Del restare, del resistere ed altri incontri
Transcript
Del restare, del resistere ed altri incontri
editoriale Del restare, del resistere ed altri incontri Da quattro mesi a questa parte attraverso alcuni piccoli centri del basso Salento, ad ascoltare storie di luoghi, di progetti, di scommesse su un futuro possibile, di vite radicate e orgogliose, ovvero disperse, o in ricerca. Non per descriverle e buttarle in pasto alla fruizione estetica o estetizzante di lettori che così evadono di tanto in tanto dal loro quotidiano di frenesia, cemento e globalità. È piuttosto la prima tappa di un percorso comune e comunitario per un’auto-progettualità consapevole e valorizzante. Questa prima tappa è fatta di ascolto attento e minuzioso. Perché la catarsi della narrazione è nell'avere un ascoltatore. Da lì partiamo per portare ciascuna narrazione soggettiva ad una condivisibilità intersoggettiva, a dignità di essere parte di un ‘bene comune’, ossia quella rinarrazione a più mani che traccia la linea dello sviluppo comunitario. Quello che giunge all’ascolto è di una ricchezza, articolazione, complessità tale, da non poter che essere piccolo, raccolto, a ‘misura’ e soprattutto unico. Che non vuol dire, attenzione, ameno e sganciato dal resto del mondo. È stupefacente: in quel ‘particolare, piccolo, unico’ c’è anche tutto il resto del mondo, per nulla ignorato, ma incarnato in un radicamento situato e contestualizzato che lo declina in modo originale e imprevedibile. Con Luigi, un anziano contadino amante del melodramma e della musica, rigorosamente autodidatta, ci siamo ritrovati a chiacchierare di Beethoven, e di quanto a lui piacessero le parole dell’Inno alla gioia, che lui conosce direttamente in tedesco, lingua appresa da emigrante in Svizzera. Sono già decine e decine gli incontri e gli ascolti, tante età diverse e tanti percorsi diversi, un flusso di nomi e volti e voci e racconti che si affollano nella testa, ritornano continuamente, anche dopo l’ascolto, mi fanno compagnia e mi sollecitano un turbinio di pensieri. Da quando sono con me mi stanno facendo Amaltea Trimestrale di cultura anno X / numero uno marzo 2015 1 editoriale riconsiderare molte cose, riguardo soprattutto a come possa oggi esprimersi concretamente l’impegno civile e politico, e poi a come fare pienamente e utilmente il mestiere che faccio. Certo è che questi incontri mi danno un senso di radicamento, di pienezza, di sensatezza. Ho usato la parola mestiere non a caso: scopro sempre più la bellezza di questo termine, così intriso di fare, di materialità, di concretezza, di utilità e anche di intuizione, inventiva, progetto. Grazie proprio ai tanti mestieri, ai tanti ‘mesci’ e ‘mescie’ che sto incontrando. In alcuni sguardi che ho incrociato, soprattutto quelli dei giovani, manca la veggenza: sono sguardi troppo dentro le cose, senza distanza, ovvero sono sguardi che non credono. Lo sguardo si fa veggente se riesce a cogliere l’elemento di estraneità delle cose, ossia la loro potenzialità di diventare altro in lontananza, quell’esser altro rispetto a ciò che sono ora, un altro che recano già in sé, anche se non è ancora manifesto, e che è l’elemento su cui progettare. I modelli dominanti - globali, massivi, veloci e aggressivi – con i loro meccanismi di funzionamento stritolano doppiamente il piccolo, il particolare, il diverso: sia perché gli sottraggono sistematicamente spazi di esistenza e di azione, sia perché nutrono l’immaginario sociale di rappresentazioni e racconti disincarnati e decontestualizzati che inducono quel ‘piccolo, particolare, diverso’ a non apprezzarsi, a svalutare sempre più la propria specifica, personale esperienza, il proprio racconto. E inducono anche sui territori delle auto-rappresentazioni che anelano a modi di essere, di organizzarsi e di svilupparsi molto poco sostenibili, ossia molto poco coerenti e dialoganti con il proprio specifico racconto, sedimentatosi nel corso del tempo. Racconto che così perde via via visione, diventa sterile, e alla fine scomodo, qualcosa di cui è meglio liberarsi. Quel liberarsi sembra essere una opportunità, ma quasi sempre è un depauperamento che non emancipa, produce piuttosto dipendenza, svalorizzazione del proprio contesto (che dunque può essere fatto oggetto di qualunque azione aggressiva di stravolgimento da parte dei poteri locali e non), emigrazione in ultimo. Ci sono, per fortuna, giovani che restano, che sono qui tutti i giorni e cercano di dare senso al loro fare e al loro restare in un piccolo paese, ogni giorno. Restano e Resistono. Si danno da fare e vorrebbero non sentirsi lasciati soli. È un’iniezione di bellezza quando li incontri. Il miele a marzo, quando siamo stati da lui, l’apicoltore Salvatore non ce l’aveva più. Bisogna aspettare le api, il loro tempo di produzione e di scorta. In primavera ritornerà. Aspettare il loro tempo! In natura il miele non c’è tutto l’anno. Solo al supermercato il miele c’è tutto l’anno, ma è un’altra storia, è un altro miele. Amo la storia dell’apicoltore Salvatore, con le sue arnie, che cura una ad una, nella sua campagna vicino casa. Amo i suoi occhi pieni di luce quando parla delle api. Faccio a meno del miele per qualche mese, aspetto le api e la primavera, voglio continuare ad ascoltare la storia dell’apicoltore Salvatore, non voglio che finisca. Ada Manfreda Amaltea Trimestrale di cultura anno X / numero uno marzo 2015 2