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Commentary, 11 novembre 2016
PARIGI UN ANNO DOPO: UTOPIA E DISTOPIA
NELLA PROPAGANDA DELLO STATO ISLAMICO
ELISABETTA DI MINICO
D
a quando il 13 novembre 2015 una serie di
attacchi terroristici a Parigi ha sconvolto il
mondo, uno degli argomenti più discussi
sulla tragedia è stata la provenienza degli attentatori.
La maggioranza di loro, infatti, pur essendo di origine
araba, aveva passaporto francese o belga. Ismael
Omar Mostefai, ad esempio, era nato nel 1985 a
Courcouronnes (Francia), Samy Amimour nel 1987 a
Parigi, Abdelhamid Abaaoud, sempre nel 1987, a Anderlecht (Belgio), Ibrahim Abdeslam nel 1984 a Bruxelles, così come suo fratello Salah, classe 1989.
Quest’ultimo, attualmente imprigionato nel carcere
francese di massima sicurezza di Fleury-Mérogis, a
sud di Parigi, è stato catturato nel comune belga di
Molenbeek nel marzo 2016.
©ISPI2016
Come è riuscito lo Stato islamico (Isis) a costruire una
rete tanto ampia di adepti e come ha convinto dei giovani uomini nati sul suolo europeo a rivoltarsi contro
quella che doveva essere, in teoria, la loro casa?
L’Isis basa parte della propria forza e affermazione su
delle ben delineate strategie di comunicazione e di
propaganda, diligentemente gestite da un organo preposto, il Consiglio per i media. Esse mirano ad influenzare tanto i contesti locali attraverso istruzione,
radio, comizi, giornali e/o volantini, quanto il sistema
mondiale attraverso internet, social media e video.
Tale dimensione “tecnologica”, a sua volta, ha il duplice fine di minacciare “i nemici di Allah” e di indottrinare e reclutare, specialmente in Occidente, nuovi
“martiri”. La narrazione utilizzata allo scopo è
d’ispirazione pubblicitaria. In una sorta di “marketing
dell’apocalisse”1, il terrorismo si pone come un nuovo
brand in grado di rispondere ad una domanda di mercato globale: conosce i problemi che attanagliano la
realtà e suggerisce le soluzioni. La retorica è, quindi,
estremamente attenta alla psicologia e al contesto socio-politico dei riceventi. Nel caso dei video di propaganda, inoltre, le tecniche cinematografiche arrivano spesso addirittura a rimarcare lo stile delle pellicole action hollywoodiane o dei videogiochi di guerra,
per massimizzare l’impatto visivo e adescare il pubblico più giovane e suscettibile.
Contrariamente a quanto si possa pensare, le parole e
le azioni dello Stato islamico non sono nichiliste, ma
strutturalmente
organizzate
per
ottimizzare
l’ideologia terrorista: il sostrato dal quale si muove la
propaganda dell’Isis attinge, quasi in egual misura, a
1
Sul concetto si veda B. Ballardini, Il marketing
dell’apocalisse, Milano, Baldini e Castoldi, 2015.
Elisabetta Di Minico, History Phd, Universitat de Barcelona
1
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non necessariamente riflettono l‘opinione dell’ISPI.
Anche le pubblicazioni online dell’ISPI sono pubblicate con il supporto della Fondazione Cariplo.
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ispirazioni utopiche e distopiche. Il jihad manipola la
religione e si combatte, in patria e all’estero, per costruire una realtà, che, pur essendo inventata e non
rivelata, è imposta come sacra. Come hanno già evidenziato eminenti studiosi, tra cui il prof. Roger Griffin della Oxford Brookes University, tale anelata realtà ha bisogno di essere brutalmente separata dalla
precedente, perché, secondo i terroristi, questo è
l’unico modo per non perdere la propria identità e per
instaurare un sistema tradizionale, religioso e culturale libero da ingerenze esterne “blasfeme” e “corruttrici”. Suddetti processi rivelano un istinto ambivalente,
diviso tra distruzione e creazione. L’idea di rinnovamento, rinascita, liberazione o protezione si unisce,
infatti, ad un’azione negativa di sabotaggio, massacro
e catastrofe. Portando all’estremo il principio hegeliano della negazione, il trauma del terrorismo è originato dall’interpretazione purificatrice dell’annientamento. L’effetto catartico della violenza diviene centrale per il credo e la forma mentis degli estremisti
fondamentalisti: la via per la realizzazione di una societas perfecta presuppone la distruzione della societas – giudicata – imperfecta.
distopia: i protagonisti, sempre armati, spesso circondati da altri individui con i volti nascosti da passamontagna, parlano in diverse lingue (francese, inglese, arabo). Annunciano morte e devastazione per la
Francia o per l’Europa, con l’intento di infondere paura negli animi occidentali e, citando le parole del ventenne Bilal Hadfi, uno degli attentatori suicidi allo
Stade de France, “di non farli sentire sicuri neanche
nei loro sogni”. Poi, però, si rivolgono ai “fratelli musulmani” presenti sul suolo europeo, troppo spesso
“umiliati” e “disprezzati” dagli “infedeli”, e li invitano ad unirsi alla lotta per un “utopico” progetto di “risanamento” della società, da realizzarsi con “ogni
mezzo a disposizione”, con ogni tipo di aggressione
ed uccisione. Insistono su drammatiche e reali problematiche per provocare indignazione e per giustificare i propri mezzi. I riferimenti principali delle accuse sono, da un lato, le guerre mediorientali in cui sono
coinvolte le nazioni occidentali e le vittime civili da
esse provocate, mentre, dall’altro, la mancata integrazione della popolazione araba emigrata.
Estremizzando l’esistenza di un “noi” e di un “loro” e
mitizzando i soldati volenterosi di sacrificio, l’Isis invoca barbarie in nome di un mondo migliore, falsamente ispirato dall’alto del cielo, con tecniche in grado di far presa su soggetti che vivono ai margini della
società e che vengono conseguentemente spinti a considerare la violenza come una forma di riscatto.
©ISPI2016
L’affermazione di un mondo nuovo pretende necessariamente la rinuncia a quello vecchio, ai precedenti
sistemi, stili, credi ed abitudini e, in casi estremi come
gli attacchi suicida, anche alla propria vita. L’utopia
del sangue non chiede solo di morire in suo nome, ma
anche di uccidere per essa. In questo atto di esaltazione del terrore, però, si fa distopia su un doppio livello.
Nel primo, la distopia è in sé, in quanto racchiusa nel
paradossale concetto che una nuova era o una degna
alternativa possano nascere da un atto di violenza, da
stupri, massacri e torture, da omicidi ed attentati, dal
tentativo di cancellazione delle culture differenti. Nel
secondo, è distopia fuori di sé, perché l’apocalisse che
il terrorismo preannuncia intacca e mutila le società
che lo subiscono.
Per combattere questo terrorismo, l’Europa dovrà fare
i conti con dei demoni sociali che sono più vicini e
radicati di quanto si possa immaginare e dovrà seriamente riorganizzare, in maniera più specifica ed adeguata, le sue politiche di accoglienza, accettazione ed
integrazione. Per diminuire il potere propagandistico
su cui la psicologia del terrore fa leva nei nostri stati
occidentali, bisogna incoraggiare il dialogo interculturale ed estirpare le paure e i pregiudizi dei vari
fattori in campo, costruendo ponti, invece che mura.
Nei video di minacce o rivendicazioni rilasciati prima
e dopo i feroci attacchi di Parigi, si riconosce chiaramente un’impostazione tematica che mescola utopia e
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