Ermeneutica del conflitto nel processo di piano

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Ermeneutica del conflitto nel processo di piano
Ermeneutica del conflitto nel processo di piano
Filippo Gravagno
N
egli ultimi anni il portato di alcune riflessioni
all’interno della policy
analysis ha dato origine
ad un ripensamento sul merito della
natura e delle forme di razionalità
associate alla disciplina urbanistica.
Una rilevante spinta verso questa
deriva è stata data anche dalla insoddisfazione per gli esiti raggiunti
nel governo dei processi di trasformazione del territorio. Da più parti
è da tempo ormai sottolineata la
scarsa efficacia delle tecniche tradizionali della pianificazione, almeno nella soluzione di alcuni dei
problemi «emergenti», soprattutto
in riferimento al mutamento dell’articolazione quantitativa e qualitativa dei modelli di sviluppo assunti
sia dalle nazioni occidentali che da
quelle oppresse dai problemi del
sottosviluppo. 1
Tutto ciò ha determinato uno spostamento dell’interesse della disciplina urbanistica dal sistema economico
e
amministrativoistituzionale alle dinamiche decisionali, ponendo in evidenza la necessità di una revisione statutaria di
paradigmi, strumenti, metodi ed
obiettivi che vanno orientandosi
verso una maggiore attenzione agli
effetti prodotti dalle relazioni complesse della pluralità di attori che
intervengono nei processi di piano e
di trasformazione del territorio.
Possiamo oggi affermare che la disciplina urbanistica è sempre più
data come «insieme delle attività
pubbliche che riguardano le trasformazioni fisiche del territorio
operate, sia da soggetti pubblici che
privati, in un’ottica di coordinamento interno ad un dato contesto
sociale ed economico»2.
Si affacciano con sempre maggiore
evidenza alcune nuove questioni ed
emergono delle novità su ciò che
costituisce oggi problema in urbanistica: la sua natura ed il suo ruolo
‘di politica pubblica’; le interferenze tra gli usi ed i modelli di sviluppo del territorio; il rapporto con gli
attori e le forme di trattamento delle loro interrelazioni; le forme di
razionalità e i modelli decisionali
utilizzati nel processo di piano.
Se si guarda alle stesse definizioni
di pianificazione prodotte da Webber e da Friedmann, la prima intesa
a vedere nella disciplina un "metodo per decidere" 3 e la seconda quale
"sistema indirizzato alla riconnessione delle forme di conoscenza
con le forme dell’azione nel dominio pubblico"4 , non si può fare a
meno di notare come esse siano
mosse dal tentativo di dare delle
risposte alla necessità di una ricomposizione della distanza esistente tra intenzione, obiettivi e
prodotto finale del processo.
Il nodo centrale che emerge dalla
riflessione sembra dunque sempre
più legato al tema del significato
che può assumere l’efficacia all’interno della pratica disciplinare.
Scorrendo buona parte della produzione bibliografica, anche recente,
non si può fare a meno di rilevare
che il termine efficacia continua,
nonostante l’ormai ampia trattazione, a mantenere aspetti di forte ambiguità e venga spesso ancora usato
in sostituzione di significati quali
‘utilità’, ‘produttività’, ‘efficienza’
del sistema di pianificazione. 5 Accanto a questi orizzonti di significato è possibile trovare tuttavia alcune posizioni che tendono al superamento della necessità di un recupero all’efficacia del fare, riponen-
do la propria attenzione su ciò che
fa problema circa il senso ed il ruolo che l’efficacia può assumere per
la disciplina.6 All’interno di queste
prospettive di ricerca le domande
attorno al tema dell’efficacia cominciano ad essere trasferite sulla
effettiva possibilità di confronto
con il problema e sulla sua argomentazione e pertinenza. I termini della
discussione non sono più, dunque,
esclusivamente legati alla conformità
tra obiettivi ed esiti. L’efficacia tende
a connotarsi come l’area di riflessione della ‘ragione pratica’ del nuovo
specifico disciplinare; uno specifico
che Mazza restituisce all’interno del
concetto di ‘dottrina’, strumento analitico e normativo per descrivere e
valutare le azioni di pianificazione ed
i piani e che si propone come contributo alla spiegazione della natura
stessa della pianificazione.7
Una forte spinta verso queste posizioni è stata data anche dalla ricerca
sul significato e sul senso che possiamo attribuire ai concetti di «effetto» e di «esito» in urbanistica. Può
essere utile notare come ormai si abbia una diffusa consapevolezza del
fatto che gli effetti, ancorché provocati da decisioni e azioni di specifici
soggetti, non sempre nei sistemi
complessi sono prodotto della intenzionalità; assai spesso essi sono infatti il risultato dell’interazione tra comportamenti individuali dai quali discende una molteplicità di esternalità
che finiscono per modificare lo stesso ambiente locale di ogni singolo
attore.8
Il dibattito disciplinare relativo agli
esiti è stato prevalentemente assorbito dalla querelle sul mancato raggiungimento degli obiettivi dichiarati
del piano, quindi dalla mancanza di
strategie e di strumenti appropriati
FILIPPO GRAVAGNO
per ridurne le difformità. Ciò ha determinato una semplificazione della
questione e una rinuncia a considerare alcuni aspetti come decisivi per la
comprensione di ciò che in questo
caso costituisce problema. In un processo che vede la partecipazione di
molti attori diventa, infatti, particolarmente difficile sia la comprensione degli obiettivi delle azioni
che la stessa nozione di esito. La
valutazione della conformità tra
obiettivi ed esiti, come base di merito per il giudizio di efficacia, rischia, almeno nella accezione sino
ad oggi accreditata, di considerare
nel migliore dei casi solo la prospettiva dell’operatore di piano,
rispetto alla quale le azioni dei molteplici attori andrebbero a rivestire
un ruolo di semplice ‘contesto’. In
questa logica si finisce per attribuire cittadinanza esclusivamente agli
obiettivi definiti prima del trattamento dei problemi e non si ragiona
sul fatto che, invece, assai spesso
sono le condizioni di trattamento
della domanda ed in particolare le
modalità di rappresentazione della
stessa che trovano un agente determinante e spesso indipendente dai
fattori intenzionali nell’interazione
del piano 9.
Il processo di piano nella realtà si
propone infatti, oltre che come un
processo di trattamento, come un
processo di costruzione della domanda. Il processo di formazione
della domanda non si compie quasi
mai ‘ante’ ma si prolunga durante e
dentro il suo processo di produzione. La stessa domanda di pianificazione costituisce del resto assai
spesso l’occasione d’innesco di un
processo di formazione di interessi
capaci di produrre nei soggetti
«pianificati» nuova identità e nuove
istanze. Quest’ultima evenienza ci
costringe, quando vogliamo trattare
di esiti ed effetti, ad indagare non
solo sugli esiti e gli effetti del prodotto, ma soprattutto sugli esiti e
gli effetti del processo di produzione del piano, ed a mettere sotto osservazione l’adeguatezza e l’idoneità degli strumenti operativi e delle
forme di razionalità adottati nel
corso dell’azione.
Queste premesse fanno assumere un
ruolo rilevante nel processo di piano ai «pianificati» ed ai rapporti ed
alle relazioni esistenti all’interno
del loro spazio di interazione: a
quelle pratiche e a quei processi
aperti di interazione che prendono
forma in ogni contesto di piano,
costruendo il denso reticolo delle
azioni individuali che determina le
forme di instabilità e le labilità dell’intelaiatura connettiva dei diversi
attori.
Assumere una visione più attenta
alle interazioni tra processi sociali e
politici costringe ad indebolire e
riformare la tradizionale concezione
funzionalista del sistema della pianificazione che limitava la sua osservazione ai soli strumenti e poteri
delle istituzioni di governo. Ciò
determina un ampliamento del dominio pubblico e il riconoscimento
dei differenti ruoli della sfera pubblica e di quella privata nel concreto formarsi delle coalizioni di interessi che possono prendere corpo
attraverso comportamenti cooperativi, competitivi e negoziali. Si delinea così un rinnovamento della
forma del piano e del sistema della
pianificazione che non può essere
restituito se non all’interno di un
nuovo dominio della politica.
Le politiche territoriali, tuttavia, non
possono essere considerate alla stre-
gua di altre politiche settoriali: la natura intrinsecamente ambigua dei confini spaziali e temporali delle politiche
urbanistiche porta a dover riconoscere
uno spazio analitico, specifico per
ciascun processo, da ricostruire in
funzione degli attori e dei problemi
presenti sul campo10. Mentre gli effetti nel tempo e nello spazio modificano
i soggetti e la dimensione delle aree di
osservazione, si pone il problema della adeguatezza del sistema di conoscenza, inevitabilmente legata agli
operatori e alle finalità dell’analisi.
Gli strumenti di indagine vanno di
volta in volta orientati verso lo studio
di caso dei processi decisionali o verso ‘studi locali’ che cercano di mettere in relazione, ai fini dell’analisi del
territorio,
i
processi
politicodecisionali della pianificazione e il
sistema delle relazioni economicosociali che influenzano le politiche
urbane. Da un lato resta quindi
l’orizzonte sistemico interpretativo
dei processi sociali e politici di costruzione del piano e dall’altro la
ricerca dei meccanismi strutturali
che operano nella trasformazione
urbana.
Le questioni appena toccate trovano
oggi ampio riconoscimento e costituiscono la base giustificativa di
gran parte delle costruzioni teoriche
che informano i metodi e gli strumenti della pianificazione strategica 11 ed in particolare di quelle pratiche che hanno assorbito o che si
ispirano alla koinè dialogicocomunicativa.
La koinè dialogico-comunicativa,
seppur presente da tempo nel dibattito culturale della disciplina, si è di
recente affermata quale forma «altra» di razionalità per il trattamento
di alcune questioni emergenti. Essa,
in particolare, si è imposta quale
ERMENEUTICA DEL CONFLITTO NEL PROCESSO DI PIANO
alternativa ai modelli operativi che
mantengono una stretta coincidenza
tra campo urbanistico e sistema delle articolazioni dei pubblici poteri
preposti al controllo ed alla gestione del territorio. In questi modelli,
il ruolo tradizionale ricoperto dalla
pianificazione è stato quello di conoscere e controllare l’insieme delle variabili sociali e ambientali che
hanno rilevanza nei processi di piano, per permettere di operare le
scelte più rispondenti alle domande
ed alle esigenze della comunità attraverso la formulazione di un piano che trova la sua legittimità e validità esclusivamente all’interno di
un procedimento amministrativo.
Questa dimensione funzionalista ha
sottomesso l’attività urbanistica al
dominio della dimensione legislativa e politico istituzionale che pone
la domanda sociale come semplice
input, glissando la complessità sociale del processo di costruzione
della domanda.
Lo spostamento delle attenzioni e
delle strategie analitiche dal sistema politico istituzionale ai processi
decisionali, quindi agli attori ed ai
meccanismi di interazione, propone
un primo importante passo verso
una pratica critica che offre una più
realistica immagine del sistema di
governo urbanistico, superando definitivamente la centralità del ruolo
assunto dalla componente pubblicoamministrativa ed ogni modello
interpretativo di tipo ‘sinotticocomprensivo’. Tale attenzione al
fare richiede abilità differenti rispetto al passato e in particolare
strumenti idonei per un adeguato
trattamento del rapporto che lega i
processi decisionali alla costruzione
di una visione condivisa della città.
Questa prospettiva di lavoro, tutta-
via, costringe ad alcune considerazioni critiche oltre che a specifiche
attenzioni. In questo percorso restano infatti ancora numerosi aspetti su cui indagare. Un approccio di
questa natura non può essere proposto come ‘neutrale’: esso resta legato alla particolare prospettiva scelta
dall’osservatore. Le peculiarità delle politiche urbanistiche sono ancorate ad una specificità locale e temporale delle relazioni, quindi alla
forma particolare che i processi distributivi tendono ad assumere nei
processi di pianificazione, oltre che
allo stretto intreccio che lega gli
aspetti tecnici con quelli politico
sociali del processo di piano.
L’urbanistica continua a mantenere,
anche in questa accezione, il suo
operato all’interno di un campo di
pratiche sociali e tecnico professionali che produce significativi effetti
sul ridisegno delle forme del sapere
e dei rapporti di potere che dominano le diverse relazioni tra i soggetti del piano. Il piano e i progetti
mantengono una rilevante influenza
sulle dinamiche decisionali e sulle
interazioni tra i soggetti, investendo
direttamente tutto l’intreccio che
lega il sistema politico alle forme
economiche e sociali dei conflitti,
nonché i modelli tecnici e istituzionali di governo.
Al centro dell’attenzione delle nuove
strategie operative della disciplina
troviamo pertanto la modalità di estrinsecazione dell’interazione tra i
diversi soggetti chiamati in responsabilità nel processo di piano.
Nello specifico, l’assunzione di questa posizione critica induce verso una
forma di planning che si propone, più
che come esercizio di tecnica, come
pratica linguistica: una pratica radicata nelle relazioni comunicative ed
orientata all’esercizio di forme molteplici di argomentazione. Per alcuni
aspetti, la nuova prospettiva operativa può essere intesa quale supporto
per la ridefinizione ed il riorientamento della comunità nel suo confrontarsi con i temi dello sviluppo e
del
governo
del
territorio,
nell’intento di fornire risposte più
adeguate al mutare delle condizioni e
delle situazioni.
Questo nuovo ruolo è, almeno in parte, giustificato anche dalla crisi del
rapporto esistente tra società, élite
tecnico-professionale e forme dell’azione collettiva, esploso all’interno di
numerose riflessioni che mettono in
discussione i nessi ed i paradigmi
‘forti’ della pianificazione come attività pubblica e dove intenzionalità
etico-politica
ed
orientamento
all’efficacia degli esiti sociali del
planning portano ad una diversa attenzione alle forme di legittimazione
della disciplina e della pratica professionale: una pianificazione tecnica
fondata su una ‘razionalità dialogica’
che dichiara la propria sfiducia nei
confronti di una certa immagine ‘ingegneristica’ della pianificazione e di
quell’idea della pianificazione data
come progettazione intelligente della
società da parte di una élite tecnocratica.
Sul piano operativo ciò porta ad una
rinuncia ai precedenti modelli procedurali, a qualsiasi prospettiva ‘tecnico-metodologica’ ed alla figura del
pianificatore come ‘guida razionale’
della società. Vengono definitivamente messi fuori gioco il modello
‘tecnocratico’ fondato sulla ‘razionalità strumentale’ che ha dominato a
lungo il campo della teoria e della
pratica, oltre che la logica mezzifini e
le forme economiciste implicite nell’idea riformista della pianificazione
FILIPPO GRAVAGNO
intesa come tecnica volta alla ottimizzazione dell’utilità collettiva. Si è
di fronte ad una transizione dalle ipotesi fondative della disciplina, basate
su una ‘razionalità forte’, alle ipotesi
di una razionalità orientata sul paradigma dell’ ‘azione effettiva’ attraverso un radicale spostamento delle
attenzioni verso l’area delle scienze
sociali applicate. L’atteggiamento
dialogico, che lega il planner al contesto sociale, si volge infatti a favorire la presa di coscienza dei valori
dell’ambiente di vita di una comunità, al fine di permettere una condivisa
e comunque consapevole e responsabile ipotesi di organizzazione dello
spazio e di uso delle risorse.
Restano tuttavia ancora alcune questioni nelle quali è facile registrare
una scarsa coerenza teorica ed una
debole condizione di giustificazione
di queste nuove ipotesi operative. La
debolezza della costruzione ‘argomentativo-comunicativa’ emerge infatti soprattutto nel confronto con la
specificità delle pratiche del planning,
almeno in riferimento al ruolo ed ai
modi con cui questa pratica si è storicamente affermata. I riferimenti alla
‘teoria critica habermassiana’ ed al
‘sapere pratico aristotelico’ trovano
ancor oggi in molti casi un debole
riscontro operativo, mostrandosi più
come una mera cornice teorica che
come un campo sostantivo, mentre
diventa impraticabile qualsiasi ipotesi
di validazione e di verifica dei livelli
di coerenza e di rigore analitico rispetto ai risultati del suo operato. Si registra infatti che l’opposizione ideologica al sapere tecnico ed alla dimensione istituzionale e pubblica della pianificazione, presente in tutte le prospettive di lavoro dei suoi sostenitori,
pone notevoli difficoltà e forti motivi
di conflitto con la natura e la sfera di
azione delle pratiche di pianificazione, che sono comunque dipendenti da
alcune opzioni tecniche e soprattutto
da una volontà pubblica.
Ancora poco esplorate sono inoltre le
reali capacità di costruzione della
dimensione operativa della koinè dialogico-comunicativa, costretta a lavorare dentro l'intreccio che lega le
forme della comunicazione con le
modalità di strutturazione, trattamento e gestione dei conflitti durante la
fase di costruzione del processo di
pianificazione. Questo ultimo intreccio rappresenta uno dei punti di maggiore debolezza del suo impianto teorico e rimanda, inevitabilmente, ad
una maggiore considerazione delle
pratiche dell'ingegneria sociale e della comunicazione nella democrazia
formale; ma rimanda anche ad un
necessario riconoscimento delle relazioni che legano le strategie razionali
della tecnica con quelle della politica
e del sistema delle istituzioni.
Quando ci si confronta con la realtà,
si è costretti a riconoscere che tutte le
relazioni tra gli attori interessati ai
processi di piano sono caratterizzate
da innumerevoli sovrapposizioni e
situazioni di conflitto. Accumulo di
ruoli, interferenza ed ambiguità appartengono al comportamento della
maggior parte degli agenti sociali i
quali tendono a mantenere una certa
autonomia rispetto al ruolo istituzionalmente attribuito. L'aleatorietà dei
comportamenti è accentuata in molti
casi dalla variabilità dei fattori in
gioco che spesso, più che risultato di
intenzionalità, sono prodotto e non
presupposto dell'interazione.
Di fronte a questi atteggiamenti le
strategie della koinè dialogicocomunicativa mirano ad ottenere
forme di interazione orientate verso
azioni congiunte, adottando due di-
verse forme di razionalità: una prima
che considera gli interessi degli attori
come dati a priori del problema; ed
una seconda che vede nel loro trattamento uno degli obiettivi del processo di piano, quindi un output di quest'ultimo piuttosto che un input.
La prima forma di razionalità punta
alla individuazione degli obiettivi
attraverso modelli operativi incentrati
sulla partecipazione diretta ed istituzionale. In questo caso la praticabilità della soluzione è legata alla capacità che essa ha di dare risposta ai
diversi interessi in gioco; il consenso,
ottenuto sulla base di una intesa negoziale o sull'offerta di fiducia, si
trasforma in fattore di legittimazione
dell'azione e di garanzia per le funzioni di controllo e di guida da parte
del pubblico. Dietro questa prima
posizione è facile riscontrare una
funzione dell'urbanistica legata alla
riduzione, quando non all'annullamento, dei conflitti interni al dominio
pubblico e che fa assumere alla disciplina un ruolo di mediazione e di
calmiere dei conflitti12. Questa funzione, del resto, si è nel tempo consolidata ed affermata sia nella tradizione tecnico-ingegneristica, che nelle
pratiche ispirate alla svolta comunicativa e orientate verso forme di negoziazione o di mediazione. In entrambi i casi troviamo infatti l'affermazione ed il riconoscimento al
planner di un ruolo di giudicemediatore dell'arena sociale.13
La seconda forma di razionalità è
chiamata
in
campo
quando
1'attenzione è orientata verso la fattibilità dell'azione. In questo caso cam
bia la natura del problema e viene investito il piano delle forme che possono assumere le strategie della mobilitazione. L'implicazione maggiore di
quest'ultima prospettiva interessa il
ERMENEUTICA DEL CONFLITTO NEL PROCESSO DI PIANO
tema che attiene all'individuazione
del soggetto del piano. L'approccio
tradizionale della pianificazione
tende infatti ad identificare il soggetto del piano con il soggetto pubblico, sia esso l'amministrazione
locale o centrale, che, in quanto
soggetto detentore e/o aggregativo
dell'interesse generale, viene conseguentemente assunto come soggetto collettivo, quindi attore e
soggetto del piano costituito prima
e al di fuori della sua azione. Allorché l'interazione assume la forma di
azione cognitiva si pongono nuovi
scenari nei quali la formazione del
soggetto del piano è essa stessa
prodotto dell'interazione di più attori e motivo dell'azione del planner.
La scarsa considerazione delle rilevanti differenze presenti nelle due
forme di razionalità è alla base della confusione generata dagli obiettivi che si propongono alcune strategie di partecipazione nel processo
di costruzione del piano. Nel corso
degli ultimi anni, al termine «partecipazione» sono stati associati modelli operativi che, a seconda delle
diverse prospettive di lavoro, di
volta in volta si proponevano funzioni assai differenti, legate alla
costruzione di scelte di piano condivise dalle comunità locali, alla
identificazione di caratteri specifici
dei luoghi, alla valutazione dell'impatto sociale delle proposte di piano
e alla implementazione delle scelte 14 .
Al di là della genericità del termine
«partecipazione» e spesso della
scarsa chiarezza con cui esso è usato, il processo partecipativo è stato
sino ad oggi legittimato dal suo inserimento all'interno di una procedura istituzionale che trova spesso
giustificazione in una vaga con-
gruenza con generiche forme di attuazione della democrazia diretta15 .
Si giustificano così le ragioni che
portano con sempre maggiore insistenza ad alcuni distinguo nelle pratiche della partecipazione ai processi di piano, soprattutto rispetto a
quelle sperimentazioni che possono
essere definite di ‘laboratorio’ nelle
quali la partecipazione assume la
forma di una articolazione delle
istituzioni.
In queste ultime sperimentazioni
l'istituto della partecipazione ha
mostrato numerosi limiti non tanto
di attuazione quanto soprattutto di
rappresentatività.16 Il rischio, nella
«progettazione» di processi partecipativi interni alla produzione del
piano, è infatti spesso legato alla
riduzione dell'interazione sociale e
dei suoi complessi meccanismi di
azione e di retroazione. Le decisioni cioè vengono prese all'interno di
un modello artificiale della società
che comprime l'arena di svolgimento del confronto. Come fatto notare
da più parti, in molte di queste esperienze assai spesso il processo
partecipativo si trasforma in pratica
orientata alla ricerca del consenso
su proposte di politiche e piani già
formulati dal sistema17 mentre viene messa fuori dal gioco la possibilità di costruire nuove domande e
soprattutto processi in grado di trasformare sistemi di preferenze, finalizzati alla trasformazione della
società ed alla assunzione consapevole di nuovi valori, comportamenti
e modelli di sviluppo. Per raggiungere quest'ultimo obiettivo in molti
casi risulta indispensabile fare riferimento al ruolo creativo che può
svolgere il ‘conflitto’18 nei processi
di piano grazie alla sua capacità di
indurre aggregazione sociale, co-
struire nuove identità e produrre
stimoli alla ricerca di soluzioni
progettuali inusuali.19
Invero, una forte attenzione per le potenzialità del conflitto è presente da
sempre all'interno della riflessione e
delle speculazioni che hanno interesse per la filosofia politica 20. Senza
dilungarsi sulla genesi e sull'intero
sviluppo del tema, è facile affermare che per numerosi autori i conflitti sono essenziali all'interno di ciascuna organizzazione sociale e ne
costituiscono una componente indispensabile in quanto permettono ad
una parte della società o ad alcuni
diritti, in precedenza esclusi, di acquisire in qualche modo rappresentanza e visibilità. L’aspetto positivo
di un conflitto è infatti strettamente
legato alla sua funzione di stimolo
per la formazione di innovazioni
istituzionali e di nuovi provvedimenti legislativi, oltre che per l'affermazione di nuovi sistemi di valori. In altri termini l'aspetto positivo
di un conflitto è dato dalla possibilità che esso offre ad una parte di
farsi riconoscere e accettare dalla
parte avversa, stabilendo nuovi diritti e nuove regole operative e
comportamentali attraverso il logos
e la phronesis.
Sotto queste ipotesi il conflitto rappresenta un fattore fondamentale
per lo stesso sviluppo della coesione sociale, trasformandosi in elemento portatore di garanzie di libertà e, allo stesso tempo, di coaugulazione della partecipazione alla
vita pubblica, rivestendo spesso
anche il ruolo di catalizzatore di
nuove identità sociali.
Nel trasferimento di queste ipotesi
di lavoro all'interno di prospettive
disciplinari volte a costruire strategie complesse di intervento nei pro-
FILIPPO GRAVAGNO
cessi di piano resta il problema del
come trasformare il conflitto in fattore di innovazione o di novità.
In un suo non recente scritto Crosta
tratta, seppur indirettamente, questo
tema 21 . Egli si interroga sulle modalità con cui il conflitto, inteso
come elemento che provoca uno
scostamento dalla consuetudine e la
rottura di precedenti equilibri, nel
suo costituire elemento di diversità
e di discontinuità, possa tramutarsi
in novità e agente di mutamento. La
conclusione cui perviene è racchiusa nella considerazione che, se il
conflitto viene assunto come "indicatore" della complessità di una
certa situazione e come sua "forma
apparente" e l'innovazione come
"tramite" tra governo e mutamento,
il nesso conflitto/innovazione si
realizza all'interno di un necessario
processo cognitivo di "oscillazione
pendolare" tra problemi e soluzioni.22
In realtà l'argomento centrale della
sua riflessione è tutto interno al problema del controllo nella pianificazione territoriale, del controllo almeno
inteso come riscontro degli effetti dell'azione di piano. A questo proposito
Crosta sostiene che l'azione di controllo è spesso "cognitiva negativamente" e "... non impara dall'impatto
delle politiche con la realtà, se non il
proprio fallimento". Da ciò consegue
che l'effetto inatteso ancor oggi non
costituisce nella maggior parte dei
casi, motivo di apprendimento. Il problema del controllo viene affrontato
infatti ancora a partire dalla registrazione di uno scacco e dentro un'ottica
di tipo rimediale. Il planner, di fronte
allo scarto tra obiettivi definiti ex
ante ed effetti registrati ex post, tende
a non porsi il problema del carattere
di conseguenza diretta-indiretta, ma
valuta gli effetti solo rispetto agli
obiettivi preposti all'azione. Quest'ultimo problema trova riscontro nelle
ipotesi di lavoro di Hirscherman, allorchè sottolinea come in molti casi
diventi più utile attribuire importanza
"agli effetti collaterali", superando la
povertà di una posizione che tende a
valutare, ai fini delle decisioni, gli
effetti esclusivamente sotto la forma
di vantaggi o svantaggi. In questo
modo di manifesta una disponibilità
all'apprendimento "cammin facendo"
e un rifiuto verso ogni prospettiva
operativa di tipo rimediale.
Le questioni appena accennate ci riconducono al classico tema della forma del controllo nell'azione di piano,
quindi delle forme di razionalità ed in
particolare di "razionalità a priori vs
razionalità a posteriori". Un primo
ordine di problemi, in questo caso, è
dato dalla possibilità di esistenza di
una soluzione razionale di tipo esclusivamente tecnico all'interno delle
discipline sociali; di una soluzione
dipendente, cioè, esclusivamente da
una corretta analisi ‘scientifica' del
problema. All'interno delle tradizionali ipotesi di lavoro, discrepanze, distorsioni, difformità e divaricazioni
erano eliminabili per via analitica in
relazione all'efficienza dell'apparato di
ascolto del sistema della pianificazione, senza che ciò faccia pervenire ad
un deficit di consenso, ma mantenendo al limite, solo un deficit di conoscenza. Questa esclusione della dimensione politica dal processo porta a
ridefinire o di certo a ridurre il ruolo
che gli interessi sociali contrastanti
assumono nel processo e comunque
a trattarli solo come fattori reali di
alterazione. Il conflitto, interpretato
come fenomeno di turbolenza sociale, come motivo di deviazione
rispetto al carattere comprensivo
dell’interesse generale, costituisce,
in queste ipotesi, oggetto di ‘persuasione’ e, al limite, anche di repressione da parte dell'intelligenza
della società che in questo caso è
spinta a muoversi contro tutte le
posizioni portatrici di una razionalità altra, diversa e confliggente. La
funzione di controllo, come azione
‘cieca e sorda’, è legittimata alla
rimozione degli ‘ostacoli’, a trasformarsi da ‘correttiva’ in ‘correzionale’ contro le espressioni di
‘razionalità diverse’ che producono
infrazione ad una norma, finendo
così per far perdere ogni valore
all’esperienza.
Nel caso di razionalità a posteriori
il problema del controllo assume,
invece, un carattere sostanzialmente
diverso, partendo dal presupposto
che la razionalità non costituisce un
dato e che, in qualsiasi caso, essa è
sempre data a posteriori e da scoprire nell'azione. L'attenzione in
questo caso si sposta sul carattere
interattivo e non analitico della conoscenza, costruita non più in base
a delle decisioni ma durante l'azione.
Un'abilità di questo genere richiede
che il controllo diventi funzione del
sistema. All'interno di esso occorre
dare vita a processi di catalizzazione che ricompongano le azioni individuali sino a renderle azione collettiva, facendo dipendere l'esito
dell'azione di piano non dal comportamento del soggetto della pianificazione ma da quest’ultimo «meccanismo». E' evidente che sotto
queste ipotesi il controllo, almeno
nella accezione che siamo oggi portati a dare, perde di significato. La
ricomposizione delle diverse razio-
ERMENEUTICA DEL CONFLITTO NEL PROCESSO DI PIANO
nalità non può essere prodotta unilateralmente, ma deve mantenere un
carattere multilaterale con l'inevitabile perdita della sua funzione di
utilità.
Semplificando alcune questioni
possiamo affermare che la dividente
tra le due posizioni - razionalità a
priori vs razionalità a posteriori - è
riconducibile al problema della accettazione o del rifiuto della pretesa
che un agente sociale rivendichi per
sé il ruolo di intelligenza della società. La questione centrale è dunque interna al come muoversi, nel
nostro ambito disciplinare, rispetto
ai due livelli di attore e sistema,
ciascuno non esaustivo e non comprensivo delle ragioni dell'altro;
quindi al come affrontare e risolvere la questione del raccordo tra la
razionalità del sistema e la razionalità del decisore. Una ipotesi di lavoro, in questa prospettiva, è proposta da Crozier nella reinterpretazione del lavoro di Lindblon a proposito della razionalità a posteriori,
come risultato di un processo di
mutual partisan adjustement23 . La
costruzione del raccordo tra le razionalità del sistema e la razionalità
del decisore trova una possibilità di
soluzione attraverso la ricostruzione della dinamica di formazione di
una struttura dell'azione collettiva
collocata tra il livello del sistema
ed il livello degli attori: una pratica
della democrazia in cui il ruolo del
pubblico è maggiormente attento al
governo dei processi e meno legato
agli aspetti autoritativi della fase
decisionale ovvero, per usare termini ormai propri del linguaggio
disciplinare, un ruolo del pubblico
legato alla governance e distante dal
vecchio command-and-control gerarchico delle precedenti istituzioni
di gestione urbana. Ciò rompe i
nessi di sequenzialità temporale e
funzionale tra formulazione ed implementazione delle politiche e richiede la trasformazione delle politiche in effetti e l'accoglimento al loro
interno anche della fase di attuazione. L’intervento, pertanto, non verrebbe dato come tale, ma sempre come re-intervento costante sulle soluzioni precedentemente esplorate, facendo sfuggire il tempo del controllo
degli attori.
In questo modello organizzazione,
disorganizzazione, riorganizzazione
perdono il loro nesso di sequenzialità
e acquistano una pluralità di nessi di
interconnessione dove cui ciascun
attore, con le sue specifiche funzioni,
può rappresentare fattore di organizzazione, disorganizzazione, riorganizzazione, in una sovrapposizione di
fasi e pluralità di interessi che comportano la coesistenza di diverse e
contrapposte strategie, organizzazioni, etc..
Perdono nei fatti senso anche i criteri
di giudizio del processo di implementazione e dei suoi effetti; difformità tra programma ed esito non costituiscono una necessaria connotazione negativa e la conformità non
sempre può essere individuata come
fattore positivo in quanto indice o
sinonimo di raggiungimento dell'obiettivo. Un'azione di controllo ancorata all'implementazione porta a riscontrare l'anomalia nel confrontoscontro tra effetti e problemi e a rappresentare una forma apparente di
disorganizzazione che si trasforma in
organizzazione attraverso l'innovazione solo dopo il riscontro "intelligente" dell'anomalia. Quando si impara dalla anomalia, la riorganizzazione assorbe la complessità emersa
nella fase di disorganizzazione. Si ha
infatti innovazione quando l'impatto
delle politiche si rivela capace di ridisegnare il campo stesso dei problemi e di rompere circoli viziosi
presenti nelle precedenti relazioni.
La possibilità di cambiare una società o un gruppo umano è determinata del resto dalla ricchezza e dalla sovrabbondanza di relazioni presenti; l'inerzia del sistema e l'apprendimento di giochi nuovi sono
condizionati infatti, in molti casi,
dalla rottura di preesistenti loop.
Un insieme povero di relazioni ovvero ricco di loop diventa necessariamente rigido. Diversità ed elevato numero di "circoli virtuosi" contraddistinguono qualsiasi insieme
ricco, in grado di avere quei "giochi" che gli permettono il cambiamento e il superamento dei momenti di crisi attraverso lo sfruttamento
delle sue labilità interne.
Queste labilità rappresentano il focus
della costruzione delle strategie di
intervento nei processi di pianificazione. Il loro disvelamento ma soprattutto la loro implementazione, sono in
alcuni casi praticabili solo attraverso
forme extraistituzionali di partecipazione al processo di governo delle
trasformazioni del territorio. Forme in
grado di costruire un processo interattivo e comunicativo volto a realizzare
qualcosa in più del semplice scambio
di informazioni o di supporto alle pratiche ufficiali, trasformandosi in un
processo di apprendimento sociale: un
mutuo apprendimento che coinvolge
nello specifico «utenti» e pianificatori
e tale da produrre forme superiori di
conoscenza e soprattutto nuove consapevolezze finalizzate all'azione 24.
Questa prospettiva mette al centro del
suo interesse la necessità di costruire
individui che si pongano nei confronti
FILIPPO GRAVAGNO
del ‘governo urbano' non come ‘clienti' ma come cittadini25.
Verso questo obiettivo si sono mossi
del resto già da tempo numerosi
programmi di lavoro disciplinare
volti alla produzione di forme diverse di conoscenza e di nuovi quadri cognitivi 26.
Il nodo più difficile, in questi casi,
è tuttavia legato alla considerazione
che assai spesso la partecipazione
ad un processo di pianificazione
non necessariamente si identifica o
può essere limitata alla partecipazione alle scelte di un determinato
piano e, tanto meno, si identifica
con la sua necessaria condivisione.
Ed ancora, che i processi di apprendimento sociale hanno solitamente
tempi più lunghi dei processi di
produzione del piano, avendo bisogno di riscontri emulativi e non solo informativi.
Pur trascurando questi due aspetti,
che tuttavia rimandano di certo alla
necessità di strumenti diversi di
valutazione dei processi di piano, è
necessario sottolineare che le precedenti osservazioni richiedono
scelte di campo relative ad almeno
due questioni. La prima è interna al
ruolo del planner nel processo di
pianificazione laddove è sempre più
evidente che probabilmente deve
abbandonare la funzione di interprete e/o mediatore per assumere un
ruolo di partecipante ovvero difensore, promotore, organizzatore o
agente di cambiamenti radicali della società. La seconda è relativa al
concetto di efficacia preso a base
del sistema di valutazione affinchè
tenga conto degli effetti che il processo di piano ha prodotto anche
dopo la sua scadenza o a seguito dei
suoi fallimenti invece che della
congruenza delle successive azioni
con le sue scelte. L'obiettivo della
pianificazione, infatti, non può che
essere dato dalla qualità complessiva del territorio, quindi dalla qualità dell"abitare'; una qualità che va
ricercata all'interno delle forme di
crescita delle comunità locali attraverso l'individuazione e la «coltivazione» delle differenze e delle specificità dei luoghi e degli individui.
Su queste due opzioni si stanno del
resto scommettendo da tempo alcuni programmi di lavoro che puntano
verso il rapporto Uomo-SocietàAmbiente e le sue forme coevolutive, mirando alla ricerca e
all'accrescimento dei fattori di differenza e di diversità del locale,
quale garanzia per una maggiore
metastabilità del sistema. Analogie
comportamentali con l'ecologia dei
sistemi naturali portano, seppur attraverso trasferimenti concettuali
che assumono solo valore di metafora, a rivalutare in termini sostanzialmente differenti rispetto al passato le funzioni che il conflitto può
svolgere nei processi di trasformazione della società. Richiamando il
pensiero di Morin 27 ed in particolare la necessaria triangolazione tra
‘ Ordine-DisordineRiorganizzazione ', anche nei sistemi con cui ha a che fare l'urbanistica qualsiasi ipotesi evolutiva e l'affermazione dell'innovazione passano necessariamente attraverso l'estrinsecazione di una fase conflittuale capace di ridisegnare le prospettive di trattamento delle questioni. Fase conflittuale che coincide sempre con uno spartiacque
strutturale legato a momenti di biforcazione organizzativa dipendenti
dalla affermazione di nuovi modelli
di comportamento e di nuovi sistemi di valore.
Note
1
Lo spazio di azione in cui opera già da anni
la disciplina è sempre più indirizzato verso il
recupero dell'esistente. II piano è il piano della
città e del territorio esistente, una città o, meglio, un territorio che porta i segni, l'imprinting del caos, dell'imprevedibilità, dell'ingovernabilità; in cui gli unici interventi possibili
non possono assumere l'obiettivo di una ricomposizione del tutto in un insieme strutturato, ma possono solo puntare a rimarginature,
riconnessioni, metabolizzazioni parziali. L'abbandono della ‘terra delle certezze', l'assunzione della ‘navigazione a vista', il relativismo
e la fenomenologia, fanno pertanto ormai parte
da tempo del nostro statuto culturale. Essi
hanno già da tempo trovato una speculare trattazione in alcuni dei temi che costituiscono il
background che ha caratterizzato il più generale dibattito culturale degli ultimi anni.
2
Cfr. J. Friedman,1987, Planning in the
publi c do main : f ro m kno wledge to ac tion
Princeton University Press, Princeton, N.J.
3
Cfr. M. Webber, 1983, «The Myth of Rationality: Development Planning Reconsidered»,
in Envi ro mental and Planning B : Planning
and De sign , vol . 10.
4
Cfr. J. Friedmann, 1987, Planning in the
publi c do main. F rom knowl edge to ac tion,
Princeton Univ. Press, Princeton.
5
Cfr. A. Balducci, 1991, Di segna re il futu r o, 11 Mulino, Bologna.
6
Ibid..
7
L. Mazza, 1995, «Ordine e cambiamento,
regola e strategia», in L a città e le su e
s cien ze , Atti Seminario Internazionale, AISRe
- Associazione ltaliana Scienze Regionali,
Perugia 28/30 Settembre 1995, Terza Sessione
- La programmazione della città, pagg. 31-48.
8
G. Ferraro, 1990, La ci ttà n ell'inc er tez za e
la r etor ica d el piano , Franco Angeli, Milano.
9
A. Balducci, 1991, op. cit..
10
S. Moroni, 1997, Etica e te rr ito rio. Pro s pet tive d i filo sofia pol itic a pe r la piani fi cazion e te rr itor iale, Franco Angeli, Milano.
11
Cfr. A.Faludi, A. van der Valk, 1994, Rul e and
Ord er Dut ch Plann ing Do ttr ine in the
tw entieth C entu ry Kluwer Academic Publishers,
Dordrecht, Netherlands. Cfr.A.Faludi, 1987, Deci s ion cent red view envi ron mental planning,
Pergaron Press NY. La pianificazione strategica non
costituisce in sé una novità ma riassume concetti già
noti in letteratura e nella dottrina, sforzandosi di
produrre aree di attenzione capaci di conferire alla
disciplina maggiore credibilità. Nella definizione più
ampiamente accettata la pianificazione strategica si
configura come un complesso di atti e di procedure
che individuano, attraverso il concorso di più autori,
le azioni necessarie e sufficienti nel tempo e nello
spazio a raggiungere un certo numero di obiettivi
coerenti con una visione complessiva della città e
del territorio. La sua attuazione esplicita la sequenza logica 'finalità-obiettivi specifici-azioni-progetti'
mettendo in relazione il sistema delle azioni con
quello degli obiettivi, imponendo, allo stesso tempo, strumenti di supporto alle decsioni che permet-
ERMENEUTICA DEL CONFLITTO NEL PROCESSO DI PIANO
tono il confronto ed eventualmente la concertazione degli attori su una data ‘visione di fondo' della
città. In realtà, anche in questo caso, nessuno di
questi elementi costituisce una novità assoluta ma
sono il portato di numerose precedenti ipotesi di
lavoro. La reale novità della pianificazione strategica consiste, semmai, in una organica strutturazione di tutti questi elementi tendente alla realizzazione di una pratica evolutiva in grado di svilupparsi attraverso ‘prospettive di traiettorie mobili'.
Ne viene investito il tema dell'efficacia in primo
luogo nella argomentazione della ‘visione' della
città e degli obiettivi che possono essere assunti
per la legittimazione dell'azione del piano,in secondo luogo come strumento di controllo, verifica,
riorientamento, per la necessaria ‘navigazione a
vista' . In questa prospettiva di lavoro l'efficacia
diventa, quindi, lo strumento attraverso cui il piano
riacquista una sua forma superando il rischio di
assumere una dimensione atemporale e di trasformarsi in metafora. Ancor oggi cardine dell'approccio strategico è, assieme al piano della struttura
che rende esplicita la mappa delle aree di carattere
strategico nelle quali l'amministrazione si impegna
ad operare con interventi di trasformazione prioritari, il sistema delle metodiche di valutazione, di
assunzione delle decisioni e del controllo. Questi
elementi richiamano l'attenzione del planner verso
una nuova dimensione del fare e, soprattutto, verso
nuove aree di riflessione nelle quali il suo operato
è esplicitamente ancorato al contesto politico e
sociale di produzione delle decisioni.
12
Sotto queste ipotesi vanno a confluire molti degli
argomenti interni al rapporto della disciplina con le
questioni di giustizia sociale ed in particolare le
posizioni utilitariste e neo-contrattualiste della
filosofia politica. A questo proposito cfr. S. Moroni, 1994, Territorio e giustizia distributiva, Franco Angeli, Milano; cfr. S. Moroni, 1997, Etica e
territorio. Prospettive di filosofia politica per la
pianificazione territoriale, Franco Angeli, Milano.
13
A. Celino, G. Concilio, M. Puglisi, 1998, Alcune
riflessioni sulle pratiche di partecipazione nella
pianificazione, in AAVV, Come se ci fossero le
stelle, CUEN, Napoli.
14
Ibid..
15
Cfr. Celino, G. Concilio, M. Puglisi, 1998, «Alcune riflessioni sulle pratiche di partecipazione
nella pianificazione», in AAVV, Come se ci fossero le stelle, CUEN, Napoli.
16
Cfr. A. Balducci, 1994, «Progettazione partecipata fra tradizione ed innovazione», in Urbanistica, anno XLVI, n. 103.
17
Cfr. G. Ferraresi, 1994, «La costruzione sociale
del piano», in Urbanistica, anno XLVI, n. 103.
18
Cfr..A. Pizzorno, 1993, Le radici della politica
assoluta, Feltrinelli Milano.
Una definizione di conflitto può essere restituita
come rottura di precedenti circoli e strutture di
relazione.
19
L’argomento, certo ancora aperto ad ulteriori
sviluppi, è stato oggetto di trattazione da parte di
A. Barbamente, D. Borri, G. Concilio, S. Macchi,
E. Scandurra, 1996, Operational Reflections of
Cognitive Complexity in the Evaluation of Local
Conflict and Cooperation Environmental Scenarios, paper presentato al Third International
Workshop on Evaluation in Theory and Practice in
Spatial Planning, London University College,
19/21 Sett. 1996.
20
Una delle prime trattazioni sulla prospettiva
costruttiva del conflitto è possibile trovarla in
Machiavelli che, in apertura dei Discorsi, illustra i
vantaggi dell'esplicazione dei conflitti civili per la
vita di una repubblica producendo una vera e propria teoria del conflitto. La trattazione del tema è
comunque presente in numerosissimi altri autori,
ed assume preminenza nella prospettiva interpretativa dell'ermeneutica gadameriana, che ha ispirato
alcune riflessioni contenute in questo scritto.
21
Cfr. P L. Crosta, 1988, «L'innovazione nelle
pratiche territoriali: non inerente ma contingente
al piano», in C. Donolo, F. Fichera (a cura di),
1988, Le vie dell'innovazione. Forme e limiti
della razionalità politica, Feltrinelli, Milano.
22
Ibid..
23
Cfr. A. Crozier, Friedberg, 1978 Attore sociale e
sistema, Etas libri, Milano cit. in P. Crosta, Anomalia e innovazione: come si coniugano nelle
politiche pubbliche e private di produzione del
territorio , in A.S.U.R. n.17, 1983. In effetti l'analisi di Lindblon si esaurisce nella metafora della
"mano nascosta" che riconduce il meccanismo al
livello di sistema sottraendolo al controllo dei
singoli attori. Crozier, riguardando il ciclo di azioni e reazioni come rapporto di negoziazione, individua un "iniziatore" e dei soggetti che, reagendo
alla prima iniziativa, diventano da oggetto essi
stessi "soggetti" cooperanti nel processo. La razionalità in questo caso mantiene il suo carattere a
posteriori ma può essere scoperta solo nel corso
stesso dell'azione.
24
Cfr. A. Barbamente, D. Borri, G. Concilio, S.
Macchi, E. Scandurra, 1996, Op. Cit..
25
Cfr. A. Celino, G. Concilio, M. Puglisi, 1997,
op. cit..
26
Cfr. D. Dolci, 1996, La struttura maieutica e
l'evolverci, La Nuova Italia Scandicci Firenze.
27
E. Morin, 1973, Il metodo: ordine-disordineriorganizzazione, Feltrinelli, Milano.
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