la ricostruzione nel dopoguerra

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la ricostruzione nel dopoguerra
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LA RICOSTRUZIONE NEL DOPOGUERRA
A
lla fine della guerra l’Italia era un Paese pieno di cicatrici e ridotto allo stremo. La
produzione agricola risultava dimezzata rispetto al 1938, quella industriale era scesa
addirittura a meno di un terzo, ben pochi servizi pubblici continuavano a funzionare
e le strade e le ferrovie erano interrotte in più punti.
Dovunque s’incontravano cumuli di macerie. Oltre un terzo delle abitazioni private era distrutto o sinistrato, di molti edifici pubblici non restavano che i ruderi e numerosi erano
gli stabilimenti sventrati dai bombardamenti.
Nelle città si faceva la fila per rifornirsi dei viveri distribuiti dagli spacci dell’UNRRA, un
organismo delle Nazioni Unite per i soccorsi alle popolazioni dei Paesi liberati, finanziato per
larga parte dal governo americano. Quel poco che giungeva dalle campagne finiva sovente nelle
mani di incettatori che praticavano la “borsa nera”, il commercio clandestino dei generi di prima
necessità a prezzi esorbitanti.
La lira valeva sempre meno e la carta moneta, stampata in gran quantità dalle autorità alleate
d’occupazione, concorreva a spingere in alto l’inflazione. Il potere d’acquisto dei salari si era
ridotto a neppure la metà di quello dell’anteguerra.
Le casse dello Stato erano pressoché vuote. Una missione, guidata dai banchieri Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia, era tornata dagli Stati Uniti nell’aprile 1945 senza aver ottenuto granché.
E il nostro ambasciatore a Washington, Alberto Tarchiani, faticava a farsi ascoltare. I governanti
americani temevano che i socialisti e i comunisti finissero per prendere il sopravvento nei governi d’unità nazionale; diffidavano del Partito d’Azione (che era pur sempre quello idealmente
più vicino al partito democratico del presidente Truman) ed erano scettici sulle potenzialità
della Democrazia Cristiana. Confidavano pressoché unicamente nel Vaticano.
I pur consistenti aiuti forniti tra il gennaio e il giugno 1946 dall’UNRRA, per un ammontare
di 435 milioni di dollari, bastarono solo ad alleviare le gravissime condizioni in cui versava la
Penisola.
Al Nord le fabbriche stentavano a riprendere l’attività: mancavano materie prime e combustibili, scarseggiava l’energia elettrica e non c’erano soldi per riorganizzare completamente gli
impianti. Al Sud gli agrari si opponevano all’applicazione delle norme varate nell’ottobre 1944
dal ministro comunista dell’Agricoltura Cullo per la distribuzione ai contadini di una parte dei
latifondi incolti. Per reazione i braccianti continuavano a occupare le terre, anche le più magre e
impervie, per affrancarsi dalla miseria e dall’asservimento. Al Centro e in varie regioni, nelle cascine e masserie, mezzadri e coloni erano in agitazione: chiedevano adeguati indennizzi e patti
migliori per continuare le coltivazioni.
Fra operai e salariati agricoli licenziati, reduci e giovani senza lavoro, si contavano oltre due
milioni di disoccupati. E quest’altra piaga accresceva le tensioni sociali che sfociavano non solo
in vaste manifestazioni di protesta, ma talora anche in sommosse cruente.
I governi di solidarietà democratica tra le forze antifasciste s’adopravano per quanto possibile a tamponare le falle più vistose, ad assicurare soprattutto il rifornimento di generi alimentari e di un minimo di scorte. Ma all’interno della coalizione esistevano forti divergenze sulle
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soluzioni da adottare per il risanamento economico, a cominciare dalla questione del cambio
della moneta. II ministro comunista delle Finanze Scoccimarro avrebbe voluto procedere alla
sostituzione delle banconote in circolazione, ritenendo che in tal modo sarebbe stato possibile
domare l’inflazione e accertare nel contempo la consistenza dei redditi più elevati per tassarli
con un’imposta straordinaria. Ma i liberali giudicavano una manovra del genere troppo macchinosa e comunque non attuabile in tempi brevi.
In realtà essi temevano che questo provvedimento invocato soprattutto dai partiti di sinistra
potesse costituire, aprendo le porte al dirigismo, il preludio di una svolta politica radicale. Che
era quanto pensavano pure gli ambienti economici e una parte della Democrazia Cristiana. Sicché, anche quando i liberali rimasero fuori del secondo ministero De Gasperi formatesi a metà
luglio del 1946, continuò a sussistere un profondo contrasto di vedute nell’ambito del governo
sulle scelte più impegnative nella gestione dell’economia.
Si preferì così attendere l’elezione del primo parlamento repubblicano per non provocare
una frattura tra i partiti antifascisti impegnati nell’elaborazione della nuova carta costituzionale
e nella legittimazione della nascente democrazia. Ma già appariva evidente l’inconciliabilità di
posizioni fra le diverse forze politiche.
La Democrazia Cristiana, pur critica nei confronti del capitalismo, si richiamava ai princìpi
interclassisti della tradizione cattolica e mirava a una sintesi fra i diritti individuali di libertà e
iniziativa e i valori di solidarietà propri della dottrina sociale della Chiesa.
I comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni — legati fra loro da un patto d’unità d’azione
— si ispiravano ai paradigmi classisti del marxismo-leninismo e avevano per obiettivo la transizione, sia pur graduale (attraverso una via democratico-parlamentare e le cosiddette “riforme
di struttura”), verso un’economia pianificata: tanto più in quanto consideravano l’Italia l’anello
più debole del capitalismo occidentale.
Altro ancora era il programma del Partito d’Azione, quale concepito da Ugo La Malfa, che
intendeva conciliare lo sviluppo di un’economia di mercato con alcune incisive riforme sociali e
delle istituzioni pubbliche.
All’inizio del 1947 la situazione d’emergenza in cui ormai si dibatteva il Paese non consentì
più ulteriori ritardi nella lotta all’inflazione e nel risanamento dei conti pubblici, anche perché il
“prestito della ricostruzione” lanciato in ottobre non aveva dato i risultati sperati.
Intanto la “tregua salariale” stipulata tra la Confederazione Generale del Lavoro e la Confìndustria stava per essere travolta da un forte movimento rivendicativo a causa del continuo
rincaro dei prezzi e la vertenza per i contratti di mezzadria, arginata a giugno da un giudizio
arbitrale proposto da De Gasperi, rischiava di riesplodere dovunque, dalle campagne del Nord
a quelle del Centro-Sud.
Il 3 gennaio De Gasperi, con una delegazione di esperti economici, partì alla volta degli Stati
Uniti per trattare la concessione di ulteriori aiuti. Sei giorni dopo, all’indomani del suo incontro col presidente Truman, gli venne consegnato dal segretario al Tesoro Snyder un assegno di
cinquanta milioni di dollari per la collaborazione offerta dall’Italia alle truppe americane nella
Penisola. Inoltre, il governo di Roma ebbe dall’Import-Export Bank un prestito di cento milioni
di dollari.
Il viaggio di De Gasperi in America incrinò il muro di sospetti e diffidenze che ancora esisteva
negli Stati Uniti nei confronti dell’Italia, ma gli aiuti ottenuti in quell’occasione da Washington
non costituirono un pegno pagato da De Gasperi per l’esclusione dei partiti di sinistra dal gover-
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no. Nelle intenzioni degli americani, essi miravano per il momento ad assicurare la permanenza
del leader democristiano alla guida dell’esecutivo.
Il Dipartimento di Stato aveva avvertito la Casa Bianca nel dicembre 1946 che i comunisti,
attribuendo all’incapacità di De Gasperi l’insufficienza di soccorsi dall’America, tentavano in tal
modo di silurarlo screditandolo di fronte all’opinione pubblica e aizzandogli contro la piazza.
Era perciò urgente intervenire affinchè non diventasse il capro espiatorio delle proteste popolari
per il peggioramento delle condizioni di vita.
Sta di fatto che in queste circostanze s’infranse l’ultimo tentativo di rilanciare la collaborazione tra i maggiori partiti di massa, dopo la scissione dei socialdemocratici di Saragat dal partito
socialista, e alla vigilia del dissolvimento del Partito d’Azione. Il terzo ministero De Gasperi,
insediatosi ai primi di febbraio, introdusse un’imposta patrimoniale progressiva, ma congegnata in modo tale da gravare quasi esclusivamente sugli immobili. E solo in parte il governo
tripartito riuscì poi ad applicare il programma del ministro socialista dell’Industria Morandi per
colpire sprechi e speculazioni.
Il 28 aprile in un discorso radiofonico De Gasperi si rivolse agli ambienti imprenditoriali e
finanziari affinchè collaborassero alla rinascita del Paese. Era quanto si era augurato, in una
nota trasmessagli qualche giorno prima, il presidente della Confìndustria Angelo Costa, che
temeva tanto i progetti della sinistra per la socializzazione di alcune grandi imprese, quanto la
propensione di alcuni esponenti della DC, facenti capo alla corrente di Giuseppe Dossetti,per
un’estensione delle prerogative dello Stato nella sfera economica.
L’affidamento all’iniziativa privata era anche quanto sollecitava da tempo il governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi con l’autorevolezza che gli derivava dalla sua reputazione di
insigne economista e dalle responsabilità del suo alto incarico. Capotila della scuola liberista,
Einaudi giudicava essenziale il ripristino degli automatismi di mercato e non voleva sentir parlare di interventismo pubblico. Da sempre polemizzava con le tesi di Keynes che vedeva nel
disavanzo di bilancio per un certo periodo di tempo, qualora finalizzato all’incremento della
domanda, un propulsore dell’attività economica. In ogni caso Einaudi riteneva che l’Italia sarebbe stata “ricostituita e rinnovata nella libertà” (per dirla con le sue parole) quanto più saldi e
intensi fossero stati i rapporti economici con le democrazie occidentali. E ciò per il tramite degli
organismi internazionali (a cominciare dal Fondo Monetario) istituiti nel 1944 a Bret-tonWoods
sotto l’egida del governo americano.
Ma perché questo fosse possibile occorreva dare concrete garanzie di affidabilità non solo
bloccando l’inflazione (su cui tutti ovviamente erano d’accordo), ma riducendo anche drasticamente la spesa pubblica e indirizzando il flusso di liquidità verso il settore privato, che era
invece quanto i partiti di sinistra non erano disposti a sottoscrivere in pieno.
Simili considerazioni Einaudi aveva espresso il 31 marzo nella relazione annuale della Banca
d’Italia. Esse erano sostanzialmente condivise da De Gasperi, dopo che egli aveva potuto accertarsi durante il suo viaggio negli Stati Uniti che non c’erano altre vie d’uscita. Ricorderà Guido
Carli, che l’aveva accompagnato: «De Gasperi non aveva una visione dell’assetto economico esistente, né di quello verso il quale sarebbe stato auspicabile indirizzare il Paese.Tuttavia capì che
l’adesione agli istituti di BrettonWoods avrebbe promosso lo sviluppo di una miriade di legami
economici con l’Occidente industrializzato in modo da rendere impossibile un suo sradicamento politico dalla comunità dei Paesi a democrazia parlamentare».
Considerando la formula di governo tripartito non più rispondente alle esigenze del Paese,
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De Gasperi si dimise il 13 maggio per ricostituire, dieci giorni dopo, il suo quarto ministero con
la partecipazione di democristiani, liberali e alcuni indipendenti di area laica. A Einaudi, chiamato a ricoprire la carica di vicepresidente del Consiglio, egli affidò il dicastero del Bilancio con
il compito di procedere al risanamento finanziario e alla stabilizzazione monetaria.
Nenni si rifiutò di rompere con il massimalismo e il frontismo. A sua volta, Togliatti considerò il nuovo governo un semplice intermezzo destinato a una vita breve e stentata, commettendo così un grave errore di valutazione che gli sarebbe stato poi rimproverato severamente da
Stalin. In realtà sia i socialisti che i comunisti rimasero vittime dei loro schemi ideologici e delle
loro ambiguità politiche ancor prima che dell’ostilità degli americani e del Vaticano.
De Gasperi si apprestò così a sciogliere una volta per tutte i nodi di una “convivenza forzata”
quale era ormai divenuta la collaborazione di governo tra la DC e le sinistre. Senza tuttavia dare
l’impressione (quando non erano ancora giunti a compimento i lavori dell’assemblea costituente) di una rottura definitiva e di un totale capovolgimento di fronte.
Al successo del nuovo governo non sarebbe bastato tuttavia l’appoggio del cosiddetto «quarto partito», costituito dagli esponenti del mondo economico. Essenziale fu l’azione condotta
da Einaudi con estrema energia, sulla base di un programma tanto perentorio quanto lineare:
abolizione dei “prezzi politici”, aumento delle imposte sui capitali, sui redditi e sui consumi,
elevazione del tasso di sconto e controllo della circolazione monetaria.
A rigore, una stretta creditizia, nei termini in cui venne attuata, non era necessaria in senso
assoluto in quanto la Banca d’Italia e il governo disponevano di poteri e strumenti sufficienti a
bloccare la speculazione e gli abusi degli istituti di credito. Tanto più dopo la concessione di un
ulteriore prestito americano di cento milioni di dollari per colmare il deficit della bilancia dei
pagamenti. Inoltre si sarebbe potuto contare sul piano di assistenza annunciato in giugno dal
segretario di Stato George Marshall e approvato nel successivo aprile dal Congresso americano,
in quanto esso garantiva la copertura di una parte cospicua delle importazioni in materie prime
e macchinari di cui l’economia italiana aveva bisogno, alleviando pertanto la nostra situazione
debitoria verso l’estero. Ma ciò non bastò a rassicurare Einaudi sulla possibilità di riassorbire
l’inflazione e di ricostituire adeguate riserve valutarie. D’altra parte egli riteneva che occorresse
dare immediatamente un segnale forte, all’indomani dell’ammissione dell’Italia al Fondo Monetario Internazionale e alla vigilia della riapertura degli scambi con l’estero.
Le misure restrittive varate nell’autunno del 1947 riuscirono a bloccare la spirale inflazionistica. Fu così possibile migliorare la bilancia dei pagamenti e disporre di una moneta stabile:
condizioni indispensabili per la stipulazione di accordi multilaterali e per il reinserimento dell’Italia nei circuiti internazionali.
Sul piano politico il salvataggio della lira non solo costituì un fattore importante per il rafforzamento del nuovo governo di centro — di cui erano entrati a far parte, a metà dicembre, repubblicani e socialdemocratici — ma fu anche una delle premesse della vittoria della coalizione
stretta intorno alla DC nelle elezioni del 18 aprile 1948. A questo successo contribuì in misura
determinante l’inasprimento della “guerra fredda” e in particolare il timore che l’Italia divenisse, in caso di affermazione del fronte socialcomunista, una versione sia pur occidentale delle
“democrazie popolari” dell’Est europeo, com’era avvenuto, poche settimane prima del voto, in
Cecoslovacchia in seguito a un colpo di Stato ordito da Stalin.
Un ruolo di rilievo ebbe, comunque, l’arresto della spirale inflazionistica sia perché ridiede
credibilità alle istituzioni pubbliche, sia perché esso venne particolarmente apprezzato dai ceti
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della piccola borghesia risparmiatrice e a reddito fisso, decisivi per la conquista della maggioranza. Di fatto, il salvataggio della lira e gli aiuti americani, assecondando la ripresa economica,
diffusero fra gli italiani la speranza di una sorte migliore dopo tante sofferenze e frustrazioni.
D’altra parte, era essenziale in quei diffìcili frangenti che si ricostituisse un clima di fiducia per
rendere possibile un impegno e uno sforzo collettivi. Era quanto De Gasperi auspicava allorché
affermava: «Quando lo Stato capisce che non può farcela, si affidi ai cittadini».
Di fatto si realizzò in tal modo una saldatura fra due universi assai distanti fra loro, come il
mondo della grande industria e della finanza e l’arcipelago più minuto dei piccoli produttori,
degli esercenti e dei ceti contadini.
Il governo di centro riuscì così a superare anche il difficile tornante politico, che si trovò ad
affiontare nel luglio 1948, all’indomani dell’attentato aTogliatti, quando si sfiorò il pericolo che
lo sciopero generale e l’occupazione di molte fabbriche da parte degli operai si trasformassero in
un moto insurrezionale. Anche se va ascritto a merito del leader comunista di aver bloccato per
tempo, subito dopo essere rimasto ferito, quanti avevano continuato a credere dall’aprile 1945
che la rivoluzione fosse stata solo rinviata in attesa dell’”ora X”, del momento più opportuno.
Restava tuttavia da affiontare una situazione densa di tensioni e di incognite per via della
disoccupazione e dei gravi squilibri sociali del Paese, Era perciò essenziale che la Democrazia
Cristiana e i partiti di centro imboccassero la via delle riforme.
A sollecitarlo erano anche gli amministratori del “piano Marshall” in un rapporto presentato
nel febbraio 1949 al Congresso americano. A loro giudizio una politica rigidamente deflattiva
non avrebbe più avuto ragione d’essere, dato che il “piano Marshall” si proponeva di erogare
maggiori aiuti in proporzione al disavanzo della bilancia dei pagamenti dei Paesi assistiti. In
ogni caso, preoccupati com’erano per la presenza di un forte partito comunista, i governanti
americani ritenevano indispensabile che si rialzasse il livello produttivo dell’economia italiana
e il tasso di occupazione. E ciò mediante l’istituzione di un’«autorità di piano» e un programma
organico di investimenti.
Si delineò così un mutamento di rotta nella politica economica, attraverso una complessa
equazione fra le richieste dei socialdemocratici e dei repubblicani per un indirizzo più espansivo, e la difesa della precedente linea di condotta, garantita — dopo l’elezione di Einaudi nel
maggio 1948 alla presidenza della Repubblica — dal suo successore al Ministero del Bilancio, il
democristiano Giuseppe Pella.
A conciliare questi due diversi orientamenti fu il ministro delle Finanze Ezio Vanoni. Egli avvertiva gli squilibri sempre più stridenti di una politica economica che aveva consentito il salvataggio della lira ma che non riusciva a debellare la disoccupazione. Egli riteneva che l’intervento
dello Stato non dovesse sfociare nel dirigismo bensì in una politica di bilancio equilibrata e, al
tempo stesso, in grado di incentivare gli investimenti di tipo produttivo: per le infrastrutture, lo
sviluppo dei settori di base e la valorizzazione delle terre incolte.
Per De Gasperi la soluzione suggerita daVanoni presentava un duplice vantaggio. Da un lato,
essa non era antitetica all’impostazione liberista di Einaudi; dall’altro, intendeva perseguire —
con sobrietà e senza forzature — alcuni obiettivi per il cosiddetto «terzo tempo sociale» proposti
dalla sinistra democristiana nel congresso della DC del giugno 1949. Essa s’incontrava inoltre,
su alcuni punti, con le tesi di La Malfa e di alcuni autorevoli ambienti economici di cultura liberalde-mocratica che si erano espressi in favore di un piano coordinato di interventi pubblici
nelle aree depresse.
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In sostanza, quello che De Gasperi si proponeva di realizzare era, per dirla con le sue parole,
un «centro che guarda a sinistra». I provvedimenti più importanti furono la legge Tupini per un
maggiore intervento dello Stato a sostegno delle opere pubbliche dei Comuni e il “piano Fanfani” per l’edilizia popolare, che recano entrambi la data del 1949; l’istituzione nel gennaio 1950 di
un ministero per il coordinamento degli enti economici dipendenti o sovvenzionati dallo Stato;
il varo in quello stesso anno della riforma agraria e la legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno (su cui si registrò peraltro il dissenso dei liberali che uscirono dal governo senza tuttavia
togliergli il loro appoggio dall’esterno).
Altre importanti misure vennero poi adottate fra il 1951 e il 1953. La riorganizzazione delle
imprese pubbliche dell’IRI (l’Istituto per la Ricostruzione Industriale) consentì fra l’altro l’avvio
della riconversione dell’industria siderurgica al ciclo integrale, dalle materie prime ai laminati.
E la creazione dell’Ente Nazionale Idrocarburi valse a rafforzare l’attività dell’AGIP nel settore
energetico, dopo la scoperta dei primi giacimenti metaniferi nel 1949 in Val Padana.
Risale a quello stesso periodo la decisione del governo di procedere sulla via della liberalizzazione degli scambi, grazie alla formazione di consistenti riserve valutarie. Dal settembre 1949,
in seguito all’Accordo di Annecy, si pose mano a una graduale revisione dei dazi come era stato
convenuto fra tutti i Paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea.
Furono soprattutto Cesare Merzagora e La Malfa a sostenere l’opportunità di smantellare le
vecchie barriere doganali. Si trattava di una prospettiva condivisa in linea di principio dal presidente della Confmdustria Angelo Costa, ma non da alcuni grandi gruppi. Tant’è che all’inizio
venne mantenuto un livello di protezione relativamente più elevato che in altri Paesi a favore di
alcune produzioni agricole e dell’industria meccanica.
Nel 1951 il reddito procapite era cresciuto, in valori costanti, del 10% rispetto al 1941, e di
qualcosa di più il prodotto interno lordo. La popolazione attiva continuava a essere occupata in
maggioranza nell’agricoltura, ma quella addetta all’industria, cresciuta di cinque punti rispetto
al 1936, rappresentava adesso quasi un terzo del totale.
La ricostruzione del Paese sì era pressoché conclusa e in tempi più rapidi di quanto si pensasse all’inizio. Determinanti erano stati gli aiuti americani e le scelte via via assunte dai successivi
governi. Ma essenziali per rimuovere le macerie e tornare alla normalità erano stati anche l’arte
di arrangiarsi in cui un po’ tutti finirono necessariamente per eccellere, i legami e le relazioni
familiari, i rapporti di solidarietà intrecciatisi fra vicini e compaesani.
Dopo gli eventi drammatici della guerra e il loro strascico di tragedie e di angustie personali,
di rancori di parte e di profondi disorientamenti, finì così per manifestarsi una volontà collettiva
di riscatto, l’aspirazione a costruire una nuova realtà civile e sociale. E questo impegno fu più
forte degli aspri conflitti politico-ideologici che pur dividevano gli italiani.
All’inizio degli anni Cinquanta, con la progressiva liberalizzazione del mercato svanirono
anche gli ultimi retaggi autarchici del regime fascista. Si apriva ora per l’Italia una nuova fase:
quella di un’economia aperta e competitiva.
Valerio Castronovo*
*
Storico e docente universitario, Valerio Castronovo (Vercelli, 1935) ha curato numerose trasmissioni televisive per la RAI, fra
cui una serie dedicata nel 1984-85 all’evoluzione dell’industria italiana, e una serie di venti puntate, nel 1999-2000, sulla storia
complessiva del capitalismo italiano.
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