Commento politico

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Commento politico
Quali sono state le grandi scelte della Democrazia Cristiana ?
Nel 1945 il piccolo drappello dei popolari non era solo. Aveva accanto i giovani partigiani che
avevano fatto una scelta politica nella Resistenza e l’ondata lunga del mondo cattolico che aveva
rinnovato le sue strutture ed approfondito la sua presenza nella società italiana durante il fascismo.
Ma fu merito ed onore dei popolari se la Resistenza prese e mantenne fermamente un indirizzo
democratico.
La storia d’Italia fu segnata da alcune decisioni non facili e molto sofferte, sulle quali De Gasperi
non ebbe esitazioni,
Per primo, separare la questione istituzionale dalla questione politica. De Gasperi sapeva che il
vero referendum sarebbe stato fra DC e PCI e non voleva rinunciare né ai voti monarchici né ai voti
repubblicani. Si batté perché la scelta istituzionale fosse disgiunta in un referendum a parte, che non
incidesse sul voto politico. Nel ’46 era disposto a concedere la Repubblica alle sinistre senza
concederle i voti repubblicani. Mentre la D.C. si pronunciava per la Repubblica , lui si mantenne
neutrale perché i voti monarchici non si schierassero tutti a destra. Il suo vero sentimento era un
altro. Scommise con Nenni che il suo Trentino avrebbe dato più voti alla repubblica di quanti non
ne avrebbe dati la Romagna del vecchio tribuno repubblicano, e vinse la scommessa. Dice la figlia
che lui, personalmente, votò Repubblica. Comunque si comportò da repubblicano quando, di fronte
alle esitazioni, non del tutto ingiustificate, disse al gentile re Umberto: domani sera uno di noi due
starà a Regina Coeli. Voleva dire che non c’era più tempo per le incertezze. Innanzitutto il bene e la
pace d’Italia, che non avrebbe potuto sopravvissuto ad una lunga febbre.
Poi la firma della Costituzione con la necessaria collaborazione delle diverse culture che
componevano la realtà italiana: l’unico vero, necessario, patriottico compromesso storico.
Ma questa saggezza sulla Costituzione non era debolezza. Scelte difficili e sofferte anche fra i
cattolici furono prese con determinazione che oggi ci appare feroce. A tutti i costi il Trattato di
Pace, ingiusto e punitivo , che non riconosceva il contributo italiano dato nella Resistenza. Il salire
alla Tribuna del Lussemburgo con addosso tutte le colpe del Fascismo e stare diritto davanti al
tribunale dei popoli , costi quel che costi, per chiudere al più presto quella pagina. Fu dura.
E subito la scelta americana, senza dubbi, senza ripensamenti, senza falsi orgogli. Fine per
sempre di tutti i passi di valzer della nostra storia. Ed infine per sempre la scelta della patria
europea, senza rancori per antichi e novissimi torti, coscienti del sottile disprezzo razzista che
ancora pesava su di noi, ma sapienti del fatto che il complesso di inferiorità ed il lamento ci
avevano solo procurato sciagure. Per l’Europa a tutti i costi. De Gasperi aveva un elettorato che era
abituato alle protezioni e che aveva tutto da temere in un grande mercato. Nessuno fu ascoltato.
Tutti furono mandati al fronte e poteva essere un massacro. Con una decisione ferma su cui non fu
mai aperta una discussione: in Europa e basta.
Ed una volta per sempre la pace, inserita nella Costituzione. Qualche rospo è stato duro a
digerire , ma la pace è stata lì sempre al nostro orizzonte. Alla fiducia delle donne che ci avevano
votato fu dedicato il più lungo periodo di pace della nostra storia dai tempi di Augusto. Le donne
italiane se lo meritavano.
Con la mano ferma del chirurgo furono tagliati i mille nodi dell’arretratezza: milioni di persone
andarono a lavorare all’estero, milioni passarono dall’agricoltura all’industria, la riforma agraria
arrivò troppo tardi ma introdusse una concezione nuova dell’impresa agricola. L’industria pubblica
fece ciò che il piccolo capitalismo familiare non sarebbe stato capace di fare ed insieme entrarono
fra le nazioni industrializzate. Lo chiamarono miracolo italiano, ma non era vero. Era lavoro,
sudore, pazienza, speranza. La piccola Italia diventava grande.
Oggi qualcuno dei miei nipoti, che considera queste scelte ovvie come l’aria che respiriamo, si
meraviglierà nel sapere che furono scelte dure e coraggiose. Lo furono, anche se debbo riconoscere
che le facemmo con un grande slancio. Gli ideali della Repubblica bambina erano molto belli.
Io penso di dover dire che il 18 Aprile del 1948 fu il coronamento naturale, virtuoso e fortunato
della Resistenza.
Avremmo cambiato il paese. Ma oggi, dopo tanti anni, dopo aver lavorato per una vita al servizio
degli italiani armati di voto, mi domando se siamo stati noi a cambiare il paese o se sia stato il paese
a cambiare noi.
Era un paese contadino ed è diventato industriale e poi, post-industriale. Era un paese che non
parlava italiano, ma parlava mille dialetti ed ora parla un italiano televisivo con mille neologismi
gergali.
Le nostre maggiori fonti di sostentamento erano i noli marittimi e le rimesse degli emigranti:
oggi vendiamo utensili, cibo, moda, città d’arte e casali abbandonati.
La società si fondava sulla famiglia allargata ai terzi cugini, ai compari ed alle comari. Oggi la
famiglia allargata significa un tentativo di buona educazione tra persone sole.
Abbiamo idolatrato i miti della sinistra ispirati all’Unione Sovietica ed abbiamo adottati quelli
della società americana. Ora le donne sono quasi libere, i gay quasi rispettati, il razzisti quasi
combattuti.
Siamo stati più volte tentati dalla guerra civile, ma vogliamo la pace e siamo il paese che offre
più missionari, più volontari e più carabinieri alle disgrazie internazionali. Siamo entrati quasi
inconsapevolmente nel club dei grandi paesi per una serie di fortunate combinazioni che ci piace
chiamare miracoli italiani. Siamo risparmiatori e non abbiamo banche oneste, siamo investitori e
non abbiamo una vera Borsa, abbiamo una moneta europea e chi decide è una Banca d’Italia.
La democrazia è stata voluta e realizzata dai grandi partiti della nostra Storia. Esaurito il loro
compito, seguitiamo ad usare le loro etichette alla ricerca di nuovi equilibri e di nuovi contratti
sociali. Le piazze, palcoscenico della nostra vita pubblica e privata, si sono riempite di automobili
ed il nostro piacere di parlare ad alta voce si è trasferito attorno al caminetto televisivo.
La vita si è allungata. L’altezza è cresciuta. Mangiamo troppo, leggiamo poco, andiamo in
vacanza all’estero, siamo generosi nelle disgrazie e indecorosi nel pagare le tasse. Tutti invidiano la
qualità della nostra vita, ma abbiamo processi lenti, trasporti difficili, mafie invincibili.
Siamo molto critici sulle qualità del nostro paese, ma amiamo il papa, i nostri campioni, la
mamma e, finalmente, la bandiera nazionale.
Ma questo non è né vuole essere un bilancio.
Che c’è di nostro in tutto questo? Alcune nostre scelte sono state fondamentali e sagge: la pace ,
l’Europa, la solidarietà democratica, la Nato, l’aggancio alla economia libera.
Ma ho l’impressione che siamo stati usati, che siamo stati lo strumento necessario (e persino
felice) di un disegno che non conosciamo e che, soprattutto non riconosciamo.
Ma, come saggiamente dicevano i nostri nonni contadini, l’uomo propone e Dio dispone.
Personalmente ritengo che abbiamo fatto bene il nostro dovere fino al 1976. Trenta anni (e
soprattutto trenta anni di un secolo veloce come il ventesimo) erano già sicuramente troppi per ogni
reggimento umano. Cinquanta sono devastanti. Il potere, anche se bilanciato, corrode gli animi e le
menti.
Ma nel 1976 non era pronta una forza politica che potesse governare il paese senza drammi. E la
D.C. ha dovuto proseguire a governare finché non fosse caduto il muro di Berlino.
Se nel 1976 una maggioranza alternativa ci avesse mandato all’opposizione per dieci anni, nel
1986 avremmo di nuovo vinto con uomini, idee, programmi e metodi diversi. Molte volte nella mia
fantasia cerco di immaginare cosa avremmo potuto ancora fare per il nostro paese. Invece abbiamo
dovuto resistere, stanchissimi ed esausti, agli anni orribili. Ma non è questo il rimpianto maggiore.
In fondo ci sarà riconosciuto anche il positivo degli anni orribili.
Ma non riavremo mai più, non sapremo mai più quello che abbiamo perso con il sacrificio di
uomini come Moro, come Bachelet, come Ruffilli, sacrificati dalla furiosa impotente rabbia di non
poter cambiare. Il vero costo non è stata, come si dice, la dissoluzione della pubblica finanza. Il
vero costo è stato il sacrificio mirato delle intelligenze e delle sensibilità migliori.
Bravissimi, o uomini delle Brigate Rosse, avete saputo scegliere la parte migliore di noi. Anche
voi fate parte del mistero, dello straordinario filo segreto che ha tessuto la nostra povera e mirabile
storia.
Come maturò la personalità di Alcide De Gasperi? (commentando un incontro di tre
generazioni: Fogazzaro, Murri, De Gasperi)
Racconta Bedeschi che nel 1903 il giovane Alcide De Gasperi, presidente della Fuci trentina,
venne a Roma al seguito del Vescovo Principe di Trento Enrici, in occasione del Giubileo
sacerdotale del vecchissimo Leone XIII.
De Gasperi scriveva delle recensioni per la rivista di don Romolo Murri, che nella Opera dei
Congressi aveva costituito il gruppo dei democratici cristiani. Era una collaborazione importante
perché il giovane De Gasperi studiava ad Innsbruck , conosceva il tedesco e c’era in quei tempi una
importantissima produzione culturale della scuola sociale cristiana tedesca.
Ci piace l’idea che il giovane studente trentino sentisse il desiderio di andare a trovare il suo
direttore, il mitico don Romolo, che era nel pieno della sua battaglia. Era già considerato un
disobbediente, anche se Leone lo aveva voluto vedere ancora una volta, prima di morire.
Nella stanza di don Romolo Murri, il giovane Alcide incontrò Antonio Fogazzaro e per qualche
minuto i tre stettero insieme e conversarono. L’incontro ha un fascino straordinario per noi che
conosciamo il futuro: sono riunite nella stessa stanza tre persone di tre generazioni che
rappresentano tre momenti di storia , anche se loro non lo sanno.
Il primo personaggio, Antonio Fogazzaro, allievo vicentino dell’abate e poeta Giacomo Zanella
è, a sua volta poeta, scrittore, autore di romanzi, che senza avere il vigore di Alessandro Manzoni,
tuttavia interpretano con molta dignità la vivacità e le speranze della cultura cattolica. Notissimo per
un piccolo capolavoro, il “Piccolo mondo antico”, una gemma della non ricchissima letteratura
italiana, ha scritto anche un romanzo, per la verità non bellissimo : “Il Santo”, in cui cerca di
raffigurare la speranza di una riforma religiosa, quale il Concilio Vaticano II, sessanta anni dopo,
sarà capace di realizzare. Naturalmente il libro sarà messo severamente all’indice. Ha scritto un
secondo libro, il “Daniele Cortis” in cui descrive le speranze ed il dramma di un cattolico
democratico divenuto deputato. E’ il sogno della riconciliazione con l’Italia dei democratici
cristiani e Fogazzaro è il loro profeta.
Il secondo personaggio è Don Romolo Murri, sul ciglio della caduta, quando ancora non è
precipitata la valanga delle avversità, nel pieno della sua trascinante avventura, che sulla scia del
Daniele Cortis ,sta sollevando tanti entusiasmi. Ha fondato un movimento che Daniele Cortis, il
personaggio del discusso romanzo di Fogazzaro, avrebbe volentieri seguito. .
Il terzo, il giovane studente trentino, italiano cittadino di un impero straniero, che legge i testi
della scuola sociale cristiana di Coblenza in tedesco per conto del direttore. Loro non sanno chi
sarà. Ma noi lo sappiamo.
Sarà l’uomo che attraverso traversie, a capo di una nuova e diversa democrazia cristiana, porterà
una patria disperata in un porto sicuro. E’ l’erede delle loro speranze, è il frutto delle loro sconfitte,
colui che porterà il popolo alla terra promessa attraverso un percorso doloroso ed eroico.
Comincerà a conoscere presto la prigione, per difendere la sua lingua italiana, e sarà odiato per la
sua moderazione cattolica da un rivoluzionario violento e narcisista che invade il Trentino con la
sua demagogia , dal nome promettente: Benito Mussolini.
Dirigerà il giornale italiano dei cattolici trentini, organizzerà gli studenti di lingua italiana ad
Innsbruck. Ma sulla linea della nuova socialità deve occuparsi anche dei sindacati. Sarà
l’organizzatore del sindacato degli arrotini trentini nel mondo.
Mi ha fatto sempre sorridere l’idea che l’uomo che avrebbe, con mano ferrea e scarpone ferrato,
costretto gli italiani che avevano idolatrato il fascismo a prendere la strada dell’Europa, avesse fatto
da giovane l’organizzatore degli arrotini che giravano l’Europa.
De Gasperi fu eletto senza problemi di coscienza come deputato della minoranza italiana nella
Dieta imperiale austriaca. Non aveva i problemi di coscienza dei suoi coetanei in Italia, cattolici
deputati (e non, si badi bene deputati cattolici), ma ne aveva di diversi e non minori. Le minoranze
italiane erano guardate con molto sospetto e senza molto rispetto nella altezzosa monarchia cattolica
danubiana ed i cattolici, in modo particolare erano potenziali traditori a doppio titolo. Il trattamento
della comunità italiana da parte di una ottusa dittatura dei militari fu, allo scoppio della guerra,
particolarmente tirannico. In pratica la popolazione fu deportata, i giovani mandati a combattere sui
monti Carpazi, lo stesso Vescovo-Principe di Trento fu relegato in una remota Heiligenkreuz.
Non era facile fare il rappresentante di una comunità in queste condizioni. Gli storici di parte
austriaca si lamentano che i rappresentanti italiani dedicassero i loro interventi non al destino della
guerra ma alle “lamentele” per il trattamento degli italiani.
A queste attente, anche se necessariamente contenute, contestazioni De Gasperi aggiunse di suo
una nobile protesta per la tragica ed ignobile esecuzione di Cesare Battisti. Era una posizione
difficile la sua: ufficialmente e non senza verità Cesare Battisti era un cittadino dell’impero che
aveva preso le armi contro il suo stato e, catturato, era per questo processato secondo le regole di
guerra in vigore. Ma l’uso propagandistico ed il cerimoniale beffardo della esecuzione fu orribile
anche in una Europa che aveva perso il senno e la misura. De Gasperi ignorò significativamente la
questione di diritto, non volendola né conoscere né riconoscere, potendo cosi coinvolgere in una
unica condanna sia la questione di diritto, sia gli eccessi terroristici a cui si erano prestati il boia e
gli esecutori.
Quando l’imperatore Carlo, succeduto a Francesco Giuseppe, propose, troppo tardi, la
trasformazione dell’Impero in federazione, tutti i rappresentanti italiani si dissociarono rifacendosi
alle dichiarazioni di Wilson, preannunciando la loro volontà di unire il loro destino con quello del
popolo italiano. La loro adesione all’Italia non fu un risultato del trattato di pace, ma fu
ufficialmente dichiarata in seno alla Dieta imperiale.
Ho trovato sempre molto importante e molto significativo il comportamento di questi “italiani”
che nella legalità e nel rispetto delle leggi accettate difendevano il loro diritto. Ma i tempi erano
violenti. A De Gasperi fu sempre rimproverato di essere un deputato austriaco, mentre Cesare
Battisti (anche lui deputato socialista alla dieta di Vienna) era “un soldato italiano”. E questo non
soltanto da Mussolini, che odiava De Gasperi per motivi speculari, ma persino da Togliatti, che lo
trattava da austriacante. E’ un aspetto meschino nel giudizio politico di Togliatti che , anche nelle
sue tesi sbagliate, aveva un costrutto dialettico e culturale attentamente elaborato. Un
internazionalista non immune da difetti come lui che usava questo mezzuccio polemico di marca
fascista ci sorprende.
Naturalmente non ci sorprende nei fascisti, che avevano il “vizietto” di considerarsi proprietari
della italianità e quindi chiamati da Dio ad essere giudici di chi fosse degno di essere italiano e di
chi non lo fosse.
Quando De Gasperi fu, nel ’21, eletto deputato del Trentino nella Camera dei Deputati del Regno
d’Italia, non ebbe un riconoscimento facile della sua italianità. Fu capogruppo dei popolari e poi,
quando l’obbediente Sturzo dovette lasciare l’Italia, fu Segretario del Partito. Nulla gli fu
risparmiato. La distruzione violenta della forte struttura dei popolari, il ricatto parlamentare, la
polemica personale ingiusta e disonesta, il tradimento. Soprattutto il tradimento.
Ci fu una tragica vicenda che non si ama ricordare. Il partito si divise in due tronconi: coloro che
speravano nella normalizzazione del fascismo e quindi erano disposti a credere in una trattativa ed
in un armistizio con il fascismo e coloro che ritenevano che il fascismo fosse inaccettabile. Non
dobbiamo scandalizzarci, questo fu un dramma italiano, tutte le famiglie si divisero su questo
tragico “che fare”.
L’occasione cruciale fu il voto sulla legge elettorale Acerbo che avrebbe garantito alla lista
fascista allargata la maggioranza assoluta. Fino allora il Partito Nazionale Fascista era una piccola
minoranza in parlamento. Sturzo era contrario al voto favorevole, ma le pressioni sui popolari erano
fortissime e le promesse di una pace e di una fine delle ostilità erano accattivanti. Bisogna
aggiungere anche la forte pressione degli ambienti cattolici non democratici già passati al fascismo.
De Gasperi era il capogruppo dei parlamentari. I parlamentari favorevoli alla approvazione erano
minoranza, ma usarono il ricatto e minacciarono la scissione. Di fronte a questa minaccia De
Gasperi decise che il voto favorevole fosse un male minore, che il bene superiore fosse quello di
mantenere l’unità. I popolari votarono la legge Acerbo. De Gasperi fu tradito ed ingannato: ottenuto
lo scopo i filofascisti uscirono dal partito ed intascarono il prezzo del tradimento. Sturzo, umiliato e
dolente non perdonò mai De Gasperi.
De Gasperi pagò due volte, incassò l’umiliazione e la rottura dell’unità, l’ira di Sturzo e le beffe
dei fascisti. Prese sulle spalle montanare la croce e la portò fino alla fine.
Ma il fascismo voleva distruggere la sua italianità. Quando lo arrestarono e lo chiusero in carcere
lo accusarono maliziosamente di tentativo di espatrio clandestino. Il falso italiano che si levava la
maschera ed abbandonava la patria.
Eppure quest’uomo di frontiera che aveva vissuto la prima grande guerra civile europea al di là
delle linee e che aveva servito ed amato la sua Italia senza terra, di un popolo deportato con il suo
vescovo principe ed aveva tenuto alto il suo onore ed il suo diritto nella sventura, usando la legge e
non le armi, coltivava una semente nuova che gli permise, con altri due profughi di frontiera
(Schumann ed Adenauer) di fondare l’Europa, quando il dito di Dio sarebbe sceso a dire basta alla
barbarie fascista.
Il ferro del maglio aveva battuto duro per forgiare la tempra di chi avrebbe preso sulle sue povere
spalle piagate le speranze d’Italia ed il futuro indistinto dell’Europa distrutta.
Quella lontana sera del 1903, lo svagato Fogazzaro ed il corrusco Murri, salutarono il giovane
studente che scese pensosamente le scale buie ed usci all’aperto sulla piccola via bagnata di pioggia
con i sampietrini sconnessi. Via Montecatini era già buia e non si erano accese le luci della sera.
Quel giovane alto, dai gesti bruschi da montanaro, dalla camminata lenta , dalla parola stentata ed
aspra, forzatamente franco nella sua timidezza se ne andava per una strada difficile e dolorosa.
Nulla gli sarebbe stato risparmiato perché fosse pronto ad un compito impossibile A lui ed ad uno
sparuto drappello di perseguitati sarebbe stata affidato il fallimento dell’Italia risorgimentale, quella
cara mamma che avevamo perduto, da guelfi nel 1848 e che ora soccorrevamo, da democratici
cristiani nel 1948.
Nella sua vita ebbe molte sconfitte ed una sola vittoria. Da buon politico cristiano, morì
sconfitto. Cinque anni dopo la sua unica vittoria, perse in Parlamento (non nel paese) la fiducia dei
suoi alleati e delle sue schiere. Il suo capolavoro politico per evitare le guerre fra europei , la CED,
fu respinto dai francesi. Si disse che ne mori di crepacuore. Non è vero, non gli mancò il cuore,
erano solo finiti i suoi giorni. Mori come un buon cristiano, sconfitto nella logica degli uomini.
Oggi è ricordato da tutti come il più grande italiano di questo secolo.