Razionalità? Verso l`abbandono semantico

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Razionalità? Verso l`abbandono semantico
Razionalità?
Verso l’abbandono
semantico
di Giulio Sapelli*
La razionalità antropologica
Si racconta che Martin Buber (1878-1965), negli anni cupi tra le due guerre, scosso
dai terribili interrogativi scaturiti dal destino dell’identità e del comunitarismo, messi a dura
prova dall’avvento del nazismo e dello stalinismo, raccontasse al piccolo circolo dei suoi
discepoli questa storia chassidica, che mi torna alla mente come emblematica per ritrarre
con poche pennellate cognitive - non ermeneutiche - gli enigmi che il ragionare “sulla ragione” ci pone dinanzi. Si narrava che un rabbi interrogasse un giovane, incontrato per strada
e mai conosciuto prima, con questa domanda: «Come vivi?». Domanda enigmatica di per sé,
per il polisemantico approccio possibile che essa conteneva. Il giovane uomo sceglieva la via
più semplice per lui e così diceva: «Faccio il fornaio. Mi alzo assai presto al mattino, quando tutti ancora riposano. Prendo dell’acqua dal pozzo, la impasto con la farina che ho nei
sacchi del mio negozio, pongo l’impasto nel forno e ne traggo delle forme di pane, che vendo
a coloro che ogni giorno vengono ad acquistarle. Così vivo e sostengo la mia famiglia». A questa risposta faceva seguito la frase del rabbi, che nuovamente chiedeva: «Come vivi?». Al che
il giovane rispondeva sempre nel medesimo modo: «Faccio il fornaio…». E così via, per
diverse volte. Sino a quando il rabbi non disse al giovane e alla piccola folla che si era assiepata attorno ai due dialoganti: «Intendo dire: quali sono i tuoi sogni?»1.
Ecco emergere un nuovo protagonista: l’onirico, che contribuisce alla costruzione
della personalità in modo tanto profondo da costituire un paradigma archetipale, che Jung
si è adoperato a esplorare e a disegnare in tutta la sua vita, affinché comprendessimo noi
stessi.
In effetti, a ben vedere, il primo modello di razionalità che viene alla mente, oggi, nei
rapidi cambiamenti che attraversiamo con maggiore consapevolezza di un tempo, è quello
di una razionalità antropologica, ossia di una razionalità che possa guidarci nella costruzione di un’idea di persona idonea a rispondere tanto alle sfide dell’obbligazione morale, quanto a quelle di come si possa educare l’umano: senza una conoscenza riferita al complesso
delle razionalità del vivente, l’educazione non è possibile e il concetto di costruzione della
personalità epistemologicamente non tiene e non si realizza. Vale la pena di citare un grande maestro junghiano dimenticato: «Non si tratta di un’autobiografia. Questo non avrebbe
*Giulio Sapelli è
Docente di Storia
economica e di
Analisi culturale dei
processi
organizzativi,
Università degli
Studi di Milano.
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per me alcuna importanza. Ciò che invece mi sta a cuore è il tentativo di una “mitobiografia”. Con questo intendo fare affiorare alla luce il “mitologema” che sta alla base del destino del singolo. La biografia personale ha qui interesse soltanto in funzione del “mitologema”; serve alla conoscenza di quest’ultimo, della sua forma e della sua natura, e viene considerata esclusivamente da questo punto di vista. Il concetto di “mitologema” verrà lasciato nel vago e usato come denominazione comune di contenuti diversi: componenti della
coscienza e dell’inconscio collettivo, motivi di famiglia, di stirpe, di civiltà e di razza, cosiddetti fenomeni karmici; in breve, fattori psichici che provengono da una radice non personale. Praticamente il quesito fondamentale di una mitobiografia si pone così: in quale corrente “mitologica” sta il singolo e in quale punto di essa»2.
Biografia personale e destino collettivo
Nella nostra vita convivono più forme di razionalità, ben diverse da quelle strumentali che hanno avuto il loro tempo dorato a partire dall’apparire della dominazione dell’uomo
sull’uomo (Rousseau docet), e quindi ben prima dell’universo capitalistico. Questa “convivenza” consente all’umano di con-vivere con “l’altro” - solo un altruista
può con-vivere, non un tipo ideale neoclassico - e di co-evolvere sia con
Ricordare la società, così come si dipana nei secoli, sia con l’ombra junghiana della
persona, e quindi con i motivi profondi dell’operare della persona medel’intreccio sempre sima, ossia con se stessi.
esistente tra
Ricordare l’intreccio sempre esistente tra biografia personale e
biografia personale destino collettivo incarnato nell’ambiente di vita e di lavoro, nell’universo
e destino collettivo tecnico e serializzato, permette di non annichilire l’essere su tale ambiente, e consente quindi la produzione mitologica possibile a partire da quepermette di non
sto stesso universo. La razionalità di tale produzione simbolica e mitoloannichilire l’essere gica è però diversa dalla razionalità strumentale in vista di un fine totasu tale ambiente, e lizzante e onnicomprensivo. La comprensione dell’esistenza, continua e
consente quindi la continuamente verificabile, di tale produzione simbolica e mitologica è
produzione indispensabile allorché si voglia inserire in una cornice euristica la compresenza di più forme di razionalità esistenti, tanto nella società quanto
mitologica possibile nell’essere umano. Tale essere, ricordiamolo, è l’unica presenza vivente
a partire da questo sul globo terracqueo che non può non porsi - secondo l’impronta divina
stesso universo. che la caratterizza - il problema del “dover essere” e quindi di una teleologia dell’esistenza. Si tratta, quindi, ancora di un’idea di ragione che non
viene determinata né dallo scambio, né dalla strumentalità dell’atto,
quanto, invece, da un’idea di trascendenza e di teodicea, ossia di filosofia della salvezza.
Chi volesse una verifica di quanto siano potenti le sovrapposizioni tra memoria autobiografica, memoria storica e memoria collettiva - à l’Halbwachs3 - non dovrebbe far altro
che disporsi con pazienza alla lettura dell’immensa bibliografia che si è accumulata dai
tempi dello strutturalismo russo e della morfologia della fiaba di Propp4. Ecco la prova che
esistono strutture di riferimento mentale, dei landscape5 affettivi e cognitivi che riannodano
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la rimemorazione degli eventi e li collocano in un universo mitologico tutt’affatto diverso
dalla razionalità strumentale - neoclassica in economia, neoilluministica in filosofia - che
dovrebbe esser prevalente, secondo i difensori della “dea Ragione”, nella e per la nostra vita.
La razionalità romantica e il senso dell’essere
Il legame tra i soggetti, infatti, non è semplicemente cognitivo. Per definirlo non so
ricorrere ad altro che al concetto di razionalità romantica magistralmente descritto da
Larmore: «Non riusciremo a cogliere l’originalità del tema romantico dell’appartenenza se
partiamo dal presupposto che si riferisca semplicemente all’influenza che le forme comuni
di vita effettivamente esercitano sulla mente dell’individuo. In gioco è invece il genere di
comprensione di noi stessi che dovremmo avere, tale da farci considerare gli impegni più
vincolanti non come oggetti (soltanto) di una scelta autonoma, ma come espressione della
nostra appartenenza a una data forma di vita. Una simile comprensione di noi stessi è normativa, proprio perché dipende essenzialmente da un’idea di ragione. Invece di esigere da
noi l’assunzione di una distanza critica dal nostro modo di vita nel suo complesso, come se
l’obiettivo ultimo fosse vedere il mondo sub specie aeternitatis, la ragione dovrebbe essere
interessata agli obiettivi a cui tendiamo nelle condizioni in cui si svolge la nostra vita»6.
È questa idea di ragione romantica portatrice di senso all’essere, che unisce i viventi; ed è questa unione romantica nel suo senso più alto e deviante rispetto all’esistente che
costruisce la trama di quell’insieme di vite che vediamo scorrere attorno a noi, allorché le
persone che ne sono protagoniste si pongono il problema del “dover essere”.
Chi volesse una riprova della necessità, per comprendere l’esistente, di porre in essere una multifattorialità euristica dell’idea stessa di ragione, potrebbe analizzare gli studi
sulla modernizzazione, che consentono una verifica a livello macrosociale di quanto affermato sino ad ora.
Il ripensamento delle teorie della modernità
È in corso da qualche tempo, infatti, un ripensamento profondo delle teorie della
modernizzazione, una riflessione promossa soprattutto dagli scienziati umani più raffinati
per superare le aporie presenti nella prima fase della critica alle teorie della modernizzazione. Queste ultime, sviluppatesi negli anni Cinquanta, si fondavano su una serie di relazioni
monocausali che avrebbero dovuto produrre una successione virtuosa tra industrializzazione,
diffusione del reddito, partecipazione politica, civilizzazione. Il paradigma di una razionalità
evolutiva che ha per lungo tempo imperato vittoriosa.
Quella prima fase critica rilevava il non meccanico circolo virtuoso tra industrializzazione e reddito da un lato e partecipazione politica e civilizzazione dall’altro: la partecipazione politica poteva essere non democratica e la modernizzazione compiersi in forme
bastarde, ossia non regolate dall’orientamento legal-razionale degli attori, proliferando la corruzione, la discriminazione etnica e religiosa, la violenza.
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Tale fase critica coniava concetti importanti e decisivi per il progredire della riflessione, che non è il caso di ricordare qui: basta sottolineare come sia stato definito, credo compiutamente, un complesso di critiche al paradigma originario della modernizzazione, che ha
ancora, un grande peso, purtroppo, sia negli orientamenti collettivi, sia nell’azione dei decisori pubblici7.
In effetti, la caratteristica saliente di questa fase critica è stata di porre l’accento sui
fallimenti della politica, che era intesa, dall’originario paradigma, come elemento sostitutivo dell’infermità allocativa e trasformativa del mercato: di qui il ruolo attribuito alla mano
visibile dello Stato.
È in corso, oggi, una riflessione più radicale. Si tratta della seconda fase della teoria
critica. Essa vuol andar oltre il fallimento della politica, che rischia di essere tautologica. Infatti
le élites, che la modernizzazione doveva incivilire e sostituire, costruivano la politica: il fallimento di quest’ultima era, dunque, il loro fallimento. Dato per scontato il fatto che il mercato
non era in grado di agire per sostituirle o per costituirle, lo Stato avrebbe dovuto crearne di
nuove: la mano visibile doveva porre le basi della diffusione di un’epidemiologia benefica, ibridante la crescita virtuosa, tanto della società economica quanto della società civile.
Senonché il fatto che le classi dirigenti si costituissero sì, ma non virtuosamente - non
erano le élites che la teoria realistica della politica ha insegnato a una minoranza a vagheggiare - ha posto radicalmente in discussione molti dei presupposti alla base della sostituzione del mercato da parte dello Stato legal-razionale.
A partire da questa consapevolezza si invera, dunque, un ripensamento profondo, una
svolta cognitiva ancora in corso e non compiuta, ma sicuramente destinata a essere benefica, e che apre la via alla ricerca odierna, purché si sia indenni dall’inferma e primitiva idea
che il mercato non fallisca mai e sia sempre in grado di allocare “razionalmente” (ma rispetto a chi e a che cosa?) risorse di qualsivoglia forma e natura.
Le nuove forme della modernizzazione
La quinta del palcoscenico su cui si svolgeva e si svolge il dramma della modernizzazione inizia prepotentemente, nonostante i neoprimitivi che meriterebbero uno studio lombrosiano, a configurarsi in forme nuove.
Penso, per esempio, al concetto di sustainable development, inteso antropologicamente come critica relazione tra risorse naturali e popolazione. Ciò consente di porre l’enfasi sulle competenze “naturali”, spontanee, che le popolazioni povere riproducono incessantemente per organizzare la propria sopravvivenza, falsificando ogni paradigma di razionalità economica comunemente inteso. Così facendo, esse superano la condizione di svantaggio in cui si trovano nell’accesso e nell’allocazione delle risorse. Si tratta di un fenomeno universale, di cui abbiamo moltissimi esempi, soprattutto nei contesti urbani, non europei e non nordamericani8. Attorno al building block della famiglia, per esempio, si dipanano scelte di sopravvivenza tutte incentrate sulla basilare strategia di making a future for the
children. Tutto ciò implica un livello di risparmio elevato e di capacità di sacrificare i benefici immediati a vantaggio di quelli futuri, di sviluppare relazioni di vicinato e di parentela
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essenziali per sfuggire tanto all’usura quanto alle degradazioni del corpo e dell’anima che
fondano la miseria spirituale della povertà. I saving clubs e il ruolo delle donne come managers of family plans and priorities sono i due poli di riferimento concreto di una via alla fuoriuscita dalla dipendenza clientelare e dalla povertà. La famiglia e l’associazionismo non
sono più presentati come antitetici. Come è noto erano, invece, antitetici nel consolidato e
pur sempre valido - in taluni contesti - schema à la Banfield, che descriveva il “familismo
amorale”9 come alternativo alle logiche ispirate al perseguimento di qualsivoglia bene pubblico. Ora essi si presenterebbero virtuosamente complementari e interagenti. Questo intreccio di comunità (il ruolo della donna e della famiglia, per esempio) e di società (i saving club
e la ricerca di occupazione nelle nuove differenziazioni sociali più redditizie, come, per
esempio, il turismo), riclassifica in forma radicale molte contrapposizioni, fondando un
modello virtuoso di fuoriuscita dalla povertà con una forza e un’efficacia analitica assolutamente impensabili secondo gli astratti stilemi di una razionalità strumentale e neoclassica.
Solo partendo dall’esame delle relazioni microsociali si può affrontare in modo nuovo
il problema cognitivo decisivo delle scienze sociali: il rapporto tra analisi “micro” e analisi
“macro”, tra azione degli attori sociali e conseguenze di essa nella determinazione del complessivo sistema sociale. Questo implica tenere insieme, innanzitutto, analisi della comunità
e analisi del mercato. È questa una mia antica convinzione10 che trova le sue radici teoriche
nella tensione simmelliana tra forma dell’economia monetaria e forma della società. A differenza di quanto comunemente si pensa, la circolazione della moneta e lo scambio capita-
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listico non hanno soltanto una funzione disgregativa delle forme sociali comunemente intese come “precapitalistiche”, ma anche una funzione di individualizzazione, ossia di potenziamento dell’attività del soggetto proprio a partire dalla “densità” dei rapporti di comunità:
«Soltanto il denaro - afferma Simmel - poteva realizzare forme comunitarie che non recassero alcun pregiudizio al singolo membro. Infatti, il denaro ha sviluppato la forma più pura
di associazione di scopo, quel tipo di organizzazione, cioè, che unisce l’elemento impersonale degli individui in vista di un’azione comune e che per ora costituisce l’unica possibilità
in base alla quale gli individui si possono associare mantenendo un’assoluta riserva su tutti
gli elementi personali e specifici [...] l’allargamento di un gruppo va di pari passo con l’individualizzazione e l’autonomizzazione dei singoli membri»11. Ciò spiega perché le comunità,
tanto nella società economica quanto in quella politica, oggi si strutturino in forme che,
mentre conservano taluni elementi tradizionali (i sistemi di patronage e di kingship), ne
fanno scaturire di nuovi molto diversi da quelli del modello “razionale” weberiano. I legami
sociali tipici delle realtà rurali, per esempio, continuano ad agire potentemente, ma in un
contesto economico, sociale e politico, diverso da quello del passato. Una società, del resto
e non di meno, che è attiva, attivissima, che rende manifesta una grande vitalità nell’informalità dei rapporti e nella rifunzionalizzazione di antichissime relazioni sociali.
La tradizione convive con la modernità, la ragione strumentale con il simbolo e l’immaginario archetipale, sottraendo l’essere dall’annichilimento tanto del mercato quanto
della politica. Insomma: è giunta l’ora di abbandonare il termine “razionalità” per l’eccesso
polisemantico in esso presente.
Note e indicazioni bibliografiche
1 Debbo questo racconto a Claudia Sonino, che ringrazio di cuore.
2 E. Bernhard, Mitobiografia, a cura di Hélène Erba-Tissot (trad. it. di G. Bemporand), Adelphi, Milano 1992, pp. 189-
190.
3 Bello il riferimento cognitivo a questa triade richiamato in J.J. Climo, M.G. Cattel (a cura di), Social Memory and
History. Anthropological Perspectives, Altamira Press, Walnut Creek 2002, p. 4.
4 V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Boringhieri, Torino 1985.
5 A. Appadurai, Disjuncture and difference in the global cultural economy, in «Pubblic Culture», n.2/1990, pp. 1-24.
6 C. Larmore, L’eredità romantica, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 70-71.
7 Per una riflessione più ampia su questi temi si veda
G. Sapelli, Southern Europe since 1945. Tradition and
Modernity in Portugal, Spain, Italy, Greece and Turkey, Longaman, New York and London 1996 (trad. it. L’Europa del
Sud dopo il 1945, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997).
8 Cfr. U. Wikkan, Managing Turbulent Hearts: A Balinese Formula for Living, University of Chicago Press, Chicago 1990
e anche: J.L. Christinat, Des parrains pour la vie. Parentè rituelle dans une communauté de Andes péruviennes,
Editions de l’Institut d’ethnologie, Neuchatel et Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris 1989.
9 E.C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, Free Press, Chicago 1958.
10 G. Sapelli, Comunità e mercato, Il Mulino, Bologna 1986; poi riedito in forma ampliata da Rubbettino, Soveria
Mannelli 1997.
11 G. Simmel, Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, UTET, Torino 1984, pp. 494-495.
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