Azione - Settimanale di Migros Ticino L`arte di servire al tavolo
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Azione - Settimanale di Migros Ticino L`arte di servire al tavolo
CSF (come si fa) Fra i tanti modi che abbiamo per giudicare un piatto, uno di quelli che meno mi piacciono è il suddividerli in simpatici e antipatici. È una cosa profondamente sbagliata, perché i piatti sono buoni se eseguiti con buone materie prime e un po’ di perizia, cattivi se mancano le buone materie prime e la perizia, il resto non esiste, non deve esistere. Però ahimè in troppi ce l’hanno con qualche piatto prima ancora di assaggiarlo… Misteri della psiche umana! Uno di questi è la pasta cosiddetta 3P, ovvero con panna, piselli e prosciutto. È una ricetta che fu di gran moda in Italia negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, oggi difficilissima da trovare appunto perché per alcuni è la quintessenza di come non si deve cucinare. Per me invece questa pasta, se eseguita come si deve (non va mai dimenticato) non solo è buona ma è anche un piatto che ci sa coccolare come pochissimi altri: non è poco. Vediamo come si fa. Ingredienti per 4 persone: 320 g di pasta a piacere, 120 g di prosciutto crudo, 120 g di pisellini, 2 dl di panna da montare, formaggio grana, sale e pepe. Portate al bollore una grossa pentola colma di acqua, salate pochissimo e gettate i pisellini. Cuoceteli per 2’, un po’ di più se sono più grandi, poi scolateli con una schiumarola in una ciotola colma di acqua fredda, acqua dove avrete messo molti cubetti di ghiaccio. Dopo 5’ scolateli dall’acqua fredda e teneteli da parte. Tagliate a julienne il prosciutto crudo e rosolatelo con una noce di burro in una padella antiaderente per 5’. Unite i pisellini e rosolate per 1’ poi unite la panna da montare e mescolate bene. Intanto avrete cotto nella pentola dove avete sbollentato i piselli la pasta, quella che volete voi. Scolatela al dente e calatela nella padella, poi fatela saltare per un minuto unendo un poco dell’acqua di cottura. Servite regolando di sale e spolverizzando di grana grattugiato e abbondante pepe nero, meglio se del tipo di Sichuan ben pestato in un mortaio. L’arte di servire al tavolo Il servizio al gueridon aumenta l’effetto della portata e ne migliora, in un certo senso, anche il gusto / 30.01.2017 di Allan Bay Oggi non vi voglio parlare di piatti o di ingredienti, ma di un… modo di servire i piatti nei ristoranti e pure a casa. Lo so, sembra un tema poco interessante, invece è importantissimo: dato che sia nei ristoranti sia a casa giudichiamo i piatti non con il gusto ma con tutti i sensi, occhi per primi, e un piatto ben servito, qualunque cosa voglia dire, è ben più facile che lo troviamo buono… Quindi vi parlo del servizio al gueridon. Il nome definisce un piccolo tavolino d’appoggio, mobile, quasi sempre su ruote, molto leggero e facile da spostare ma sufficientemente robusto per reggere qualche chilo di peso: in genere si trova vicino ai tavoli dei ristoranti. Nella totalità dei ristoranti oggi il piatto arriva già impiattato dalla cucina. Mentre nel servizio al gueridon un commis (cameriere) porta il piatto di portata e lo appoggia appunto su un gueridon vicino al tavolo dei commensali. Lo chef de rang (capo cameriere, anche se ogni tanto questo lavoro lo fa lo stesso cameriere) impiatta il cibo nei piatti individuali, se sono caldi è meglio. Farà attenzione a servire la giusta quantità in funzione del cliente, per cui ne impiatterà un po’ di meno alla signora minuta, e un po’ di più a un uomo di… peso. Finito di servire porge il piatto al cliente. A volte può chiedere prima quanto cibo vuole: un approccio molto elegante che piace a tutti. Il garbo di questo tipo di servizio chiede poi di lasciare una parte del cibo nel piatto di portata, richiudendolo con una cloche per tenerlo in caldo: e quando i clienti hanno finito, lo chef de rang chiede se ne vogliono ancora un po’. Ora, io onestamente capisco che i grandi cuochi vogliano controllare tutto, impiattamento compreso. Ma questo controllo è una cosa relativamente recente. Per un paio di secoli il gueridon è stato lo standard. A me però continua a piacere come piace virtualmente a tutti i clienti, «addetti ai lavori» esclusi: ma solo perché sono succubi dell’attuale tirannia degli chef che hanno relegato la sala e i responsabili della sala, fondamentali per il successo di un ristorante, ricordo io, in secondo piano. Si fa solo al ristorante? Affatto, anche a casa. Io a casa mia gueridono (non so se esiste questo verbo, ma io lo uso da sempre, oramai credo di detenerne il copyright…) a tutto spiano: e lo stesso fanno virtualmente tutti (beh, quasi tutti…) gli appassionati di cucina. Comunque abbia cotto un piatto, lo trasferisco poi in un contenitore acconcio e molto bello – oppure se la pentola è elegante, la porto così com’è, dopo averla sommariamente pulita. Trasporto poi il contenitore in sala da pranzo e lo metto su un tavolino di acciaio con ruote e un maniglione per muoverlo, a tre ripiani, 60 x 30 cm, alto 87 cm – non mi piace chinarmi. Sul ripiano inferiore ci sono i piatti individuali. Prendo i piatti, li metto accanto al contenitore, e servo, di più o di meno secondo le persone, poi chiudo con un coperchio lasciando qualcosa per il rabbocco. Come si vede, servizio al gueridon che più classico non si può. Bene, sono decisamente convinto che questo rito renda i miei (e tutti i piatti di chi li serve così) «più buoni»: o meglio ben dispone talmente il commensale da spingerlo a considerare più buono quel piatto, a prescindere. Non si fa con tutti i piatti, ovviamente. Ma è bene farlo sempre con zuppe, pasta e risotti. E per tutte le carni e i pesci serviti in formato fettine o bocconi.