sotto la luminosità di quel pomeriggio d’agosto. L’occhio del bambino sbatté contro il piede d’un tavolino. La sabbia intorno a lui divenne nera ed apparvero delle lacrime silenziose che bagnarono il suolo rendendolo ancora più scuro. Gli occhi del vecchio si avvicinarono saltellando lentamente. La sabbia intorno all’occhio colpito diventava sempre più scura e spuntarono piccolissimi alberi secchi. L’occhio sano del bimbo cercò di avventurarsi alla ricerca d’aiuto ma rimase imprigionato tra i rovi che circondavano gli alberi. Arrivarono anche delle piccolissime iene che lentamente si avvicinavano alle prede ferite. Gli occhi del vecchio osservavano la scena da poco lontano e non riuscirono ad intervenire subito, sorridenti. C’erano le iene, c’erano le spine, c’era l’oscurità ed i rami secchi; arrivarono anche due avvoltoi che si appollaiarono in attesa del boccone e le grida del bambino si mischiavano a quelle dei corvi che gracchiavano nelle caverne di quel bosco scuro. 36 Gli anziani fari di quell’animo commosso cominciarono a svolazzare intorno a quella macchia nera come gabbiani. Soffiarono dolcemente sugli occhi del piccolo portando via la sabbia scura. Le sue grida cessarono sotto quel vento confortevole e le sue labbra si contorsero in smorfie buffissime. Gli occhi del vecchio erano vicini a quelli del bambino e, come spesso accade nei piccoli, il pianto si trasformò in riso. Sugli alberi sbocciarono le foglie più verdi che mai persona narrò. Quando i genitori rientravano i pianti del pomeriggio erano sempre lontani ed i due si facevano trovare in qualche parte della casa felici, ostrica e perla. 5. Ogni volta, sulla soglia di casa, il suo sguardo partiva lontano, troppo lontano. L’orizzonte infinito del mare era come il coltello del più crudele assassino che lentamente tagliava via le croste dalle antiche ferite e scivolava, con apparente precauzione, verso la carne viva. Si inzuppava nel sangue come un biscotto e girava, accarezzando tutti i nervetti. Ogni volta, sulla soglia di casa, il suo sguardo non poteva più staccarsi dall’orizzonte e, con melanconico masochismo, passava le labbra sui bordi di tutte le ferite, accarezzandole una ad una. Era come se tutti i suoi ricordi fossero una corda ingarbugliata dentro il suo corpo con un’estremità legata all’orizzonte. Quando era dentro casa, e la linea combaciava con quella delle pareti vicinissime, la corda restava ad ammuffire nell’umidità del suo organismo, ma quando le porte si aprivano e centimetro dopo centimetro la linea dell’orizzonte si allontanava sempre di più, la corda veniva tesa, si srotolava , si allungava e fuoriusciva con tutte le sue alghe e cozze. Era come una barca che, dopo anni di immobilità nel porto, decide di prendere il largo dimenticandosi di slegare la corda d’attracco. 37 Prima di richiudere la porta il vecchio ritirava a sé la lunga fune ed il suo sguardo ridiscendeva lentamente su terra tornando in casa passo dopo passo. Sulla via del ritorno i suoi occhi si soffermavano sul bimbo che gattonava al di là della soglia domestica. Lo osservava posare le sue piccole mani sull’erba e guardare tutto con delle espressioni buffe e meravigliate. Con immenso sforzo faceva un passo in avanti, oltrepassando la soglia per prendere il piccolo e rientrare in casa. Per tutti ormai era un vegetale domestico, nessuno era a conoscenza di quei passi. 6. Sul divano, sui tavoli e sulle sedie c’erano giornali e libri di cucito. Sul naso del vecchio si adagiavano degli occhialini rotondi e la sua testa era protesa in avanti per leggere e imparare qualcosa da quei testi. Il piccolo pascolava tranquillo per la casa giocando nei suoi mondi immaginari. Le mani del vecchio si agitavano velocemente, le braccia erano posate sulle gambe e tra le sue dita si intrecciavano dei lunghi uncinetti per tessere la lana. Girava le pagine con la lingua e, anche mentre leggeva, le sue mani continuavano a provare e riprovare senza sosta. Solo in alcuni momenti si fermavano, la testa si piegava leggermente su un lato e le mani davano un piccolo colpo secco per staccare il capello e continuare a tessere il maglioncino. Sui giornali, alcune signore intimidivano l’aspirante sarto rivelandogli le difficoltà che si incontrano nel momento in cui si devono tessere le maniche. Il vecchio ebbe un’altra piccola esitazione, tirò via altri capelli e decise di fare un bel gilè per non prendere troppi rischi. Sui cuscini ed al suolo si sparpagliavano i capelli che sfuggivano all’uncinetto e tra giornali, capelli, specchi, fogli di carta e metri srotolabili, il salone era diventato un vero atelier di cucito. Il viso del vecchio era totalmente immerso nella sua opera, la sua lingua era schiac38 ciata tra le labbra nervose fuoriuscendo di poco a lato e i suoi sopraccigli erano contratti verso il basso. I lunghissimi capelli cominciavano a diventare sempre più radi. A fine serata il vecchio afferrò al volo il bambino che casualmente gattonava nei paraggi, lo posò sulla sedia e gli mise addosso il gilè con enorme soddisfazione. Il piccolo lo fissava con uno sguardo spaesato muovendo le piccole braccia ed il vecchio gioiva nel vedere come gli stesse bene il color grigio-chiaro. Sul suo viso spiccava un enorme sorriso e dopo essersi tolto gli occhiali applaudì forte per incitare il suo modello a fare lo stesso. Il piccolo lo imitò ma subito dopo si immobilizzò per far un piccolo rigurgitino sul vestitino nuovo. La testa del vecchio lo guardava felice, il suo cranio era calvo. 7. Fuori pioveva fortissimo ed il vecchio urlava a gran voce. I suoi capelli erano schiacciati al suolo dalla pioggia ma le sue braccia si allungavano a dismisura per cercare. Dal suo esile corpo si erano diramati tantissimi rami, come quelli che da un albero si involano verso il cielo per offrire le foglie al sole. I rami del vecchio si involavano verso il basso e non offrivano nulla a nessuno. Cercavano con affanno nella pioggia. Rovesciavano i sassi, le case, gli alberi, il suolo. Lanciavano tutto all’aria, tutto lontano, cercando senza tregua, instancabilmente. Con la leggerezza con cui ci si libera di un lenzuolo, il vecchio impose le sue tante mani sul terreno ed il tappeto erboso partì lontano, seguito da ogni specie di substrato. Un braccio si lanciò nel mare e cercò fin sotto il letto di Poseidone. Nelle bocche dei pesci e nei fori dei minerali. Niente. La pioggia continuava a cadere verso il basso scontrandosi con le ultime cose che restavano, trovandone sempre di meno. Più il vecchio cercava e più tutto scompariva sotto lo slancio della sua disperazione. 39 La pioggia, non avendo più un suolo su cui posarsi, cadeva a picco verso il basso, poi tornava su e turbinava in varie direzioni prima di risalire e riscendere e girare e risalire ancora. Il vecchio era solo, in mezzo al nero di un mondo privato di qualunque cosa materiale. La pioggia cadeva da tutte le direzioni, il cielo e gli inferi erano stati gettati via. Come se fosse sospeso nel vuoto dell’universo. Lui e la pioggia. Nessuna stella lo circondava, tutto era stato eliminato dalle sue infinite mani. Del bimbo nessuna traccia. Il vecchio si voltò, entrò in una delle gocce di pioggia e cadde con lei. 40 CAPITOLO QUINTO La malattia 1. La bottiglia dell’acqua era nell’angolo in alto a destra del tavolino. Il bicchiere di vetro era affianco alla bottiglia. L’etichetta della bottiglia aveva le informazioni nutrizionali verso l’esterno ed il disegno della montagna innevata accostato al bicchiere di vetro. No! Con uno scatto la sua mano sinistra aveva afferrato la bottiglia e l’aveva girata, ora l’immagine della montagna era di fronte a lui. Al centro del tavolo c’era una confezione di succo di frutta all’ananas, un parallelepipedo verticale in cartone che ne conteneva un litro. Era blu con una scritta bianca sul lato lungo e un’immagine colorata del frutto esotico. Attorno al succo di frutta aveva disposto delle monete da venti centesimi ed aveva creato una circonferenza dorata. Tu devi sederti lì! Il padre seguiva le indicazioni da tante ore e ancora non era stato trovato il suo posto. Non lì, siediti sul letto. Anzi, allungati sul letto. Il ragazzo si era alzato e aveva posizionato un cuscino sulla pancia del padre. La madre aveva aperto la porta per entrare e in questo modo aveva fatto cadere gli asciugamani che erano appesi al lato interno della porta. Attenta! - le aveva gridato il ragazzo. La madre aveva riagganciato gli asciugamani ma subito lui era corso per invertirne la posizione. 41 I genitori si scambiarono uno sguardo pieno d’impotenza. Come sassolini sulla riva di un fiume, gli occhi della madre erano stati levigati e bagnati dalle onde del pianto e si offrivano lucidi allo sguardo del marito. Seduti sul letto si stringevano la mano, si sostenevano vicendevolmente osservando il loro bambino. No! No, tu non devi stare lì, vai vicino alla porta. Papà! Ti avevo detto di sdraiarti. La madre corse fuori dalla stanza. Tutto era accaduto così all’improvviso, lei non riusciva a capire, era sconvolta. 2. Era un tardo pomeriggio estivo, il ragazzo si preparava a partire per la sua vacanza con gli amici. Quando aveva ricevuto la proposta i suoi occhi si erano inondati d’emozione e anche se non rispose subito, tutti capirono che il messaggio gli era arrivato. Qualche giorno dopo aveva timidamente parlato con la madre confidandole la notizia e chiedendole se poteva andare. La madre felicissima aveva acconsentito senza la minima esitazione e si era resa disponibile ad aiutarlo. Prima di partire aveva preso pochissime cose ma le aveva ordinate, disfatte, riordinate, cambiate e riordinate ancora. Aveva catalogato tutto ciò che portava e tutto ciò di cui aveva bisogno, scrivendo con colori differenti quello che era pronto e quello che era ancora da cercare. Era uscito un pomeriggio con la madre per prendere le piccole cose che mancavano e, emozionato, aveva sistemato i nuovi acquisti vicino agli altri già pronti. Il pomeriggio del gran giorno, a casa non c’era nessuno, entrambi i genitori lavoravano. La madre lo aveva salutato al mattino dicendogli che sarebbe passata a prenderlo per portarlo all’autobus dove avrebbe trovato i suoi amici pronti a partire. 42 Aspettando che la madre arrivasse il ragazzo aveva abbassato tutte le persiane e sistemato la sua camera come se la stesse abbandonando per un lunghissimo periodo. Finalmente arrivò il momento in cui il clacson suonò e il ragazzo si precipitò per veder chi fosse. Scendo!! Aveva aperto la porta e subito prima di chiuderla si era ricordato di prendere le chiavi, la madre glielo aveva chiesto. Rientrò, prese le chiavi, uscì e chiuse la porta. Fece girare la serratura. Fuori casa il sole stava tramontando e la luce cominciava a tingersi di sera, il ragazzo cercò l’interruttore per accendere la lampada esterna. Era vicino al campanello di casa e, premendolo, il dito scivolò anche sull’altro interruttore facendolo suonare. Si girò e si diresse verso l’auto che lo attendeva all’ingresso del sentiero ghiaioso. All’improvviso, da dietro la porta chiusa a chiave, qualcuno rispose. Chi è? Il ragazzo fu percosso da un brivido di paura e non riuscì a parlare. La voce dall’altro lato insistette Chi è? Il ragazzo sentì che qualcosa si muoveva dietro la porta e ciò lo spaventò ancora di più, non riusciva a muoversi, era pietrificato. La casa doveva essere perfettamente vuota, la cucina era vuota, la camera dei genitori era vuota, i bagni erano vuoti, non c’era nessuno in quella casa e per nessuna ragione al mondo quella voce aveva diritto di esprimersi. Chi è? Ancora una volta. Non udendo risposta la porta si aprì dopo aver fatto girare una chiave nel senso inverso a quello di poco prima. Brividi gelidi percorsero il ragazzo in ogni angolo del suo corpo. I suoi capelli erano lunghissimi, più lunghi del suo stesso corpo. Era nudo ma le sue rughe erano così abbon43 danti da sembrare pieghe di un abito sgualcito. Era magrissimo ed il suo corpo era piccolo ed esile. Il suo volto era scavato dalla pala della sofferenza. Il vecchio lo guardò fisso negli occhi, il ragazzo non riusciva a distogliere lo sguardo. Come uno di quei fiori notturni che lentamente si schiudono alla sera, le antiche labbra si aprirono nella penombra rossastra. Bianchi, viola ed azzurri petali delicati uscirono dalla sua bocca mentre un rauco e timido canto respirava nelle orecchie del ragazzo immobile. Le mani di ogni parola gli accarezzavano il viso ed il canto divenne sempre più intonato e avvolgente. I petali rossi e soffici. Gli occhi del vecchio erano lucidi, luminosi. I corpi dei due erano immobili, soltanto la bocca del vecchio si muoveva. Tra i due c’era una distanza piena di magnetismo, era come se si conoscessero da sempre ed allo stesso tempo si stessero riscoprendo dopo non essersi quasi mai visti. Delle lacrime scivolarono sulle guance del vecchio rotolando dolcemente tra le pieghe delle rughe. La voce divenne leggermente rimbombante e si dipinse di un corposo riverbero. Le labbra rallentarono il movimento fino a chiudersi del tutto. Petali rossi circondavano i due ed il lontano canto continuava a leccare il ragazzo come la lingua ruvida di una gatta che affettuosamente lava i suoi piccini. Il vecchio gli si avvicinò e lo abbracciò, il ragazzo non oppose la minima resistenza e si strinse a lui. Quando al mattino riaprì gli occhi ci mise del tempo ad accorgersi che era sera. Delle teste, delle voci, tutto era mischiato a delle forti luci che penetravano attraverso le palpebre. Era in vacanza, finalmente al mare, ma era disteso su qualcosa che sembrava essere un letto. Delle persone lo assistevano da vicino. Le braccia gli formicolavano e faticava a muovere le dita. La madre e il padre erano lì in vacanza con lui. C’era anche altra gente che non conosceva, tutti parlavano e sembravano commen44 tare le sue reazioni. La stanza era illuminata, troppo illuminata e nell’odore mancavano il mare, la gioia e le pinete. Sembrava che tutti stessero gridando, i suoni erano forti, le luci erano forti, gli odori erano forti. Il mondo stava gridando con tutti i suoi sensi e a lui dava fastidio, dava terribilmente fastidio. Avrebbe voluto parlare ma non ce la faceva, le parole si spegnevano nei polmoni prima ancora che l’aria potesse prendere una forma. Richiuse gli occhi e si riaddormentò. 3. - Figlio, figlio... mio amato figlio! Quale intruglio ha sedotto il tuo cuor di giglio? Oh figlio, figlio... dov’è il tuo taglio? Ho gli occhi chiusi sul grande abbaglio! Sul tuo letto mi piego oh figlio mio ed il mio cuor cade ed io lo lego, e lui ricade, ed io lo lego, e lui ricade... ed io lo lego... Figlio, figlio... povero agnello, immolato e perso nel suo naviglio! Oh figlio, figlio... tra i denti piglio il mio cuor stretto. Che ti sia faro, oh figlio mio, nel viaggio amaro del nostro addio. Figlio, figlio, dov’è lo sbaglio?! Ascolta il grido del mio sonaglio! Vieni, torna qui, ti prego figlio, torna qui... Percorri, un passo dopo l’altro, il tratturo della tua giovinezza, oh figlio bello, erba buona ti sta attendendo, oh figlio caro. La vacca grassa del tuo destino si secca al sole. Cavalcala figlio mio, cavalcala! Sali in sella alla vacca grassa e corri... dannato Iddio... corri! Figlio, figlio... dov’è il sigillo? Prendete me come bersaglio! E tu sveglio, figlio, sveglio! La madre, levò lo sguardo verso il letto e si accorse che il figlio non c’era più. Lui si era alzato da tempo ed era andato in bagno. 45 4. Davanti alla porta del bagno il ragazzo attendeva che si liberasse. La porta accanto, quella delle donne, si aprì. La vecchia, scricchiolante e cigolante, trascinò le sue ossa fuori dalla stanza. Il ragazzo cominciò ad urlare. Tutti i passanti si fermarono e lo fissarono. Lui, dopo un breve inizio di epilessia, si arrestò riconoscendo l’anziana signora. Le chiedo scusa, signora. Lei emise un respiro, vuoto, rimbombante, facendogli cenno con la mano. Delle mosche uscirono dalla sua bocca. È che spesso mi capita di vedere un vecchio, e mi terrorizza. Il ragazzo dimenticando la voce della sua vescica cominciò lentamente a seguire la vecchia. È da anni che mi capita ed è per questo che son qui. Non ce la faccio più, vorrei tanto andarmene. Ma il buio mi avvolgerà. Il sole se ne va, scompare, si spegne. Le onde lo spengono. Ed il buio mi avvolge, mi stringe la gola. Forte. Due dita della vecchia caddero al suolo emettendo un Do ed un Sol. Non dimenticherò mai la prima volta che lo vidi... 5. Sei il solito sciocco! Gli disse bonariamente la madre stringendolo forte al petto. Lui piangeva fortissimo ed il sangue che usciva dalla gengiva ferita stava sporcando il vestito primaverile della mamma. Dai, sta’ tranquillo il dente ti ricrescerà e se mai un giorno ti rimetterai a correre sui tetti dei treni salta di più, salta in alto, in alto, in alto! 46 Io non ci salgo più sul treno... - disse il piccolo tra un singhiozzo e l’altro. Ora andiamo a casa e vedrai che tutto andrà meglio! No, non voglio andar a casa! Il suo musetto era ancora sporco di sangue ma il volto sembrava aver ripreso sicurezza e determinazione. Qualunque cosa la mamma dicesse in quel momento per lui non andava bene, si voltò ed iniziò a correre nella direzione opposta a quella del piccolo treno in cemento. Il sole stava tramontando e nel parco si iniziavano ad accendere i lampioni seminati tra gli alberi. All’inizio la mamma non lo seguì ma dopo qualche minuto cominciò a cercarlo urlando il suo nome. Nessuno rispondeva, si sentivano soltanto i lontani motori delle auto che si apprestavano ad andar via e le voci degli ultimi giocatori di tennis rimasti sul campo per qualche sfida serale. L’aria era calda e la madre si sentiva tranquilla nella sua ricerca, accarezzata soltanto dalla leggera sensazione di non riuscire mai a fare la cosa giusta. Mentre percorreva il perimetro del laghetto artificiale, sentì dei passi correre velocemente verso di lei, si voltò e il bambino le saltò tra le braccia stringendola forte e chiedendole di tornare a casa. Il bambino si era rinchiuso nel bagno della struttura sportiva per piangere con la bocca insanguinata. Si era guardato allo specchio fissato sopra il lavandino, aveva fatto scorrere dell’acqua e si era pulito la ferita. Aveva spento la luce e ripassando davanti allo specchio aveva visto l’immagine del vecchio. Era corso via. 6. Non dimenticherò mai la seconda volta che lo vidi... Doveva essere lì da qualche parte ma per il momento vagava nel bianco, un’immensa foresta di bianco, un’infinita distesa di neve senza neve. Galleggiava da 47 giorni in un ambiente totalmente bianco, e sentiva spesso la concentrazione indebolirsi e spaventarsi. Ogni suo movimento sembrava inutile, aveva la possibilità di muoversi in tutte le direzioni eppure aveva la sensazione di rimanere sempre nello stesso posto. Non esistevano punti di riferimento ed anche le sue sensazioni personali pian piano si lasciavano inebriare e disorientare. Galleggiava, rotolava, aspettava che accadesse qualcosa nello stesso modo in cui un bambino attende nel ventre materno, senza sapere bene cosa aspettare, senza sapere bene di stare attendendo. Eppure doveva essere lì da qualche parte e questo a lui bastava per continuare ad attendere e cercare. Tutto era vuoto ed il vuoto lo riempiva, come l’aria riempie i polmoni. Entrava negli occhi, nelle orecchie, nel naso e nella bocca. Le sue pupille partirono all’indietro. Mamma dove sono i biscotti? Ah, scusa, sono ancora nella busta, nell’ingresso accanto alla porta Il bambino li aveva afferrati con particolare gioia ed era corso sul divano per prepararsi ad una lunghissima colazione. Era riuscito ad ottenere un giorno di libertà. Aveva chiesto con trepidazione, coraggio e imprudenza di restare un giorno a casa, di non andare a scuola, e la mamma aveva acconsentito. Quella mattinata gli sembrava infinita, nella sua testa aveva già immaginato tantissime cose da fare per approfittare di quelle meravigliose cinque ore. Tanto per cominciare aveva improvvisato un tavolo davanti al televisore ed era pronto a divorare biscotti guardando le avventure di qualche personaggio animato. La mamma gli passò accanto e sorrise osservando la sua gioia. Impugnò la bottiglia del latte e mentre lui continuava a fissare lo schermo, lei gliela rovesciò lentamente sulla testa. Il latte scivolò sul tutto il suo corpo e all’inizio ciò lo fece sussultare ma un attimo dopo, senza rendersene conto, prese anche lui la tazza e se la rovesciò addosso. 48 Dal televisore sgorgò un fiume di latte che lo travolse. Tutti i personaggi del cartone animato gli danzavano intorno rovesciando brocche. Le onde lo travolgevano sbattendolo contro il divano ed il tavolo. Era scivolato nella tazza, fuori pioveva, non lo aveva fatto apposta. Tutto divenne improvvisamente bianco e prima che l’immagine sparisse dai suoi occhi, vide il viso del vecchio riflesso sullo schermo rotto del televisore. Con enorme fatica riuscì a riemergere, fece un grande respiro ed aprì gli occhi. Intorno a lui si ergevano immense montagne che costeggiavano i tre quarti della grande circonferenza del lago. La superficie era calmissima e si percepiva soltanto una leggera corrente che spingeva verso l’unico arco di cerchio, dal quale non spuntavano rocce e che si apriva su un orizzonte infinito di cielo azzurro. Da quell’apertura si udiva un grande frastuono e ciò lasciava immaginare che il lago non arrivasse fino all’orizzonte ma che terminasse prima in una grande cascata. Il vecchio era immerso fino al collo ed i suoi lunghi capelli si aprivano a ventaglio sulla superficie del lago. Fece dei grandi respiri e alzò lo sguardo. In alto, in mezzo al cerchio formato dalle cime delle montagne, c’erano degli alberi sospesi nell’aria.Erano tagliati orizzontalmente a metà e la parte inferiore terminava in tante e differenti radici. Tra una metà e l’altra c’era uno spazio riempito da una grande molla. Grazie a queste molle, le parti superiori degli alberi passavano dall’uno all’altro per prendere differenti sostanze nutritive. Il momento dello scambio era spettacolare ed avveniva quattro volte l’anno. Tra i rami del bosco vivevano delle donne. Erano rannicchiate come dei piccoli uccelli, con i piedi posati sul ramo e le gambe totalmente piegate. Le loro schiene erano dritte e le natiche sfioravano il ramo. Erano immobili e nessuno sa dir da quanto tempo. Le donne erano nude ed avevano dei lunghissimi seni che pendevano giù dai rami oltrepassando di molto la lunghezza dell’intero albero. Dai seni piove49 va del latte che alimentava il lago e la cascata. Quando gli alberi si scambiavano, alcuni volavano più in alto e altri vi passavano sotto, tutto era regolato perfettamente ed i lunghi seni regalavano uno spettacolo meraviglioso. Lo spostamento li faceva tutti oscillare in mille direzioni e il latte fuoriusciva abbondante a causa degli sbalzi di pressione. Il vecchio alzando lo sguardo riuscì soltanto a vedere la fitta pioggia bianca ed i seni da cui fuoriusciva. Piccolissime a causa della distanza, si intravedevano anche le radici. Chiuse gli occhi sotto la dolce pioggia ed assaggiò il latte, era buonissimo. All’improvviso sentì dei respiri, un coro di respiri, un respiro grandissimo, sincronizzato, avvolgente. Un respiro umano come quello delle civette, un respiro umano come quello di un uomo, di una donna o di un bambino. Le donne. Non conosceva il colore dei loro capelli, il loro sguardo, le loro labbra. Nessuno gli aveva detto da dove venissero e perché ora fossero lì. Nessuno gli aveva detto se con loro sarebbe stato possibile parlare, incontrarsi, guardarsi. Nessuno gli aveva detto che avrebbe rincontrato una donna, e lui non voleva incontrare nessuno. Ma sentiva da quegli alberi un richiamo famigliare ed antico. Si lasciò sedurre. In un attimo tutta la speranza che da tempo lasciava invecchiare nelle cantine del suo animo sgorgò dai suoi occhi, dal suo sorriso, dalle sue orecchie. Era una speranza a cui la fermentazione aveva regalato dell’anidride carbonica, come ad un sidro normanno. Non era affatto diventata aceto, aveva soltanto aumentato il suo livello alcolico e la sua pressione. Era stata chiusa con un tappo e lei in silenzio continuava a gridare e pregare nel buio della sua cella di vetro; ogni preghiera, ogni pianto ed ogni grido disperato liberava delle bollicine che salivano verso l’alto e spingevano sul tappo di sughero. Nelle sue orecchie era entrato un meraviglioso respiro, poi un altro, poi un altro ancora. Il prigioniero vedeva la 50 grazia, il naufrago la terra, Adamo sentiva risorgere il respiro di Eva. il tappo esplose fortissimo nell’aria volando lontano. Lì dove le montagne entravano nel latte come biscotti, la roccia era scivolosa e dovette provare diverse volte la salita di piccoli tratti prima di trovare il percorso migliore. Ciò nonostante in breve tempo lo trovò e subito partì carico verso la vetta. Salendo pensava a cosa ci potessero fare quelle donne sui rami, cercava di darsi da solo delle risposte nell’attesa di udire la loro voce. Cercava di ricordarsi come potesse essere lo sguardo di un essere umano e fissava in continuazione uno specchio, non per ricordarsi il suo volto, ma per cercare d’immaginarne altri. Mentre continuava la salita alternando lo sguardo tra le rocce e lo specchio i suoi occhi videro scorrere riflessi di tantissime donne. Si succedevano una dopo l’altra, accavallandosi, coprendosi, sostituendosi. Le sue gambe si fermarono, i suoi occhi si immersero nell’immagine ed i suoi capelli come rami di un salice si aprirono per ricadere un po’ più larghi in modo da inglobare l’oggetto. Quando il viso del vecchio riemerse tra le foglie, era arrivato in cima. Lì l’orizzonte si apriva al cielo, nessun’altra montagna appariva nel campo visivo. Era nel punto più alto di qualunque altra cosa. L’atmosfera che lo circondava era pesante, il cielo era bianco, con sfumature di grigio e rosa e l’aria era densa, le nuvole arrivavano fino a lui circondandolo. Lontano davanti a sé, si intravedevano le ombre degli alberi. Lo specchio gli scivolò dalle mani e il vecchio si mise a correre. La montagna terminava netta con uno strapiombo. In basso si potevano scorgere le sporgenze frastagliate ed il lago di latte era coperto dalle nuvole che lo sovrastavano. Tra lui e il piccolo grappolo di alberi galleggianti c’era il vuoto. Il vento faceva oscillare i lunghissimi seni penzolanti e scuoteva le foglie. Il vecchio senza riflettere un istante 51 mosse il primo passo nel vuoto, seguito da un secondo, da un terzo e da un quarto. Ogni passo si spostava in livelli differenti come se ci fossero degli scalini invisibili, come se potesse sfruttare lo spessore, la densità e la morbidezza dell’aria. Ogni passo veniva ammortizzato lentamente verso il basso per poi risalire. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé e si abbandonava a questa danza con la stessa naturalezza con cui avrebbe camminato su una strada sterrata. Quando arrivò vicino agli alberi il suo cuore batteva forte e i suoi capelli mossi dal vento si intrecciavano alle foglie. Con le mani afferrò il ramo più vicino, vi si aggrappò e dopo essersi seduto cercò il modo per farsi largo. I rami erano molto grandi e quasi tutti offrivano la possibilità di sostenere del peso. Cercò di spostare delle foglie che lo intralciavano e la sua mano si arrestò all’improvviso al contatto con un corpo solido, morbido e caldo. Ovunque posava lo sguardo scovava delle piccole donne rannicchiate sui rami, tantissime, dappertutto, chi più vicina, chi più lontana. Si voltò verso il corpo che aveva sfiorato e ne incrociò lo sguardo. I loro occhi erano dolci, senza alcuna pretesa, senza alcuna aggressione. Le foglie dei rami bianchissime, come il latte e come il cielo, risaltavano sulla loro tenera pelle rosa. Il vecchio esitava, confuso, sulla soglia della tenerezza. Le sue secche rughe solitarie, come una vecchia spugna gettata nell’acqua, assorbivano ogni atomo di ciò che stava osservando riempiendo delicatamente ogni singolo microscopico poro della sua pelle. Si sentiva sempre più morbido e disteso ma non azzardava un passo per paura di spaccarsi, come solo una vecchia spugna secca riesce a fare. Una mano gli sfiorò il viso, si posò sulla sua guancia, il vecchio chiuse gli occhi. Sul suo corpo cominciò a sentire il contatto di altre mani, una di loro lo strinse a sé. La testa posata sul petto della donna si scioglieva al suono del suo cuore, ogni 52 battito lo inondava e gli echeggiava nel vuoto dell’animo. La donna lo prese fra le braccia e dolcemente lo passò a un’altra che le stava vicino, anche lei lo passò a un’altra e così fecero tutte. Il vecchio sorrideva e ad occhi aperti assaporava ogni passaggio. Quando lo cominciarono a lanciare più in alto rideva, respirava, si apriva, godeva. I suoi lunghi capelli bianchi volteggiavano nell’aria ed il suo esile corpo rinvigoriva ad ogni contatto. Infine esausto sprofondò fra le mille braccia. Una delle donne avvolse intorno alle sue spalle il lunghissimo, giovane ed abbondante seno e ne posò sulle labbra del vecchio la nutriente estremità. La sua bocca si socchiuse sul dono e ne estrasse il succo. Il vecchio succhiava e lasciava che il latte lo riempisse. Come fili di seta il liquido usciva dal pozzo e scivolando nelle sue viscere cuciva intorno ad ogni organo un nuovo abito candido. Ogni volta che le sue guance rientravano aspirando, schizzi di vernice disegnavano sulla volta del suo palato il più meraviglioso dei dipinti. All’interno di questa Chiesa immacolata il filo bianco cominciò a muoversi in ogni direzione, senza più sprofondare nello stomaco. Divenne qualcosa di più corposo e materiale. Strisciava sulla lingua del vecchio invitandola a danzare. Lui aprì gli occhi e vide il viso della donna a pochi centimetri dal suo, le loro labbra si toccavano mentre le braccia incominciarono a cercarsi prima delicate poi forti e passionali. Il vecchio strinse a sé il corpo della donna ed il suo cuore ora bussava contro il suo petto. Ad un battito rispondeva l’altro e il dialogo divenne sempre più forte, sempre più veloce. Il vecchio le accarezzava il viso, i capelli, le braccia, le spalle e le loro bocche rimanevano vicine. Gli occhi dell’uno perforavano con mille aghi gli occhi dell’altro ed i loro corpi erano avvolti nei bianchi capelli del vecchio. Scivolando lungo le braccia la sua mano si strinse a quella della donna. Il cuore della donna esplose in milioni di farfalle che volarono in ogni direzione ed il 53 rosso del sangue si impresse all’istante sulle foglie bianche degli alberi. Il vecchio era immobile, inginocchiato su un robusto ramo. Tra i capelli e nelle mani soltanto delle foglie rosse. Il vecchio soffiò. Soffiò forte sulle mani, soffiò forte tra i tanti rami, in alto ed in basso, soffiò fino a svuotarsi completamente ed accasciarsi esausto. Mentre lui riposava le rosse foglie volavano via dai rami lasciando gli alberi nudi ed il vecchio solo. Al suo risveglio il cielo era rosso, dipinto dalle foglie che lo avevano percorso, e intorno a sé soltanto desolazione. Le donne erano ancora tutte lì, secche come i rami e immobili come l’aria. La loro pelle rosa era sparita lasciando posto a delle corazze di pietra. Il vecchio gridò forte nell’orecchio di ognuna senza avere la minima risposta. A quel punto una dopo l’altra le scaraventò con rabbia giù dall’albero. Le donne pietrificate cadevano roteando sui vari assi ma senza modificare minimamente la loro posizione. Sprofondavano nel lago di latte dipinto di rosso dalle foglie che vi si erano depositate. Seduto su un ramo il vecchio cominciò a piangere. Le sue lacrime scivolavano giù nel lago e come un fiume ridavano movimento al latte ormai stagno. Le foglie roteavano l’una contro l’altra e come un’immensa folla si avvicinavano alla cascata spinte dalla corrente. Le lacrime scorrevano in piena disegnando nel cielo un percorso pieno di curve e tornanti. Nel lago il colore si trasformava come ne mutava la densità. Il rosso ed il bianco cedevano il posto ad un acqua cristallina. Il vecchio era abituato alla solitudine, ciò nonostante il pianto era inarrestabile. Si alzò in piedi sul ramo e spingendo sulle sue esili gambe saltò nel vuoto. Il ramo secco si spezzò sulla spinta. Il vecchio aprì le braccia e come un angelo in caduta libera percorse i tantissimi metri che lo separavano al la- 54 go lasciandosi graffiare dall’aria che invano cercava di trattenerlo. Quando sprofondò ormai il latte si era completamente disperso e sul fondale si intravedevano le statue femminili ancora immobili. Il cielo era azzurro dipinto dal fiume di lacrime cristalline che lo percorreva. Il vecchio nuotò in profondità per scambiare un ultimo sguardo con la donna. Poi riemerse e disteso sulla superficie si lasciò trasportare dalla corrente verso la cascata. Prima di cadere alzò lo sguardo verso gli alberi e li vide svolazzare nell’aria, secchi. Le molle li stavano spingendo per il loro ciclo nutrizionale. Non c’erano più foglie né seni che penzolavano ma lo spettacolo era sempre grande. Quando fu travolto dalla cascata il frastuono era enorme e perse ogni cognizione fisica. Con grande fatica, il bimbo si trascinò tra gli scogli e, sfinito, si accasciò sul sentiero sabbioso. Alzò subito gli occhi alla cascata e vide che le montagne disegnavano la forma di un occhio gigante che piangeva. 7. Non dimenticherò mai la terza volta che lo vidi... Prima di poter cominciar a parlare, il ragazzo si voltò e vide che la vecchina era seduta sul letto, la lingua spalmata sul suo diario. Indignato si alzò e se ne andò, Era notte fonda nell’ospedale. Nei corridoi brillavano le luci di emergenza. Il ragazzo si fermò un istante a contemplare la costellazione “Exit” e dopo lasciò i suoi occhi impregnarsi delle sette luci della “Grande Toilette”. Continuò a camminare e, uscendo dal segno di “Andrologia”, evitò le luci cadenti della nebulosa “Radiologia”. In breve tempo si rese conto di essersi perso e con affanno cercò le luci di 55 “Medicina Interna”. Dopo averle trovate scese con lo sguardo verso il basso, fino ad incontrare la luce di “Ufficio informazioni”. A quel punto percorse una traiettoria verso sinistra e si imbatté nel cero splendente della “Madonnina da ospedale”, quello doveva essere il Nord. Aprì le sue braccia perpendicolarmente e davanti a sé individuò l’Est. “Psichiatria” sarebbe sorta da lì. Non gli restava che attendere. Suo padre, seduto su una sedia di plastica lungo i corridoi, fissava la parete gialla dell’ospedale. Le luci di emergenza erano molto deboli e intorno a loro si creavano nuvole d’oscurità. Il ragazzo cercava di non vederle. Allo stesso tempo però, ne era terribilmente attratto. Voleva cercar di capire, cercar di affrontarle. Le guardava, le sfiorava con le dita e provava a scovarne la malvagità. Dopo poco indietreggiava spaventato. Iniziava a sentire il rumore del mare, le onde, le grida, il sale. Nella sua bocca c’era tanto sale. Quanto è grande il mare, papà? Tanto, è grandissimo. È così grande che non ne vedi la fine. Ma se corro veloce veloce veloce finisce prima o poi? Sì, anche se non la vedi, c’è sempre una nuova terra al di là del mare. Spesso è molto, molto lontana, ma è lì dopo quella linea dritta vicino al sole. E tocco anche il sole se arrivo laggiù? Sì, poi però ti bruci tutto e devi ritornare nell’acqua per spegnerti! E come mi spengo? Così! Con un movimento brusco il padre aveva fatto ribaltare la piccola canoa nell’acqua e urlando e ridendo si schizzavano a vicenda. Era da poco spuntato il sole all’orizzonte e come ogni mattina d’estate i due si erano svegliati prestissimo per correre sul piccolo pontile davanti casa, saltare sulla canoa e remare in un mare che ancora riposava. 56 Il loro viaggio non durava molto, spesso era solo l’occasione per svegliarsi con un bel bagno fresco e poi tornare a casa per far colazione con la mamma; ma per il piccolo era il momento più bello della giornata. Il pontile era affiancato a destra ed a sinistra da una piccola scogliera artificiale ed al di là di questa c’era la sabbia solcata da ciuffi d’erba secca e pungente. L’acqua era sempre cristallina e si intravedevano banchi di pesci piccolissimi nuotare veloce in ogni direzione. Una mattina il piccolo si svegliò e corse verso il pontile per aspettare il padre. Fuori era ancora tutto buio e il sole sembrava non aver nessuna intenzione di svegliarsi. Spaventato dall’oscurità era corso dentro casa e si era precipitato nella stanza dei genitori per svegliarli. Nel letto non c’era nessuno, le coperte erano ordinate e distese come se fossero state appena rimboccate. Dovevano essere già svegli. Il piccolo era corso in camera sua ed anche lì il letto era in ordine come se nessuno ci avesse dormito più da tempo. Nella cucina non c’era nessuno, nessuna traccia di un passaggio, nessun segno di una colazione. Le tazze, i bicchieri ed i piatti erano negli scaffali. I biscotti erano spariti. Il rubinetto era chiuso e le manopole sembravano incrostate come se non fossero state mosse per tanto tempo. Nel garage non c’era nessuno, nessuna auto, nessuna bicicletta, soltanto vecchi arnesi da lavoro gettati qua e là in maniera disordinata. Era un disordine ormai svuotato della passione che l’aveva generato. Non c’erano tracce di lavori recenti. Erano sparsi al suolo e sul tavolo, come se fossero in posa, immortalati in un museo ove si cerchi di riprodurre il lavoro delle antiche botteghe. Il bambino aveva sentito un rumore d’acqua, uno scarico, una doccia, un rumore che poteva benissimo provenire dal bagno. Era corso in casa, aveva spalancato la porta e non aveva trovato nessuno. Tutto era pulito e ordinato e l’acqua sembrava non scorrervi da tempo. 57 Era sceso nel salone e dalla grande vetrata aveva scorto la pioggia che all’esterno cadeva fortissima. I suoi occhi si erano riempiti di speranza e aveva fatto uno scatto improvviso verso la porta d’ingresso, verso il pontile. La sabbia era morbida, l’erba era schiacciata dalla pioggia e non pungeva più i piedi. Il mare era mosso, grandi onde si scontravano sugli scogli e schizzi d’acqua si alzavano verso il cielo, andando contro la pioggia che cadeva. Ribelli. Non c’era più nulla legato al pontile, nessuna traccia della canoa. Il bambino non era riuscito più a trattenersi ed era scoppiato in lacrime. La casa era una piccola costruzione indipendente a qualche chilometro da un villaggio di pescatori. Era vicinissima al mare ed era collegata ad una grande strada grazie a un piccolo viottolo di ghiaia che partendo dalla cantina si inoltrava in una fitta pineta. Era un edificio in mura bianche, con le finestre dipinte di verde. Un unico blocco suddiviso su due piani più una piccola costruzione adiacente trasformata in cantina. Una grande vetrata riempiva quasi completamente la facciata del primo piano offrendo alla sala una magnifica visuale. Quando al mattino il sole si svegliava la sala era la prima a riempirsi della sua luce che riflettendosi sui vari oggetti creava morbide ombre. Il pavimento manifestava il suo caldo color sabbia e tutto ciò cullava delle meravigliose colazioni. Il bambino piangeva sotto la forte pioggia, incapace di far qualsiasi altra cosa, solo, pietrificato. Si distese al suolo raggomitolandosi per combattere il freddo. I suoi capelli erano lunghissimi, più lunghi del suo stesso corpo. Era nudo ma le sue rughe erano così abbondanti da sembrare pieghe di un abito sgualcito. Era magrissimo ed il suo corpo era piccolo ed esile. Il suo volto era scavato dalla pala della sofferenza. Quando le luci di “Psichiatria” sorsero, il suo corpo giaceva ancora al suolo. 58 8. Il ragazzo camminava per il suo paese senza rivolgere la parola a nessuno, il suo sguardo era fisso davanti a sé e sembrava immerso in angoscianti pensieri. La sua testa si voltava a destra e a sinistra senza tregua, come se si volesse liberare di qualcosa che gli oscurava la vista. Da tempo si era isolato respingendo ogni mano che gli si era protesa in aiuto. Camminava senza destinazioni precise a tutte le ore. Era impossibile da avvicinare ed i suoi amici lo guardarono con tristezza, poi con compassione e dopo ancora iniziarono a ridere di lui per sdrammatizzare e mettere a tacere per sempre quella vocina stridula che la sua visione accendeva. Sembrava essere un corpo vuoto che camminava ed era orribile e angosciante assaporare le debolezze del cervello umano, quando lo vedevi sentivi dentro di essere una macchina vulnerabile e schifosamente alla mercé di tutto quel che ti circondava. Tra i cespugli, sui marciapiedi, compariva il viso incavo del vecchio. Il suo volto era inespressivo, si limitava a sbucare dietro ogni angolo e sotto ogni cosa. Appariva e spariva come una maschera, a volte velocemente altre volte un po’ più piano. Il ragazzo camminava e cercava con lo sguardo di evitare quel viso, ma ovunque lui si nascondesse il vecchio lo raggiungeva e il suo sguardo gli riempiva gli occhi. Spesso il ragazzo cominciava a correr, altre volte lo trovavi raggomitolato su se stesso che piangeva. Ma per tutti era davvero difficile giustificarlo ed in breve tempo ci si abituò alla sue pazzie. Si srotolarono dei mesi e degli anni lungo il cammino dell’impotenza ma l’abitudine non riuscì mai a strozzare la speranza che avvolgeva e nutriva i suoi genitori. I suoi momenti di lucidità erano così sinceri e profondi da non sembrare affatto semplice scintille di una brace pronta a spegnersi. 59 9. Mentre versava il the tutti la osservavano attendendo di capire il motivo di quell’incontro. Il the scendeva lentamente, molto lentamente e nella sua testa cercavano di comporsi le parole giuste per riuscire a esprimere la sua umile richiesta. Il the continuava a scendere lentamente, ma non così tanto da esitare a riempire la tazzina e a strabordare da questa mentre la mano della donna continuava a fissare il liquido con il contenitore inclinato in avanti. I ragazzi restarono impassibili e il marito posò la mano su quella della moglie e la guidò verso il basso affinché potesse posare le teiera. Vi prego di scusarmi, vi scongiuro di lasciar posar queste parole su di voi senza soffiarle subito via. Non avrei mai pensato di dover arrivare a tanto, ma siete la mia ultima speranza. Ricordo il giorno in cui festeggiavamo i suoi compleanni, voi eravate tutti lì, con i visi sporchi di pomodoro e le mani sporche della terra su cui rotolavate. Ricordo i giorni in cui qualcuno di voi veniva a citofonare e poi risuonava ancora ed ancora, per ogni cosa un citofono, un grido, una scampanata, una corsa. Ricordo le porte che si aprivano e chiudevano, voi che entravate, ricordo la gioia che mi dava vedervi insieme, ricordo come era stancante starvi dietro e come spesso avrei gridato per farvi tacere tutti. Mi manca ognuna delle vostre voci e cerco quella di mio figlio nelle vostre orecchie... D’inverno lo vedevo a volte solo in casa, davanti al televisore, le luci spente e la pioggia che picchiava alle finestre, bastava una vostra telefonata e tutto si colorava, la sua voce scorreva veloce e lui scappava nella sua stanza per non farsi sentire. C’erano tanti segreti, tante avventure, tanto movimento, dov’è ora? Vi prego scusatemi!... Non so più che fare, non so più dov’è! La donna si alzò dalla sedia, il suo sguardo non si era mai allontanato dalla tazzina del the, si diresse verso 60 l’ingresso, aprì la porta e cominciò a suonare il campanello. Sempre più veloce e forte. Suonate, vi prego, venite, citofonate, correte! Suonate, suonate, suonate, suonate! Il suo viso si riempì di lacrime e adagiò la testa sulla porta continuando a suonare meccanicamente il campanello. I ragazzi si scambiavano delle occhiate imbarazzate ed ognuno ripercorreva nella sua memoria quelle giornate, quei colori e quelle emozioni. Quando la madre riuscì a calmarsi tutti parlarono e la tavola si riempì di proposte e possibilità. Prima di separarsi decisero di organizzare una vacanza tutti insieme e promisero di parlare con il ragazzo non appena lo avessero incontrato, cercando in lui uno spiraglio di lucidità. Come a noi crudelmente è noto, quella partenza non avvenne mai e l’evento lo portò soltanto ad immergersi in una crisi più acuta che lo condusse nell’ospedale dove questa storia troverà epilogo. 61 CAPITOLO SESTO Trasformismo 1. La prima volta che passò non se ne rese conto, era seguito dal suo gruppo di specializzandi ed era troppo occupato a compiacersi del suo prestigio per posare gli occhi sulla gente. Ma ciò nonostante qualcosa lo invogliò a ripassare vicino a quella sala d’attesa, qualcosa si era inconsciamente registrato sulla sua retina e sentiva il bisogno di capire di cosa si trattasse. Et ripetetes meco: Ego medicum es, tu medicum es, lui malatus est, nosotros medicis siam, vosotros malatis siet, loro malatis sont. Senza accorgersene iniziò a girare intorno a quella stanza gettando rapidi sguardi all’interno. L’unicum et solo splendor vitae salutem est. Più continuava a girare intorno a quell’unica sala e più specializzandi si allontanavano. In breve tempo la scia si dileguò ed il dottore si ritrovò da solo a girare in tondo. La sua natura iraconda e permalosa lo avrebbe, normalmente, costretto a richiamare a sé quella massa di puerili esempi della deboscia generazionale. Ma quel giorno qualcosa di più importante aveva catturato tutte le sue attenzioni e girava, sempre più veloce, intorno a quella sala. Gettava rapidi sguardi nell’unica vetrata vicino alla porta d’accesso e da lì riusciva a scorgere cosa ci fosse all’interno. Non si permetteva di soffermarsi ad osservare per non donare minimamente l’immagine del dottore perdigiorno, eppure sentiva una voglia irrefrenabile di farlo e richiamando a sé rimasugli ancestrali d’impertinenza piantò i suoi piedi davanti alla vetrata e spiaccicò il viso sulla parete per lottare contro la sua miopia e riuscire a veder qualcosa. 62 2. I suoi occhi fecero il giro di tutte le sedie, si soffermarono sui dettagli approssimativi di ogni paziente seduto ad attendere, osservarono i loro comportamenti stressati ed il loro modo di reagire di fronte ai differenti sintomi e poi all’improvviso il dottore riprese la sua corsa. I suoi passi erano ancora più veloce e continuavano a percorrere il perimetro di quelle mura. L’aveva vista, era lì, seduta. Che brutta che era. Oddio, oddio. Correva. Il pavimento cominciò lentamente a consumarsi e adesso, quando passava vicino alla vetrata, doveva spingersi sulle punte dei piedi per vedere meglio. Ma ci riusciva, eccome se ci riusciva. Lei era ancora lì, con tutto il suo gonfiore grasso e cortisonico che traboccava da tutti i lati. Via. La sua corsa era come una marcia rapidissima, cercava in ogni modo di conservare un certo contegno anche se i pochi capelli ormai schizzavano in tutte le direzioni ed il colletto della camicia fuoriusciva leggermente da un lato del camice. I sentimenti dentro il suo corpo si mescolavano e in breve gli si diffuse nell’animo un vapore di compassione. Ciò lo costrinse a tossire. Reagiva sempre così di fronte a quell’emozione. Strisciando al suolo si trascinò fino alla porta e l’aprì. 3. Lei era seduta a poche sedie di distanza da lui. Lui tossiva senza contegno piegato dai dolori polmonari. Aveva degli orecchini grandi e pacchiani da signora aristocratica, le sue guance erano paffute e ogni centimetro del suo corpo parlava di squilibri ormonali. Aveva dei seni abbondanti che le colavano sulla pancia e il cranio era avvolto da una cuffietta verde, in lattice. Aveva le 63 dita piene di anelli e lo sguardo estremamente melanconico e triste. Emanava un odore particolarissimo che ti portava a prender le distanze, ma non era affatto puzza. La sua aura era pesantissima ed era difficilissimo starle vicino. Il dottore, tossendo al suo fianco, aveva subito riconosciuto in lei tutto ciò che per anni lo aveva terrorizzato e che conosceva benissimo. I lineamenti del suo viso erano troppo squadrati e dietro quegli occhi scorgeva le cascate irruente di uno spirito ribelle costretto a piegarsi e soffrire. Conosceva benissimo il dolore allucinante che avvolge la testa quando la si costringe a indossare una parrucca, una parrucca vera. Tutto tira tantissimo e la testa impazzisce, fa malissimo e gli antidolorifici diventano il pane quotidiano. Conosceva benissimo quella cuffietta che ci si pone sul cranio per farlo riposare, inutilmente, e conosceva benissimo tutti i rischi e le controindicazioni che possono incontrarsi dopo quelle operazioni, dopo che con estremo coraggio si decide di cambiare sesso. Era allucinante il contrasto che nasceva nell’incontro di un animo così deciso e di un corpo che non l’ha seguito fino in fondo. Quel signore ora era diventato una donna a tutti gli effetti, ma a che costo! L’animo del dottore era in subbuglio e la tosse aumentava sempre di più, con estrema fatica si avvicinò centimetro dopo centimetro alla signora, la tosse era inarrestabile e fortissima, posò la sua mano sulla spalla di lei e con uno sforzo sovrumano disse: Tutto benem signoram? Senza riuscire ad attendere una risposta svenne sulle sue gambe. 64 CAPITOLO SETTIMO Dottor Savio Curam 1. Il suo vero nome era Chiara del Prato, era nata in un paesino di montagna da una famiglia di pastori e produttori di formaggi. Fin da piccola aveva mostrato interessi nei confronti dell’organismo animale e di come poterlo curare nei momenti di debolezza. Amava passare il suo tempo nelle stalle delle mucche ed era affascinata da come riuscissero a trasformare l’erba e il fieno in quel latte buonissimo che ogni mattina versava magicamente in un secchio di latta. Vedere quel liquido trasformarsi a sua volta in formaggio era un’ulteriore emozione ed in breve tempo sentì il bisogno di saperne di più, di conoscere più cose possibili sulla natura e su tutto ciò che la circondava. Ogni mattino si svegliava per aiutare i genitori prima di andare a scuola e al rientro si precipitava ad aiutarli in altre faccende. In ogni attimo di pausa aveva un libro con sé e passava le giornate tra mucche, formaggi e studi. C’erano giorni in cui si soffermava fuori casa, tra le montagne e collezionava sassi, fili d’erba, insetti e fiori. 2. Allo sbocciare dell’adolescenza suo padre morì. Chiara doveva a lui tutte le sue conoscenze sui formaggi e sulla natura. Era stato il suo primo maestro e lei ne era profondamente innamorata. La tristezza forgiò il suo stelo ed i suoi petali si adagiarono verso l’interno, nascondendone il cuore. Lavorava tantissimo e sostituiva il padre in tutto ciò che poteva. 65 Le sue collezioni seccarono e si deteriorarono nelle scatole di latta, tra le ceneri della sua infanzia. Sua madre si dava da fare senza tregua e riversò il dispiacere nel continuare l’impresa del marito, per non far morire i suoi sogni e tutto ciò che aveva costruito. Chiara crebbe forte, decisa ed estremamente introversa. Quando il liceo finì era pronta a dare tutta se stessa per i formaggi, ma era così brava ed intelligente che la madre s’impegnò per convincerla a continuare gli studi. La ragazza non riuscì a deluderla ed alla fine dell’estate partì per iniziare i corsi di medicina. 3. L’esperienza della città riaccese la sua passione per tutto ciò che la circondava, vedere le montagne trasformarsi in palazzi e le mucche diventare automobili l’affascinava come il pianto di un essere umano e la capacità di un cuore di continuare a battere anche fuori da un corpo. Incontrò tanta gente e fece tantissime nuove esperienze ma i grandi cambiamenti non riuscirono minimamente a mutare la sua dedizione allo studio ed al lavoro. La madre la ricompensò dell’aiuto che aveva sempre dato alla famiglia regalandole il denaro ottenuto dall’assicurazione in seguito all’incidente del padre ma, nonostante ciò, Chiara continuò a lavorare ininterrottamente tutte le sere e tutti i giorni e in molti ne cercavano la ragione. Trascorse i primi anni dell’università immersa nello studio e nel lavoro senza negarsi, però, il tempo per gustare i sapori della città, per scoprire ed incontrare le persone. Il suo animo naufragava tra mari tempestosi ma dall’esterno nessuno scorgeva un filo di vento. Quando i suoi studi stavano per terminare una malattia improvvisa la privò anche della madre. L’ulteriore dolore lasciò uscire della sua bocca, dai suoi occhi e dal suo cuore la bufera che la travolgeva e nessuno la vide mai 66 più. Il suo conto in banca si azzerò e quando anni dopo ottenne la laurea, sulla pergamena brillava il nome del dottor Savio Curam. 4. Chiara giaceva vicino ai corpi dei suoi genitori, tra l’erba, le rocce e gli insetti. Savio rappresentava l’unione di tutti e tre. Aveva utilizzato tutti i suoi risparmi per farsi asportare i seni e farsi modificare i lineamenti. Si era sottoposta ad una cura di testosterone ma aveva deciso di non farsi asportare gli organi sessuali. Non c’era riuscita e sentiva di non volerlo. Aveva terminato gli studi con i massimi voti e nonostante le paure, le fragilità e la confusione del suo spirito, aveva trovato in se stessa nuova forza e nuova bellezza. Quando anni dopo la sua compagna le confidò di non poter aver figli, Savio capì che anni prima qualcuno l’aveva guidato nelle sue scelte e, dopo aver interrotto la cura ormonale, riuscì a rimanere “incinto”. In quel momento il cerchio si era chiuso e l’intera famiglia resuscitava nel suo corpo grazie a quella scienza che da sempre le era stata vicino. Dopo nove mesi il dottor Savio Curam partorì un bambino e anche se, biologicamente, ne fu la madre, per il piccolo il dottore fu sempre il padre e ciò rafforzò in lui la sensazione di aver ridato vita a tutta la sua famiglia. Fiero del suo sapere e del suo agire, il dottore divenne in breve tempo un punto di riferimento per la medicina nazionale e, primario dell’ospedale in cui si svolge la nostra storia, dispensava polvere di scienza e conoscenza a pazienti, medici e studenti devoti. 67 5. Quando quel giorno vide tra le sedie della sala d’attesa, quella donna distrutta dal suo osare, nel suo animo si risvegliarono tutte le paure che aveva avuto negli anni della sua giovinezza. Sola e pensosa aveva progettato la sua trasformazione nell’intimità della sua corazza usurata. Il suo animo si sentiva stretto in quel corpo piegato e malridotto dagli eventi passati. Il dottor Savio Curam sentiva che la vita di Chiara era morta insieme a quella dei suoi genitori, e sentiva che per sopravvivere doveva permettere al suo animo di far uscire le ali e liberarsi del suo baco. Negli anni universitari non era riuscita a condividere con nessuno questi pensieri e lavorando ininterrottamente aveva covato la sua decisione sentendo la ali spingere sotto quella pelle morta. Quando quel mattino incontrò la donna tutte queste emozioni si riaccesero e una tenerezza sconosciuta guidò ogni giorno che passò con lei. Si prese carico di ogni cura e di ogni scelta ed in breve tempo le condizioni della donna migliorarono visibilmente. 68 CAPITOLO SETTIMO BIS L’ignoranza Reputo che ciò che esalti lo sciocco e lo differenzi dal saggio, sia la sua incapacità d’opporre critica. Ciò che ammiro nel colto è la sua capacità di varare possibilità differenti, il suo animo pieno di esempi, di esperienze e di conoscenze gli permette di paragonare qualunque cosa a tante altre e la sua ricerca del Bene risulterà più facile. Ritengo che lo sciocco sia colui che segue e non si ascolta, colui che nei limiti della sua ignoranza non trova gli strumenti per controbattere, per difendere un suo pensiero e non accettar tutto come unica verità. Credo che lo sciocco si accontenti, senza possibilità di scelta e d’opinione. Ciò che amo del saggio, di quello vero, sono la sua apertura e la sua umiltà. Scontrandosi ogni giorno con i limiti del suo spirito e con l’immensità di tutto quel che c’è da conoscere il saggio è rassegnato e pacato nel profondo ma continua a divorare le mele dell’Eden per divertimento personale, per devozione alla Curiosità, alla Speranza ed al Sogno. Il limite è il miglior amico del saggio e l’uno sa bene che non potrà vivere senza l’altro. Il saggio ama la tensione di quella relazione e sa che l’importante non è batterlo perché, come una fenice, il limite rinascerà sempre più lontano. L’uomo e la donna che sanno, amano quella tensione perché è madre di ogni cosa nuova, di tutte le invenzioni e di tutte le scoperte; ciò è divertente, affascinante, stimolante e aiuta far star bene. Credo che sia veramente stupido chi è rassegnato, chi si lascia schiacciare dal limite senza opporre la minima resistenza, chi non sente il bisogno di cercare. 69 Sì, reputo veramente dei gran deficienti quelli che non protestano, che non difendono, quelli che credono di aver già scoperto tutto e quelli che si considerano incapaci di capir qualunque cosa. Credo che sia un peccato e quindi lo considero stupido. Credo che davvero siano possibili moltissime cose e qualunque pensiero tu abbia nella testa, oh caro lettore, credo sinceramente che ci sia un modo per realizzarlo. 70 CAPITOLO SETTIMO TRIS A molti dei nostri genitori o anche contro la disillusione Come prova di quanto detto poco prima, ci tengo anche a ringraziare profondamente la generazione dei nostri genitori e molte altre generazioni passate. Non so da cosa sia dipeso ma ritengo estremamente superficiale giudicare vani gli sforzi fatti da chi ci ha preceduto. Molti di loro magari si son moderati e trasformati nel corso della vita e c’è chi ritiene contraddittori molti di questi cambiamenti, c’è chi getta luci scoraggianti su come le speranze siano crollate e su quanto fossero utopistici alcuni ideali. Ma guardandomi intorno vedo gente diversa coabitare nel rispetto reciproco, vedo molti diritti umani diventati cosa scontata per alcuni paesi e vedo tanti passi avanti verso la libertà di ognuno all’interno di un gruppo. Ciò non cancella minimamente il fatto che queste cose preziose siano eccezione lussuosa per una piccola parte del pianeta e che ci siano ancora tante cose da fare per il bene di tutti ma, se non altro, mi riempie di speranza e mi fa riflettere su come ogni volta che gli esseri umani si sono uniti per far qualcosa, le conseguenze non sono mai state vane. Credo che molti dei nostri genitori possano dormire sereni e smetterla di dire che ciò che hanno fatto non sia servito a niente, è diseducativo e falso. Forse avevano soltanto delle aspettative troppo grandi. 71 CAPITOLO OTTAVO Notizie su La Notte 1. “Caro ragazzo, ti scrivo da molto lontano per ringraziarti di quello che hai fatto per me. Incontrarti è stata la più grande fortuna della mia vita ed anche se tu hai ben altre cose a cui pensare in questo momento, voglio che tu sia consapevole del bene che mi hai dato. Ho atteso per anni la mia occasione, l’opportunità di far vedere al mondo intero di cosa fossi capace senza mai approfittare di ciò che giorno dopo giorno la vita mi tendeva. Ho sempre avuto bisogno di dover mostrare agli altri di essere all’altezza ed a me stessa di non essere come gli altri mi descrivevano. Fin da bambina sono stata derisa per le mie scelte, per come mi vestivo, per tutto ciò che amavo. Qualunque cosa facessi era stupida, sciocca ed inutile. Qualunque cosa indossassi era ridicola e brutta. Qualunque cosa dicessi era banale, infantile e di poca importanza. Con il passare del tempo me ne sono convinta anche io. Ho iniziato a dare per scontato che fosse così e di conseguenza ho accettato a testa bassa tutto ciò che mi veniva imposto. Mi sono aggrappata alla fede in tutto ciò che un giorno avrebbe potuto ricompensarmi, sicura e convinta in cuor mio, che la mia condotta avrebbe avuto la sua vendetta, che un giorno qualcuno si sarebbe accorto di quel che sono davvero. Ti ringrazio perché tu non hai mostrato agli altri ciò che sono ma me lo hai sbattuto in faccia, lo hai mostrato a me stessa. E se gli altri non mi ricompenseranno mai, adesso lo potrò fare io. 72 Grazie a te sono diventata l’infermiera di me stessa, mio caro, ti ringrazio per aver chiamato l’ambulanza, per esserti accorto che il malato era grave. In quello stesso giorno ho incontrato Gesù, ed il suo amore mi sta incendiando inesorabilmente. La sua infinita passione mi sta facendo percorrere i mie giorni come una cavalla selvaggia, ed io adesso voglio soltanto correre e prendermi il vento in faccia. Spero con tutto il mio cuore che tu possa guarire e sappi che ti porterò sempre con me e ti sarò grata in eterno. Sono sicura che ci rivedremo e non sarà di certo in quell’orrendo ospedale. Ti abbracciamo forte, Gabriella e Gesù.” 2. Nel grande poster accanto al letto del ragazzo, ora non appariva soltanto il faccione di Gesù. Accanto al suo, con uno sguardo innamorato e vivo era apparso quello di Gabriella La Notte. Ogni giorno l’immagine cambiava e mostrava al ragazzo ciò che loro stavano facendo, il loro umore. La donna si era tuffata senza la minima paura nel mondo Poster ed era riuscita ad attraversare il muro con la forza della sua voglia di vivere. Un leggero vento di melanconia entrò nella stanza ed il ragazzo osservò i capelli arruffati del sant’uomo, il suo sorriso. Osservò le loro mani strette e gli occhi che si accarezzavano. Il paesaggio dietro di loro sembrava essere magnifico ed il ragazzo ebbe un brivido d’invidia. La mamma chiuse la finestra, la melanconia stagnò e divenne tristezza. Quando nell’ospedale si sparse la voce di ciò che era accaduto a La Notte, molte infermiere vollero cercar d’imitarla. Ognuna di loro in segreto custodiva il poster del proprio idolo e appiccicatolo al muro, vi si gettava contro senza timore. 73 Sovente si udiva il frastuono di qualche infermiera che si sfracellava contro la parete, ed iniziarono ad accavallarsi i loro ricoveri al pronto soccorso. Molto meno sovente, ma importante almeno per aumentar la speranza, si perdevano le informazioni su qualcun’altra ed allora tutte le infermiere friggevano d’invidia e si intestardivano contro il loro idolo. Ora per una ragione, ora per un’altra, le infermiere iniziarono a mancare, ad essere inutilizzabili. Quando la vecchina fu colta da un arresto cardiaco, nel suo reparto non c’era nessuno. 74 CAPITOLO NONO Il funerale 1. Il ragazzo disteso sul letto vedeva scorrere davanti alla sua porta tante persone, vestite nei modi più bizzarri e stravaganti. Avevano tutti un aspetto felice e frizzante, si abbracciavano e si salutavano calorosamente come se non si vedessero da tempo. Non potendo resistere il ragazzo si alzò ed uscì nel corridoio. C’era gente dappertutto, ogni angolo dell’ospedale era pieno di persone che erano così belle e decorate da sembrare oggetti d’arredo. Sentendo delle voci alle sue spalle si voltò e un grosso uomo panzone lo scontrò Perdona, perdona! L’omone gli fece un grasso sorriso ed i suoi denti in oro luccicarono. Sulle scale, all’angolo del corridoio, ridevano e correvano una dozzina di bambini, vestiti da un insieme di bracciali, al polso più piccoli, al ventre più grandi. Erano sottili ed ognuno di un coloro differente. L’ascensore si aprì ed apparve una coppia che aveva sulla testa delle enormi teste di gabbiano in gomma piuma. Sulle braccia avevano delle grandi ali ed appena videro gli altri iniziarono ad agitarle calorosamente. Una piuma volò via e cadde ai piedi del ragazzo. Chinandosi per raccogliere la piuma, il ragazzo si accorse di camminare su un bellissimo tessuto di velluto rosso, si guardò intorno e vide che ovunque nel corridoio c’era dello stupendo tessuto colorato, cercò di seguirlo e individuò vicino al bagno un gruppo di donne che parlavano fra di loro. Avevano delle gonne lunghissime, così lunghe da aver riempito il corridoio con le loro scie. 75 Il loro busto era decorato con piercing in ceramica colorata, come un mosaico, ed i loro visi erano cosparsi di piccoli pezzi di specchio. Erano meravigliose. Mentre nel corridoio tutti gridavano, parlavano, cantavano e si abbracciavano, seduto sulla sedia in plastica, il padre del ragazzo si era finalmente addormentato e la testa gli si adagiò di scatto sulla spalla destra. 2. A un certo punto, dalla piccola stanza della vecchina, uscì, volando, un flauto traverso, si arrestò al centro del corridoio e tutti tacquero ascoltando il suo canto. Dalla stessa stanza, trasportato da vecchio uomo, uscì il letto pieno di fiori e profumi su cui avevano adagiato la vecchia. Il ragazzo pietrificato assisteva alla scena. Tutti i presenti iniziarono a girare intorno formando disegni con gli schieramenti. I vecchi si separarono dal gruppo ed andarono a prendere sette galline che avevano portato su in precedenza. Le disposero sul letto insieme alla morta ed attesero. Il flauto suonava, tutti cantavano sottovoce. Da sotto il letto apparve un essere vestito di nero, con indosso una tutina aderente. Il suo viso era coperto dall’abito e su tutto il corpo era disegnato uno scheletro. Il teschio sorrideva. Era un costume grottesco, come quelli che appaiono nella cultura messicana. Dal collo pendeva una sciarpa di piume viola. L’intonazione del canto cambiò e tutti si inginocchiarono. Rannicchiati al suolo continuavano a muoversi seguendo direzioni e disegni conosciuti. Lo scheletro girava intorno al letto e di conseguenza intorno alla vecchia e alle galline. Una delle bestiole cominciò a muovere le ali, era ferma sul ventre della vecchia. La morte la sfidava con delle urla gracchianti. I presenti ebbero un istante di pausa, i loro piedi fluttuarono in aria aggrappati ai respiri. La 76 gallina prese il volo e tutti saltarono su cantando e gridando. Sul ventre della vecchia una delle sette galline aveva deposto un uovo e, come il rito vuole, la vita aveva vinto sulla morte. 3. L’euforia raggiunse l’apice quando l’uovo fu consegnato ai familiari più stretti della vecchina e la tutina della morte fu bruciata. Il fuoco che divampò dal falò fece scattare tutti i sensori anti-incendio dell’ospedale e iniziò a piovere in tutti i corridoi. L’acqua pian piano spense il fuoco e sulle ceneri della morte esplosero gli ultimi canti liberatori. In mezzo alla pioggia, il più vecchio tra i presenti prese tra le mani il grande diario della vecchina e disse delle frasi incomprensibili per il ragazzo. Tutti i presenti alzarono al soffitto i loro diari e tutti insieme posarono le labbra, delicate e pudiche, sui preziosi libri. “A tutti voi che sarete giunti qui da lontano, scrivo il più caloroso benvenuto. La morte mi avrà già abbracciato nella sua magrezza e spero per lei che nessuna gallina abbia cagato l’uovo. Se ciò invece è accaduto spero che il pulcino che ne nascerà non debba passare ciò che ho passato io durante la mia malattia. La vita ha vinto sulla morte, ma che cazzo me ne frega? Mentre io soffrivo dov’era la vita? Dov’erano i pulcini e dove eravate voi? Radunati qui intorno per festeggiare il vostro carnevale sulla mia pellaccia. Anche io li avrei voluti festeggiare! Anche io avrei voluto vestirmi a mio turno da morte ed anche io avrei voluto abbracciarvi! Disgraziati maledetti. Andatevene e lasciatemi morire in pace.” La pioggia cadeva ancora nel corridoio mentre tutti, con la testa bassa, sfilavano lungo la via d’uscita. Qualcuno, 77 confuso e sconcertato, scambiava qualche parola con il vicino. Quando il lettino rimase solo in mezzo all’ospedale ed in mezzo al mondo, il ragazzo si avvicinò e scorse delle lacrime sul viso della morta. La sua rabbia l’aveva privata dell’ultima possibilità di riavere un abbraccio dalla sua famiglia, dal suo gruppo, dalla sua gente. Fedele alle sue convinzioni e ferita nel profondo, non aveva voluto cedere, aveva voluto rifiutare il “lieto fine” con cui marchiavano tutti prima di dimenticarli per sempre. Ma adesso era lì, sola e morta, e sentiva che anche questo non era bello. 4. Quando il giorno dopo la misero nella bara, il ragazzo era l’unico presente. Nella camera ardente dell’ospedale erano state posizionate tante sedie. Pensavano che si sarebbero riproposte scene di festa e movimento. Il ragazzo era in piedi davanti a lei e la osservava con curiosità, cercando di estrapolare il segreto di quel particolare stato psico-fisico. Il padre entrò nella stanza, si sedette su una sedia di plastica e si mise a fissare le mura bianche. Degli addetti dell’ospedale entrarono, chiesero delle informazioni al ragazzo e dopodiché chiusero la bara e la portarono via. Il vecchio iniziò a tirare dei forti pugni sul coperchio, dei forti pugni che rimbombavano all’interno ma che all’esterno non si udivano molto. Gli addetti avevano fatto un buon lavoro mettendo una lastra di metallo tra il suo corpo ed il legno. I pugni si perdevano in quel breve intermezzo e mentre lui dentro si dimenava follemente, gli altri all’esterno lo portavano via. Il bimbo era nella sua culla e gli addetti arrivarono anche lì. Una pesante lastra luccicante gli fu posta come cielo e facendolo scivolare sulle rotelle lo portarono via. 78 Era notte quando li sotterrarono e pioveva forte. Misero la bara poco distante dal bambino. La culla in breve tempo si riempì di terra e al piccolo iniziò a mancare l’aria. Il suo cuore vibrava così forte che il vecchio ne intendeva i battiti. Era indiavolato al pensiero che il piccolo potesse morirgli accanto e con tutte le sue forze scalciava e spingeva. Lo sforzo in breve tempo lo affaticò tanto ed anche il suo ossigeno iniziò a scarseggiare. La roccia dello scoglio era tagliente ed il bambino senza accorgersene si ferì dappertutto ma era fuori, respirava. Un’enorme mano spuntava dall’acqua, era grande, immensa. Lentamente si seccava, come una rosa, come le tante rose che coprivano la bara della vecchina mentre la portavano via. 5. Chiuso nella sua camera, aveva i cinturini stretti ai polsi e la flebo che sgorgava dall’alto. Non si ricordava di nulla, non capiva minimamente cosa fosse successo. Ogni volta gli capitava così. Lui era stanco, nel letto. Non ce la faceva più a sentire il peso di qualche tubo aggrappato al suo braccio. Era stanco di sentir dolore in ogni parte del corpo, di dover dipendere dall’aiuto degli altri. Era stanco di dover lottare contro qualcosa che dentro di sé si rivoltava e lo schiacciava al suolo in pochi minuti, qualcosa che senza controllo poteva ucciderlo. Voleva rilassarsi e dormire ma ogni volta si risvegliava circondato da schermi e computer bizzarri che cercavano di tener sotto controllo il suo corpo. Perché il suo stesso corpo lo trattava così? E poi c’era il buio, quel buio che lo avvolgeva strozzandolo. Perché? Il ragazzo si faceva continuamente delle domande, ma il più delle volte le evitava ed iniziava ad essere ossessionato da tutto ciò che lo circondava, ogni minimo problema poteva diventare una catastrofe ed il caos doveva essere padroneggiato dalle sue mani. 79 CAPITOLO DECIMO La sagoma di cartone 1. Spregevole essere del sottobosco sociale, come hai potuto farmi ancora del male? Li vedi i calli sul mio cuore di mamma? Lo vedi come riposa il mio velo di sposa? Le chiedo scusa. Colpirmi alle spalle mentre naufrago a valle. Che idiota che sono e che son sempre stata. Ah misera me, ah misera me! Le chiedo scusa. Da quanto tempo va avanti il mistero, mentre fuggiva io dove diavolo ero? Le chiedo scusa. Da quanto tempo, ti ho chiesto! Pessimo uomo, da quanto tempo? Rispondi!? Le chiedo scusa. La donna afferrò la maglia dell’esile cinese e cominciò a scuoterlo con forza e passione. Il suo volto era la maschera della disperazione. Le sue mani puzzavano d’aglio. Flagellami mondo, distruggimi tutta poi prendi il mio corpo e dove vuoi butta! Sparisci tu altro... lasciami sola... Il giovane forestiero le lasciò un ultimo sguardo di compassione e timidamente andò via. La donna afferrò la sagoma di cartone tra le mani e la strappò piena di rabbia, delusione e sconforto. 80 2. Da diversi giorni, un giovane cinese girava nell’ospedale in incognito. Era vestito da infermiera ed indossava una splendida parrucca bionda. L’unica cosa che lo differenziava era il largo cappello conico dal quale non si era voluto separare. Aveva gli occhi scuri e le sue dita, sommate, erano ventuno. La mano sinistra ne aveva sei e ciò gli aveva causato seri problemi durante l’infanzia. Il giovane uomo aveva percorso i corridoi a qualunque ora della giornata, trasportando con sé la sagoma in cartone del papà del ragazzo, il marito della mamma. La donna era riuscita soltanto a sapere che era stato assunto da lui e che l’uomo era fuggito via. Schiacciato dalla sua impotenza e dalle sue responsabilità aveva deciso di farla finita, di tagliar via il problema, di trasformarsi in sagoma di cartone per smettere di pensare e di farsi del male. 3. Quando il ragazzo lo venne a sapere nulla poté trattenerlo. I suoi pensieri si accavallarono uno sull’altro e in breve tempo era fuori dall’ospedale che correva. Le flebo al suolo rotte, i gradini saltati, la madre dietro di lui che urlava. Come aveva immaginato il padre era al mare, sugli scogli. Seduto immobile, lo sguardo fisso davanti a sé. Appena si voltò e li vide, inclinò la testa di scatto sul lato sinistro e sorrise. Afferrò una palla di mare e la lanciò al ragazzo. Il giovane lo guardava confuso. La madre, impaurita da quello strano sguardo demoniaco, prese un grande crocifisso e vi si nascose dietro. Sulla croce, Gesù baciava appassionatamente Gabriella. Il padre fece un agile saltello e si mise in piedi su una grande roccia. Le sue gambe erano tese e la schiena drit81 ta, le mani, seguite dalle braccia, gesticolavano nell’aria come quelle di un prestigiatore. Aveva i capelli arruffati e il viso particolarmente pallido. Le labbra violacee ed il sorriso stampato tra le guance creavano delle fossette in cui confluivano le rughe dei suoi grandi occhi. Rivolgendosi al ragazzo disse: Su, da bravo, lancia! Dopo una leggera esitazione lui lanciò la palla verso il padre. L’uomo si voltò verso la moglie e inviò la palla di mare verso di lei. La donna non la prese, barricata dietro la sua trincea di santi. La sfera rotolò silenziosa al suolo e si disperse in una piccola onda che si franse su un sasso. Il padre prese allora un sasso e lo lanciò verso il figlio, lui glielo rilanciò ed il padre, facendo una pausa verso la madre, lanciò il sasso e le disse: Gioca! La donna non rispose. La testa dell’uomo si muoveva a scatti veloci inclinandosi a destra e a sinistra, poi si fermava e fissava la donna ed il ragazzo spalancando la bocca, i suoi occhi erano immensi e penetranti. Raccolse altri piccoli sassi e li lanciò addosso alla donna continuando ad urlare Gioca! Gioca! Gioca!! La donna si faceva scudo con il braccio e restava in silenzio. Non riusciva a staccare gli occhi dal marito. Sei contenta eh? Sei contenta?! Sono un pessimo padre, e un orribile figlio, ono scappato, non ce l’ho fatta! Non è colpa mia! Si era rotta la ruota... lo sai anche tu! Lo sai anche tu!! L’uomo raccolse della ghiaia e piangendo gliela gettò vicino alle gambe, le sue urla si strozzavano nei singhiozzi. La moglie si alzò e lo strinse fra le braccia. Il marito l’abbracciò forte e pianse sulla sua spalla. 82 3. Il ragazzo, sugli scogli, osservava la loro casa in lontananza. Era passato tanto tempo da quando lo avevano portato via e la casa gli mancava Si avvicinò ai genitori e abbracciandoli gli disse che dovevano tornare in ospedale. Loro lo guardarono con gli occhi pieni di lacrime e sorridendo si incamminarono. Sotto le stelle Gesù e Gabriella continuavano a baciarsi. Sulla strada del ritorno passarono vicino alla casa della famiglia del padre e lui, prendendo il figlio sotto braccio, gli disse: Guarda lassù, la seconda finestra a sinistra era la cameretta di quando ero piccolo. Ma dai, non credevo che aveste una casa così grande! Non me l’avevi mai fatta vedere. Il padre restò in silenzio qualche secondo posando gli occhi lucidi su quelle mura. Ho cercato di dimenticarlo anche io- disse alla fine con voce bassa. La mamma, dopo aver scambiato uno sguardo emozionato con il marito, prese il ragazzo sotto braccio e, indicando verso l’alto, gli disse: Sei proprio bello come tuo nonno. Quando si affacciava a quella finestra le donne svenivano. Sentendo quelle parole il padre si allontanò di qualche passo. Voglio veder delle foto allora! Il padre camminò ancora un po’ in direzione della casa e si fermò davanti alla porta. Dopo si voltò e li raggiunse. Guardò il ragazzo e annuì sorridendo. Domani ti porterò degli album! I tre non parlarono più e tornarono nella stanza d’ospedale. Addormentandosi il ragazzo si sentì finalmente come non si sentiva da tempo. 83 CAPITOLO UNDICESIMO Il branco 1. I piccoli passi del bambino rimbombavano nella chiesa. A quattro zampe gironzolava tra le navate sorridendo. Il vecchio correva dietro le grandi colonne e si nascondeva per divertirlo. A parte loro due non c’era nessun altro. La cappella dell’edificio, come un grande occhio, apriva leggermente la palpebra e dei raggi di luce inondavano tutto e poi sparivano velocemente mentre si richiudeva. Il bambino si guardava intorno e vedeva il vecchio apparire ovunque, mostrava soltanto alcune parti del suo corpo e spesso era dietro tante colonne contemporaneamente. Le lastre di marmo sul pavimento erano molto lisce e le macchie nere che coloravano la pietra gli davano la nausea. Qualcuno urlava dietro l’abside. Poi taceva. Le colonne iniziarono a muoversi. Strisciavano sul suolo liscio e dritte si invertivano i posti o viaggiavano, chi più veloce chi più lenta, nei corridoi della chiesa. Il vecchio aveva del sangue sulla bocca e fissando il bambino negli occhi gli diceva parole incomprensibili. Il piccolo camminava, silenzioso e saggio. Tantissimi uccelli uscirono da un confessionale in legno scuro ed il viso del vecchio divenne enorme. Spegni la televisione figliuolo! Che piacere ci trovi nel vedere codesti film orribili! Il ragazzo cambiò canale ma l’immagine del vecchio non spariva. Deficiente devi girare il telecomando... Una voce parlò. 84 Il ragazzo girò il telecomando ed effettivamente, adesso, tutto funzionava correttamente. Il ragazzo spense la tv e si accovacciò nel suo letto. Nell’addormentarsi si sentì finalmente come non si sentiva da tempo. 2. Qualcuno si alzava, le finestre, il suono, i capelli. Qualcuno suonava i capelli, tesi, molto tesi. Respiravano forte, fischiavano. Delle sedie si spostavano, il padre, la madre, la musica. Un forte coro cantava nei prati fioriti del parco comunale, era primavera e finalmente si poteva andare a giocare lasciando cadere le magliette al suolo per il caloroso clima. Adorava giocare a calcio, la palla era caduta nel fiume. Il fiume scorreva veloce, suonava, cosa suonava il fiume? Le pietre si scontravano fra loro. Poi silenzio, e poi ancora baccano. La luce, la luce. Il buio, il velo lo avvolse. No, c’era luce. La luce sul comodino vicino al letto era ancora accesa. Come sempre. Il ragazzo cambiò posizione e con gli occhi semichiusi cercò di riaddormentarsi. Delle voci in corridoio attirarono la sua attenzione. Era strano sentir parlare nel cuore della notte. Abitualmente ciò voleva dire brutte notizie, risvegli angosciosi, corse d’infermiere per placare le crisi, punture, sudore, confusione, forte confusione. A volte voleva anche dire che qualcuno aveva improvvisamente ceduto e che la notte lo aveva avvolto per sempre. Era bruttissimo sentir parlare in quelle ore. Il ragazzo cambiò ancora posizione e sentì dei rumori provenire dall’esterno. Non erano né ambulanze né automobili che parcheggiavano lasciando impronte di copertoni al suolo. Era un vociare alternato, delle domande e delle risposte sottili. Come un bambino che costruisce un castello di 85 sabbia in riva al mare e che ritmicamente viene distrutto dall’onda che arriva. Questo vociare cresceva e si riempiva fino a crollare sotto l’onda del più responsabile che lanciava uno “Sssshh” nell’aria. Il ragazzo si incuriosì di tutta questa vita notturna e sgusciò fuori dalle coperte per scoprire cosa stesse accadendo. Prima che potesse scendere dal letto, il concerto iniziò. 3. Il ragazzo spalancò la finestra e vide tutti i suoi amici in basso. Dopo un inizio timido si stavano lasciando andare al più grande baccano. Suonavano e cantavano come i lupi alla luna. Quella notte era lui la luna e si lasciava travolgere dalle note che gli afferravano forte le spalle, le mani, il viso e le gambe. Era la prima volta che venivano a trovarlo, la prima volta dopo la grande crisi. Il ragazzo, ancora assonnato, si lasciò travolgere dalla sorpresa ed incredulo assorbiva ogni nota che lo sfiorava. Dall’alto della rupe cominciò ad ululare ed il branco rispose a gran voce. Con delle enormi ali si gettò dalla finestra, la luna si rifletteva sul suo lucente pelo e la musica ammortizzava ogni suo passo nel vuoto. Il silenzio non era permesso. Correvano nella foresta, di notte, al buio, tutti insieme. Nulla faceva paura. Il freddo si scioglieva sul loro caldo respiro ed i loro occhi s’immergevano vicendevolmente uno nell’altro. La musica danzava nuda sotto le stelle, svelando la sua antica magia. Riscoprendo quell’ancestrale potere che spesso, chini sui loro libri del conservatorio, avevano dimenticato. Una birra pascolava tranquilla in riva al fiume, il branco la vide e la puntò. Il loro galoppo unanime la raggiunse veloce e senza opporre resistenza la bottiglia si adagiò, gemente e succube. Con brandelli d’etichetta tra i denti gli amici ridevano schiumosi, e la musica, ancora nuda, 86 si gettava nel fiume cantando. I suoi capelli bagnati le si adagiavano sulla schiena. Senza farsi attendere l’onda arrivò in un istante. Aveva una sirena lampeggiante e non era un’ambulanza. Il castello si lasciò travolgere e sulla sabbia restò soltanto una piccola collina bagnata. Il parcheggio deserto. Sulla rupe, in alto, il ragazzo ululava, ancora incredulo di quel meraviglioso risveglio. Perché non si riesce ad essere solidali e fraterni davanti alla vita come lo si è davanti ad una malattia comune o davanti ad un problema comune, come lo si è dopo una guerra o dopo una tragedia? Perché all’uomo è possibile dimenticare ciò che ha passato? Perché non è abbastanza forte il fatto che tutti siam condannati a morte per unirci nell’affrontare con piacere la vita? Sarebbe così bello, sarebbe così bello... Con questi pensieri il ragazzo chiudeva nuovamente gli occhi, le sue dita profumavano di musica. Ehi! Una voce sgusciò tra le persiane prima che potesse chiuderle. Aspetta, aspetta,aspetta, ti prego riapri! Il ragazzo si sporse dalla finestra e guardò in basso, lei era lì. 4. Il sole si era nascosto dietro la luna, le si era avvicinato molto per guardare anche lui il meraviglioso sguardo che si scambiarono i due ragazzi in quella calda serata. Il sole era così vicino che la luce della luna illuminava tutto il parcheggio, era rossa ed il cielo pieno di stelle. L’aria era tiepida e l’ennesima estate stava per terminare. Il cielo si era riempito di musica, la polizia era arrivata, i suoi amici erano scappati, il silenzio era tornato e in questo frangente durato poco più di mezz’ora il ragazzo era stato coperto da una valanga di sensazioni differenti. Ma adesso nel parcheggio non era rimasta che 87 una persona, soltanto una voce bassa e delicata lo chiamava e da sola riusciva a colpirlo ancora più forte. Il corpo del ragazzo era pietrificato. Dal giorno della grande crisi non l’aveva più rivista o forse sì e non se ne era accorto, fatto sta che era la prima volta in cui la rivedeva lucidamente e sentiva ogni muscolo del suo corpo cominciare a contrarsi a causa dell’emozione. Con tutte le sue forze cercava di controllarsi, di restare sull’immagine, di lasciar stamparsi nel suo animo quella splendida visione che lo aveva sorpreso in quella notte speciale. Ciao... come va? Avrebbe voluto risponderle, vomitarle addosso tutto lo scompiglio che lo riempiva, avrebbe voluto scendere giù e camminare con lei sotto le stelle, avrebbe voluto chiedere il suo aiuto e nutrirsi del suo sorriso, avrebbe voluto abbracciarla come sempre aveva fatto e lasciarsi avvolgere dalla sua energia colorata. Avrebbe voluto raccontargli delle sue visioni, dirle quanto gli dessero fastidio le flebo, parlarle della vecchina, di suo padre, delle infermiere, voleva raccontarle le sue paure e come lo terrorizzasse il sentirsi incapace di controllare se stesso. Avrebbe voluto chiederle come stava e ascoltare la sua voce, avrebbe voluto baciarla e addormentarsi tra le sue braccia. Invece era lì pietrificato. Nonostante i grandi miglioramenti fatti in quei giorni il suo corpo era gelato ed ogni emozione veniva allontanata per resistere e non cedere alla follia. I suoi occhi erano l’unica cosa che restava viva e se lei avesse potuto vederci dentro avrebbe visto delle mani lunghissime che cercavano disperatamente di arrivare da lei e sfiorarle il viso. Oh, sì, lei le sentiva quelle mani e nonostante il ragazzo non manifestasse in nessun modo la sua felicità nel rivederla, lei era lì, sotto la finestra, innamorata e confusa. Scendi? No Il ragazzo rispose in maniere secca e fredda, la sua voce usciva dalla bocca molti secondi dopo aver udito la do88 manda. Prima che si potessero concretizzare, le parole, si combattevano fra loro nel suo animo turbato. Posso salire? No. Da dietro le spalle della Luna, il Sole si affacciò leggermente per veder meglio. Entrambi li guardavano melanconicamente respirando quella tensione piena d’emozioni contrastanti. Ognuno desiderava che accadesse qualcosa ma tutti si sentivano estremamente impotenti, rassegnati, incapaci di comprendere e d’agire di conseguenza. Il sole lentamente si sporse sempre di più, osservò la Luna, osservò i ragazzi e sospirando s’incamminò verso il basso, si nascose dietro il mare, lontano, e continuò a guardarli da lì, mettendo fine a quella notte magica ed incominciando un nuovo giorno. La ragazza lasciò che i suoi occhi si riempissero di tutto quello che potevano regalarle quelli del ragazzo e poi si voltò e si incamminò verso l’uscita. 89 CAPITOLO DODICESIMO Scusami Non ci capisco nulla, a volte inizio a credere davvero che l’uomo sia una macchina e che tutto ciò che lo circondi sia gestito da un’orchestra di meccanismi complessi. Non lo dico per sminuire la sua bellezza, anzi, trovo fantastico il fatto che l’elettricità possa creare emozioni e che tutte quelle cose poetiche e spirituali siano qualcosa di materiale, qualcosa che possa variare con semplici cambiamenti. A volte, quando mi trovo davanti a lui, davvero comincio a pensare che qualcosa nella sua testa si sia semplicemente rotto. Non lo so, merda. All’inizio mi affascinavano un sacco i suoi racconti e sentivo una passione incredibile in quello che diceva. Ora sono vuoti, ripetitivi e chiusi in se stessi. Non c’è stato più dialogo e ora addirittura non risponde neanche più. Non capisco minimamente cosa si possa fare, come poterlo aiutare. Son la prima a diffidare un sacco dal dire semplicemente che una persona sia “malata”, ma ogni volta che lo vedo è l’unica cosa che mi viene in mente. Credo che ognuno possa dire quel che vuole e credere quel che vuole e se ciò lo fa star bene... ben venga. Ma quando poi non si riesce a stare né con gli altri né con se stessi, allora credo che qualcosa non va. Dicono che con i medicinali si possano ristabilire quegli ingranaggi che si son “rotti”, però credo anche che se le relazioni umane sono magicamente capaci di “rompere” dei meccanismi con il solo e grande potere del vissuto, dei comportamenti, degli scambi relazionali, delle esperienze e delle emozioni, credo che con queste relazioni i meccanismi sia possibile anche ripararli... ma boh! Cazzo, non ci capisco nulla... Forse ha preso una droga, il cervello si è rotto e punto. 90 A volte non vedo più la persona, mi sembra di star davanti ad un vegetale, ad un oggetto, e ciò mi devasta. Il suo corpo è lì ma davvero sembra un contenitore vuoto. Non so che fare. Quando finì di parlare posò la testa sulla mia spalla, mi abbracciò forte e si addormentò dopo poco. Io l’avvolgevo nelle braccia e fissavo il soffitto. I nostri corpi erano nudi. Ti chiedo scusa. 91 92 SECONDA PARTE ... ed a suo nonno Andrea Il bimbo ristette, lo sguardo era triste e gli occhi guardavano cose mai viste e poi disse al vecchio con voce sognante “mi piaccion le fiabe, raccontane altre” Francesco Guccini, Il vecchio e il bambino 93 CAPITOLO UNO La vecchia casa 1. Il padre quella notte non aveva chiuso occhio, aveva lasciato che gli altri si addormentassero ed era nuovamente uscito. Aveva ripercorso la strada all’incontrario ed era tornato davanti alla sua vecchia casa. Le luci delle finestre erano accese. Dopo una lieve esitazione si era avvicinato al davanzale del piano terra. Delle tendine bianche erano colorate dalla calda luce della stanza. Posò le mani sui freddi mattoni e l’umidità gliele bagnò. Mentre continuava a fissare le pareti da molto vicino, dalle tendine apparve il viso di una vecchia signora. Incrociando i loro sguardi entrambi si spaventarono, ma subito l’uomo si scusò del disturbo e salutò la signora. Lei aprì la finestra e contraccambiando il saluto lo fermò e lo invitò ad entrare. L’uomo inizialmente rifiutò, poi disse di voler fare un piccolo giro nella casa, raccontandole di quando lui ci aveva vissuto. La vecchina aprì la porta e lo fece entrare. 2. La casa era caldissima ed estremamente rustica. Le pareti ed i mobili erano impregnati dell’odore del camino e della vecchiaia. Molte cose erano cambiate ma nell’insieme tutto era come prima. L’uomo esplorava la casa e la vecchina senza dir nulla lo seguiva lentamente. Sembrava un po’ malaticcia e tossiva spesso. Quando fu vicino alle scale si voltò per chiedere il consenso della donna e lei, sorridendo bonariamente, lo invitò a salire dicendogli che nell’attesa avrebbe preparato una tisana calda. Le scale scricchiolavano, l’uomo le percorse ve- 94 locemente e si arrestò davanti al corridoio che portava alle stanze da notte. Era buio ed il buio cancellava le piccole cose che erano cambiate con il passare degli anni. Lentamente fece dei passi in direzione della sua stanza. Quando fu davanti alla porta posò delicatamente la mano sulla maniglia e provò a girarla, ma questa era bloccata e la porta non si apriva. Prima che potesse riprovare i suoi occhi si posarono in basso, vicino al battiscopa. La carta da parati era strappata in un angolino. L’uomo si inginocchiò e toccando il muro rabbrividì. In quell’angolo della parete da bambino aveva intagliato, grattato e colorato la forma della sua manina. 3. C’ qualcun? Da dietro la porta qualcuno aveva parlato. L’uomo sorpreso si alzò di scatto. Sì, mi scusi, credevo che non ci fosse nessuno. Sssshh... parl pian l preg. Era una voce legnosa. Scandiva a scatti le parole come se ne tagliasse ogni suono. Era una voce particolarmente antica e inquietante. Pe favor s’avvicin all port. L’uomo reagì immediatamente e nel momento in cui si posizionò davanti alla porta sentì un formicolio invadergli il corpo e nel suo animo una sensazione di abbandono. Più si abbandonava e più vedeva le immagini scomparire. Spaventato oppose resistenza e si ritrovò davanti alla porta. Cosa è stato? No paur, lasciat andar. Chi sei? No ho rispost pe t mo, lasciat andar e m incontrera. Ma cosa diavolo succede? L’uomo cercò di forzare la maniglia per aprire la porta e non riuscendoci si precipitò verso le scale ma il suo corpo non reagiva, era pietrificato. Era come se gli impulsi 95 nervosi non arrivassero alle periferie e ogni movimento gli risultava estremamente faticoso. Ancora una volta un immenso formicolio gli partì da dietro la testa e lo avvolse completamente provocandogli brividi dappertutto. Lasciat andar, seguim, lasciat andar. L’uomo cercò di non opporre resistenza, tutto pian piano scompariva e vedeva solamente dei contorni vibranti. Aveva estremamente paura ed il cuore gli batteva così forte che credette di perderlo, ma proprio mentre tutto sembrava arrivare al massimo dell’insopportabilità si sentì catapultato al di là della porta. 4. C’erano tante linee dritte e verticali, come delle vecchie antenne della tv, dappertutto. Era un paesaggio profondissimo e si scorgevano linee verticali ovunque, alcune fluttuavano nell’aria ed altre erano ben posizionate, sembravano disegnare una specie di suolo. L’uomo cercava di controllare il suo corpo ma percepiva che inviando degli impulsi nervosi erano le linee a muoversi, il suo corpo non si vedeva da nessuna parte. Tutto era nero e le linee grigie. Sulla parte superiore delle linee ce ne erano alcune orizzontali e ciò le identificava ancora di più a delle antenne della tv. Nuovamente l’uomo sentì una sensazione d’abbandono e seguendola vide il paesaggio trasformarsi, cambiar di colore. Le linee erano ancora l’elemento più presente ma sembravano iniziare a ruotare veloce e a cambiare di posizione. Non si potevano riconoscere un suolo ed un cielo, si scorgevano soltanto tante linee muoversi. All’improvviso tutto scomparve e un colore che non saprei descrivervi invase la retina dell’uomo. Andava oltre le onde a cui siamo abituati ed era di una lucentezza particolare. Dei suoni acutissimi lo avvolsero e si sentì cullare in una sensazione bellissima. Veng d u pianet lontan, son arrivat sul terr secol f m pe ragion che no comprender sol or son riuscit a un 96 relazion co qualcun. L’uomo era totalmente avvolto in sensazioni e colori e la voce entrava nelle sue orecchie senza provocare in lui particolari reazioni. Sentì soffiare forte sul suo viso, molto molto forte ed all’improvviso si ritrovò nel corridoio, davanti alla porta. Girò la maniglia e la porta si aprì. 5. La stanza era avvolta nella luce della luna che entrava dalla finestra spalancata. Le tende bianche si muovevano spinte dal vento e lasciavano intravedere il davanzale in ferro battuto che dava sulla stradina. Sopra il letto una sfera fluttuava ed era difficile scorgerne la consistenza ed il colore. Un’altra sfera era al centro della stanza in direzione della finestra, alla sua sinistra il letto ed alla sua destra una piccola poltroncina e un vecchio armadio di legno. Sotto l’armadio si intravedevano i riflessi sferici di una terza sfera, leggermente più piccola delle altre. La sfera centrale cadde di peso al suolo. Immobile per qualche istante lasciò echeggiare nella stanza il forte rumore che l’aveva accolta scontrandosi con le assi di legno del pavimento. Dolcemente rotolò verso l’uomo, ancora immobile all’ingresso della stanza. L’attrito provocò un ruvido scivolare. I piedi dell’uomo si incontrarono con la sfera e ciò fece sorgere ulteriori brividi sulla sua schiena provata. La grande sfera ai suoi piedi si separò in tantissime piccole palline che iniziarono a vibrare e volteggiare intorno a lui come un immenso sciame d’api. La sfera che si trovava sotto l’armadio sgusciò via e si alzò nell’aria andando verso il letto. L’altra sfera si spostò da questo e si scontrarono. L’impatto non fece rumore ma tutto iniziò a tremare. Le palline avvolsero l’uomo ricoprendolo di una materia calda e viscida. Dall’unione delle due sfere si creò una sfera ancora più grande che galleggiava al centro della stanza, al suo interno sembrava stesse co97 minciando a pulsare qualcosa. L’uomo si sentì spingere in avanti, come se quello strato gelatinoso che lo avvolgeva lo stesse guidando da qualche parte. La sua mano si alzò e si posò sulla grande sfera. Ancora brividi, tremolii, luci e suoni. Gelatinosamente la gelatina fu risucchiata dalla grande palla. Scivolò via dal suo viso, dai suoi piedi e dal suo petto, si concentrò tutta sul suo braccio e, coagulando, rotolò su questo posandosi infine sulla mano che sovrastava la sfera. Si era trasformata ed ora sulla sua mano era seduto un piccolo cavalluccio marino di legno. Blu e giallo. 98 CAPITOLO DUE Il cavalluccio marino 1. Era un pomeriggio primaverile, l’uomo era un bambino e stava giocando negli infiniti prati che rivestivano il vicinato. Dalla collina vide le barche tornare nel porticciolo del paese e, come al solito, si precipitò felice per accogliere il ritorno del vecchio, a quei tempi giovane e padre. Li vedeva arrivare, saltar fuori dalla barca e prendere le corde pesanti e bagnate per attraccare ai grandi maniglioni arrugginiti. Ogni volta il padre si voltava, prima d’iniziare le operazioni di scarico, e prendeva il piccolo fra le braccia. Lui era sempre contentissimo di vederlo tornare e amava guardare il mare dalla collina e le barche che partivano e arrivavano. Vai al negozio prendi i fiori più belli e corri a casa a darli alla mamma. Dille che arrivo! Il piccolo si precipitava a far tutto ciò che gli era stato chiesto e correva a casa per invadere di gioia la camera della mamma. 2. Immobile, silenziosa, tranquilla, luminosa e fresca. Il bimbo arrivava correndo e saltava nel letto. La mamma era costretta da anni a vivere allungata a causa di una malattia che la corrodeva ed immobilizzava di giorno in giorno. Nonostante ciò aveva mantenuto una serenità mista a rassegnazione che imbiancava quella stanza di tranquillità. Tantissime volte era andata ad accogliere il marito al porto, tantissime volte si era allontanata con lui verso l’orizzonte ed il loro amore era 99 impregnato di salsedine. Da quando il piccolo era nato la sua mobilità era precipitata e rapidamente era stata costretta al letto. Papà sta per arrivare, questi sono per te! L’abbracciava sempre forte. 3. Il padre entrò in casa e corse nella stanza della moglie per salutare la sua famigliola. Ehi tu! Apri la borsa!... Vieni qui! Il piccolo era saltato giù dal letto e si era gettato ai piedi del padre per frugare tra le sue cose. Cos’è? Aprilo! È un regalo! Aveva trovato un oggetto avvolto nella carta di giornale e con curiosità stava distruggendo l’involucro. Era un cavalluccio marino di legno, verniciato a mano di giallo e di blu, sul suo corpo si scorgevano delle gocce di vernice che erano scivolate e si erano indurite. Era grande come il palmo della sua manina e in basso, alla sua coda, erano attaccate delle cordicelle che creavano un cono di fili. Alla base del cono c’era un disco di legno che serviva a mantenere i fili ben distanti. Scendevano perpendicolarmente verso il basso e si legavano a dei tubicini di ferro vuoti e di differenti grandezze. I tubicini sbattendo tra loro suonavano. 4. Tin tin tin tin tin... Il bambino aveva cominciato a muovere velocemente l’oggetto per sentirne la voce. Scuoteva la cordicella legata alla testa del cavalluccio e immaginava che questo corresse nell’oceano tra le rocce e gli altri pesci. Nella stanza accanto la mamma gridava. 100 Tin tin tin tin tin... Sempre più forte il bambino soffiava delle onde sul suo amico di legno per farlo cantare a squarciagola. Sapeva bene che la mamma aveva spesso degli attacchi e che quelle urla ormai erano soltanto delle macchie alla sua serenità. Ogni volta erano sempre lancinanti e tristi. Il bambino soffiava sui bastoncini di ferro per coprire la voce della mamma con il melodioso suono metallico. Il padre si occupava della donna cercando di contenere il panico. Ogni volta con infinito amore. Tum tum tum tum tum tum... Il suo cuore in quei momenti batteva all’impazzata, inchiodato nel letto sembrava una mandria di bisonti che cercava di uscirgli dal petto. Tin tin tin tin tin tin... Quella notte il cuore non resse e tra le braccia di suo marito, del suo migliore amico e del suo amante gli occhi della donna si chiusero per sempre. Il bambino si addormentò ed il cavalluccio marino, fuori alla finestra, cantava la voce del vento. 101 CAPITOLO DUE BIS Ho paura di morire 1. Sento il mio corpo darmi un piccolo allarme di malattia e subito mi ricorda che invecchio, che mi indebolisco, che arriverà anche per me il momento in cui qualcosa andrà male, in cui non potrò far più quel che voglio per correre da un ospedale all’altro. Ho paura di morire e di soffrire ed è come se dentro di me l’avessi già fatto tante volte, ne vedo le immagini e le emozioni, vedo il colore della mia pelle e la fine di ogni cosa. Ho davvero paura e quando sento il mio corpo sbiancare e raffreddarsi me ne chiedo davvero il perché, sento che ci siam già passati. Sì, in questa sera magica sento davvero questo ricordo, ne sento i sapori. Le immagini che mi perseguitano riempiono, silenziose, l’aria che mi circonda e sento un fragilissimo ricordo cercar di aggrapparsi alla mia coscienza. Sento di perderlo, sento che tra pochi minuti penserò ad altro, sento che è sottilissimo il limite di quest’emozione e presto tornerò a sdrammatizzare come ho fatto dal primo giorno in cui sono nato. Eppure, in questo momento non ho voglia di soffrire e di morire ed è ingiusto. Lo trovo profondamente ingiusto e crudele. Ho paura di morire e di soffrire e aspetto scrivendo che mi passi. 102 CAPITOLO TRE L’alieno 1. Tu padr, trovat m. I son, lontan lontan lontan. Cavallucci marin. Content ch t si arrivat ogg. Cavallucci marin, pianet lontan! Ann ann ann i co t, sempr vicin. Ogg grand moment. I venut sull Terr pe fecondar ovul d nuov pianet. Sfer co sfer far nuov sfer. T ha mess man sul nuov sfer tu padr d nuov sfer. Pe far nuov sfer i avev bisogn d sfer mi pianet e sfer de tu pianet, i ho passat ann e ann e ann pe sfer tu pianet. Prim de tu padr i già sull terr. Tant tant alien s nasconden nel oggett de cas. I guardar e fecondar. I content de t. T ha mess fuoc a nuov sfer. Grazi, grazi, i molt content. I partir co nuov pianet, i partir nel univers, tu venir co m? Il cavalluccio di legno posato sulla mano dell’uomo aveva parlato muovendo a scatti la sua boccuccia fibrosa. L’uomo confuso e frastornato lo fissava senza reagire. I partir, t venir co m? ... T venir co m? ... I partir un, i partir du, i partir tr... ... Vabbun, i partir! Guard sempr ciel, nuov sfer d pianet grazi a t viv! Tant sfer nel ciel... tu guardar, guardar! Cia, stamm bun! Il cavalluccio era diventato piccolissimo e si era perso sulla superficie della grande sfera. Questa aveva cominciato a vibrare e, generando tanto calore intorno a sé, si era allontanata passando attraverso le finestre. Lasciando dietro di sé una scia di luce si era immersa nell’infinità dell’universo. 103 2. L’uomo era rimasto qualche minuto immobile a fissare la finestra, dopo si era guardato intorno, riscoprendo le pareti di quella camera che lo aveva ospitato per tanti anni. (colpo di tosse) (colpo di tosse) La tisana è pronta buon uomo! Come risvegliato da un lunghissimo sogno, uscì dalla stanza e scese le scale. Eh! Il tempo passa per tutti! (colpo di tosse) (colpo di tosse) (colpo di tosse) Sì, è vero. Eppure molte volte sembra davvero non volersi allontanare. Passa e resta lì avvinghiato ad ogni centimetro del tuo corpo. (colpo di tosse) (colpo di tosse) La vecchia servì la tisana e versandola nella tazza tossì... nella tazza. I due bevvero silenziosi e si lasciarono accarezzare dal calore. Grazie mille signora, le sono veramente grato di avermi dato l’opportunità di rivedere questa casa. Grazie davvero... Di nulla, torni pure quando vuole... (colpo di tosse) Buonanotte. Buona... (colpo di tosse)... notteL’uomo si incamminò fuori ed i suoi occhi s’immersero nel cielo abbandonandosi al mistero di tutto quel che esso potesse contenere. 3. Prima di tornare all’ospedale si diresse verso casa, la sua nuova casa. Aveva promesso al figlio di passare a prendere un album con delle foto della sua famiglia e quel suggestivo ritorno al passato ora lo riempiva di domande e di melanconia. 104 Sapeva bene che sua madre si era ammalata dopo la sua nascita, a causa della sua nascita, e che suo padre, il vecchio pescatore, quella sera non sarebbe mai dovuto rimanere solo con il nipote. Sarebbe stata soltanto colpa sua se entrambi i genitori per una ragione o per un’altra fossero morti. Aveva sempre voluto che il piccolo ne restasse fuori e aveva sempre agito per proteggerlo da quell’orribile sentimento che invece aveva marchiato la sua vita fin dalla nascita. Al bambino non avevano mai detto nulla d’importante sulla famiglia paterna e soprattutto avevano sempre negato che lui avesse conosciuto suo nonno. Nonno Andrea era morto anni prima che il piccolo nascesse, punto. Adesso, però, sentiva che era arrivato il momento di affrontare il passato, la malattia del figlio lo stava inchiodando nuovamente contro le sue responsabilità e non voleva rendersi colpevole di un’altra sventura. Voleva uscire da quel vortice che in un modo o in un altro lo strozzava da anni trascinandolo sempre ad indossare il cappuccio del carnefice. Il peso sulla sua schiena lo costringeva a strisciare passo dopo passo e non ce la faceva più. Non è colpa mia se sono nato! Non è colpa mia se sei rimasto solo senza la mamma! Non è colpa mia se bucammo quella maledettissima ruota! Non volevo che morissi e avrei fatto di tutto per salvarti! Non è colpa miaaaa!!!Non è colpa mia! Non è colpa miaaaaaaaa!!!! In piedi sul pontile davanti casa, l’uomo urlava al mare la sua rabbia ed il suo dispiacere. All’orizzonte vedeva la guarigione di suo figlio e con i denti adesso voleva remare per toccare il sole. 105 CAPITOLO QUATTRO L’album 1. Come un grande albero cavo di cui all’esterno appaiono soltanto fasci tubolari di corteccia ed un grande vuoto al centro, così il vecchio camminava passo dopo passo. In alcuni punti lo sguardo poteva attraversarlo da un lato all’altro, in altri potevi scorgere il buio dello spazio interiore. Del suo corpo apparivano soltanto alcune delle parti esteriori. La gamba sinistra era apparentemente uguale a come era sempre stata, ma se la guardavi da dietro potevi accorgerti di come era vuota all’interno; la parte posteriore era stata erosa. Lo stesso valeva per molte parti del suo corpo. Il bimbo era dentro di lui e giocava ad arrampicarsi, le sue piccole mani trovavano appigli solidi sulla dura corteccia interna e con rumorosi sospiri forzava sulle sue braccia per salire in cima. Il vecchio camminava passo dopo passo ed il suo esile corpo non sembrava minimamente affaticato dal peso aggiunto. Mentre i raggi del sole filtravano nelle fessure del viso, il bimbo appariva nel ventre dell’uomo, le sue mani si tenevano strette alla solida pelle che assomigliava alle sbarre di una cella di diversi spessori, con la differenza che il piccolo non si sentiva minimamente imprigionato. La spiaggia si distendeva dorata al suolo ed il vecchio guardava lontano, il suo pensiero si perdeva in quel mare che per anni aveva atteso il suo ritorno. I raggi del sole sfioravano i suoi occhi e lui dolcemente li chiudeva, le palpebre stringendosi creavano tante piccole rughe che scorrevano sul suo viso dipingendovi linee e curve. Le stesse rughe fuoriuscivano dal suo corpo e disegnavano linee nel cielo e sulla sabbia; su quella antica sab- 106 bia che lo aveva visto crescere ed invecchiare, e che per anni aveva custodito i segreti del suo amore. Il bimbo arrivò nella testa del vecchio quando ormai il sole stava tramontando, attraverso piccole fessure riusciva a scorgere il paesaggio ed il gioco di ombre lo divertiva tantissimo. Era molto stanco e mentre l’uomo si incamminava verso casa, lui si distese sulla sua lingua e si addormentò. Il vecchio strinse forte la mandibola sorridendo, gli era grato di tutto. 2. Quando al mattino riaprì gli occhi, la mamma era già sveglia e sul tavolo della piccola camera brillava una ridente colazione. Il dottore mi ha detto che non c’è alcun motivo per cui non posso regalarti una buonissima colazione, allora sono corsa al bar che ti piace tanto e l’ho svaligiato! Buongiorno! Il ragazzo, non ancora sveglio del tutto, rotolò giù dal letto e si avventò sui cornetti. Sono anche passata a casa e con papà ho preso l’album di fotografie che avevi chiesto, abbiamo ritrovato quello in cui ci sono le foto di quando i nonni erano giovani... vedrai come assomigli al nonno! Un cornetto corse via dalla camera spaventato dall’ingordigia con cui il ragazzo divorava tutto. A casa ho anche fatto una lavatrice, steso i panni, e visto che c’ero ho anche cucinato. Vuol dire che a pranzo potrò mangiare cose fatte da te? No, per la fretta ho tutto dimenticato lì! Non puoi immaginare che mattinata movimentata. La donna continuò a mitragliarlo di informazioni per qualche ora, il ragazzo mangiando i cornetti cercava di 107 spingerli con dei movimenti peristaltici verso le orecchie per tapparle. Sua madre era cambiata, aveva un vestito verde-acqua, senza maniche, che terminava al ginocchio. Aveva una collana di perle e una borsetta nera con manico dorato. Dalle sue tasche fuoriuscivano scontrini. Quando ormai il tavolo era vuoto il ragazzo la fissò con gli occhi sbarrati, lei continuava a parlare ed avendo finito le cose da dire adesso stava emettendo suoni senza senso e sopratutto senza sosta. Guardiamo l’album? - la supplicò. La donna si azzittì, lo guardò e con enorme energia e gioia gli disse: Certo! Chiamo papà! 3. Il ragazzo aprì l’album e rabbrividì. Avevano il nonno una parrucca bionda e lui le unghie rosse. Giocavano in sala, in cucina, in camera, ovunque. Nelle foto il bimbo era quasi sempre sorridente e il nonno brillante. C’erano sempre loro due, solo loro due, altri che loro due. Il padre aveva custodito quell’album come un tesoro nel fondo del suo armadio. Dopo che era morta la moglie il nonno si era rintanato in casa e non era mai più uscito. Viveva dei suoi ricordi, per i suoi ricordi e nei suoi ricordi. Il bimbo gli aveva ridato la vita, lo aveva ringiovanito e stimolato in mille nuove avventure. Il ragazzo scorreva le pagine in lacrime, confuso, arrabbiato e allo stesso tempo felice di riscoprire quelle immagini. Era come se quel libro fosse enorme, ogni pagina lo sorprendeva e sconcertava. Perché non me lo hai mai fatto vedere, perché? Ogni singola immagine calzava perfettamente i piedi dei tantissimi ballerini seduti nel suo animo. Tutti nello stesso momento si erano alzati e danzavano senza sosta nelle sue vene e capillari. 108 I tamburi rimbombavano nel suo cervello. Il padre stringeva la mano della moglie e lo guardava senza riuscire a dargli risposta. Guardava quella foto e non riusciva a crederci. Era bionda, bellissima, aveva gli occhi del padre ed il suo stesso sorriso. In quella foto scattata sicuramente quando erano giovani, i suoi nonni riassumevano nella loro immagine un’intera epoca. Ma non era questo che interessava, colpiva, terrorizzava ed esaltava il ragazzo. La nonna, quella donna mai vista prima era così familiare, così conosciuta. Il suo cuore batteva forte, fortissimo, come se stesse per esplodere. Farfalle! Il vestito della donna nella foto era pieno di farfalle, pieno zeppo di vermi trasformati in fate! Ovunque, sul ventre, sulla gonna, sulle spalle, ovunque farfalle di diversi colori. Il ragazzo non capiva, non riusciva a capire quel che nel suo animo si riassumeva perfettamente ma che restava così difficile da elaborare! Era la donna più bella che avesse mai visto. No, l’aveva già vista, ed era bella come allora! No! No! Il ragazzo cominciò a urlare forte. Voglio la luce! Ridatemi la luce! Sole! Urlava fortissimo e si dimenava al suolo in preda alle convulsioni. La foto gli cadde sul viso e l’altra metà dell’immagine che meno lo aveva affascinato gli si rivelò ancora più mostruosamente spaventosa. Lui tremava al suolo e le sue urla ormai erano incomprensibili ma il viso del nonno gli si era impresso nel più profondo dell’animo. Capiva tutto e non capiva niente, ma per il momento tremava, terrorizzato dal buio. Lo stesso buio che da anni lo costringeva ad accendere le luci prima di dormire, lo stesso che poteva inchiodarlo al suolo nel bel mezzo di una partita di calcetto con gli amici, il buio di un sole che sparisce anche se è an109 cora lì per tutti gli altri, quel maledetto buio che lo obbligava a prendere pillole ogni giorno e a fare il pazzo in continuazione. Lo stesso buio che quella sera d’estate aveva oscurato il cielo portando la pioggia. Lo stesso buio che il bambino aveva scoperto in mezzo agli scogli, nel mare. Il buio dal quale il nonno lo aveva salvato. E il buio in cui il suo amato nonno era stato sotterrato. 4. La mano del vecchio si teneva stretta a quella del bambino come l’ostrica che si serra disperatamente per proteggere la sua perla. Seppure bagnate e stanche, nulla poteva più separarle. Sotto la tenue luce delle stelle il suo corpo sembrava ancora più magro ed esile, ma unito a quello del bambino sprigionava una vitalità incredibile. Il cielo era ancora scuro ma lentamente le stelle stavano sprigionando il giorno. Ognuna si ingrandiva sempre di più, regalando luce. Come dei pori che si dilatano fino ad unirsi completamente, il giorno si faceva largo nei bocchettoni dell’universo. Il bimbo osservava meravigliato. Il vecchio senza dir nulla lo asciugava con i suoi lunghissimi capelli, improvvisamente morbidi e caldi, e contemplavano insieme l’alba di quel nuovo giorno. Il vecchio amava il momento in cui le stelle erano enormi, quando tra l’una e l’altra si intravedevano ancora i raggi della notte e la luce delle grandi sfere iniziava a diventare azzurrina. Le stelle sono come dei bocchettoni che si aprono e si chiudono, di notte sono al minimo della loro apertura e, pian piano, durante l’alba si ingrandiscono per cedere il posto ad enormi sfere azzurre così grandi che a noi par di vedere un unico manto uniforme. 110 La pioggia si esauriva sottile e debole e le onde si placavano dolcemente, aprendosi ad un orizzonte infinito. Il vecchio prese il bimbo per la mano e si diresse verso casa. Le loro ombre li seguivano lungo il sentiero, srotolate al suolo dal sole che sorgeva. I gabbiani dall’alto si fermarono a guardare. Le ombre erano invertite. Dietro al vecchio, il bimbo era disteso con la mano verso l’alto, vuota. Dietro al bimbo, il vecchio offriva la sua mano al basso, vuota. Ogni passo le ombre si allungavano sempre di più. Incollate per sempre ai loro piedi ed impigliate eternamente a quegli scogli. Una perla si adagiò al suolo e cominciò a rotolare tra le sue pendenze. 111 CAPITOLO CINQUE Quel giorno Era il 26 febbraio del 1984, Massimo aveva un anno e cinque mesi. Era a casa e giocava con il nonno in sala. Da quando era nato era riuscito a risvegliare in nonno Andrea dei sentimenti e delle energie che da anni lo avevano abbandonato. I genitori di Massimo spesso erano fuori per lavoro e quindi il nonno aveva avuto l’occasione di godere a pieno della sua compagnia e si era lasciato inondare dalla sua vitalità. Quel giorno pioveva fortissimo ed era tardi. Troppo tardi per riuscire ancora a restare svegli, i genitori sarebbero dovuti tornare, ma dov’erano? Nonno Andrea non riuscì a resistere ed i suoi occhi si chiusero. Massimo gattonando colpì una porta e questa si aprì. Pioveva fortissimo e le sue manine scivolavano sulla terra bagnata. Dopo poco il nonno si svegliò e cominciò a cercare il piccolo ovunque. Non lo trovava e ciò lo terrorizzò. La porta era aperta. Il vecchio uomo si precipitò fuori, varcando quella linea che da anni non aveva più oltrepassato. Correva nel fango cercando ovunque. Massimo non c’era. I lunghi capelli del vecchio erano schiacciati dal peso della pioggia ed i suoi occhi erano persi nel terrore di non ritrovare il piccolo. Arrivato vicino agli scogli si arrampicò goffamente sulle pietre scivolose e sporgendo gli occhi dall’altro lato vide Massimo cadere nell’acqua. Senza alcuna esitazione il vecchio si gettò a sua volta. Le onde si scontravano violente sulle rocce. Nonno Andrea riuscì ad afferrare il piccolo ed a stringerlo forte a sé. L’aria era gelida, come l’acqua e come il vento che soffiava su tutto. Spinto dalle onde il vecchio fu scaraventato vicino agli scogli e, imponendo le sue anziane gambe contro la roccia, riuscì a proteggersi ed a proteggere Massimo. Con immenso sforzo cercò di emergere ma altre onde lo avvolsero alle spalle. Prima di esser risucchiato dal ritorno dell’acqua, riuscì a posare Massi112 mo in una nicchia fra i sassi abbastanza alta da non esser inondata. Il cielo era scurissimo come l’acqua, come il vento e come la pioggia. Gli occhi dell’uno erano aggrappati ferocemente agli occhi dell’altro ed i loro corpi si allontanarono sempre di più. Il piccolo vide il vecchio perdersi in tante direzioni, riapparire e perdersi ancora. Quando i genitori arrivarono il bimbo era svenuto per il freddo e per il nonno era troppo tardi. Dopo aver visto l’album Massimo migliorò tantissimo, continuò a scrivere e raccontare di questa relazione particolare con il fantasma di suo nonno ma il suo organismo non reagì mai più con violenza. Adesso ha a sua volta dei figli e per tutti noi resta totalmente pazzo... ma siamo infinitamente grati a suo nonno di poter continuare a suonare tutti insieme e di sognare universi lontani e fantasmi. 113 INDICE 7 Premessa 9 PRIMA PARTE 10 Capitolo primo 17 Capitolo secondo 21 Capitolo secondo bis 23 Capitolo terzo 31 Capitolo quarto 41 Capitolo quinto 62 Capitolo sesto 65 Capitolo settimo 69 Capitolo settimo bis 71 Capitolo settimo tris 72 Capitolo ottavo 75 Capitolo nono 80 Capitolo decimo 84 Capitolo undicesimo 90 Capitolo dodicesimo 93 SECONDA PARTE 94 Capitolo uno 99 Capitolo due 102 Capitolo due bis 103 Capitolo tre 106 Capitolo quattro 112 Capitolo cinque Stampato in Italia nel giugno 2010 per conto di LibertàEdizioni