1 LE COMPETENZE PER LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE
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1 LE COMPETENZE PER LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE
LE COMPETENZE PER LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE IMPRESE TRENTINE1 7 marzo 2005 Maurizio Rossini: introduzione Siamo molto contenti nel vedere che il tema della gestione delle risorse umane, che ci sta molto a cuore, riesce a coinvolgere così tante persone. Mi preme innanzitutto spendere due parole di presentazione sulla Trento School of Management. Tsm è nata un paio d’anni fa, è una scuola voluta dalla Camera di Commercio di Trento, dall’Università degli Studi di Trento e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto che ci ospita qui oggi. E’ un consorzio che si occupa principalmente di formazione, che rivolgiamo a due fronti molto importanti: innanzitutto una formazione per i giovani, una formazione sostanzialmente post-laurea, che si concretizza in percorsi di specializzazione ed in master. Poi vi è un secondo fronte che riguarda invece la formazione continua, rivolta a chi in azienda c’è già ed ha voglia di elaborare riflessioni e crescere ragionando insieme, discutendo insieme ed usufruendo dell’apporto anche di persone che possono portare un proprio contributo sulle tematiche del management. Quali sono le aree di attività nelle quali operiamo? All’interno dell’area “formazione giovani” ci occupiamo soprattutto di management turistico, di management delle istituzioni artistico-culturali, di management pubblico ed, a breve, ci occuperemo anche di management dell’agroalimentare ed ambientale. Quindi sono cinque settori per i quali riteniamo che vi siano delle necessità ma anche un know-how in Trentino importante da spendere. Abbiamo individuato poi tre trasversali, crediamo, decisive per il management di oggi: innanzitutto un’area che vede la presentazione di questa ricerca, per noi molto significativa, che riguarda la gestione delle risorse umane; un secondo fronte più tecnico, è costituito dall’area law and economics ed un terzo fronte, decisivo, importante per il Trentino, che riguarda l’internazionalizzazione e l’imprenditorialità. Quindi cinque settori, tre aree di competenza sulle quali ci poniamo l’obiettivo, da un lato di fare, speriamo, della buona formazione, una formazione il più interattiva possibile e che sappia coniugare bene il pensare ed il fare; in secondo luogo, accanto a questo, una formazione che sappia coprire le diverse esigenze. Quindi, come dicevamo prima: master, giovani, executive master per chi già lavora, percorsi di perfezionamento per arrivare sino a seminari ed incontri anche di una giornata, ma che sappiano stimolarci rispetto, ripeto, ai temi importanti con i quali i manager hanno a che fare tutti i giorni. Siamo convinti che per fare una buona formazione ci sia bisogno anche di ricerca, cioè di capire un po’ meglio la realtà che ci circonda per riuscire a progettare bene, per 1 Questo testo è una versione rivista della registrazione del seminario e mantiene volutamente l’immediatezza dell’oralità. Gli interventi non sono stati rivisti dai relatori. Questo contributo vuole essere un piccolo strumento di diffusione del lavoro svolto oltre che un servizio per il gruppo dei partecipanti per tenere memoria del percorso seminariale. 1 riuscire a proporre una formazione che sia in sintonia con i temi con i quali ogni giorno in azienda ci confrontiamo. Nelle attività di ricerca ci impegniamo soprattutto nel capire le migliori modalità formative o, meglio, quelle più efficaci, accanto ad un’attività di ricerca che ci permetta di capire meglio i settori e le aree di competenza sulle quali vogliamo lavorare. Ed allora ecco che questa ricerca vorremmo ci potesse dare quelle informazioni per poter capire meglio la gestione delle risorse umane all’interno delle aziende e vorremmo altresì che ci potesse aiutare a predisporre una formazione adeguata, sia per il management - direzione del personale – sia anche per i quadri intermedi e per tutti coloro che con le risorse umane hanno a che fare all’interno delle imprese. Per questo siamo particolarmente contenti di presentare questa ricerca, perché poi, attorno alle risorse umane, ruotano ovviamente tutte le attività interne all’azienda: di risorse umane parliamo quotidianamente come una delle risorse più importanti che l’azienda ha oggi per affrontare la competizione sempre più alta con cui nei mercati internazionali oggi abbiamo a che fare. Dicevo poc’anzi che questa non è l’unica ricerca che stiamo portando avanti; vi sono altri fronti sui quali siamo impegnati e quindi spero avremo anche altre occasioni per confrontarci e per ritrovarci. Colgo l’occasione, prima di dare la parola ai relatori, di ringraziare alcune persone: innanzitutto vorrei ringraziare l’Associazione Italiana dei Direttori del Personale ed in particolare Armin Mair, che è responsabile per il Trentino Alto Adige, per la partnership che abbiamo instaurato e per il contributo dato anche per questa ricerca. Vorrei poi ringraziare Giuseppe Varchetta, che ha coordinato il gruppo di ricerca, che poi lui stesso presenterà. Giuseppe Varchetta, già direttore del personale e dello sviluppo organizzativo in Unilever, ha maturato una grossa esperienza manageriale, ma contemporaneamente è una persona che col Trentino ha avuto a che fare in tutti questi anni sia come formatore sia anche a capo di alcuni progetti formativi per noi molto significativi. Vi è stato un confronto - che mi è stato rappresentato come “molto proficuo” - con tanti direttori di personale ed imprenditori che sono stati l’interfaccia indispensabile ed essenziale per tastare il polso all’interno dell’azienda, per raccogliere indicazioni che spero possano diventare materia di discussione oggi e di lavoro per noi nei prossimi mesi. Quindi auguriamo un buon incontro e un buon lavoro a tutti; ora passo la parola a Giuseppe Varchetta. Grazie ancora per la presenza. 2 Giuseppe Varchetta: Lo sguardo nella gestione e nello sviluppo del personale Buon pomeriggio alle signore, ai signori, alle giovani donne, ai giovani uomini presenti in questa aula. Faccio sempre questa classificazione anagrafica perché mi pare che i giovani oggi devono essere incoraggiati e prima di tutto riconosciuti: questo è un tema di gestione delle risorse umane. Lascio il compito di presentare più degnamente di me il gruppo di ricerca ed i risultati particolari a Gianluca Cepollaro, che ha svolto un ruolo più operativo di me nella gestione di questa ricerca, e mi limito a fare una riflessione generale su un risultato e soprattutto sul suo significato, anche etico e simbolico, che ha all’interno di quelle che sono le attività di tsm e, credo, in quelle che sono oggi le culture organizzative di questa nostra terra comune che è il Trentino. Questa ricerca potrebbe avere come deadline, come gergo, questa frase: "Domande: a chi faceva domande non si rispondeva". E, come seconda battuta, una frase di Emmanuel Levinas, un filosofo del popolo ebraico scomparso recentemente, che è: "L’etica è un’ottica". Ora io mi permetto di chiedere a tutti voi di lasciare sospeso il significato di queste due affermazioni che penso di poter riprendere insieme con tutti voi alla fine di questo mio breve parlare. Da tempo in Italia, finalmente, anche nel nostro Paese, si sta facendo luce un modo di fare ricerca diverso dal passato e la nostra ricerca è, io penso, un degno esempio di questa nuova modalità. In altre parole noi siamo passati da un modo di fare ricerca centrato su una separazione di chi ricercava dall’oggetto della ricerca, quasi in un approccio scientifico e positivista, mal copiato dalle cosiddette "scienze della natura", ad un modo di fare ricerca nel quale chi fa ricerca è completamente immerso nell’oggetto del ricercare. Siamo passati da una ricerca di risultati immediatamente misurabili ed inventariabili da mettere a magazzino o nei cassetti chiusi in maniera riservata così non circolavano e non li vedeva nessuno, se non il committente, ad un modo di fare ricerca che è un continuo interrogarsi sui fenomeni, sulla loro evanescenza, sulla loro evoluzione con i protagonisti stessi dei fenomeni che vogliamo ricercare. In altre parole un passaggio da un “fare ricerca” che è una lontananza cognitiva ed emotiva dalla realtà vera dei vissuti degli attori organizzativi implicati come oggetto di ricerca, ad un approccio nel quale il soggetto che conosce diventa oggetto stesso della ricerca pur rimanendo soggetto separato. La ricerca sociale così ripensata - e questo lo sta diventando anche nel nostro Paese perché, ripeto, ci sono ormai generosi e valorosi esempi di questo modo di fare ricerca può aiutare coloro che nell’azienda gestiscono l’esperienza aziendale, imprenditori e management, a liberarsi da un’idea precostituita di fare organizzazione andando dietro a dei modelli di letteratura copiata e non originata da un rapporto di significanza vera con i vissuti e con le realtà specifiche della propria azienda. In altre parole una ricerca così ripensata, che qualcuno potrebbe definire "creaturale", un po’ sporca, un po’ variegata dentro la realtà che indaga, aiuta a creare modelli originali di gestione organizzativa e non copiati e portati, magari, da consulenze “fredde” all’interno delle singole aziende. C’è un principio della teoria della complessità che dice che “Il tutto di un certo universo è in certo modo ricompreso in una parte di esso”. Questo vuol dire che dal punto 3 di vista di questo modo nuovo di fare ricerca è più importante, per una conoscenza vera, approfondire in maniera consapevole ed analitica una parte, come ad esempio, un caso aziendale, e lì trovare una verità viva, pensata, vissuta, piuttosto che affannarsi a ricercare ovunque, ad esempio su tutte le realtà aziendali, toccando solo in superficie e non andando in profondità. Abbiamo seguito un modello di tipo ologrammatico, abbiamo fatto una presa di visione generale dell’universo, ma abbiamo soprattutto lavorato su singoli casi nella convinzione che lavorando in profondità si arrivi più alla verità che non lavorando in superficie su tutto. In altre parole, questa ricerca che vi stiamo presentando è un “buon esempio”, citando un ricercatore contemporaneo di grande spessore, che è Carlo Ginsburg, di come si possa seguire un “paradigma indiziario”, cioè andare dietro a dei segnali deboli e non a dei segnali forti. Tutto questo nella convinzione che nella ricerca sociale il capire meno, l’essere ingenui ed essere capaci di stupirsi, mantenere lo stupore e l’ingenuità come una fonte di sapere continuo, sono reazioni che ci possono portare a vedere di più, ad afferrare qualcosa di profondo rispetto invece ad un modello positivistico di analisi, di analisi cosiddetta “scientifica, particolareggiata”. Stupore, ingenuità, amore per quello che si fa rende, in altre parole, più servizio ad una conoscenza vera che non distacco, freddezza analitica e matematica. Detto questo, passo al significato profondo che vorrei indicare come il primo risultato di questa ricerca. Leggere il rapporto consente di arrivare ad una tipologia - che i ricercatori, miei colleghi, hanno proposto - dell’universo ricercato, in quattro modelli di aziende: il primo è quello classico in cui abbiamo collocato aziende piccole che, non potendo o non ritenendo necessario dotarsi di apparati complessi, fanno della relazione personale lo strumento unico di gestione delle risorse umane. C’è un secondo modello, una seconda tipologia di aziende, che abbiamo chiamato "resistente", cioè aziende di media e grande dimensione che anche potendo, potenzialmente, dotarsi di strumentazione specifica, scelgono di non farlo consapevolmente e di concentrarsi sulla relazione come strumento di gestione delle risorse umane. Terza tipologia, terzo modello: "coraggioso", cioè aziende piccole che innovano le pratiche di gestione delle risorse umane attraverso un maggior grado di strutturazione dei metodi e degli strumenti, pur riconoscendo la relazione come elemento centrale per la gestione delle risorse umane delle persone. Ultimo modello: "attrezzato", ovvero aziende medio grandi che hanno un alto grado di strutturazione delle politiche del personale, che fanno conversare con la necessità di un approccio relazionale e soggettivo. Ho letto il rapporto alla fine (essendo il direttore di ricerca l’ho letto alla fine, il vero direttore di ricerca è stato Gianluca Cepollaro); ebbene, quando ho letto questo rapporto e sono arrivato a questo passo sono saltato sulla sedia - saltare sulla sedia vuol dire “stupirsi” - perché i quattro modelli avevano tutti presente una capacità relazionale forte. Malgrado andassero verso direzioni di gestione delle risorse umane, con strategie diverse, avevano nella relazione, nell’attenzione alla relazione e nella capacità relazionale un massimo comune denominatore, una sorta di connotazione comune: “Il ricercatore ha indicato nei quattro orientamenti gestionali una ripetuta significativa presenza della relazione e dell’approccio relazionale”. Ora, signore e signori, giovani donne e giovani uomini, questo oggi è moltissimo, è un fattore strategico di estrema rilevanza e di grande speranza. 4 Non abbiamo trovato situazioni totalmente rosee, totalmente positive, abbiamo trovato luci ed ombre, che i dati - che poi i miei colleghi presenteranno - metteranno in luce, però c’è un dato comune che genera stupore e che genera speranza: le aziende del Trentino che abbiamo esaminato - ed il campione era significativo rispetto all’universo - hanno tutte una buona capacità relazionale, quasi un DNA comune e questo oggi è moltissimo. Perché è moltissimo? Perché c’è in atto, nella cultura occidentale dell’impresa, una sorta di “corruzione del carattere e una deriva della leadership” che si centra sulla negazione di un elemento specifico dell’interazione fra esseri umani, che rischia di emergere come uno strumento devastante. Ho parlato di "corruzione del carattere" e di “spersonalizzazione”: mi riferisco al rifiuto insistente di rispondere alle domande o anche solo di restituire lo sguardo. Io ho fatto ricerca in tutta Italia in moltissime aziende in questi ultimi tre anni; ebbene, ci sono moltissime persone intervistate che testimoniano un profondo dolore e la fenomenologia che nutre il dolore è il fatto che passano la vita in azienda senza che lo sguardo di nessuno li colga, senza che ci sia tempo perché li ascoltino: fanno domande e nessuno risponde loro. Ci sono moltissime giovani donne che mi hanno detto che sono al front desk di molte aziende, agli sportelli, e non c’è mai nessuno che chieda loro qualcosa. E questo non è giustificato solo dal fatto che sono naturalmente dentro con forme contrattuali aleatorie, ma perché ormai c’è una cultura della leadership di tipo anonimo, che va verso l’anomia in questo nostro Paese, dove le risorse umane sono dichiarate essere centrali ma, di fatto, sono considerate peggio delle tecnologie negli anni sessanta dagli ingegneri della FIAT, delle quali avevano un sacro rispetto. "Rispetto" significa rispecchiarsi. Oggi nessuno si “rispecchia” negli occhi di queste giovani donne e di questi giovani uomini e l’etica organizzativa può nascere e può nutrirsi quando due attori organizzativi, capo e collaboratore - e, spessissimo, in Italia si dice ancora "dipendente" ed il dipendente è “colui che pende” - sono l’uno di fronte all’altro, quando si affrontano a livello della propria soggettività etica, quando cercano una traccia di sé nell’altro. Viceversa, al di fuori di una relazionalità di questo tipo, non c’è nessuna possibilità di etica organizzativa. Ed io sostengo e testimonio che, in una simile situazione, non c’è nessuna possibilità di performance, di efficacia e di efficienza. Allora possiamo essere, non dico tranquilli ma abbastanza soddisfatti perché, malgrado la caratterialità del Trentino - che non è certo una caratterialità culturalmente predisposta alla relazione - abbiamo trovato nelle aziende una sufficiente capacità relazionale, che naturalmente può essere migliorata, ma come tutte le sufficienze fanno anche ben sperare nel futuro. Mentre vi ringrazio dell’attenzione che mi avete dato, devo tornare indietro, perché ho un debito nei vostri confronti e cioè vi dico dove ho fotografato la prima frase che ho proiettato. 5 La frase è stata fotografata nella mostra del Giorno della Memoria per la Shoah a Milano che celebra questo anno l’anniversario del trasferimento di un convoglio speciale dal binario 26 della Stazione Centrale di Milano ad Auschwitz. La frase è di un internato che diceva che “la prima esperienza che si fa in un campo di concentramento nazista è che quando fai domande nessuno ti risponde perché tu sei un nulla, non ci sei, non sei una persona”. Grazie. 6 Gianluca Cepollaro: Le competenze per la gestione delle risorse umane nelle imprese trentine: i risultati di una ricerca Buonasera a tutti, ben ritrovati così numerosi. Vedo con piacere che ci rincontriamo con molte persone che abbiamo incrociato durante questa ricerca. La rilettura della ricerca che Pino Varchetta ci ha presentato, parlo di “rilettura” perché è avvenuta ex post ad una prima elaborazione che il gruppo ha fatto, ci ha imposto di rivedere tutta l’elaborazione fatta in un primo momento. Al gruppo di ricerca hanno partecipato Floriana Samuelli, Federica Veronesi ed Enrica Tomasi. Cercherò di essere più chiaro nell’esposizione avvertendo che quello che abbiamo fatto è ribaltare un po’ ciò che accade in una presentazione tradizionale, invertendo le conclusioni con le premesse, ma probabilmente questo aspetto sarà più chiaro dopo. Faccio una velocissima presentazione del disegno della ricerca e degli strumenti adottati. Gli strumenti sono stati di carattere qualitativo e quantitativo; le imprese complessivamente interessate alla ricerca sono state circa 130; è stato elaborato un questionario adattato da un modello precedentemente sviluppato dall’Associazione Italiana dei Direttori del Personale, colgo anch’io l’occasione per salutare Armin Mair, rappresentante dell’AIDP per il Trentino Alto Adige. Si è trattato di un questionario di 24 domande, somministrato a 103 imprese selezionate, non per un criterio di significatività, quanto per un criterio di rappresentatività del contesto locale. Abbiamo svolto poi delle “analisi di caso” che consistono in costruzioni di microstorie fatte attraverso l’adozione di un metodo complesso che cerca di andare in profondità attraverso tecniche di carattere quantitativo, come la raccolta di dati strutturali, con altre di carattere più qualitativo, come il colloquio in profondità e l’intervista semistrutturata. Attraverso il metodo delle competenze, nella versione etnoclinica, che è la versione che abbiamo messo a punto in sette anni di ricerca qui a Trento, abbiamo fatto un’analisi delle competenze nelle imprese di più grandi dimensioni, in particolar modo in quelle che avevano una struttura con una funzione di direzione del personale. E, infine, fatta una prima elaborazione, al fine di validare le ipotesi tracciate, sono stati organizzati due focus group che hanno coinvolto circa venti persone. Ai focus group hanno partecipato, da un lato, imprenditori, in particolar modo quelli che gestiscono aziende che hanno problematiche di passaggio generazionale, e dall’altro dirigenti e capi del personale: tutto questo, ripeto, su tematiche precedentemente individuate nella ricerca. Quindi un disegno complesso necessario per approfondire e rappresentare un fenomeno altrettanto complesso. Oggetto della ricerca sono state le pratiche di gestione delle risorse umane. Attenzione, ripeto, le prassi di gestione delle risorse umane e non la gestione delle risorse umane da parte di questo o quel soggetto. Ciò significa che al centro, attorno a questo oggetto, sono stati attivati una serie di attori che, per ragioni diverse, hanno responsabilità di gestione risorse umane nelle imprese trentine: sono essenzialmente imprenditori di piccole e microimprese; sono capi del personale in imprese di più grande dimensione che hanno strutturato al loro interno una funzione del personale; sono anche capi intermedi o “bracci destri” dell’imprenditore laddove esiste un processo di delega che individua, non nell’imprenditore ma in un suo subordinato, la delega esplicita a gestire le risorse umane. 7 Questa costruzione ci ha fatto giungere ad alcuni dati di contesto: ecco l’inversione di cui parlavo prima tra rappresentazione dei dati e delle conclusioni. Tale dato di contesto, che poi aiuta a leggere tutti gli altri dati, dimostra che esiste uno scarto tra una dimensione dichiarata ed una dimensione effettiva nella gestione delle risorse umane; esiste, in altre parole, una “retorica delle risorse umane”. E qui non vi è differenza tra piccola e grande impresa o tra impresa che gestisce le risorse umane in modo più o meno strutturato: vi è una retorica linguistica delle risorse umane oggi molto diffusa ed è la retorica alla quale accennava Pino Varchetta. È quella che ci dice che “le persone sono al centro dell’organizzazione”; il valore è strettamente dipendente dal legame tra chi lavora nelle imprese ossia da ciò che le persone riescono a creare nelle loro relazioni cooperative. In questa retorica abbiamo individuato due tipologie di legame: il primo lo abbiamo chiamato “lasco”, che connette la gestione delle risorse umane alle strategie di evoluzione dell’impresa. In altre parole, di tutte le retoriche che abbiamo ascoltato, poche volte abbiamo sentito che la gestione del personale è da connettere soprattutto con le possibilità di sviluppo e di evoluzione dell’impresa. Un legame “forte”, invece, della retorica è con la performance, cioè tutti individuano l’importanza della gestione delle risorse umane per avere performance elevate. Capite che la principale differenza tra un legame “lasco” ed un legame “forte” è nel riferimento al tempo: chi ha in mente che la gestione delle risorse umane sia soprattutto una precondizione per assicurare la performance, ha in mente un tempo che è il breve periodo. Contrariamente, se e quando si riesce a connettere la gestione con la più complessiva strategia aziendale, il tempo di riferimento, il tempo del pensiero, è un tempo lungo, quindi un tempo di evoluzione. Ripeto ancora che questa la segnaliamo come una “questione contestuale”, chiaramente locale, quindi riferita a questa ricerca svolta in Trentino nel corso del 2004, che supera una visione tradizionale che vede nella piccola impresa una modalità destrutturata di gestire le persone, mentre nella grande impresa una modalità strutturata di gestire le persone. L’ipotesi che ci presenta Pino Varchetta è un’ipotesi senz’altro di speranza: è l’individuazione di una traccia che abbiamo riconosciuto nella nostra elaborazione e che vede le imprese trentine in un certo senso “alla rincorsa”; sono imprese che fondano essenzialmente la gestione delle risorse umane su una modalità spontaneistica e tutta centrata sulla relazione. In questo c’è senz’altro una grande possibilità; nella pratica quello che osserviamo è che il management del personale è soprattutto un management della rincorsa che abbiamo definito ora come “rincorsa sorda”, ora “rincorsa affannosa". Su un continum tra "rincorsa sorda" e "rincorsa affannosa" abbiamo trovato tantissime situazioni intermedie. Questa che presentiamo è chiaramente una semplificazione che vede, in un estremo, imprese che reagiscono in modo reattivo e quindi implementano pratiche nella gestione delle risorse umane attraverso le quali cercano di rispondere ad un cambiamento già in atto. Sul versante opposto abbiamo delle imprese che, invece, interpretano in modo creativo la loro rincorsa cercando in qualche modo non solo di non subire il cambiamento, ma di accompagnarlo e dargli una direzione. Gli stili di gestione, che inizialmente avevamo individuato con forte riferimento alla dimensione aziendale, sono stati già presentati da Pino Varchetta. Ciò che aggiungo è che lo stile classico e lo stile resistente possono essere fatti risalire ad una rincorsa sorda, mentre lo stile coraggioso e lo stile attrezzato possono riferirsi ad una rincorsa affannosa. 8 Ora andiamo a presentare le aziende e gli attori della ricerca che, ripeto, è stata molto ambiziosa, svolta a tappeto per quanto c’è stato possibile. Soprattutto, abbiamo avuto a che fare con una serie di situazioni molto differenti. Il campione delle imprese è chiaramente concentrato su imprese che hanno un numero di dipendenti inferiore a 15, quindi microimprese; abbiamo però considerato particolarmente, quindi contravvenendo un po’ a quella che è una rappresentazione dell’economia trentina, le imprese con più di 100 dipendenti dove appunto abbiamo trovato direzioni del personale strutturate. Per quanto riguarda i profili nelle medie e grandi imprese, abbiamo trovato due profili di capi del personale: un capo del personale tra i 45 e i 55 anni entrato in azienda occupandosi della gestione amministrativa e contabile che, pian piano, ha esteso il suo ruolo, mantenendo, però, una visione di carattere gestionale e burocratica. Questo è un profilo per così dire - tradizionale del capo del personale. Il secondo profilo - cosa che ci ha anche sorpreso un po’ – vede protagonisti un numero crescente di giovani, tra i 28 ed i 35 anni, assunti appositamente per il ruolo di capo del personale, ricercato e selezionato appositamente, quindi con una consapevolezza da parte della media impresa diversa del ruolo del capo del personale all’interno dell’organizzazione. Nelle piccole aziende, come ci si può immaginare, non esiste una direzione strutturata, è in genere lo stesso titolare o, a volte, il suo braccio destro ad occuparsi degli aspetti di gestione del personale. Rapidamente alcune considerazioni su alcuni aspetti di carattere socio- anagrafico: per quanto riguarda l’età gran parte del campione si colloca tra i 35-50 anni, il titolo di studio è mediamente alto: abbiamo una buona percentuale di laureati che, sommati a chi ha una specializzazione post-laurea, è circa il 30%, oltre ad una percentuale alta di capi del personale con diplomi di scuola media superiore; il genere, così come ci si poteva immaginare, è soprattutto maschile. Nella grande maggioranza dei casi è l’imprenditore spesso, nelle medie imprese, ad avere direttamente il compito di capo del personale; nelle imprese di più grandi dimensioni capita spesso che ad avere questo compito è un quadro, raramente invece sono livelli con posizione contrattuale inferiore. Vado avanti molto rapidamente rispetto alla posizione contrattuale, segnalando che, per quanto riguarda la formazione svolta dai capi del personale e dalle persone che si occupano in modo prevalente di gestione delle risorse umane, circa un terzo degli intervistati non fa formazione. Per tale ragione il capo del personale è, in qualche modo, oppure si sente, titolare di una “modalità di gestione efficace”, cioè non avverte mancanza della formazione; un terzo, invece, fa formazione per più di 5 giornate, mentre il restante si colloca nelle fasce intermedie, cioè dichiara di aver fatto formazione per 2 o 3 giornate all’anno. Per quanto riguarda i contenuti della formazione svolta, impressiona che la gran parte degli interlocutori fa formazione su tematiche essenzialmente tecniche. Ci sono alcune suggestioni che riprendono le interviste che dicono molto sulle posizioni variegate che abbiamo trovato, sul modo di rapportarsi alla formazione dei capi del personale: - “Partecipo ogni tanto a seminari che mi interessano non tanto per le tematiche ma perché ho la possibilità di incontrare colleghi”, quindi una dimensione relativa essenzialmente allo scambio di esperienze, al bisogno di confrontarsi tra pari su problemi che sono ritenuti discriminanti; 9 - “Torni con un sacco di biglietti da visita”, quindi una dimensione maggiormente orientata allo sviluppo della rete relazionale; - “Così mi confronto su come risolvo i problemi”, quindi una dimensione legata ad una utilità immediata delle problematiche della gestione del personale che ci vengono segnalate sempre come le problematiche più effimere, più difficili da afferrare, più scivolose, più difficili anche da impattare. Le persone intervistate che si occupano in modo esclusivo della gestione del personale sono il 43%, il resto invece se ne occupa in modo non prevalente; è chiaro che costituiscono quel 43% soprattutto le figure imprenditoriali. Dove abbiamo una funzione del personale strutturata, abbiamo un numero di persone impegnate che è mediamente tra le 2 e le 5; nella maggior parte dei casi c’è una ripartizione dei compiti tra chi si occupa unicamente di amministrazione e chi invece si occupa di sviluppo. Questa slide è particolarmente significativa perché analizza quella che abbiamo definito “la cassetta degli attrezzi” dei gestori del personale. Gli strumenti utilizzati negli ultimi 3 anni dalle aziende trentine (valori %) 33,0 35 30 25,8 25 20 17,5 16,5 17,5 15 10 4,1 5 0 analisi clima sist emi premiant i e incentivi analisi compet enze analisi e BPR piani di sviluppo benchmarking Sono stati segnalati alcuni strumenti ed abbiamo chiesto quali di questi, anche con varie modalità e con applicazioni spesso non rigorose soprattutto dal punto di vista metodologico, sono stati utilizzati nella pratica. Vediamo che si sta sviluppando negli ultimi anni un movimento, che Pino Varchetta ha chiamato “un movimento delle competenze”, che in qualche modo utilizza strumenti di gestione che hanno a che fare con la soggettività al lavoro. Tali strumenti, quindi, pongono particolare attenzione non sulla posizione del lavoro, bensì sul soggetto al lavoro; abbiamo una parte consistente che utilizza essenzialmente strumenti relativi a sistemi premianti ed incentivi. Sistemi premianti e incentivi, seguiti da analisi di clima, analisi per la reingegnerizzazione dei processi e piani di sviluppo sono gli strumenti più utilizzati. Pochissime persone dicono di fare benchmarking quando fanno gestione del personale. Questa slide è particolarmente significativa. 10 Ampiezza del portafoglio degli strumenti Strumenti Tradizionali Totali Fino a 1 Strumenti Innovativi Almeno 2 Totali Fino a 1 Almeno 2 Bricoleurs Tradizionali 79,4% 16,5% in Sviluppo Evolute 3,1% 1,0% 82,5% 17,5% 95,9% 4,1% 100% Analizzando le frequenze, abbiamo distinto gli strumenti tradizionali come, ad esempio, possono essere i sistemi premianti e gli incentivi, dagli strumenti innovativi. Abbiamo individuato quattro tipologie di azienda ed in base, appunto, alla frequenza, quindi al numero di strumenti utilizzati, abbiamo tracciato una matrice a doppia entrata che vede la stragrande maggioranza in Trentino essere delle “imprese bricoleur”. In altre parole, sono imprese, che adottano essenzialmente un numero limitato di strumenti tradizionali nella gestione del personale e scelgono il “fai da te”; quindi hanno una natura spontaneistica, a volte un po’ naif . Ugo Morelli qualche tempo fa ha parlato di folk management nella gestione delle persone. Poi abbiamo alcune aziende, che abbiamo definito “tradizionali”, le quali implementano gli strumenti classici di gestione delle risorse umane e che non riconoscono, o riconoscono solo in parte, il valore della relazione, quindi del sostegno quotidiano alle pratiche di gestione. Pochissime sono, infine, le aziende che abbiamo definito “in sviluppo o evolute” cioè che adottano un portafoglio di strumenti ampio e innovatiivo. Questa matrice, confrontata con quella costruita dalla ricerca dell’AIDP, ricerca fatta su tutto il Triveneto, quindi sul Friuli, sul Veneto e sul Trentino Alto Adige, è decisamente squilibrata verso i bricoleur. Abbiamo esaminato quali sono le attività che vengono esternalizzate nella gestione del personale: vediamo una misura sempre crescente dell’amministrazione e impressiona molto che anche lo sviluppo organizzativo e la formazione di figure di responsabilità sono molte volte portate all’esterno. Nello stesso tempo c’è da dire che abbiamo rinvenuto tracce interessanti e, senz’altro, superiori a quelle registrate da qualche ricerca precedente, sulla capacità formativa interna delle imprese, ossia sulla capacità di prestare attenzione alla formazione spontanea all’interno delle organizzazioni. La selezione non è quasi mai esternalizzata: molti imprenditori riconoscono come un problema particolare il farsi aiutare nei momenti di selezione. 11 ATTIVITÀ ESTERNALIZZATE 50 46,4 45 40 35 26,8 30 25 20 12,4 15 10 7,2 5,2 5,2 2,1 5 0 amm. sel. sviluppo e form. rel. industriali sist. premianti org.ne altro Le problematiche più rilevanti riguardano i momenti iniziali del processo di gestione delle risorse umane, in particolar modo il reclutamento e la selezione. Il reclutamento è un’attività difficile, in parte per variabili di carattere anche qui contestuali: siamo in un sistema di piena occupazione ed è difficile trovare competenze specifiche. Per la verità, quello che più ci ha colpito è che, nonostante si sia in questa situazione, c’è una scarsissima attenzione a dotarsi di strumenti più efficaci per avere un reclutamento più appropriato e, soprattutto, più mirato a quelle che sono le esigenze delle imprese. Prevalgono decisamente i canali informali e le autocandidature, quindi modalità spontanee delle persone di presentarsi, mentre sono abbastanza diffuse le inserzioni e chiaramente la mobilità interna. Si ricorre ad agenzie di selezione per figure di più alto livello. La selezione è da più parti considerata la madre di tutti i problemi, forse il momento più delicato e critico, ma non sempre si riesce a riconoscerne il valore e l’importanza. Questa è una questione aperta, affrontata da alcuni innovatori in maniera lungimirante, cioè come ci segnala un intervistato “se il candidato è interessante viene messo, tra virgolette, in panchina anche se non c’è la posizione per lui a quel momento più adatta”. La valutazione è quasi sconosciuta, nel senso che mentre proiettiamo questa slide nello stesso tempo diciamo che dalla ricerca non abbiamo elementi che ci fanno dire che si stiano attuando politiche oppure azioni attente alla valutazione; il problema è che non facendolo non è che non si valuta: si valuta eccome! 12 LA VALUTAZIONE 18,3% 55,9% 25,8% Competenze tecnico professionali Comportamenti Risultati Quando abbiamo chiesto che cosa e quando si valuta, ci è stato risposto “essenzialmente competenze tecnico-professionali”, e c’è chi dice ancora “comportamenti e risultati”. Anche qui sembra che la dimensione retorica, quindi la dimensione linguistica, sia prevalente oggi rispetto ad una dimensione di attenzione alle tematiche della valutazione. Per concludere alcune questioni aperte che ci sono segnalate solo in parte ma che emergono da un’analisi complessiva dei dati a disposizione. Innanzitutto la fatica relazionale che viene avvertita: per "fatica relazionale" intendiamo la fatica a relazionarsi in un contesto di continua frammentazione delle pratiche di lavoro e di caduta del legame sociale all’interno delle organizzazioni. Questo è un dato sempre più evidente; la relazione, a volte, è vissuta anche come uno strumento per ottenere ciò che non riusciamo più ad ottenere con la direttività e con l’istruzione nella gestione. Questo è molto problematico perché svuota la relazione del suo senso stesso, per cui spesso si scende in pratiche altamente personalizzate. Ad esempio, sui sistemi premianti e sugli incentivi ne abbiamo ascoltate di “tutti i colori”; abbiamo ascoltato nello stesso tempo una grande varietà di considerazioni e, nello stesso tempo, il riconoscimento di una grande fatica nell’utilizzo di strumenti tradizionali. Ci siamo chiesti se, forse, non fosse attraverso l’adozione, spesso acritica, di pratiche di gestione del personale che vengono dai manuali che dobbiamo passare, ma ci potremmo dare una via anche più originale: la gestione della differenza e la capacità di cogliere la domanda di unicità che oggi le persone portano nelle organizzazioni, organizzazioni che arretrano e nello stesso tempo vedono arretrare gli stessi individui che, però, chiedono di essere trattati sempre più come soggetti unici, portatori di competenze uniche. E di qui un punto molto importante, un punto che non emerge in modo netto, ma del quale ci sono delle tracce evidenti, è la gestione della diversità. Oggi chi gestisce risorse umane è chiamato soprattutto ad un “management della differenza”, mi verrebbe da dire, da un lato, e “management della diversità” dell’altro. “Diversità” che noi viviamo nelle modalità contrattuali che oggi sono adottate dalle imprese ma che non sono altro che 13 una proiezione del processo di frammentazione di cui prima parlavamo; oggi siamo di fronte ad una diversità culturale, al fatto di interagire sempre più spesso con personale proveniente da culture diverse, problemi che abbiamo in particolar modo rilevato nelle imprese di più piccole dimensioni. Differenze, infine, rispetto al genere e alle difficoltà di riconoscere competenze come l’ascolto e la cura che trovano sempre troppo poco spazio nelle pratiche di gestione del personale e comunque rilevate come critiche. 14 Ugo Morelli: Modelli culturali locali nella gestione del personale: folk management e tirannia del passato Buonasera a tutti, volevo ringraziarvi di essere qua; conosco molte persone in sala con cui ho potuto lavorare in sedi formative ed applicative intorno al tema che discutiamo oggi pomeriggio; ci sono molti allievi con cui ho lavorato su questi temi e quindi sono soddisfatto di svolgere qualche riflessione: “riflessione” su una ricerca condotta appunto da Gianluca Cepollaro, Giuseppe Varchetta ed il gruppo di lavoro. Desidero complimentarmi soprattutto con Gianluca Cepollaro per la chiarezza con cui ha esposto i risultati che, credo, siano densi di interesse. La questione che vorrei affrontare prende le mosse dalla ricerca ed, in particolare, dal significato che sta dietro le parole che le variabili della ricerca mettono in evidenza. Volevo fare questo lavoro leggendovi due brani da due libri diversi, che vi consiglio di leggere se vi occupate dei temi di cui ci occupiamo oggi: il primo libro è della casa editrice Pompeiani. E’ un best seller in questi giorni, di Corinne Maier, una francese particolarmente brava, una giornalista economica; il titolo è "Buongiorno pigrizia". Questa signora scrive: “Sono moltissime le persone che lavorano nel mondo dell’impresa, eppure questo universo sembra avvolto da un’aura di indeterminatezza e da una coltre impenetrabile. Peraltro, per ironia della sorte, quelli che ne parlano di più, cioè i professori universitari, non vi hanno mai lavorato, non ne sanno nulla e quelli che sanno qualcosa si guardano bene dal parlarne, tutti i cosiddetti ‘fuoriusciti’, fuggiti a gambe levate per fondare autonomamente una nuova società, restano in silenzio, non hanno evidentemente alcun interesse a tagliare il ramo su cui si sono appollaiati. Per non parlare dei guru del management che sommergono il mercato di consigli non richiesti e lanciano ridicole mode nelle quali sono i primi a non credere”. Questa è una considerazione della Maier. C’è un libro molto più importante che è edito in questi giorni da Codice Edizioni. È scritto da un grandissimo studioso che insegna in una scuola di management a Tolosa; si chiama Paul Seabright ed è un grande libro sui temi di cui ci occupiamo oggi. Il titolo è "In compagnia degli estranei, una storia naturale della vita economica”. In un passo del libro, egli dice: "È importante riflettere su un tema, l’intelligenza pratica evolutasi tra gli esseri umani è molto specializzata nella manipolazione dell’ambiente naturale e nella gestione di interazione di piccoli gruppi di individui che si vedono frequentemente e si riconoscono bene: le piccole comunità della tradizione, cioè le piccole comunità dell’orda, quelle che hanno funzionato nell’esperienza di homo sapiens fino a circa 10 mila anni fa. È solo negli ultimi diecimila anni” - non spaventatevi di questa misura perché, secondo me, viviamo in un tempo in cui bisogna misurare in questo modo, perché quello che sta cambiando ha a che fare con qualcosa di profondamente radicale, quello che sta cambiando è il significato e il senso del lavoro, non qualcosa che ha a che fare con gli strumenti e le tecniche con cui ci adoperiamo per gestire il lavoro - "troppo di recente, perché l’evoluzione genetica ne sia 15 stata colpita, che gli esseri umani sono dovuti venire a patti su una scala significativa con l’impatto degli estranei". Qui si capisce il titolo “In compagnia degli estranei”. Tutto il titolo lavora su un tema: come fa a nascere la fiducia tra estranei? Il tema della gestione delle cosiddette "risorse umane", ovvero il tema del modo in cui viviamo le relazioni in azienda, ha a che fare con questa questione: come fa a nascere ed a mantenersi la fiducia tra estranei. Non è un fatto tecnico e, se per “tecnica” si intende l’adozione di qualche strumento freddo comprato da qualche parte, è qualcosa che ha a che fare con il modo in cui si vivono le relazioni. Cosa dice il nostro Seabright? "Ed è solo negli ultimi 200 anni circa che questo fatto è diventato dominante nella vita quotidiana, l’era della razionalizzazione economica, l’era della organizzazione economica, l’avvento della gabbia d’acciai., come la chiamava Max Weber, cioè la creazione di una società nella quale la forma organizzata è diventata la forma dominante. Ebbene, gestire i pericoli impostici dalle azioni di estranei lontani ci ha richiesto di dispiegare una capacità differente" - non la capacità di prima, a questa capacità fra un momento voglio dare un nome - "trasmessaci dall’evoluzione per scopi al quanto diversi: la capacità del pensiero simbolico astratto", cioè quella capacità che fa di noi degli animali che, non solo, sanno pensare ma, mentre pensano, pensano a se stessi pensanti. Quindi la capacità di accorgersi di che cosa si sta pensando, di quali strumenti si stanno usando: perché quando il problema della valutazione, cioè dell’attribuire il valore a quello che stiamo facendo insieme in una situazione organizzativa, è ridotto al problema della misurazione delle prestazioni per scopi di incentivazione, noi stiamo rinunciando alla capacità di pensare noi stessi pensanti, perché abbiamo consegnato ad uno strumento quello che solo la relazione può fare. E questo perché è importante? Non perché sia moralisticamente giusto o sbagliato, questo è un tema che non mi interessa affatto, ma è importante per la questione della fiducia come fattore costitutivo dei processi cooperativi per raggiungere uno scopo comune. La domanda fondamentale è se l’adozione di strumentazioni tecniche, fredde, favorisce o lede la possibilità di sviluppare rapporti fiduciari. "Ebbene, nella loro risposta al rischio, non meno che nella loro gestione del conflitto” - dice Seabright - “le moderne istituzioni politiche cercano di contenere, attraverso l’esile filo del ragionamento astratto, le passioni ed i risentimenti della tribù preistorica”. Abbiamo parecchi elementi per candidarci a tornare tribù preistoriche. Che cosa sono le tribù preistoriche? Sono i luoghi in cui vige la razionalità spontanea, cioè la situazione nella quale se uno mi dà un calcio io non attivo la riflessione che potrebbe aiutarmi a chiedermi perché mai me l’abbia dato oppure cerco di comprendere che cosa succede se glielo restituisco senza pensarci, ma glielo restituisco e basta! E la razionalità spontanea è uno strumento alquanto diffuso di gestione del personale, nella forma tradizionale delle imprese e torna oggi come una moda vincente perché gli investimenti affettivi, cioè quelli che coinvolgono la relazione nella gestione del personale sono investimenti che diventano rarefatti. Ho fatto questa premessa per dire che vorrei provare a commentare da lontano perché credo che la presentazione di Cepollaro sia chiarissima ed è giusto che ognuno abbia la possibilità di fare le proprie riflessioni - i risultati di questa ricerca. Per semplicità retorica, quindi, adotterò tre prospettive: la prima l’ho già citata, quella della razionalità 16 spontanea. Cercherò, quindi, di precisare perché la usiamo come lente per leggere i risultati; la seconda la definisco “razionalità strumentale”; la terza la definiscono “umanesimo manageriale”. Cerchiamo di capire queste tre prospettive e di adoperarle per leggere come sta rispondendo la realtà delle imprese trentine alla complessità di fronte alla quale si trovano, ovverosia all’esigenza di fare conti con una sempre più elevata differenza dentro l’esperienza lavorativa, le differenze di cui parlava Gianluca Cepollaro un momento fa. Tali differenze sono: differenze di soggettività, differenze di aspettative, differenze di linguaggi, differenze di tradizioni - questo non era presente fino a pochissimo tempo fa - e la differenza che si propone dal punto di vista dell’ampliamento dei mercati, ovverosia della rottura dei confini dei mercati e quindi dello sviluppo dei rapporti con i mercati allargati. La domanda in realtà che dovremmo porci è: come reagisce il management? Cioè: l’insieme delle persone che cerca di sviluppare processi cooperativi all’interno di ambienti in cui si lavora insieme, come reagisce a questa complessità, a questa sollecitazione che arriva dalle differenze? Il problema non è se reagisce o no, perché che reagisca mi pare evidente, il problema è interrogarsi sulla natura di questa reazione. Ebbene, la mia impressione è che da questi dati e, devo aggiungere, anche da considerazioni che vado facendo, lavorando da molti anni in questa realtà, è che si possa adoperare quella prospettiva che vi ho indicato, cioè la tripartizione, per capire la natura di questa reazione. La razionalità spontanea: la razionalità spontanea come forma di gestione è basata sul senso comune. Niente di male, nel senso che il “senso comune” guida una parte cospicua, la più elevata, delle nostre azioni: adoperiamo il senso comune per confrontarci nella realtà di fronte alla maggior parte dei problemi e delle questioni. Il problema è se adoperiamo il senso comune in maniera appropriata e se il senso comune basta quando dobbiamo affrontare una questione per la quale probabilmente il senso comune non è sufficiente. Inoltre, questa prospettiva della razionalità spontanea è una prospettiva che si avvale soprattutto della tradizione come strumento di consiglio. Io ritengo che, fino a qualche anno fa, questo fosse il modello dominante in Trentino, nella gestione delle risorse umane. A quanto pare, come emerge in particolare da una serie di segnali ma anche da questa ricerca, questo modello si è rotto, ovverosia non siamo più di fronte ad una situazione nella quale ci comportiamo: a problema risposta, utilizzo del senso comune, razionalità spontanea nell’azione. In altre parole, ”se mi scotto mi ritiro, se c’è freddo mi metto la giacca” e cose di questo tipo: intendo con questo “razionalità spontanea”, “Il mio collaboratore se non va. Bene: lo cambio” e cose di questo tipo. Ognuno di noi ha riconosciuto per esempio che la costruzione di competenze che contano, in una situazione nella quale tutti diciamo che la sola esecuzione non è più sufficiente per ottenere risultati interessanti, non è più una prospettiva che si possa adottare; perché se il mio collaboratore ha sviluppato competenze significative, la razionalità spontanea, cioè “se crea un problema lo cambio”, è molto costosa. Ebbene, abbiamo reagito a questa situazione e credo che questa ricerca ci dica che la prospettiva dell’”azienda naif”, ovvero di quella azienda che adopera una logica basata su razionalità spontanea e senso comune tendenzialmente la lasciamo alle spalle. Se ce la lasciamo alle spalle ci dobbiamo chiedere: verso cosa andiamo? Per rifarmi alle letture che ho fatto 17 prima, andiamo verso la prospettiva che la Corinne Maier denuncia così duramente o andiamo verso la prospettiva impegnativa, faticosa, che ci chiede di riprendere daccapo, che viene suggerita dal testo di Seabright? Cioè quella che riconosce che la costruzione di fiducia, che è una delle risorse più fragili della nostra esperienza relazionale, è decisiva per costruire processi cooperativi adeguati? Questa relazione di fiducia è una relazione che prende il sopravvento, una relazione nella quale le mani sono sudate, la passione è all’opera. Non è una relazione tra maschere che, di volta in volta, montiamo a fronte dei problemi che ci capitano. Non credo che il dichiarato della relazione come elemento centrale basti in sé; il problema è andare a vedere cosa c’è dentro la relazione perché tutte sono relazioni. Le relazioni vanno dalle relazioni d’amore a quelle mediante le quali uccidiamo qualcuno. Entrambe sono cariche di passione. Il problema è qual è la natura di queste relazioni. Ebbene, da questo punto di vista, se voi ricordate, qualche anno fa i guru della ricerca, i guru del management, hanno celebrato quella che si chiamava allora la “fine del taylorismo”, cioè di quella situazione nella quale l’organizzazione del lavoro sembrava si potesse basare strettamente su comando, esecuzione e controllo attraverso tempi e metodi predeterminati. Qualcuno sussurrava allora, ma non fu ascoltato quasi da nessuno, che forse più che la crisi del taylorismo all’interno delle organizzazioni del lavoro stavamo sperimentando una taylorizzazione dei rapporti sociali. Se ci chiediamo che cosa sta succedendo nelle imprese trentine, con questi dati particolarmente significativi che Gianluca Cepollaro ci ha proposto, possiamo cogliere subito alcune cose. Quali sono le technicalities che sono nella cassetta degli attrezzi dell’uomo del personale che vengono di più adoperate? Le colonne erano chiarissime: la selezione, il sistema premiante e l’addestramento, ovverosia “se lo scelgo bene”: insomma devi concentrarti quando lo scegli perché se lo scegli bene poi ce l’hai; il prezzo: “se lo paghi un po’ meglio fa quello che vuoi”; quando si rompe la formazione, l’addestramento, insomma lo devi portare in autorimessa, altrimenti come fai a rimetterlo a posto? O se dà prestazioni non sufficienti, qualcosa devi fare. Ora è difficile astenersi dall’idea che l’evoluzione dal sistema basato su razionalità spontanea della realtà trentina stia andando verso un adeguamento di quello che è il modello dominante, perché questo che ho descritto in un modo un po’ curioso e teatrale, è il modello dominante. L’esperienza lavorativa, intesa come natura e qualità delle relazioni conflittuali - intendo per “conflittuali” dialogo tra differenze - finalizzata alla valorizzazione dell’esperienza reciproca, che un mio amico - Francesco Novara - chiama "la creazione del bene vicendevole nei luoghi di lavoro", dov’è? Dov’è a livello generale oggi? Noi fino a qualche anno fa insegnavamo il fatto che i modelli di gestione delle risorse umane andavano dal modello amministrazione, quindi: inserimento, paga, contributi, ferie, premi, punizioni, carriere, al modello “gestione”, in cui prendevamo in mano un po’ le cose e quindi ci occupavamo di capire: selezione sì, ma come? Carriera sì, ma come? E quindi entrava in gioco la relazione intesa come “reciprocità costruita dentro i rapporti di lavoro quotidiani” riconoscendo che quella reciprocità è la fonte delle relazioni lavorative e del risultato di quella organizzazione. C’era poi il modello direzionale; era quello per noi a cui bisognava tendere, quello nel quale cioè un’impresa riconosceva l’importanza del dirigere le persone, quindi la leadership, la guida, l’impegno in prima persona alla reciprocità negoziata, attraverso un’integrazione, quindi con la direzione 18 strategica generale: questo vogliamo fare sul mercato, questo vogliamo fare nei servizi, questo vogliamo fare nella qualità dei prodotti, questo vogliamo fare qui, e per farlo riconosciamo che la condizione è l’insieme delle competenze delle relazioni che abbiamo a disposizione, la creazione di una comunità di lavoro. Questo era per il modello tendenziale. Che cosa è successo? È successo che oggi non insegniamo più questo perché la razionalità strumentale non solo è diventata il fattore dominante nelle imprese che producono beni, ma paradossalmente è stata copiata, come voi sapete meglio di me, dalle imprese di servizi e dalle imprese pubbliche: le scuole oggi sono dirette dal manager scolastico; la sanità è diretta dal manager della sanità e voi sapete, come me, che cosa è successo. Ve le raccomando le misurazioni delle prestazioni e delle performance ed i premi e le punizioni che vengono date in questi contesti laddove l’adozione, cioè il tentativo di far fronte al blocco dei modelli organizzativi burocratizzati è stato quello di percorrere la strada dell’acquisto dei ferri vecchi che le imprese industriali andavano dimettendo! Rispetto a questa prospettiva di razionalità strumentale che cosa ci dice la ricerca sulla realtà trentina? Tende a prevalere la razionalità strumentale o abbiamo qualche segno difficile da affermare, ancor più difficile da riconoscere, di quello che io ho tentato di chiamare “l’umanesimo manageriale”? Lascio a voi la risposta, a me l’impegno a descrivere che cos’è l’umanesimo manageriale, cioè che cosa intendo con questa affermazione. In primo luogo, francamente, una sana critica al managerialismo. Insomma, signori, un po’ di umorismo, un po’ di ironia, un po’ di dialogo, un po’ meno eroismo! Dopodichè forse, se abbiamo un po’ di coraggio scientifico, noi dobbiamo sapere riconoscere che ci sono le scienze che ci possono aiutare oggi in questo campo. Ma quali sono le scienze che ci possono aiutare? Le scienze cognitive, le scienze della mente ci dicono che “la mente è un’istanza relazionale”, non è una cosa che sta nella testa, per cui se tu scegli bene la mente di Pippo poi avrai una mente di Pippo a posto per sempre: puoi scegliere una mente di Pippo che è straordinariamente capace, la distruggi in sei mesi per la relazione che costruisci con Pippo. Quindi la selezione da sola non basta. La scienza cognitiva ci dice che la razionalità è limitata, cioè che non siamo capaci di controllare tutte le variabili che abbiamo a disposizione e quindi abbiamo bisogno di prendere in considerazione i limiti della nostra capacità di scelta. Ciò significa che l’unica strada che ci rimane è quella della fiducia cooperativa che può compensare i fallimenti della razionalità. In sostanza ti dice che “l’altro è una nostra necessità e l’altro è l’altro”. Ci dice che le relazioni e le decisioni sono più efficaci quando sono negoziate e quindi abbiamo bisogno di sviluppare una certa capacità di gestione dei conflitti. Come ci diceva Bion, un grande studioso della mente umana, delle nevrosi umane “Le macchine vanno a benzina, gli uomini vanno a verità”. Questo studioso ci parlava delle difficoltà umane di essere se stessi e di cooperare con gli altri, che la mente umana ha bisogno di senso, ha bisogno di significato ed il senso ed il significato non si ottengono per comando. Ci dice che la fiducia è una risorsa fragile e che l’azione immediata e pratica può ottenere effetti controintuitivi. Mi spiego meglio: quello che ci sembra essere ottimale oggi può risultare particolarmente problematico domani, quando, per esempio, scopriremmo che anziché adoperare una prospettiva di gestione tutta tecnica e strumentale, invece di adoperarne una che è capace di stare nel caldo vivo delle relazioni, laddove si costruisce un processo cooperativo tendenzialmente efficace, potremmo trovarci con un patrimonio di competenze completamente costruito e distrutto. E 19 se poi consideriamo un tema, che non è il mio tema da un punto di vista della ricerca, cioè quello della competitività internazionale, e ci ritroviamo nella vecchia Europa, oggi, in questo pianeta, probabilmente scopriamo che stiamo ledendo o distruggendo quella che è la risorsa principale. Ci riempiamo la bocca di creatività come strumento di gestione e sviluppo dei risultati di gestione della produttività aziendale, privata e pubblica; la creatività non è una risorsa che si compra in un supermercato, non è una risorsa che ha a che fare con il prezzo, ha a che fare con la lunga ed estenuante fatica della relazione reciproca. Se questo è un disegno dell’umanesimo manageriale, probabilmente quando parliamo di gestione delle risorse umane, dovremmo cercare di intendere il management come esercizio della democrazia. Se il management è l’esercizio della democrazia allora possiamo dire che è un’arte difficile quando si occupa di persone perché lavora sui margini sottili dell’incertezza che ogni relazione porta con sé. Da questo punto di vista, quindi, c’è sempre un margine in queste relazioni di consenso, c’è sempre un margine di conflitto, c’è sempre un margine di paura e c’è sempre un margine di prezzo: siamo in situazioni lavorative. Quello che ci resta da riflettere è, sulla base dei risultati della ricerca e della nostra diretta esperienza, che cosa facciamo prevalere: la tendenza cieca al consenso; la creazione, a volte, unilaterale, di paura o un certo margine di conflitto capace di generare incontro? 20