1 Guerra fredda «La seconda guerra mondiale era appena

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1 Guerra fredda «La seconda guerra mondiale era appena
Guerra fredda
«La seconda guerra mondiale era appena terminata quando l’umanità precipitò in quella che può
essere considerata a ragione come una terza guerra mondiale, sia pure di carattere assai
particolare. Perché, come osservava il grande filosofo Thomas Hobbes, “la guerra non consiste
soltanto nella battaglia o nel combattimento, ma in un lasso di tempo in cui la volontà di scendere
in battaglia è sufficientemente manifesta”. La guerra fredda fra gli USA e l’URSS e i loro rispettivi
alleati, che dominò completamente la scena internazionale nella seconda metà del Secolo breve, fu
senza dubbio un lasso di tempo di tal fatta. Intere generazioni crebbero sotto l’ombra funesta di
conflitti nucleari mondiali che, come si riteneva comunemente, potevano scoppiare a ogni istante
e devastare l’umanità. Infatti, perfino coloro che credevano che nessuno dei due schieramenti
avesse l’intenzione di attaccare l’altro faticavano a rimanere ottimisti, dal momento che quel detto
popolare che gli inglesi chiamano Legge di Murphy (“Se le cose possono andare male, prima o poi
finiranno male”) è una delle più valide generalizzazioni per descrivere il comportamento umano.
In Europa le linee di demarcazione erano state tracciate nel 1943-45, sia in seguito agli accordi
presi nei vari incontri di vertice tra Roosevelt, Churchill e Stalin, sia in virtù del fatto che solo
l’Armata rossa poteva effettivamente sconfiggere la Germania. Rimanevano poche situazioni mal
definite, in particolare relative al destino dell’Austria e della Germania, che furono risolte con la
spartizione della Germania secondo le linee raggiunte dalle forze di occupazioni a est e a ovest e
con il ritiro di tutti gli ex belligeranti dell’Austria. L’URSS non accettò facilmente la presenza di
Berlino ovest, che rappresentava una enclave occidentale dentro il territorio della Germania
dell’Est, ma non si dimostrò disposta a combattere per cancellarla» (E. Hobsbawm, Il secolo breve,
Rizzoli 1994, 268).
Berlino 1953
«Il primo intervento dei carri armati sovietici si è avuto nella Repubblica democratica tedesca, il 17
giugno 1953, allo scopo di reprimere a Berlino Est e nelle altre grandi città le manifestazioni
spontanee dei lavoratori provocate dalle misure governative che inasprivano le condizioni di
lavoro. Secondo studi recentissimi, 51 persone almeno persero la vita durante le sommosse e la
repressione che ne seguì: 2 furono schiacciate dai carri armati, 7 vennero condannate dai
tribunali sovietici e 3 dai tribunali della RDT, 23 rimasero vittime delle conseguenze delle ferite e 6
membri dei servizi di Sicurezza morirono. Prima del 30 giugno, furono ufficialmente arrestate
6171 persone e dopo questa data altre 7000 circa» (AAVV., Il libro nero del comunismo, Mondadori
1997, 411).
Budapest 1956
«Dopo il XX congresso del PCUS i dirigenti sovietici sono ricorsi ancora due volte a interventi
militari spettacolari, in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. In entrambi i casi, i carri
armati dovevano soffocare una rivolta popolare contro il totalitarismo, alla quel avevano aderito
ampie fasce della popolazione. Durante gli scontri circa 3000 persone sono state uccise, per i 2/3
a Budapest, e quasi 15.000 ferite. Gli storici ungheresi hanno potuto stabilire anche il numero
delle vittime dalla parte degli oppressori: fra il 23 ottobre e il 12 dicembre le unità della polizia
politica, dell’esercito sovietico e ungherese e del ministero degli interni, avrebbero registrato circa
350 perdite» (AAVV., Il libro nero del comunismo, Mondadori 1997, 411-412).
De Gasperi
«Dalla penombra l’Italia della guerra perduta vide emergere Alcide De Gasperi, questo personaggio
inconsueto, e che proprio per questo forse la rassicurò assai più dei santoni prefascisti o dei
tonitruanti tribuni alla Nenni. De Gasperi era anomalo: e questa fu la ragione prima della sua
sostanziale solitudine, nel partito, nella classe politica, nel paese. Una zona d’aria fredda
sembrava circondarlo perennemente. (…) Era un conservatore, se con questo termine s’intende
chi non crede alle riforme messianiche, e, avendo visto crollare mondi cui era affezionato, se li è
anche visti sostituire da altri mondi peggiori. Ma conosceva le ansie, le aspirazioni e le sofferenze
delle ‘masse’, benché la loro immagine fosse per lui, anche a Roma, anche in anni di governo d’un
paese caotico e improvvisatore, quella dei contadini e degli operai trentini, non quella delle
jacqueries meridionali o dei picchettaggi violenti nelle varie Stalingrado d’Italia. “Era un uomo
dotato di senso dello Stato” ha detto Valiani di De Gasperi. Potremmo aggiungere, con una battuta
che non vuol essere spregiativa, che lo fu indipendentemente dallo Stato in cui agiva. Lo fu a
Vienna (in qualità di deputato al Parlamento austriaco) e lo fu a Roma. (…) Mancò a De Gasperi,
dicono i suoi critici, la volontà o la capacità di cambiare, profittando delle contingenze eccezionali,
alcune cose che, specialmente nella burocrazia e nei meccanismi amministrativi, avrebbero potuto
e magari dovuto essere cambiate. Ebbe un limite: fu un grande “normalizzatore”, non un
innovatore» (I. Montanelli – M. Cervi, L’Italia del Novecento, Rizzoli 1998, 293- 294).
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Il “miracolo economico” in Italia
«Il periodo di dodici anni che si apre con il 1951 fu caratterizzato da un veloce sviluppo e da una
profonda trasformazione strutturale. Gli aspetti fondamentali di questa evoluzione furono tre:
a) in primo luogo, il forte sviluppo dell’industria manifatturiera, sviluppo che trasformò il
paese da economia agricola in economia prevalentemente industrializzata. Mentre nel
triennio 1951-1953 il valore aggiunto dell’industria manifatturiera rappresentava poco
più del 20% del reddito nazionale lordo, questa percentuale era salita a oltre il 30% nel
1967-1970. La trasformazione fu particolarmente accentuata nelle regioni del triangolo
industriale, dove le attività manifatturiere contribuiscono ormai per oltre il 40% al
reddito lordo e per quasi il 45% al prodotto del settore privato;
b) il passaggio da una struttura chiusa agli scambi con l’estero a una struttura
caratterizzata da una pronunciata integrazione economica e commerciale con gli altri
paesi industrializzati; il grado di apertura dell’economia italiana (misurato dall’incidenza
delle esportazioni di merci e servizi sul prodotto nazionale lordo) è passato dal 10-11%
del 1951-1953 al 20% del 1971-1972;
c) la conseguente trasformazione nella struttura degli insediamenti, nella direzione di una
concentrazione sempre più elevata nelle grandi città. Le città con oltre 100.000 abitanti,
che nel 1955 raccoglievano il 21,6% della popolazione residente, ne ospitavano nel 1968
oltre il 28%.
Accanto a questi, che sono aspetti comuni di ogni sviluppo industriale, lo sviluppo dell’economia
italiana ha presentato alcune caratteristiche che i numerosi studiosi che hanno analizzato queste
vicende hanno concordemente giudicato come peculiari del nostro paese. Esse sono:
a) il progressivo «dualismo» della struttura produttiva, che ha allineato il sorgere di imprese
tecnologicamente all’avanguardia e allineate con le industrie più progredite dei paesi
europei, al permanere di piccole iniziative arretrate, caratterizzate da bassa produttività
e inefficienza;
b) la cosiddetta «distorsione dei consumi», consistente nel fatto che, mentre alcuni consumi
privati, anche di generi non necessari (motorizzazione privata, elettrodomestici,
televisori) si sono sviluppati molto velocemente, non altrettanto è avvenuto nel settore
dei consumi pubblici, anche nei casi che avrebbero dovuto essere riconosciuti come
assolutamente prioritari (istruzione, assistenza sanitaria, abitazioni);
c) il permanere di una distanza profonda fra il grado di sviluppo delle regioni settentrionali
e quello delle regioni meridionali, nonostante un flusso di spesa pubblica preferenziale
assicurato alle regioni del Sud.
Mentre i primi tre aspetti (industrializzazione, apertura commerciale, e urbanizzazione) sono stati
usualmente considerati come fenomeni normali e fisiologici di ogni sviluppo economico, i secondi
vengono viceversa additati come elementi negativi, che una corretta politica economica dovrebbe
tendere a eliminare. (…)
Se i due gruppi di fenomeni si trovano accomunati nell’economia italiana, ciò non è dovuto a
circostanze fortuite, ma all’operare di un meccanismo unitario, che ha prodotto al tempo stesso il
veloce sviluppo industriale e gli squilibri che abbiamo ricordati» (A. Graziani, L’economia italiana:
1945-1970, Il Mulino, Bologna 1972, 31-33).
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