1 LE COMPETENZE PER LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE

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1 LE COMPETENZE PER LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE
LE COMPETENZE PER LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE
IMPRESE TRENTINE1
7 marzo 2005
Maurizio Rossini: introduzione
Siamo molto contenti nel vedere che il tema della gestione delle risorse umane, che
ci sta molto a cuore, riesce a coinvolgere così tante persone. Mi preme innanzitutto
spendere due parole di presentazione sulla Trento School of Management. Tsm è nata un
paio d’anni fa, è una scuola voluta dalla Camera di Commercio di Trento, dall’Università
degli Studi di Trento e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto che ci
ospita qui oggi. E’ un consorzio che si occupa principalmente di formazione, che
rivolgiamo a due fronti molto importanti: innanzitutto una formazione per i giovani, una
formazione sostanzialmente post-laurea, che si concretizza in percorsi di specializzazione
ed in master. Poi vi è un secondo fronte che riguarda invece la formazione continua, rivolta
a chi in azienda c’è già ed ha voglia di elaborare riflessioni e crescere ragionando insieme,
discutendo insieme ed usufruendo dell’apporto anche di persone che possono portare un
proprio contributo sulle tematiche del management.
Quali sono le aree di attività nelle quali operiamo? All’interno dell’area
“formazione giovani” ci occupiamo soprattutto di management turistico, di management
delle istituzioni artistico-culturali, di management pubblico ed, a breve, ci occuperemo
anche di management dell’agroalimentare ed ambientale. Quindi sono cinque settori per i
quali riteniamo che vi siano delle necessità ma anche un know-how in Trentino importante
da spendere. Abbiamo individuato poi tre trasversali, crediamo, decisive per il
management di oggi: innanzitutto un’area che vede la presentazione di questa ricerca, per
noi molto significativa, che riguarda la gestione delle risorse umane; un secondo fronte più
tecnico, è costituito dall’area law and economics ed un terzo fronte, decisivo, importante
per il Trentino, che riguarda l’internazionalizzazione e l’imprenditorialità. Quindi cinque
settori, tre aree di competenza sulle quali ci poniamo l’obiettivo, da un lato di fare,
speriamo, della buona formazione, una formazione il più interattiva possibile e che sappia
coniugare bene il pensare ed il fare; in secondo luogo, accanto a questo, una formazione
che sappia coprire le diverse esigenze. Quindi, come dicevamo prima: master, giovani,
executive master per chi già lavora, percorsi di perfezionamento per arrivare sino a
seminari ed incontri anche di una giornata, ma che sappiano stimolarci rispetto, ripeto, ai
temi importanti con i quali i manager hanno a che fare tutti i giorni.
Siamo convinti che per fare una buona formazione ci sia bisogno anche di ricerca,
cioè di capire un po’ meglio la realtà che ci circonda per riuscire a progettare bene, per
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Questo testo è una versione rivista della registrazione del seminario e mantiene volutamente l’immediatezza
dell’oralità. Gli interventi non sono stati rivisti dai relatori. Questo contributo vuole essere un piccolo
strumento di diffusione del lavoro svolto oltre che un servizio per il gruppo dei partecipanti per tenere
memoria del percorso seminariale.
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riuscire a proporre una formazione che sia in sintonia con i temi con i quali ogni giorno in
azienda ci confrontiamo. Nelle attività di ricerca ci impegniamo soprattutto nel capire le
migliori modalità formative o, meglio, quelle più efficaci, accanto ad un’attività di ricerca
che ci permetta di capire meglio i settori e le aree di competenza sulle quali vogliamo
lavorare. Ed allora ecco che questa ricerca vorremmo ci potesse dare quelle informazioni
per poter capire meglio la gestione delle risorse umane all’interno delle aziende e
vorremmo altresì che ci potesse aiutare a predisporre una formazione adeguata, sia per il
management - direzione del personale – sia anche per i quadri intermedi e per tutti coloro
che con le risorse umane hanno a che fare all’interno delle imprese. Per questo siamo
particolarmente contenti di presentare questa ricerca, perché poi, attorno alle risorse
umane, ruotano ovviamente tutte le attività interne all’azienda: di risorse umane parliamo
quotidianamente come una delle risorse più importanti che l’azienda ha oggi per affrontare
la competizione sempre più alta con cui nei mercati internazionali oggi abbiamo a che fare.
Dicevo poc’anzi che questa non è l’unica ricerca che stiamo portando avanti; vi
sono altri fronti sui quali siamo impegnati e quindi spero avremo anche altre occasioni per
confrontarci e per ritrovarci.
Colgo l’occasione, prima di dare la parola ai relatori, di ringraziare alcune persone:
innanzitutto vorrei ringraziare l’Associazione Italiana dei Direttori del Personale ed in
particolare Armin Mair, che è responsabile per il Trentino Alto Adige, per la partnership
che abbiamo instaurato e per il contributo dato anche per questa ricerca. Vorrei poi
ringraziare Giuseppe Varchetta, che ha coordinato il gruppo di ricerca, che poi lui stesso
presenterà. Giuseppe Varchetta, già direttore del personale e dello sviluppo organizzativo
in Unilever, ha maturato una grossa esperienza manageriale, ma contemporaneamente è
una persona che col Trentino ha avuto a che fare in tutti questi anni sia come formatore sia
anche a capo di alcuni progetti formativi per noi molto significativi.
Vi è stato un confronto - che mi è stato rappresentato come “molto proficuo” - con
tanti direttori di personale ed imprenditori che sono stati l’interfaccia indispensabile ed
essenziale per tastare il polso all’interno dell’azienda, per raccogliere indicazioni che spero
possano diventare materia di discussione oggi e di lavoro per noi nei prossimi mesi. Quindi
auguriamo un buon incontro e un buon lavoro a tutti; ora passo la parola a Giuseppe
Varchetta. Grazie ancora per la presenza.
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Giuseppe Varchetta: Lo sguardo nella gestione e nello sviluppo del personale
Buon pomeriggio alle signore, ai signori, alle giovani donne, ai giovani uomini
presenti in questa aula. Faccio sempre questa classificazione anagrafica perché mi pare che
i giovani oggi devono essere incoraggiati e prima di tutto riconosciuti: questo è un tema di
gestione delle risorse umane.
Lascio il compito di presentare più degnamente di me il gruppo di ricerca ed i
risultati particolari a Gianluca Cepollaro, che ha svolto un ruolo più operativo di me nella
gestione di questa ricerca, e mi limito a fare una riflessione generale su un risultato e
soprattutto sul suo significato, anche etico e simbolico, che ha all’interno di quelle che
sono le attività di tsm e, credo, in quelle che sono oggi le culture organizzative di questa
nostra terra comune che è il Trentino. Questa ricerca potrebbe avere come deadline, come
gergo, questa frase: "Domande: a chi faceva domande non si rispondeva". E, come
seconda battuta, una frase di Emmanuel Levinas, un filosofo del popolo ebraico scomparso
recentemente, che è: "L’etica è un’ottica".
Ora io mi permetto di chiedere a tutti voi di lasciare sospeso il significato di queste
due affermazioni che penso di poter riprendere insieme con tutti voi alla fine di questo mio
breve parlare.
Da tempo in Italia, finalmente, anche nel nostro Paese, si sta facendo luce un modo
di fare ricerca diverso dal passato e la nostra ricerca è, io penso, un degno esempio di
questa nuova modalità. In altre parole noi siamo passati da un modo di fare ricerca centrato
su una separazione di chi ricercava dall’oggetto della ricerca, quasi in un approccio
scientifico e positivista, mal copiato dalle cosiddette "scienze della natura", ad un modo di
fare ricerca nel quale chi fa ricerca è completamente immerso nell’oggetto del ricercare.
Siamo passati da una ricerca di risultati immediatamente misurabili ed inventariabili da
mettere a magazzino o nei cassetti chiusi in maniera riservata così non circolavano e non li
vedeva nessuno, se non il committente, ad un modo di fare ricerca che è un continuo
interrogarsi sui fenomeni, sulla loro evanescenza, sulla loro evoluzione con i protagonisti
stessi dei fenomeni che vogliamo ricercare. In altre parole un passaggio da un “fare
ricerca” che è una lontananza cognitiva ed emotiva dalla realtà vera dei vissuti degli attori
organizzativi implicati come oggetto di ricerca, ad un approccio nel quale il soggetto che
conosce diventa oggetto stesso della ricerca pur rimanendo soggetto separato.
La ricerca sociale così ripensata - e questo lo sta diventando anche nel nostro Paese
perché, ripeto, ci sono ormai generosi e valorosi esempi di questo modo di fare ricerca può aiutare coloro che nell’azienda gestiscono l’esperienza aziendale, imprenditori e
management, a liberarsi da un’idea precostituita di fare organizzazione andando dietro a
dei modelli di letteratura copiata e non originata da un rapporto di significanza vera con i
vissuti e con le realtà specifiche della propria azienda. In altre parole una ricerca così
ripensata, che qualcuno potrebbe definire "creaturale", un po’ sporca, un po’ variegata
dentro la realtà che indaga, aiuta a creare modelli originali di gestione organizzativa e non
copiati e portati, magari, da consulenze “fredde” all’interno delle singole aziende.
C’è un principio della teoria della complessità che dice che “Il tutto di un certo
universo è in certo modo ricompreso in una parte di esso”. Questo vuol dire che dal punto
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di vista di questo modo nuovo di fare ricerca è più importante, per una conoscenza vera,
approfondire in maniera consapevole ed analitica una parte, come ad esempio, un caso
aziendale, e lì trovare una verità viva, pensata, vissuta, piuttosto che affannarsi a ricercare
ovunque, ad esempio su tutte le realtà aziendali, toccando solo in superficie e non andando
in profondità. Abbiamo seguito un modello di tipo ologrammatico, abbiamo fatto una presa
di visione generale dell’universo, ma abbiamo soprattutto lavorato su singoli casi nella
convinzione che lavorando in profondità si arrivi più alla verità che non lavorando in
superficie su tutto. In altre parole, questa ricerca che vi stiamo presentando è un “buon
esempio”, citando un ricercatore contemporaneo di grande spessore, che è Carlo Ginsburg,
di come si possa seguire un “paradigma indiziario”, cioè andare dietro a dei segnali deboli
e non a dei segnali forti. Tutto questo nella convinzione che nella ricerca sociale il capire
meno, l’essere ingenui ed essere capaci di stupirsi, mantenere lo stupore e l’ingenuità come
una fonte di sapere continuo, sono reazioni che ci possono portare a vedere di più, ad
afferrare qualcosa di profondo rispetto invece ad un modello positivistico di analisi, di
analisi cosiddetta “scientifica, particolareggiata”. Stupore, ingenuità, amore per quello che
si fa rende, in altre parole, più servizio ad una conoscenza vera che non distacco, freddezza
analitica e matematica.
Detto questo, passo al significato profondo che vorrei indicare come il primo
risultato di questa ricerca. Leggere il rapporto consente di arrivare ad una tipologia - che i
ricercatori, miei colleghi, hanno proposto - dell’universo ricercato, in quattro modelli di
aziende: il primo è quello classico in cui abbiamo collocato aziende piccole che, non
potendo o non ritenendo necessario dotarsi di apparati complessi, fanno della relazione
personale lo strumento unico di gestione delle risorse umane. C’è un secondo modello, una
seconda tipologia di aziende, che abbiamo chiamato "resistente", cioè aziende di media e
grande dimensione che anche potendo, potenzialmente, dotarsi di strumentazione specifica,
scelgono di non farlo consapevolmente e di concentrarsi sulla relazione come strumento di
gestione delle risorse umane. Terza tipologia, terzo modello: "coraggioso", cioè aziende
piccole che innovano le pratiche di gestione delle risorse umane attraverso un maggior
grado di strutturazione dei metodi e degli strumenti, pur riconoscendo la relazione come
elemento centrale per la gestione delle risorse umane delle persone. Ultimo modello:
"attrezzato", ovvero aziende medio grandi che hanno un alto grado di strutturazione delle
politiche del personale, che fanno conversare con la necessità di un approccio relazionale e
soggettivo.
Ho letto il rapporto alla fine (essendo il direttore di ricerca l’ho letto alla fine, il
vero direttore di ricerca è stato Gianluca Cepollaro); ebbene, quando ho letto questo
rapporto e sono arrivato a questo passo sono saltato sulla sedia - saltare sulla sedia vuol
dire “stupirsi” - perché i quattro modelli avevano tutti presente una capacità relazionale
forte. Malgrado andassero verso direzioni di gestione delle risorse umane, con strategie
diverse, avevano nella relazione, nell’attenzione alla relazione e nella capacità relazionale
un massimo comune denominatore, una sorta di connotazione comune: “Il ricercatore ha
indicato nei quattro orientamenti gestionali una ripetuta significativa presenza della
relazione e dell’approccio relazionale”.
Ora, signore e signori, giovani donne e giovani uomini, questo oggi è moltissimo, è
un fattore strategico di estrema rilevanza e di grande speranza.
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Non abbiamo trovato situazioni totalmente rosee, totalmente positive, abbiamo trovato luci
ed ombre, che i dati - che poi i miei colleghi presenteranno - metteranno in luce, però c’è
un dato comune che genera stupore e che genera speranza: le aziende del Trentino che
abbiamo esaminato - ed il campione era significativo rispetto all’universo - hanno tutte una
buona capacità relazionale, quasi un DNA comune e questo oggi è moltissimo. Perché è
moltissimo? Perché c’è in atto, nella cultura occidentale dell’impresa, una sorta di
“corruzione del carattere e una deriva della leadership” che si centra sulla negazione di un
elemento specifico dell’interazione fra esseri umani, che rischia di emergere come uno
strumento devastante.
Ho parlato di "corruzione del carattere" e di “spersonalizzazione”: mi riferisco al
rifiuto insistente di rispondere alle domande o anche solo di restituire lo sguardo. Io ho
fatto ricerca in tutta Italia in moltissime aziende in questi ultimi tre anni; ebbene, ci sono
moltissime persone intervistate che testimoniano un profondo dolore e la fenomenologia
che nutre il dolore è il fatto che passano la vita in azienda senza che lo sguardo di nessuno
li colga, senza che ci sia tempo perché li ascoltino: fanno domande e nessuno risponde
loro. Ci sono moltissime giovani donne che mi hanno detto che sono al front desk di molte
aziende, agli sportelli, e non c’è mai nessuno che chieda loro qualcosa. E questo non è
giustificato solo dal fatto che sono naturalmente dentro con forme contrattuali aleatorie, ma
perché ormai c’è una cultura della leadership di tipo anonimo, che va verso l’anomia in
questo nostro Paese, dove le risorse umane sono dichiarate essere centrali ma, di fatto,
sono considerate peggio delle tecnologie negli anni sessanta dagli ingegneri della FIAT,
delle quali avevano un sacro rispetto. "Rispetto" significa rispecchiarsi. Oggi nessuno si
“rispecchia” negli occhi di queste giovani donne e di questi giovani uomini e l’etica
organizzativa può nascere e può nutrirsi quando due attori organizzativi, capo e
collaboratore - e, spessissimo, in Italia si dice ancora "dipendente" ed il dipendente è “colui
che pende” - sono l’uno di fronte all’altro, quando si affrontano a livello della propria
soggettività etica, quando cercano una traccia di sé nell’altro. Viceversa, al di fuori di una
relazionalità di questo tipo, non c’è nessuna possibilità di etica organizzativa. Ed io
sostengo e testimonio che, in una simile situazione, non c’è nessuna possibilità di
performance, di efficacia e di efficienza. Allora possiamo essere, non dico tranquilli ma
abbastanza soddisfatti perché, malgrado la caratterialità del Trentino - che non è certo una
caratterialità culturalmente predisposta alla relazione - abbiamo trovato nelle aziende una
sufficiente capacità relazionale, che naturalmente può essere migliorata, ma come tutte le
sufficienze fanno anche ben sperare nel futuro.
Mentre vi ringrazio dell’attenzione che mi avete dato, devo tornare indietro, perché
ho un debito nei vostri confronti e cioè vi dico dove ho fotografato la prima frase che ho
proiettato.
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La frase è stata fotografata nella mostra del Giorno della Memoria per la Shoah a
Milano che celebra questo anno l’anniversario del trasferimento di un convoglio speciale
dal binario 26 della Stazione Centrale di Milano ad Auschwitz. La frase è di un internato
che diceva che “la prima esperienza che si fa in un campo di concentramento nazista è che
quando fai domande nessuno ti risponde perché tu sei un nulla, non ci sei, non sei una
persona”. Grazie.
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Gianluca Cepollaro: Le competenze per la gestione delle risorse umane nelle imprese
trentine: i risultati di una ricerca
Buonasera a tutti, ben ritrovati così numerosi. Vedo con piacere che ci rincontriamo
con molte persone che abbiamo incrociato durante questa ricerca.
La rilettura della ricerca che Pino Varchetta ci ha presentato, parlo di “rilettura”
perché è avvenuta ex post ad una prima elaborazione che il gruppo ha fatto, ci ha imposto
di rivedere tutta l’elaborazione fatta in un primo momento. Al gruppo di ricerca hanno
partecipato Floriana Samuelli, Federica Veronesi ed Enrica Tomasi. Cercherò di essere più
chiaro nell’esposizione avvertendo che quello che abbiamo fatto è ribaltare un po’ ciò che
accade in una presentazione tradizionale, invertendo le conclusioni con le premesse, ma
probabilmente questo aspetto sarà più chiaro dopo.
Faccio una velocissima presentazione del disegno della ricerca e degli strumenti
adottati. Gli strumenti sono stati di carattere qualitativo e quantitativo; le imprese
complessivamente interessate alla ricerca sono state circa 130; è stato elaborato un
questionario adattato da un modello precedentemente sviluppato dall’Associazione Italiana
dei Direttori del Personale, colgo anch’io l’occasione per salutare Armin Mair,
rappresentante dell’AIDP per il Trentino Alto Adige. Si è trattato di un questionario di 24
domande, somministrato a 103 imprese selezionate, non per un criterio di significatività,
quanto per un criterio di rappresentatività del contesto locale. Abbiamo svolto poi delle
“analisi di caso” che consistono in costruzioni di microstorie fatte attraverso l’adozione di
un metodo complesso che cerca di andare in profondità attraverso tecniche di carattere
quantitativo, come la raccolta di dati strutturali, con altre di carattere più qualitativo, come
il colloquio in profondità e l’intervista semistrutturata. Attraverso il metodo delle
competenze, nella versione etnoclinica, che è la versione che abbiamo messo a punto in
sette anni di ricerca qui a Trento, abbiamo fatto un’analisi delle competenze nelle imprese
di più grandi dimensioni, in particolar modo in quelle che avevano una struttura con una
funzione di direzione del personale. E, infine, fatta una prima elaborazione, al fine di
validare le ipotesi tracciate, sono stati organizzati due focus group che hanno coinvolto
circa venti persone. Ai focus group hanno partecipato, da un lato, imprenditori, in
particolar modo quelli che gestiscono aziende che hanno problematiche di passaggio
generazionale, e dall’altro dirigenti e capi del personale: tutto questo, ripeto, su tematiche
precedentemente individuate nella ricerca. Quindi un disegno complesso necessario per
approfondire e rappresentare un fenomeno altrettanto complesso.
Oggetto della ricerca sono state le pratiche di gestione delle risorse umane.
Attenzione, ripeto, le prassi di gestione delle risorse umane e non la gestione delle risorse
umane da parte di questo o quel soggetto. Ciò significa che al centro, attorno a questo
oggetto, sono stati attivati una serie di attori che, per ragioni diverse, hanno responsabilità
di gestione risorse umane nelle imprese trentine: sono essenzialmente imprenditori di
piccole e microimprese; sono capi del personale in imprese di più grande dimensione che
hanno strutturato al loro interno una funzione del personale; sono anche capi intermedi o
“bracci destri” dell’imprenditore laddove esiste un processo di delega che individua, non
nell’imprenditore ma in un suo subordinato, la delega esplicita a gestire le risorse umane.
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Questa costruzione ci ha fatto giungere ad alcuni dati di contesto: ecco l’inversione
di cui parlavo prima tra rappresentazione dei dati e delle conclusioni. Tale dato di contesto,
che poi aiuta a leggere tutti gli altri dati, dimostra che esiste uno scarto tra una dimensione
dichiarata ed una dimensione effettiva nella gestione delle risorse umane; esiste, in altre
parole, una “retorica delle risorse umane”. E qui non vi è differenza tra piccola e grande
impresa o tra impresa che gestisce le risorse umane in modo più o meno strutturato: vi è
una retorica linguistica delle risorse umane oggi molto diffusa ed è la retorica alla quale
accennava Pino Varchetta. È quella che ci dice che “le persone sono al centro
dell’organizzazione”; il valore è strettamente dipendente dal legame tra chi lavora nelle
imprese ossia da ciò che le persone riescono a creare nelle loro relazioni cooperative. In
questa retorica abbiamo individuato due tipologie di legame: il primo lo abbiamo chiamato
“lasco”, che connette la gestione delle risorse umane alle strategie di evoluzione
dell’impresa. In altre parole, di tutte le retoriche che abbiamo ascoltato, poche volte
abbiamo sentito che la gestione del personale è da connettere soprattutto con le possibilità
di sviluppo e di evoluzione dell’impresa. Un legame “forte”, invece, della retorica è con la
performance, cioè tutti individuano l’importanza della gestione delle risorse umane per
avere performance elevate. Capite che la principale differenza tra un legame “lasco” ed un
legame “forte” è nel riferimento al tempo: chi ha in mente che la gestione delle risorse
umane sia soprattutto una precondizione per assicurare la performance, ha in mente un
tempo che è il breve periodo. Contrariamente, se e quando si riesce a connettere la gestione
con la più complessiva strategia aziendale, il tempo di riferimento, il tempo del pensiero, è
un tempo lungo, quindi un tempo di evoluzione. Ripeto ancora che questa la segnaliamo
come una “questione contestuale”, chiaramente locale, quindi riferita a questa ricerca
svolta in Trentino nel corso del 2004, che supera una visione tradizionale che vede nella
piccola impresa una modalità destrutturata di gestire le persone, mentre nella grande
impresa una modalità strutturata di gestire le persone.
L’ipotesi che ci presenta Pino Varchetta è un’ipotesi senz’altro di speranza: è
l’individuazione di una traccia che abbiamo riconosciuto nella nostra elaborazione e che
vede le imprese trentine in un certo senso “alla rincorsa”; sono imprese che fondano
essenzialmente la gestione delle risorse umane su una modalità spontaneistica e tutta
centrata sulla relazione. In questo c’è senz’altro una grande possibilità; nella pratica quello
che osserviamo è che il management del personale è soprattutto un management della
rincorsa che abbiamo definito ora come “rincorsa sorda”, ora “rincorsa affannosa". Su un
continum tra "rincorsa sorda" e "rincorsa affannosa" abbiamo trovato tantissime
situazioni intermedie. Questa che presentiamo è chiaramente una semplificazione che vede,
in un estremo, imprese che reagiscono in modo reattivo e quindi implementano pratiche
nella gestione delle risorse umane attraverso le quali cercano di rispondere ad un
cambiamento già in atto. Sul versante opposto abbiamo delle imprese che, invece,
interpretano in modo creativo la loro rincorsa cercando in qualche modo non solo di non
subire il cambiamento, ma di accompagnarlo e dargli una direzione.
Gli stili di gestione, che inizialmente avevamo individuato con forte riferimento alla
dimensione aziendale, sono stati già presentati da Pino Varchetta. Ciò che aggiungo è che
lo stile classico e lo stile resistente possono essere fatti risalire ad una rincorsa sorda,
mentre lo stile coraggioso e lo stile attrezzato possono riferirsi ad una rincorsa affannosa.
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Ora andiamo a presentare le aziende e gli attori della ricerca che, ripeto, è stata
molto ambiziosa, svolta a tappeto per quanto c’è stato possibile. Soprattutto, abbiamo
avuto a che fare con una serie di situazioni molto differenti. Il campione delle imprese è
chiaramente concentrato su imprese che hanno un numero di dipendenti inferiore a 15,
quindi microimprese; abbiamo però considerato particolarmente, quindi contravvenendo
un po’ a quella che è una rappresentazione dell’economia trentina, le imprese con più di
100 dipendenti dove appunto abbiamo trovato direzioni del personale strutturate. Per
quanto riguarda i profili nelle medie e grandi imprese, abbiamo trovato due profili di capi
del personale: un capo del personale tra i 45 e i 55 anni entrato in azienda occupandosi
della gestione amministrativa e contabile che, pian piano, ha esteso il suo ruolo,
mantenendo, però, una visione di carattere gestionale e burocratica. Questo è un profilo per così dire - tradizionale del capo del personale. Il secondo profilo - cosa che ci ha anche
sorpreso un po’ – vede protagonisti un numero crescente di giovani, tra i 28 ed i 35 anni,
assunti appositamente per il ruolo di capo del personale, ricercato e selezionato
appositamente, quindi con una consapevolezza da parte della media impresa diversa del
ruolo del capo del personale all’interno dell’organizzazione.
Nelle piccole aziende, come ci si può immaginare, non esiste una direzione
strutturata, è in genere lo stesso titolare o, a volte, il suo braccio destro ad occuparsi degli
aspetti di gestione del personale.
Rapidamente alcune considerazioni su alcuni aspetti di carattere socio- anagrafico:
per quanto riguarda l’età gran parte del campione si colloca tra i 35-50 anni, il titolo di
studio è mediamente alto: abbiamo una buona percentuale di laureati che, sommati a chi ha
una specializzazione post-laurea, è circa il 30%, oltre ad una percentuale alta di capi del
personale con diplomi di scuola media superiore; il genere, così come ci si poteva
immaginare, è soprattutto maschile. Nella grande maggioranza dei casi è l’imprenditore
spesso, nelle medie imprese, ad avere direttamente il compito di capo del personale; nelle
imprese di più grandi dimensioni capita spesso che ad avere questo compito è un quadro,
raramente invece sono livelli con posizione contrattuale inferiore.
Vado avanti molto rapidamente rispetto alla posizione contrattuale, segnalando che,
per quanto riguarda la formazione svolta dai capi del personale e dalle persone che si
occupano in modo prevalente di gestione delle risorse umane, circa un terzo degli
intervistati non fa formazione. Per tale ragione il capo del personale è, in qualche modo,
oppure si sente, titolare di una “modalità di gestione efficace”, cioè non avverte mancanza
della formazione; un terzo, invece, fa formazione per più di 5 giornate, mentre il restante si
colloca nelle fasce intermedie, cioè dichiara di aver fatto formazione per 2 o 3 giornate
all’anno.
Per quanto riguarda i contenuti della formazione svolta, impressiona che la gran
parte degli interlocutori fa formazione su tematiche essenzialmente tecniche. Ci sono
alcune suggestioni che riprendono le interviste che dicono molto sulle posizioni variegate
che abbiamo trovato, sul modo di rapportarsi alla formazione dei capi del personale:
-
“Partecipo ogni tanto a seminari che mi interessano non tanto per le tematiche ma
perché ho la possibilità di incontrare colleghi”, quindi una dimensione relativa
essenzialmente allo scambio di esperienze, al bisogno di confrontarsi tra pari su
problemi che sono ritenuti discriminanti;
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-
“Torni con un sacco di biglietti da visita”, quindi una dimensione maggiormente
orientata allo sviluppo della rete relazionale;
-
“Così mi confronto su come risolvo i problemi”, quindi una dimensione legata ad
una utilità immediata delle problematiche della gestione del personale che ci
vengono segnalate sempre come le problematiche più effimere, più difficili da
afferrare, più scivolose, più difficili anche da impattare.
Le persone intervistate che si occupano in modo esclusivo della gestione del personale
sono il 43%, il resto invece se ne occupa in modo non prevalente; è chiaro che
costituiscono quel 43% soprattutto le figure imprenditoriali. Dove abbiamo una funzione
del personale strutturata, abbiamo un numero di persone impegnate che è mediamente tra
le 2 e le 5; nella maggior parte dei casi c’è una ripartizione dei compiti tra chi si occupa
unicamente di amministrazione e chi invece si occupa di sviluppo.
Questa slide è particolarmente significativa perché analizza quella che abbiamo
definito “la cassetta degli attrezzi” dei gestori del personale.
Gli strumenti utilizzati negli ultimi 3 anni dalle aziende trentine (valori %)
33,0
35
30
25,8
25
20
17,5
16,5
17,5
15
10
4,1
5
0
analisi clima
sist emi premiant i e
incentivi
analisi compet enze
analisi e BPR
piani di sviluppo
benchmarking
Sono stati segnalati alcuni strumenti ed abbiamo chiesto quali di questi, anche con
varie modalità e con applicazioni spesso non rigorose soprattutto dal punto di vista
metodologico, sono stati utilizzati nella pratica. Vediamo che si sta sviluppando negli
ultimi anni un movimento, che Pino Varchetta ha chiamato “un movimento delle
competenze”, che in qualche modo utilizza strumenti di gestione che hanno a che fare con
la soggettività al lavoro. Tali strumenti, quindi, pongono particolare attenzione non sulla
posizione del lavoro, bensì sul soggetto al lavoro; abbiamo una parte consistente che
utilizza essenzialmente strumenti relativi a sistemi premianti ed incentivi. Sistemi
premianti e incentivi, seguiti da analisi di clima, analisi per la reingegnerizzazione dei
processi e piani di sviluppo sono gli strumenti più utilizzati. Pochissime persone dicono di
fare benchmarking quando fanno gestione del personale.
Questa slide è particolarmente significativa.
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Ampiezza del portafoglio degli strumenti
Strumenti Tradizionali
Totali
Fino a 1
Strumenti
Innovativi
Almeno 2
Totali
Fino a 1
Almeno 2
Bricoleurs
Tradizionali
79,4%
16,5%
in Sviluppo
Evolute
3,1%
1,0%
82,5%
17,5%
95,9%
4,1%
100%
Analizzando le frequenze, abbiamo distinto gli strumenti tradizionali come, ad
esempio, possono essere i sistemi premianti e gli incentivi, dagli strumenti innovativi.
Abbiamo individuato quattro tipologie di azienda ed in base, appunto, alla frequenza,
quindi al numero di strumenti utilizzati, abbiamo tracciato una matrice a doppia entrata che
vede la stragrande maggioranza in Trentino essere delle “imprese bricoleur”. In altre
parole, sono imprese, che adottano essenzialmente un numero limitato di strumenti
tradizionali nella gestione del personale e scelgono il “fai da te”; quindi hanno una natura
spontaneistica, a volte un po’ naif . Ugo Morelli qualche tempo fa ha parlato di folk
management nella gestione delle persone. Poi abbiamo alcune aziende, che abbiamo
definito “tradizionali”, le quali implementano gli strumenti classici di gestione delle risorse
umane e che non riconoscono, o riconoscono solo in parte, il valore della relazione, quindi
del sostegno quotidiano alle pratiche di gestione. Pochissime sono, infine, le aziende che
abbiamo definito “in sviluppo o evolute” cioè che adottano un portafoglio di strumenti
ampio e innovatiivo. Questa matrice, confrontata con quella costruita dalla ricerca
dell’AIDP, ricerca fatta su tutto il Triveneto, quindi sul Friuli, sul Veneto e sul Trentino
Alto Adige, è decisamente squilibrata verso i bricoleur.
Abbiamo esaminato quali sono le attività che vengono esternalizzate nella gestione
del personale: vediamo una misura sempre crescente dell’amministrazione e impressiona
molto che anche lo sviluppo organizzativo e la formazione di figure di responsabilità sono
molte volte portate all’esterno. Nello stesso tempo c’è da dire che abbiamo rinvenuto
tracce interessanti e, senz’altro, superiori a quelle registrate da qualche ricerca precedente,
sulla capacità formativa interna delle imprese, ossia sulla capacità di prestare attenzione
alla formazione spontanea all’interno delle organizzazioni. La selezione non è quasi mai
esternalizzata: molti imprenditori riconoscono come un problema particolare il farsi aiutare
nei momenti di selezione.
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ATTIVITÀ ESTERNALIZZATE
50
46,4
45
40
35
26,8
30
25
20
12,4
15
10
7,2
5,2
5,2
2,1
5
0
amm.
sel.
sviluppo e form.
rel. industriali
sist. premianti
org.ne
altro
Le problematiche più rilevanti riguardano i momenti iniziali del processo di
gestione delle risorse umane, in particolar modo il reclutamento e la selezione. Il
reclutamento è un’attività difficile, in parte per variabili di carattere anche qui contestuali:
siamo in un sistema di piena occupazione ed è difficile trovare competenze specifiche. Per
la verità, quello che più ci ha colpito è che, nonostante si sia in questa situazione, c’è una
scarsissima attenzione a dotarsi di strumenti più efficaci per avere un reclutamento più
appropriato e, soprattutto, più mirato a quelle che sono le esigenze delle imprese.
Prevalgono decisamente i canali informali e le autocandidature, quindi modalità spontanee
delle persone di presentarsi, mentre sono abbastanza diffuse le inserzioni e chiaramente la
mobilità interna. Si ricorre ad agenzie di selezione per figure di più alto livello. La
selezione è da più parti considerata la madre di tutti i problemi, forse il momento più
delicato e critico, ma non sempre si riesce a riconoscerne il valore e l’importanza. Questa è
una questione aperta, affrontata da alcuni innovatori in maniera lungimirante, cioè come ci
segnala un intervistato “se il candidato è interessante viene messo, tra virgolette, in
panchina anche se non c’è la posizione per lui a quel momento più adatta”.
La valutazione è quasi sconosciuta, nel senso che mentre proiettiamo questa slide
nello stesso tempo diciamo che dalla ricerca non abbiamo elementi che ci fanno dire che si
stiano attuando politiche oppure azioni attente alla valutazione; il problema è che non
facendolo non è che non si valuta: si valuta eccome!
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LA VALUTAZIONE
18,3%
55,9%
25,8%
Competenze tecnico professionali
Comportamenti
Risultati
Quando abbiamo chiesto che cosa e quando si valuta, ci è stato risposto
“essenzialmente competenze tecnico-professionali”, e c’è chi dice ancora “comportamenti
e risultati”. Anche qui sembra che la dimensione retorica, quindi la dimensione linguistica,
sia prevalente oggi rispetto ad una dimensione di attenzione alle tematiche della
valutazione.
Per concludere alcune questioni aperte che ci sono segnalate solo in parte ma che
emergono da un’analisi complessiva dei dati a disposizione. Innanzitutto la fatica
relazionale che viene avvertita: per "fatica relazionale" intendiamo la fatica a relazionarsi
in un contesto di continua frammentazione delle pratiche di lavoro e di caduta del legame
sociale all’interno delle organizzazioni. Questo è un dato sempre più evidente; la relazione,
a volte, è vissuta anche come uno strumento per ottenere ciò che non riusciamo più ad
ottenere con la direttività e con l’istruzione nella gestione. Questo è molto problematico
perché svuota la relazione del suo senso stesso, per cui spesso si scende in pratiche
altamente personalizzate. Ad esempio, sui sistemi premianti e sugli incentivi ne abbiamo
ascoltate di “tutti i colori”; abbiamo ascoltato nello stesso tempo una grande varietà di
considerazioni e, nello stesso tempo, il riconoscimento di una grande fatica nell’utilizzo di
strumenti tradizionali. Ci siamo chiesti se, forse, non fosse attraverso l’adozione, spesso
acritica, di pratiche di gestione del personale che vengono dai manuali che dobbiamo
passare, ma ci potremmo dare una via anche più originale: la gestione della differenza e la
capacità di cogliere la domanda di unicità che oggi le persone portano nelle organizzazioni,
organizzazioni che arretrano e nello stesso tempo vedono arretrare gli stessi individui che,
però, chiedono di essere trattati sempre più come soggetti unici, portatori di competenze
uniche. E di qui un punto molto importante, un punto che non emerge in modo netto, ma
del quale ci sono delle tracce evidenti, è la gestione della diversità. Oggi chi gestisce
risorse umane è chiamato soprattutto ad un “management della differenza”, mi verrebbe da
dire, da un lato, e “management della diversità” dell’altro. “Diversità” che noi viviamo
nelle modalità contrattuali che oggi sono adottate dalle imprese ma che non sono altro che
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una proiezione del processo di frammentazione di cui prima parlavamo; oggi siamo di
fronte ad una diversità culturale, al fatto di interagire sempre più spesso con personale
proveniente da culture diverse, problemi che abbiamo in particolar modo rilevato nelle
imprese di più piccole dimensioni. Differenze, infine, rispetto al genere e alle difficoltà di
riconoscere competenze come l’ascolto e la cura che trovano sempre troppo poco spazio
nelle pratiche di gestione del personale e comunque rilevate come critiche.
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Ugo Morelli: Modelli culturali locali nella gestione del personale: folk management e
tirannia del passato
Buonasera a tutti, volevo ringraziarvi di essere qua; conosco molte persone in sala
con cui ho potuto lavorare in sedi formative ed applicative intorno al tema che discutiamo
oggi pomeriggio; ci sono molti allievi con cui ho lavorato su questi temi e quindi sono
soddisfatto di svolgere qualche riflessione: “riflessione” su una ricerca condotta appunto da
Gianluca Cepollaro, Giuseppe Varchetta ed il gruppo di lavoro. Desidero complimentarmi
soprattutto con Gianluca Cepollaro per la chiarezza con cui ha esposto i risultati che, credo,
siano densi di interesse.
La questione che vorrei affrontare prende le mosse dalla ricerca ed, in particolare,
dal significato che sta dietro le parole che le variabili della ricerca mettono in evidenza.
Volevo fare questo lavoro leggendovi due brani da due libri diversi, che vi consiglio di
leggere se vi occupate dei temi di cui ci occupiamo oggi: il primo libro è della casa editrice
Pompeiani. E’ un best seller in questi giorni, di Corinne Maier, una francese
particolarmente brava, una giornalista economica; il titolo è "Buongiorno pigrizia". Questa
signora scrive:
“Sono moltissime le persone che lavorano nel mondo dell’impresa, eppure questo
universo sembra avvolto da un’aura di indeterminatezza e da una coltre impenetrabile.
Peraltro, per ironia della sorte, quelli che ne parlano di più, cioè i professori universitari,
non vi hanno mai lavorato, non ne sanno nulla e quelli che sanno qualcosa si guardano
bene dal parlarne, tutti i cosiddetti ‘fuoriusciti’, fuggiti a gambe levate per fondare
autonomamente una nuova società, restano in silenzio, non hanno evidentemente alcun
interesse a tagliare il ramo su cui si sono appollaiati. Per non parlare dei guru del
management che sommergono il mercato di consigli non richiesti e lanciano ridicole mode
nelle quali sono i primi a non credere”.
Questa è una considerazione della Maier. C’è un libro molto più importante che è
edito in questi giorni da Codice Edizioni. È scritto da un grandissimo studioso che insegna
in una scuola di management a Tolosa; si chiama Paul Seabright ed è un grande libro sui
temi di cui ci occupiamo oggi. Il titolo è "In compagnia degli estranei, una storia naturale
della vita economica”.
In un passo del libro, egli dice:
"È importante riflettere su un tema, l’intelligenza pratica evolutasi tra gli esseri
umani è molto specializzata nella manipolazione dell’ambiente naturale e nella gestione di
interazione di piccoli gruppi di individui che si vedono frequentemente e si riconoscono
bene: le piccole comunità della tradizione, cioè le piccole comunità dell’orda, quelle che
hanno funzionato nell’esperienza di homo sapiens fino a circa 10 mila anni fa. È solo negli
ultimi diecimila anni” - non spaventatevi di questa misura perché, secondo me, viviamo in
un tempo in cui bisogna misurare in questo modo, perché quello che sta cambiando ha a
che fare con qualcosa di profondamente radicale, quello che sta cambiando è il significato
e il senso del lavoro, non qualcosa che ha a che fare con gli strumenti e le tecniche con cui
ci adoperiamo per gestire il lavoro - "troppo di recente, perché l’evoluzione genetica ne sia
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stata colpita, che gli esseri umani sono dovuti venire a patti su una scala significativa con
l’impatto degli estranei".
Qui si capisce il titolo “In compagnia degli estranei”. Tutto il titolo lavora su un
tema: come fa a nascere la fiducia tra estranei? Il tema della gestione delle cosiddette
"risorse umane", ovvero il tema del modo in cui viviamo le relazioni in azienda, ha a che
fare con questa questione: come fa a nascere ed a mantenersi la fiducia tra estranei. Non è
un fatto tecnico e, se per “tecnica” si intende l’adozione di qualche strumento freddo
comprato da qualche parte, è qualcosa che ha a che fare con il modo in cui si vivono le
relazioni.
Cosa dice il nostro Seabright? "Ed è solo negli ultimi 200 anni circa che questo
fatto è diventato dominante nella vita quotidiana, l’era della razionalizzazione economica,
l’era della organizzazione economica, l’avvento della gabbia d’acciai., come la chiamava
Max Weber, cioè la creazione di una società nella quale la forma organizzata è diventata
la forma dominante. Ebbene, gestire i pericoli impostici dalle azioni di estranei lontani ci
ha richiesto di dispiegare una capacità differente" - non la capacità di prima, a questa
capacità fra un momento voglio dare un nome - "trasmessaci dall’evoluzione per scopi al
quanto diversi: la capacità del pensiero simbolico astratto", cioè quella capacità che fa di
noi degli animali che, non solo, sanno pensare ma, mentre pensano, pensano a se stessi
pensanti. Quindi la capacità di accorgersi di che cosa si sta pensando, di quali strumenti si
stanno usando: perché quando il problema della valutazione, cioè dell’attribuire il valore a
quello che stiamo facendo insieme in una situazione organizzativa, è ridotto al problema
della misurazione delle prestazioni per scopi di incentivazione, noi stiamo rinunciando alla
capacità di pensare noi stessi pensanti, perché abbiamo consegnato ad uno strumento
quello che solo la relazione può fare. E questo perché è importante? Non perché sia
moralisticamente giusto o sbagliato, questo è un tema che non mi interessa affatto, ma è
importante per la questione della fiducia come fattore costitutivo dei processi cooperativi
per raggiungere uno scopo comune.
La domanda fondamentale è se l’adozione di strumentazioni tecniche, fredde,
favorisce o lede la possibilità di sviluppare rapporti fiduciari. "Ebbene, nella loro risposta
al rischio, non meno che nella loro gestione del conflitto” - dice Seabright - “le moderne
istituzioni politiche cercano di contenere, attraverso l’esile filo del ragionamento astratto,
le passioni ed i risentimenti della tribù preistorica”. Abbiamo parecchi elementi per
candidarci a tornare tribù preistoriche. Che cosa sono le tribù preistoriche? Sono i luoghi in
cui vige la razionalità spontanea, cioè la situazione nella quale se uno mi dà un calcio io
non attivo la riflessione che potrebbe aiutarmi a chiedermi perché mai me l’abbia dato
oppure cerco di comprendere che cosa succede se glielo restituisco senza pensarci, ma
glielo restituisco e basta! E la razionalità spontanea è uno strumento alquanto diffuso di
gestione del personale, nella forma tradizionale delle imprese e torna oggi come una moda
vincente perché gli investimenti affettivi, cioè quelli che coinvolgono la relazione nella
gestione del personale sono investimenti che diventano rarefatti.
Ho fatto questa premessa per dire che vorrei provare a commentare da lontano perché credo che la presentazione di Cepollaro sia chiarissima ed è giusto che ognuno
abbia la possibilità di fare le proprie riflessioni - i risultati di questa ricerca. Per semplicità
retorica, quindi, adotterò tre prospettive: la prima l’ho già citata, quella della razionalità
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spontanea. Cercherò, quindi, di precisare perché la usiamo come lente per leggere i
risultati; la seconda la definisco “razionalità strumentale”; la terza la definiscono
“umanesimo manageriale”.
Cerchiamo di capire queste tre prospettive e di adoperarle per leggere come sta
rispondendo la realtà delle imprese trentine alla complessità di fronte alla quale si trovano,
ovverosia all’esigenza di fare conti con una sempre più elevata differenza dentro
l’esperienza lavorativa, le differenze di cui parlava Gianluca Cepollaro un momento fa.
Tali differenze sono: differenze di soggettività, differenze di aspettative, differenze di
linguaggi, differenze di tradizioni - questo non era presente fino a pochissimo tempo fa - e
la differenza che si propone dal punto di vista dell’ampliamento dei mercati, ovverosia
della rottura dei confini dei mercati e quindi dello sviluppo dei rapporti con i mercati
allargati. La domanda in realtà che dovremmo porci è: come reagisce il management?
Cioè: l’insieme delle persone che cerca di sviluppare processi cooperativi all’interno di
ambienti in cui si lavora insieme, come reagisce a questa complessità, a questa
sollecitazione che arriva dalle differenze? Il problema non è se reagisce o no, perché che
reagisca mi pare evidente, il problema è interrogarsi sulla natura di questa reazione.
Ebbene, la mia impressione è che da questi dati e, devo aggiungere, anche da
considerazioni che vado facendo, lavorando da molti anni in questa realtà, è che si possa
adoperare quella prospettiva che vi ho indicato, cioè la tripartizione, per capire la natura di
questa reazione.
La razionalità spontanea: la razionalità spontanea come forma di gestione è basata
sul senso comune. Niente di male, nel senso che il “senso comune” guida una parte
cospicua, la più elevata, delle nostre azioni: adoperiamo il senso comune per confrontarci
nella realtà di fronte alla maggior parte dei problemi e delle questioni. Il problema è se
adoperiamo il senso comune in maniera appropriata e se il senso comune basta quando
dobbiamo affrontare una questione per la quale probabilmente il senso comune non è
sufficiente. Inoltre, questa prospettiva della razionalità spontanea è una prospettiva che si
avvale soprattutto della tradizione come strumento di consiglio. Io ritengo che, fino a
qualche anno fa, questo fosse il modello dominante in Trentino, nella gestione delle risorse
umane. A quanto pare, come emerge in particolare da una serie di segnali ma anche da
questa ricerca, questo modello si è rotto, ovverosia non siamo più di fronte ad una
situazione nella quale ci comportiamo: a problema risposta, utilizzo del senso comune,
razionalità spontanea nell’azione. In altre parole, ”se mi scotto mi ritiro, se c’è freddo mi
metto la giacca” e cose di questo tipo: intendo con questo “razionalità spontanea”, “Il mio
collaboratore se non va. Bene: lo cambio” e cose di questo tipo.
Ognuno di noi ha riconosciuto per esempio che la costruzione di competenze che
contano, in una situazione nella quale tutti diciamo che la sola esecuzione non è più
sufficiente per ottenere risultati interessanti, non è più una prospettiva che si possa
adottare; perché se il mio collaboratore ha sviluppato competenze significative, la
razionalità spontanea, cioè “se crea un problema lo cambio”, è molto costosa. Ebbene,
abbiamo reagito a questa situazione e credo che questa ricerca ci dica che la prospettiva
dell’”azienda naif”, ovvero di quella azienda che adopera una logica basata su razionalità
spontanea e senso comune tendenzialmente la lasciamo alle spalle. Se ce la lasciamo alle
spalle ci dobbiamo chiedere: verso cosa andiamo? Per rifarmi alle letture che ho fatto
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prima, andiamo verso la prospettiva che la Corinne Maier denuncia così duramente o
andiamo verso la prospettiva impegnativa, faticosa, che ci chiede di riprendere daccapo,
che viene suggerita dal testo di Seabright? Cioè quella che riconosce che la costruzione di
fiducia, che è una delle risorse più fragili della nostra esperienza relazionale, è decisiva per
costruire processi cooperativi adeguati? Questa relazione di fiducia è una relazione che
prende il sopravvento, una relazione nella quale le mani sono sudate, la passione è
all’opera. Non è una relazione tra maschere che, di volta in volta, montiamo a fronte dei
problemi che ci capitano.
Non credo che il dichiarato della relazione come elemento centrale basti in sé; il
problema è andare a vedere cosa c’è dentro la relazione perché tutte sono relazioni. Le
relazioni vanno dalle relazioni d’amore a quelle mediante le quali uccidiamo qualcuno.
Entrambe sono cariche di passione. Il problema è qual è la natura di queste relazioni.
Ebbene, da questo punto di vista, se voi ricordate, qualche anno fa i guru della ricerca, i
guru del management, hanno celebrato quella che si chiamava allora la “fine del
taylorismo”, cioè di quella situazione nella quale l’organizzazione del lavoro sembrava si
potesse basare strettamente su comando, esecuzione e controllo attraverso tempi e metodi
predeterminati. Qualcuno sussurrava allora, ma non fu ascoltato quasi da nessuno, che
forse più che la crisi del taylorismo all’interno delle organizzazioni del lavoro stavamo
sperimentando una taylorizzazione dei rapporti sociali. Se ci chiediamo che cosa sta
succedendo nelle imprese trentine, con questi dati particolarmente significativi che
Gianluca Cepollaro ci ha proposto, possiamo cogliere subito alcune cose. Quali sono le
technicalities che sono nella cassetta degli attrezzi dell’uomo del personale che vengono di
più adoperate? Le colonne erano chiarissime: la selezione, il sistema premiante e
l’addestramento, ovverosia “se lo scelgo bene”: insomma devi concentrarti quando lo
scegli perché se lo scegli bene poi ce l’hai; il prezzo: “se lo paghi un po’ meglio fa quello
che vuoi”; quando si rompe la formazione, l’addestramento, insomma lo devi portare in
autorimessa, altrimenti come fai a rimetterlo a posto? O se dà prestazioni non sufficienti,
qualcosa devi fare.
Ora è difficile astenersi dall’idea che l’evoluzione dal sistema basato su razionalità
spontanea della realtà trentina stia andando verso un adeguamento di quello che è il
modello dominante, perché questo che ho descritto in un modo un po’ curioso e teatrale, è
il modello dominante. L’esperienza lavorativa, intesa come natura e qualità delle relazioni
conflittuali - intendo per “conflittuali” dialogo tra differenze - finalizzata alla
valorizzazione dell’esperienza reciproca, che un mio amico - Francesco Novara - chiama
"la creazione del bene vicendevole nei luoghi di lavoro", dov’è? Dov’è a livello generale
oggi? Noi fino a qualche anno fa insegnavamo il fatto che i modelli di gestione delle
risorse umane andavano dal modello amministrazione, quindi: inserimento, paga,
contributi, ferie, premi, punizioni, carriere, al modello “gestione”, in cui prendevamo in
mano un po’ le cose e quindi ci occupavamo di capire: selezione sì, ma come? Carriera sì,
ma come? E quindi entrava in gioco la relazione intesa come “reciprocità costruita dentro i
rapporti di lavoro quotidiani” riconoscendo che quella reciprocità è la fonte delle relazioni
lavorative e del risultato di quella organizzazione. C’era poi il modello direzionale; era
quello per noi a cui bisognava tendere, quello nel quale cioè un’impresa riconosceva
l’importanza del dirigere le persone, quindi la leadership, la guida, l’impegno in prima
persona alla reciprocità negoziata, attraverso un’integrazione, quindi con la direzione
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strategica generale: questo vogliamo fare sul mercato, questo vogliamo fare nei servizi,
questo vogliamo fare nella qualità dei prodotti, questo vogliamo fare qui, e per farlo
riconosciamo che la condizione è l’insieme delle competenze delle relazioni che abbiamo a
disposizione, la creazione di una comunità di lavoro. Questo era per il modello tendenziale.
Che cosa è successo? È successo che oggi non insegniamo più questo perché la razionalità
strumentale non solo è diventata il fattore dominante nelle imprese che producono beni, ma
paradossalmente è stata copiata, come voi sapete meglio di me, dalle imprese di servizi e
dalle imprese pubbliche: le scuole oggi sono dirette dal manager scolastico; la sanità è
diretta dal manager della sanità e voi sapete, come me, che cosa è successo. Ve le
raccomando le misurazioni delle prestazioni e delle performance ed i premi e le punizioni
che vengono date in questi contesti laddove l’adozione, cioè il tentativo di far fronte al
blocco dei modelli organizzativi burocratizzati è stato quello di percorrere la strada
dell’acquisto dei ferri vecchi che le imprese industriali andavano dimettendo!
Rispetto a questa prospettiva di razionalità strumentale che cosa ci dice la ricerca
sulla realtà trentina? Tende a prevalere la razionalità strumentale o abbiamo qualche segno
difficile da affermare, ancor più difficile da riconoscere, di quello che io ho tentato di
chiamare “l’umanesimo manageriale”? Lascio a voi la risposta, a me l’impegno a
descrivere che cos’è l’umanesimo manageriale, cioè che cosa intendo con questa
affermazione. In primo luogo, francamente, una sana critica al managerialismo. Insomma,
signori, un po’ di umorismo, un po’ di ironia, un po’ di dialogo, un po’ meno eroismo!
Dopodichè forse, se abbiamo un po’ di coraggio scientifico, noi dobbiamo sapere
riconoscere che ci sono le scienze che ci possono aiutare oggi in questo campo. Ma quali
sono le scienze che ci possono aiutare? Le scienze cognitive, le scienze della mente ci
dicono che “la mente è un’istanza relazionale”, non è una cosa che sta nella testa, per cui
se tu scegli bene la mente di Pippo poi avrai una mente di Pippo a posto per sempre: puoi
scegliere una mente di Pippo che è straordinariamente capace, la distruggi in sei mesi per
la relazione che costruisci con Pippo.
Quindi la selezione da sola non basta. La scienza cognitiva ci dice che la razionalità
è limitata, cioè che non siamo capaci di controllare tutte le variabili che abbiamo a
disposizione e quindi abbiamo bisogno di prendere in considerazione i limiti della nostra
capacità di scelta. Ciò significa che l’unica strada che ci rimane è quella della fiducia
cooperativa che può compensare i fallimenti della razionalità. In sostanza ti dice che
“l’altro è una nostra necessità e l’altro è l’altro”. Ci dice che le relazioni e le decisioni sono
più efficaci quando sono negoziate e quindi abbiamo bisogno di sviluppare una certa
capacità di gestione dei conflitti. Come ci diceva Bion, un grande studioso della mente
umana, delle nevrosi umane “Le macchine vanno a benzina, gli uomini vanno a verità”.
Questo studioso ci parlava delle difficoltà umane di essere se stessi e di cooperare con gli
altri, che la mente umana ha bisogno di senso, ha bisogno di significato ed il senso ed il
significato non si ottengono per comando. Ci dice che la fiducia è una risorsa fragile e che
l’azione immediata e pratica può ottenere effetti controintuitivi. Mi spiego meglio: quello
che ci sembra essere ottimale oggi può risultare particolarmente problematico domani,
quando, per esempio, scopriremmo che anziché adoperare una prospettiva di gestione tutta
tecnica e strumentale, invece di adoperarne una che è capace di stare nel caldo vivo delle
relazioni, laddove si costruisce un processo cooperativo tendenzialmente efficace,
potremmo trovarci con un patrimonio di competenze completamente costruito e distrutto. E
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se poi consideriamo un tema, che non è il mio tema da un punto di vista della ricerca, cioè
quello della competitività internazionale, e ci ritroviamo nella vecchia Europa, oggi, in
questo pianeta, probabilmente scopriamo che stiamo ledendo o distruggendo quella che è
la risorsa principale. Ci riempiamo la bocca di creatività come strumento di gestione e
sviluppo dei risultati di gestione della produttività aziendale, privata e pubblica; la
creatività non è una risorsa che si compra in un supermercato, non è una risorsa che ha a
che fare con il prezzo, ha a che fare con la lunga ed estenuante fatica della relazione
reciproca. Se questo è un disegno dell’umanesimo manageriale, probabilmente quando
parliamo di gestione delle risorse umane, dovremmo cercare di intendere il management
come esercizio della democrazia. Se il management è l’esercizio della democrazia allora
possiamo dire che è un’arte difficile quando si occupa di persone perché lavora sui margini
sottili dell’incertezza che ogni relazione porta con sé.
Da questo punto di vista, quindi, c’è sempre un margine in queste relazioni di
consenso, c’è sempre un margine di conflitto, c’è sempre un margine di paura e c’è sempre
un margine di prezzo: siamo in situazioni lavorative. Quello che ci resta da riflettere è,
sulla base dei risultati della ricerca e della nostra diretta esperienza, che cosa facciamo
prevalere: la tendenza cieca al consenso; la creazione, a volte, unilaterale, di paura o un
certo margine di conflitto capace di generare incontro?
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