Romanzo Brigatista - Gianremo Armeni

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Romanzo Brigatista - Gianremo Armeni
Gianremo Armeni
Romanzo
Brigatista
EDIZIONI
ALTRAVISTA
Redazione e grafica di copertina: Edizioni Altravista
Tutti i diritti sono riservati. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo,
non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta dell’editore.
Ogni riferimento a fatti, cose o persone è da ritenersi puramente casuale.
Finito di stampare nel mese di luglio 2009
presso Digital Print (MI)
per conto della Edizioni Altravista
Prima edizione luglio 2009
© Copyright 2009 Edizioni Altravista
via Dante Alighieri, 15 - 27053 - Lungavilla (PV)
tel. 0383 364 859 fax 0383 377 926
www.edizionialtravista.com
ISBN 978-88-95458-15-1
«Una società ideale è un dramma recitato
esclusivamente nell’immaginazione».
George Santayana, La vita della ragione
Per te...
“Alekos”
Ringraziamenti
Un ringraziamento va ad Alberto Franceschini, uno dei fondatori e dei capi storici delle Brigate Rosse. Le pagine che seguono
sono principalmente il frutto della sua versione storica dei fatti.
Il romanzo è stato costruito proprio sulla scia delle informazioni che mi ha fornito personalmente, delle deposizioni rilasciate
dallo stesso Franceschini in sede di «commissione parlamentare
d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo in Italia», nonché traendo
lo spunto dai suoi libri:
Franceschini A. (Pier Vittorio Buffa – Franco Giustolisi), Mara
Renato e io, Milano, Oscar Mondadori Bestsellers saggi, 1991.
Franceschini A., Fasanella G., Che cosa sono le BR, Milano,
BUR, 2004.
I miei ringraziamenti vanno anche a Silvano Girotto. L’ho incontrato nel 2001 a Roma, in una stanza d’albergo, e gli sono
ancora infinitamente grato per aver accettato di interloquire col
sottoscritto, considerata la sua riluttanza nel rilasciare interviste
sulle vicende che lo hanno visto protagonista. Mi dedicò un intero pomeriggio. Oggi più che mai quelle informazioni si sono
rivelate di grande utilità.
Voglio ringraziare anche il Generale Sechi perché i suoi cari e
appassionati racconti sugli anni di piombo hanno trovato terreno
fertile anche in questo romanzo.
Sono riconoscente a Fatima, mia nipote, che per intere giornate si è divisa tra gli studi universitari e le correzioni di queste
pagine. Tuttavia, eventuali errori od omissioni sono da ricondurre
unicamente alle mie disattenzioni.
Grazie a Paola che ha visto il romanzo nascere… e ha dato
ascolto alle mie problematiche fino alla conclusione.
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Altre informazioni storiche sono state desunte dalla lettura di pagine e pagine di «commissioni parlamentari d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo in Italia», e dalla seguente bibliografia:
Braghetti A. L., Tavella P., Il prigioniero, Milano, 1^ ed.
Universale Economica Feltrinelli 2003 (5^ ed., 2005).
Dalla chiesa N., Carlo Alberto dalla Chiesa. In nome del popolo
italiano, Milano, Rizzoli, 1997.
Girotto S., Mi chiamavano Frate Mitra, Milano, Paoline editoriale libri, 2002.
Grandi A., L’ultimo brigatista, Milano, 1^ ed. BUR FuturoPassato,
2007.
Guevara E., Manuale del guerrigliero, Acireale, Bonanno editore,
1996.
Moretti M. (Intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda),
Brigate Rosse. Una storia italiana, Milano, 1^ ed. Oscar
Mondadori, 2007.
Scialoja M., Curcio R., A viso aperto, Milano, Oscar Mondadori
Bestsellers, 1995.
Vecchio C., Vietato obbedire, Milano, Prima edizione BUR
FuturoPassato, 2005.
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Avvertenza
Nello stile dei cosiddetti romanzi storici, anche il racconto che
segue è un amalgama di fatti storici e di elementi mitologici scaturiti dalla pura fantasia dell’autore, laddove, tuttavia, per quanto
strano possa sembrare, sono proprio determinate vicende realmente accadute a configurarsi da sole come un romanzo già scritto. Il lettore si ritroverà spesso al cospetto di intrecci e avvicendamenti che giudicherà forse troppo fantasiosi e bizzarri, al limite
del concepibile e del ragionevole, e per questo sarà portato istintivamente a credere, sbagliando clamorosamente, che siano stati
creati ad arte dall’autore. La realtà invece supera di gran lunga la
fantasia. In questo romanzo, gli interventi narrativi “menzogneri”
dello scrittore sono molto più parsimoniosi e plausibili di quanto
il lettore possa immaginare.
A prescindere comunque da quegli aspetti in cui il narratore tradisce gli accadimenti reali e gli eventi storici per piegare il
tutto alle proprie esigenze narrative, le pagine che seguono delineano il folle e velleitario progetto intrapreso da un gruppo
di ragazzi. Ragazzi poco più che ventenni accecati da un’ideologia e smaniosi di dar sfogo al proprio ardore rivoluzionario.
Quel gruppo è passato alla storia come il «nucleo storico delle
Brigate Rosse».
Dopo queste precisazioni, che ritenevo obbligate, mi preme
però farne altre che si propongono di stimolare una riflessione
in merito al confine che esiste tra una storia vera e una storia
falsa, tra una cronaca genuina e una cronaca contaminata con
espedienti mitici. Quando si parla di Brigate Rosse quel confine
diventa labile, sottilissimo.
Le versioni degli ex brigatisti che negli anni si sono succedute attraverso libri, interviste, convegni, deposizioni in sede di
«commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi
in Italia», sono sempre risultate parziali e messe continuamente in
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discussione. Negli anni, ognuno ha raccontato la sua storia, le sue
ipotesi, le sue teorie, le sue verità.
Non esiste una storia univoca delle Brigate Rosse. La storia del
Partito Armato presenta da sempre più buchi neri che fatti acclarati. É una storia pregna di lati oscuri, di teorie che tendono al verosimile, bizzarre e stravaganti, di dietrologie, di pentimenti, di confessioni incomplete, di elementi giudiziari accertati e meno certi…
Basti pensare che un piccolo dettaglio dell’operazione che
portò al sequestro dell’Onorevole Moro, tutto sommato insignificante perché riguarda due brigatisti che sono stati comunque
catturati, processati, e condannati, è stato raccontato dagli stessi
in due modi assolutamente stridenti tra loro.
Nel libro «Brigate Rosse – Una storia italiana» scritto da Carla
Mosca e Rossana Rossanda, dove vengono raccolte le testimonianze di Mario Moretti – il capo brigatista che gestì tutta l’operazione – a pagina 134, incalzato dalle domande delle due autrici,
Moretti narra le fasi del sequestro. Racconta che, dopo l’agguato,
fu lui a guidare il furgone dove era tenuto nascosto in una cassa
il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e descrive
come trasportarono il prigioniero da via Fani a via Montalcini.
« […] Siamo quasi a destinazione, non rimane che l’ultimo
trasbordo nella macchina che “ufficialmente” frequenta la base
predisposta per la prigione di Moro. Il trasbordo avviene nel parcheggio sotterraneo della Standa dei Colli Portuensi: là sotto la
gente carica ogni genere di sacchetti, scatoloni, cassette. Nessuno
fa attenzione a una cassa appena più grossa del normale che passa
da un furgone al baule di un’auto familiare. Che è la macchina
di Lauretta.»
«È Laura Braghetti che la guida fino alla casa?» (Domanda una
delle autrici del libro)
«Sì» – risponde Moretti.
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In un altro testo, scritto da Anna Laura Braghetti e Paola Tavella,
«Il prigioniero», la brigatista Braghetti fornisce tutta un’altra versione sostenendo che lei non guidò affatto la sua auto perché si
trovava già a casa, in via Montalcini, ignara peraltro dell’esito del
sequestro. A pagina 7:
«Radio e televisione erano accese. Poco dopo le nove, fu il frastuono assordante degli elicotteri che si alzavano su Roma a dirmi che tutto era successo. Non resistevo più, non riuscivo a restare a casa. Scesi la breve rampa di scale verso il portone d’ingresso.
La strada era silenziosa, deserta. I bambini erano già a scuola, gli
adulti a lavorare, le casalinghe non ancora uscite a fare la spesa.
A un tratto scorsi la mia automobile che risaliva con calma via
Montalcini. Ora avrei saputo. Era finita, quell’attesa maledetta
cominciata al mattino presto […] Passeggiavo avanti e indietro
per un breve tratto di marciapiede. Quando l’auto si avvicinò
vidi Mario alla guida».
Questo è soltanto uno degli sterminati esempi che si potrebbero
portare all’attenzione del lettore, decisamente uno dei meno rilevanti nell’ottica globale di ciò che ancora la società civile ignora.
Però è un indicatore. Rende un’idea. Il romanzo che segue si colloca proprio in questa cornice grigia. Non è la storia delle Brigate
Rosse, non è nemmeno una falsa storia, è solo una delle tante
storie. Forse è esistita davvero. Forse è esistita solo in parte.
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…Il giorno dopo
Milano, 8 settembre 1974
Ore 12:15. Caldo opprimente. Nessuna traccia di un filo di vento.
Da qualche giorno, dopo le ferie di agosto, la città ha ricominciato a svolgere in pieno il suo dovere di metropoli con il frastuono
esasperato del traffico cittadino, il fumo nero rilasciato nell’aria
dalle fabbriche, la metropolitana affollata di gente…
In casa le finestre erano aperte e le tapparelle socchiuse.
Era un “covo”, non era una casa. L’uomo è rientrato da poco
e si è piazzato sulla poltrona di velluto. I suoi occhi infossati
sono incollati al televisore. Lo schermo proiettava l’immagine fissa del monoscopio. I due canali Rai cominciavano la
programmazione nel pomeriggio, eccezion fatta per il telegiornale delle 13:30 e per le edizioni straordinarie. L’uomo
attendeva un’edizione straordinaria del telegiornale. Sudava
parecchio. Il volume era basso per mitigare quell’irritante fischio perpetuo che caratterizzava il monoscopio. Se la notizia
era vera, come lui credeva e sperava, sul video avrebbe fatto
ben presto la sua comparsa il mezzobusto di turno. Se la notizia era vera, come lui credeva e sperava, avrebbe fatto una
telefonata al suo burattinaio.
Lui e il suo burattinaio erano già stanchi da tempo. Un giorno, un “compagno”, lo aveva provocato chiedendogli se la sigla
dell’Organizzazione significasse piuttosto: «Bravi Ragazzi».
Il suo burattinaio gli aveva detto che si era presentata un’occasione d’oro, casualmente. Un finale comunque obbligato. Il burattinaio era un’eccellenza. Sapeva scegliere, attendere. Era abile
nel capire quale dote ognuno potesse portare agli altri.
Alle 13 ancora nessuna notizia, ma la fantasia dell’uomo non
smetteva di galoppare nel futuro.
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Il giorno prima…
Torino, 7 settembre 1974
Se gli occhi vedono ciò che desiderano di vedere,
e le orecchie sentono ciò che reclamano di sentire,
gli uomini credono.
Il cielo era sereno sopra i ruderi dell’antico podere abbandonato. Un luogo solitario e dimenticato. Una vastissima campagna
gremita di rovi e acquitrini avviluppava le rovine di quella che fu
una fiorente tenuta. L’Alfa Romeo Montreal del ’67 arrivò sobbalzando sul viottolo reso malagevole dai frequenti interstizi tra le
pietre frantumate. Il guidatore, con le mani inchiodate al volante,
non si curò troppo del picchiettio dei sassolini contro la carrozzeria, strappati al suolo dagli pneumatici. I finestrini erano chiusi
per impedire l’ingresso della polvere. Arrestò l’andatura perché
negli anni una fittissima vegetazione selvatica aveva ostruito, per
un breve tratto, il secolare sentiero che si allacciava con la strada
statale. I tre uomini proseguirono a piedi, divincolandosi tra gli
arbusti, in un pomeriggio assolato.
La catapecchia destinata al deposito delle attrezzature agricole
si trovava sul retro del casolare diroccato, a ridosso del vecchio
fontanile. Si trattava di una piccola struttura tirata su con dei comuni bandoni di latta. Folate infiacchite di vento caldo avevano
la meglio sulla stabilità della porta; lo stridore monotono prodotto dal beccheggio e lo schiamazzo degli uccelli riecheggiavano nel
silenzio della campagna addormentata.
Entrarono nella baracca. All’interno la scena era inondata da
sottili fasci di luce solare che filtravano, con affanno, tra gli occhielli
dei bandoni bucherellati dal degrado. Il caldo liberato dalle lamiere
infuocate e il lezzo li avevano sopraffatti appena varcata la soglia.
L’uomo con le maniche di camicia arrotolate sembrava essere
quello più ossessionato dai timori persecutori. L’altro, il suo amico – la sua ombra sdoppiata – biascicava una radice di liquirizia.
Spettri, se si prescinde dalla consistenza corporea. Fiabesca la loro
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identità. Corpi che proiettano la propria ombra anche quando si
sottraggono al bagliore di qualsivoglia sorgente luminosa. Ombre.
Ombre proiettate dalla follia.
Il terzo uomo, il professionista, teneva un piede puntellato su
una vecchia cassapanca sbrindellata, e i pollici incastrati nei passanti dei pantaloni. Era quello più vicino all’ingresso, sicché i suoi
scarni lineamenti venivano rischiarati al ritmo delle oscillazioni
della porta.
L’adunata aveva preso il via con le solite chiacchiere. L’uomo
che continuava a sputacchiare le scaglie della radice di liquirizia
aveva assunto il ruolo di primo attore, senza prestare la minima
attenzione al suo singolare difetto di inoltrarsi in appassionati e
altrettanto estenuanti ragionamenti politici, che abilmente condiva con parabole pittoresche. Discorsi triti e ritriti: il tema della
rivoluzione, quello delle avanguardie armate proletarie, il disprezzo per la borghesia…
Il suo amico era molto più attento a rivolgere occhiate indagatrici attraverso qualche fenditura nei bandoni, mentre con una
mano faceva dondolare una vecchia lanterna imbrattata di polvere che penzolava da una cordicina appesa al soffitto. Anche se nulla di insolito all’esterno riusciva ad allarmarlo, sembrava incapace
di tenere a bada quelle paranoie che lo accompagnavano da anni.
Fissazioni che, oramai, obbedivano a un istinto viscerale giunto
a maturazione nel tempo, tipico di chi ha il problema di dover
tenere appiccicate identità diverse. A lungo andare, la mente non
distingue più tra una situazione paventata e una reale. Tutto lascia
una traccia. Se il pensiero è costantemente negativo, il cervello si
abitua a considerare solo prospettive infauste.
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Quando il tempo delle conversazioni giunse al termine, passarono all’ordine del giorno, perché se è vero che «lo Stato borghese
si abbatte e non si cambia», è ancora più vero che non si abbatte
con le parole.
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Le armi erano nascoste in una fossa, al di sotto delle lamiere
del pavimento, e custodite all’interno di alcune casse di legno.
L’uomo dalle mille parole ne tirò fuori un campione per mostrarle
all’ospite. Il professionista si asciugò la fronte grondante di sudore
con un fazzoletto di seta spiegazzato, e cominciò a maneggiare
con professionale maestria ora un mitra, ora una semiautomatica… Fece prove di puntamento, assunse diverse posture di tiro,
esaminò i caricatori… Conosceva bene la materia. Notarono sul
suo volto un’espressione compiaciuta per lo Sten, un mitra efficace nei combattimenti ravvicinati, leggero, che poteva essere
smontato in tre pezzi e infilato in una piccola borsa. Impugnò
poi un Mab di fabbricazione italiana, molto più ingombrante,
ma dotato di una maggiore potenza di fuoco. Non gli era ben
chiaro dove avessero acquistato tutte quelle armi, ma non si mise
comunque in condizione di soddisfare la sua curiosità perché un
professionista, in quel tipo di ambiente, non fa mai troppe domande. Quando cominciò ad ammaliarli sciorinando le sue conoscenze tecniche, anche il tizio guardingo uscì improvvisamente
dal suo isolamento mentale.
Quando abbandonarono il podere, gli ultimi rimasugli di
chiarore crepuscolare stavano lasciando inderogabilmente spazio alla sera. L’indomani, il professionista avrebbe avuto un
lavoretto da fare.
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Parte prima
1969
Marzo 1969
La Resistenza tradita
I.
Tutto ebbe inizio…
L’abitazione si trovava al terzo piano di un palazzo del
Settecento, in piazza San Prospero, nel caratteristico centro storico di Reggio Emilia. Per tutta la settimana scrosci rabbiosi si
erano riversati per ore sulla città, e anche in quel primo giorno
di marzo il cielo traboccava di nubi condensate. Presto sarebbe
calato l’imbrunire.
La radio era sintonizzata su una frequenza locale. Era la cassa
di diffusione del Partito Comunista di Reggio. Una voce impostata stava conducendo il notiziario radiofonico. In primo piano:
i fatti di Miramare del giorno precedente.
«…Sono stati identificati e trattenuti per mezza giornata in una
cella di sicurezza, nella caserma dei carabinieri di Rimini, i giovani dimostranti che ieri, in concomitanza con la visita in Italia
del presidente americano Nixon, si sono resi autori di azioni
vandaliche contro la base Nato. In serata sono stati rilasciati.
La commissione federale di controllo del Partito ha duramente
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censurato gli atti teppistici inibendo i facinorosi dal frequentare
tutte le sezioni locali e nazionali…»
Il vecchio ascoltava pensieroso, ricurvo sullo scrittoio di ciliegio,
nel tinello ricavato subito a ridosso della porta d’ingresso. La finestra riusciva ancora a diffondere degli sprazzi di tenue luminosità
dall’impronta malinconica. Si mosse sulla sedia a rotelle per accendere la luce, poi ci ripensò, concedendosi la penombra.
Era un uomo corpulento, barba bianca ben curata e un’apprezzabile capigliatura canuta e lucente. Il volto rugoso esprimeva ancora la fierezza del soldato di una volta. Agguantò un po’
di tabacco lievemente aromatico da uno scrigno e lo riversò nel
fornello della pipa, avendo cura di comprimerlo energicamente.
La programmazione radiofonica prevedeva ora una breve panoramica sulle questioni nazionali del Partito. Lo speaker confermò le indiscrezioni sull’incombente elezione alla carica di vice
segretario di Enrico Berlinguer, sottolineando come ciò avrebbe
portato a un radicale cambiamento della linea politica del Partito.
Berlinguer, infatti, era appoggiato da una corrente maggioritaria che si contrapponeva al segretario Luigi Longo, e lo scontato
cambio della guardia al vertice, in un futuro imminente, avrebbe
portato il Partito Comunista a sancire definitivamente lo strappo
con Mosca. Questa nuova fase del Partito Comunista, di apertura
verso l’Occidente, era già peraltro a uno stadio avanzato.
Un velo di tristezza era calato sugli occhi dell’uomo che era
stato uno dei comandanti partigiani della Brigata Garibaldi1 che
operava nel comune di Montefiorino.2 Per quelli come lui la guerra non aveva rappresentato soltanto la liberazione dal nazifascismo, ma un colore sul quale impiantare la guida di una nazione:
il rosso. La speranza rivoluzionaria aveva rappresentato il termometro di tutta la sua esistenza. Il Pci stava ora abiurando quegli
1. Brigate Garibaldi: formazioni partigiane della Resistenza legate al Partito Comunista
Italiano.
2. Comune di Modena. Nel ’44 fu una delle capitali delle tante Repubbliche partigiane.
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ideali in nome dei quali il vecchio partigiano aveva combattuto,
restando ferito quasi mortalmente quando alcune pallottole lo
avevano centrato alla schiena, privandolo per sempre della mobilità degli arti inferiori.
Accese un fiammifero e lo passò su tutta la superficie della
pipa cosparsa di tabacco. Fece partire un vinile che si trovava già
in posizione di “attenti” sul giradischi, cercando di ingannare la
delusione. Si lasciò andare per i sentieri nostalgici del passato. Le
note tormentate dell’inno3 ufficiale della Resistenza si librarono
evocative nell’aria, conducendolo nel viaggio.
Fischia il vento urla la bufera
scarpe rotte eppur bisogna andar
a conquistare la rossa primavera
in cui sorge il sol dell’avvenir…
Incontrò tracce di memoria eternamente fedeli che appagarono la
collera e lo stato di sofferenza mai sopito. Al tempo stesso acuminarono il rimpianto. Prigioniero del suo passato.
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Udì il rumore di un’andatura scattante incombere per le scale.
Aveva chiesto a un suo amico il favore di andare a cercare il ragazzo. Se lo immaginò salire ad ampie falcate, balzando su ogni
coppia di gradini. Non si accorse che la pioggia fittissima aveva
cominciato a sferzare i vetri della finestra, lo realizzò solo alla vista
del volto madido di quel ragazzo che rappresentava una fotografia
scattata in un altro tempo, in cui il vecchio partigiano rivedeva se
stesso e i suoi sogni.
3. Il titolo della canzone è Fischia il vento. Il testo fu scritto da Felice Cascione nel
1943, ma la musica si richiama a un celebre canto popolare russo dal titolo Katjusha,
scritto dal poeta sovietico Michail Isakovski. In Katjusha era espressa quella ribellione all’invasore che aveva ispirato i soldati sovietici e che nei partigiani italiani aveva
ispirato la guerra di liberazione.
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II.
Il giovane teneva in mano un giornale stillante che aveva utilizzato come copricapo. Indossava un paio di jeans malconci, inzuppati all’altezza della caviglia, e un maglione bianco a collo alto.
Slanciato, spalle larghe, occhi neri e furbi, e una zazzera nera striata
vagamente al centro. Il naso e il pomo d’Adamo erano leggermente
pronunciati. Aveva da poco compiuto ventidue anni. Fece il suo
ingresso rivolgendo un timido saluto, senza badare a quegli eccessivi convenevoli che entrambi detestavano. Nel voltarsi a chiudere la
porta rimase alcuni istanti girato, come spesso accadeva, a venerare
la piccola lastra di marmo fissata al muro, al di sopra degli stipiti.
Conosceva quasi a memoria i nomi che vi erano incisi.
Il vecchio lo pregò di trascinare di fronte alla scrivania una
delle due poltrone. Il ragazzo utilizzò quei pochi attimi per scorrazzare con lo sguardo lungo le pareti. Si trattava di un cerimoniale che reiterava tutte le volte, e tutte le volte veniva investito da un clima quasi nostalgico, sebbene l’ambiente rievocasse
un’epoca da lui non vissuta. Passò in rassegna le cornici e i cimeli
della Resistenza senza contestare la scarsa luminosità nella stanza. Alcune foto sbiadite raffiguravano le fattezze di un uomo di
mezza età che imbracciava un fucile mitragliatore. Diverse foto di
gruppo, leggermente graffiate, ritraevano dei soldati davanti a un
casolare montano. Ritratti ingialliti di un uomo al quale veniva
appuntata una medaglia sul petto… litografie delle celebrazioni
della festa di liberazione…
Si lasciò cadere sulla poltrona.
– Non ascolta le notizie alla radio, oggi? – attaccò il giovane.
– Ho ascoltato abbastanza. Non li voglio più stare a sentire.
– Qualche novità?
– Solo conferme… raccapriccianti conferme di ciò che si
vociferava.
– Berlinguer e i suoi tirapiedi, non è vero? Finalmente anche
lei ha aperto gli occhi.
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– Volevo solo continuare a sognare.
– Questi dannati apostati!
– Credo che ci sarà presto anche un altro problema, ahimé!
L’uomo espose la questione solo dopo aver tirato un paio di
boccate prudenti e ritmate per assaporare fino in fondo la miscela
di tabacco.
– I democristiani, ragazzo mio, in questo clima di fermenti
sociali non hanno nessuna intenzione di tenere a bada il popolo
da soli. Lo si evince dalle dichiarazioni dei loro leader sui giornali.
Credo che lasceranno qualche porta aperta, per scongiurare che
le agitazioni operaie possano assumere le stesse dimensioni della
ribellione studentesca.
– Teme che il Partito possa farsi vedere da quelle porte?
– È scontato. Sarebbe la più logica conseguenza della nuova
linea berlingueriana.
– Mi fanno schifo tutti! – sancì il ragazzo. – Stanno svendendo
gli interessi della classe proletaria. Riconsegnerà la tessera?
– Certo, che diavolo! Siamo comunisti anche senza un pezzetto di carta. Che avete combinato tu e i tuoi amici, ieri? – chiese
all’improvviso il vecchio, con cipiglio.
– Cosa? – Il ragazzo si finse sorpreso, senza però riuscire a nascondere un sorrisetto malizioso.
– Ieri… tu e i tuoi amici… Miramare…
– Corrono le voci a Reggio, eh?
– Persino alla radio…
– Hanno fatto i nostri nomi alla radio?!
– Si sono limitati a dire che dei teppisti sono stati rinchiusi in
una cella… e poco altro. Non potevate che essere voi, no?
– Eravamo in centinaia a manifestare. Poteva essere stato chiunque.
– Lascia stare… capirai… Allora, cos’è successo?
– Mah… una bagattella… qualche tafferuglio…
– Risparmiami la parte in cui fai l’innocente, suvvìa!
– C’è stata una sassaiola contro gli automezzi della base.
Qualche sasso sarà finito anche contro gli yankee. Yankee di merda! – bofonchiò. – Si risolverà tutto con una sanzione pecuniaria.
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– Erano i sassi avanzati dallo scorso anno? – lo pungolò l’uomo.
Il ragazzo se lo aspettava. Il vecchio partigiano non aveva mai
condiviso gli atti di guerriglia allo sbaraglio perché secondo lui
equivaleva a svuotare un lago con un cucchiaio.
– Stavolta è stato diverso, – disse il ragazzo, sottovoce.
– Sassaiole… bastonate… Basta!
– Si è trattato solo di un gesto simbolico per sancire pubblicamente lo strappo col Partito. La visita di Nixon in Italia era l’ideale
per farlo. È noto a tutti che per il Partito la via pacifica al socialismo
esiste davvero e l’americanismo non è più visto come un nemico…
– So che è arrivata una cartolina che non hai gradito, – disse
repentinamente il vecchio.
– Purtroppo non ho fatto in tempo a sostenere gli esami
universitari necessari per ottenere un rinvio. Il Car4 è previsto a
Matera. Come fa lei a saperlo?
– Approvo la tua scelta di partire, – rispose l’uomo, senza trovare ingeneroso ignorare la domanda.
Il ragazzo restò sorpreso e si chiese come potesse approvare ciò
che lui non aveva affatto deciso.
– Credevo che lei non vedesse di buon occhio il servizio militare in questo esercito borghese. Ha cambiato idea?
Il giovane scostò il corpo dallo schienale e si piegò in avanti
per assumere una postura più attenta alla replica.
– Al contrario! – rispose il vecchio, tenendo la testa china e gli
occhi fissi sul tavolo. – Io mi sono limitato a dire semplicemente
che sono favorevole alla tua partenza. Entrambi, infatti, sappiamo benissimo che andrai via da Reggio, ma la tua meta, ragazzo
mio, non sarà per nulla Matera. Mi sbaglio? – disse, senza alzare il
capo, cercando furtivamente gli occhi del ragazzo.
Lo sguardo del giovane si era inebetito.
– È stato forse decisivo l’incontro con alcune persone, ieri? – aggiunse
il vecchio, con l’aria beffarda di chi non ha bisogno di nessuna conferma.
4. Centro Addestramento Reclute. Quando in Italia vigeva ancora l’obbligo del servizio di leva, il Car rappresentava il primo periodo di addestramento.
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Il ragazzo sbarrò gli occhi e rimase a bocca aperta. Seguì un
breve silenzio.
– Chi le ha dato tutte queste informazioni? – chiese, con l’unico filo di voce che gli venne fuori.
– Non ha nessuna importanza conoscere gli “uccellini”! – sentenziò l’uomo, negando così al giovane di poter soddisfare ancora
una volta la sua curiosità.
Il giovane sbuffò rassegnato, memore di situazioni già vissute
con il suo interlocutore. Indispettito, mugugnò qualcosa a cui
l’uomo restò indifferente.
Prima di proseguire, il vecchio partigiano si tolse dalla bocca
una scaglia di tabacco filtrata attraverso il cannello della pipa.
– Non te la prendere per la mia reticenza, è importante però
che tu ne comprenda le ragioni.
– Cominci allora a spiegarmelo questo benedetto discorso sugli “uccellini”!
– Dal momento in cui non salirai su quel treno diretto a
Matera, sulla tua testa penderà un ordine di cattura per renitenza alla leva. Il reato è di tipo penale. Sei consapevole di questo
dettaglio?
– Ho come l’impressione che voglia spaventarmi per farmi
tornare sulle mie decisioni.
– No. A patto, naturalmente, che il progetto di quei tizi non
sia il solito di tanti altri chiacchieroni.
– Lei sa che mi hanno proposto di aderire a un progetto?!
– Stai proseguendo con le domande scomode. Rassegnati. Io
voglio darti delle nozioni e non delle risposte. Nozioni che, per
chi ben presto sarà nelle tue condizioni, avranno la stessa utilità
che possono avere un paio di occhiali da vista per un miope. Te lo
ricordi il discorso che abbiamo fatto sui nomi di battaglia?
– Sì. Mi disse che per ragioni sentimentali preferiva essere
chiamato Diego.
– Anche… ma in particolare mi chiedesti del perché tutti i
partigiani avessero fatto ricorso agli pseudonimi.
– Lo ricordo. Mi spiegò che era una garanzia per ognuno di
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voi non conoscere i nomi degli altri. Se i tedeschi vi avessero catturato non avrebbero potuto risalire ai vostri compagni neanche
con le torture.
– E… non avrebbero potuto compiere rappresaglie ai danni
delle nostre famiglie, – precisò l’uomo. – Tra ex partigiani, ancora
oggi, ci rivolgiamo con quegli appellativi. Lo so, è curioso. Ma è
proprio questo il punto.
Prima di andare avanti si schiarì la voce.
– Per forgiare la tua mentalità devi mantenere determinati
comportamenti anche quando non ce n’è alcuna necessità. È la
prima regola che abbiamo dovuto digerire durante la guerra ed
è rimasta sedimentata in me. Non dimenticarti mai che più cose
un uomo ti racconta sul suo conto, più per lui diventi pericoloso.
Parla poco con chi non conosci e fidati ancora meno di quelli che
conosci! – lo ammonì il vecchio.
III.
Il ragazzo era il leader di un gruppetto di giovani ribelli della
Fgci.5 Ragazzi poco più che ventenni, nati e cresciuti nei quartieri
popolari di Reggio Emilia. Provenivano tutti da famiglie comuniste, dove il rispetto per il lavoro operaio in fabbrica era sentito in
misura viscerale. Quasi tutti, da bambini, al posto delle favole si
erano sentiti raccontare le storie della Resistenza. Li chiamavano i
ragazzi dell’«appartamento». Da un paio d’anni avevano affittato
l’intero ultimo piano di un palazzo fatiscente dove, oltre a dormirci e gavazzare fino al mattino, tenevano le riunioni politiche
in cui le idee “eretiche” potevano essere liberamente manifeste,
senza dover rendere conto ai dirigenti del Partito.
A volte l’«appartamento» si trasformava improvvisamente in
un vero e proprio porto di mare, con giovani anarchici e comu5. Federazione Giovanile del Partito Comunista.
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nisti dissidenti che entravano e uscivano. Questo aveva indotto la
Questura a far stazionare davanti al portone del palazzo, giorno e
notte, un automezzo della Celere.

– Per un attimo ho creduto che avresti lasciato la città senza salutarmi, – riprese a dire il vecchio partigiano.
– Non le avrei mai fatto una cosa del genere. Non ho ancora
deciso quando dire addio a Reggio.
– Come corri! Forse sarà solo un arrivederci. Dove te ne andrai?
– Non lo so. Mi arrangerò… in attesa di questa riunione che
si terrà il prossimo autunno. Sapeva anche questo? – domandò il
giovane, augurandosi che questa volta il suo interlocutore non si
sottraesse dal fornire una risposta.
– Mi è stato sufficiente aver saputo che ieri un ragazzo e una
ragazza, per quello che hanno in mente di fare, hanno avuto una
enorme influenza su di te. Credo che le loro intenzioni vadano
oltre un semplice raduno.
– Naturalmente. Però questa riunione è molto importante
perché forse segnerà la vita di ognuno di noi. Da quanto ho capito ci sarà gente con le palle… gente che la pensa come me e lei…
Forse sono i contatti giusti. Forse non avrò più bisogno di andare
in giro a cercare me stesso. Mi comprende, non è così?
– Le comprendo le tue nobili intenzioni, – confermò orgoglioso il vecchio, – io e tuo nonno le abbiamo cullate. Dico soltanto che almeno avresti potuto prenderti un solo giorno in più
per rifletterci.
– Avevo considerato di partire militare e chiedere una licenza
al momento giusto. Ma se poi non me l’avessero concessa? In autunno si deciderà chi entrerà a far parte di questo grande progetto
e chi ne rimarrà fuori, forse per sempre. Non posso rischiare di
perdere questa occasione.
– Non hai pensato che da qui a sei o sette mesi, per un motivo
o per un altro, potrebbe non farsene più nulla?
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– C’è una garanzia. Il tizio di ieri ha un curriculum da
“sessantottino” che conferisce rispetto alla sua persona. La fiducia
se l’è guadagnata sul campo. È stato un simbolo, un’icona, uno
dei leader della contestazione studentesca della gloriosa facoltà di
Sociologia di Trento.6 Ha presente?
– Ho presente.
– È stato un punto di riferimento per le università di mezza
Italia, proprio per quella sua innata capacità di infiammare il ribellismo studentesco. Non ha mai deluso.
– Suvvìa! Sembri quasi plagiato.
– Non sto esagerando. Mi ha raccontato che ora lavora a
Milano come sindacalista, alla Pirelli, e i “padroni” lo odiano a
morte per quanto gli rompe le scatole. Lo avevo già incontrato
l’estate scorsa, a Trento, quando andai per confrontarmi con lui
sulle riforme universitarie. Mi portò in un ufficio che avevano
occupato, quello del Preside. Avevano divelto la porta d’ingresso
per far passare il messaggio che chiunque sarebbe potuto entrare
senza più farsi annunciare o chiedere permesso. Stava quasi per
laurearsi, gli mancava appena un esame, mentre ieri mi ha detto
che per protesta contro i meccanismi universitari ha rinunciato al
pezzo di carta. Ha letto perfino tutte le opere di Marx.
– E la ragazza che ieri era con lui?
– È la sua compagna, tra poco diventerà sua moglie.
Frequentavano la stessa università…
– Come mai dovete aspettare fino al prossimo autunno per
decidere le sorti del proletariato?
6. La prima facoltà di Sociologia in Italia nasce a Trento, nel 1962. Divenne ben presto
il cuore della sommossa studentesca, un focolaio di accesa rivolta contro il sistema
didattico universitario considerato obsoleto e autoritario. Si trasformò poi in un
fenomeno di contrapposizione esteso ad ogni ambito della vita sociale e politica.
Rappresentò qualcosa di storico e irripetibile. Le occupazioni dell’università (una di
queste ebbe la durata di ben 67 giorni), le minacce ai professori e alle alte cariche
della dirigenza universitaria, gli scontri con le forze dell’ordine, i tafferugli con la
cittadinanza trentina di estrazione cattolica… costituirono la prassi quotidiana per
la stragrande maggioranza degli studenti iscritti. Alcuni, qualche anno più tardi,
cavalcarono l’onda della lotta armata in Italia.
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Il ragazzo non si curò troppo della vena sprezzante della
domanda.
– Mah… c’è uno… lo chiamano l’Inglese… è un personaggio
chiave del progetto. A quanto pare è sempre in giro e fino ad allora non potrà essere presente.
– È curioso!
– Lo chiamano così perché…
– No… non me ne importa nulla degli aspetti folcloristici del
suo nome. È singolare il fatto che sarà in giro per tutti quei mesi.
A fare cosa?
– Mi è parso di capire che neanche loro ne sappiano molto…
– Questo non è singolare, è bizzarro! Dove si terrà questa
riunione?
– Perché mai dovrei dirglielo? Me lo ha consigliato lei poco fa
di fidarmi ancora meno di quelli che conosco… Ricorda?
– I miei complimenti, ragazzo mio. Se portassi un cappello me
lo toglierei!
– È ancora tutto in alto mare. Stanno cercando un posto fidato e al tempo stesso abbastanza capiente da contenere qualche
centinaio di persone. Mi hanno lasciato un paio di numeri di
telefono per rintracciarli.
– Insomma, incontri un tale in occasione di una manifestazione antiamericana, è la seconda volta che lo vedi in tutta la tua
vita, e ti propone…?
Il ragazzo non gli diede il tempo di terminare, eccitato com’era
all’idea di prendersi la sua rivincita.
– Gli “uccellini” hanno steccato qualche nota!
– Che significa?
– Non ci siamo incontrati a Miramare, ci siamo andati insieme. Prima è venuto a cercarci nel palazzo dove abitiamo.
– Gli avevi lasciato l’indirizzo a Trento?
– No.
– E allora?
– Allora… aveva l’indirizzo, il numero di telefono, sapeva in
quanti ci abitavamo, sapeva che Bicio qualche anno fa stava quasi
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per far fuori il dirigente del Partito Liberale, sapeva che abbiamo
messo sotto sopra la fabbrica dove lavora Tony… Mi ha telefonato per parlarmi di questi loro programmi e io gli ho detto che
avremmo potuto farlo durante la manifestazione.
– Uhm, è uno che fa miracoli!
– Mi ha raccontato che questo tizio… quello che chiamano
l’Inglese… gestisce una specie di “ditta”, così l’ha definita… che
ha uno strano nome: Zie Rosse. Ne fanno parte molte donne.
Le Zie Rosse tengono sotto controllo chi la “pensa in un certo
modo”. Raccolgono informazioni nelle università e in quelle fabbriche del nord dove gli operai sono più incazzati. Quando individuano qualche soggetto “interessante” lo seguono da vicino.
Monitoravano anche me e i miei amici.
– E che ruolo avrebbero i futuri sposini in questa fantomatica
“ditta”?
– Nessuno. Loro stanno lavorando insieme all’Inglese a qualcosa di ben più importante, che non ha nulla a che vedere con le
Zie Rosse. Per capirci: il sociologo studia sul come fare la rivoluzione e l’Inglese, attraverso la sua “ditta”, si occupa di individuare e reclutare quelli che possono farne parte. Gli servono quelli
come noi! – concluse, con una smorfia di sussiego.
– Ieri, però, il sociologo e la ragazza sono venuti a lanciare i
sassi! – lo provocò il vecchio partigiano.
– Le faccio rispettosamente osservare che le ho già spiegato
che si è trattato di un gesto-simbolico-contro-il-Partito! – rispose
irritato.
– Ne ho incontrati tanti che per il solo fatto di avere sempre
sulla punta della lingua Marx, Lenin, o Mao… si attribuivano le
capacità di far compiere al proletariato il salto del fosso. Vedrai
che molto probabilmente il tuo amico, oltre a Marx, avrà letto
anche Topolino!
Il vecchio sollevò il capo per accompagnare la figura del ragazzo che si stava alzando.
– Non possiamo mica dichiarare guerra allo Stato da un giorno all’altro! – protestò aspramente il giovane che, risentito, si av30
vicinò alla finestra. Per qualche istante rimase in piedi, volgendo
le spalle al vecchio partigiano e fingendo di interessarsi alla piccola statuetta di gesso sul davanzale, che ritraeva la Dea Atena.
Di colpo, senza dirselo, stabilirono di affidare a un breve silenzio il compito di smorzare la polemica.
IV.
Il ragazzo si limitò a tornare seduto, senza dire nulla.
– Scusami, – disse il partigiano Diego, stringendosi nelle spalle, – voglio solo che tu capisca che per certi propositi ci vuole ben
altro di una buona lettura marxista. Bisogna svestirsi dei panni
“sessantottini”, e bisogna farlo senza appello. Io credo che in Italia
esistano davvero le condizioni sociali per destare la classe operaia,
santo cielo!
Prima di riprendere a parlare tirò di nuovo boccate lente e
pensierose.
– Ragazzo mio, ho un dovere morale nei vostri confronti se
avete deciso veramente di rimettere in mare le nostre vecchie navi.
Il tono di voce era basso e l’espressione di quelle anonime e
distaccate, come se stesse parlando di un qualcosa a lui estraneo.
Proseguì.
– Io e quelli della mia generazione non abbiamo più le forze.
Siano quindi benvenuti tutti i giovani marinai pronti a prendere
in mano il timone della nostra flotta per farle solcare quelle rotte che il Partito ha cancellato dalle sue bussole. Noi non possiamo più stare in prima linea ma possiamo comunque sostenere la
“causa” più di quanto possiate immaginare.
– Allora ci prende sul serio?
– Per quel che ti riguarda non ho mai nutrito dubbi, altrimenti oggi non saremmo qui. Ho sempre visto in te l’uomo che non è
mai stato bambino. Sugli altri sono un po’ scettico, per esperienza. A sentirli, la rivoluzione ce l’hanno tutti in testa, ma dai salotti
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