M. GRAS, Archeologia subacquea e commerci in età arcaica
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M. GRAS, Archeologia subacquea e commerci in età arcaica
ARCHEOLOGIA SUBACQUEA E COMMERCI IN ETÀ ARCAICA Archeologia e commercio arcaico Il contributo dell’archeologia alla conoscenza dei commerci arcaici ha potuto, solo di recente, utilizzare i dati subacquei. Conviene dunque ricordare, in un primo momento, come si faceva prima. Studiare la carta di ripartizione dei materiali ceramici è stato il primo indirizzo di studi. Già nell’antichità la diffusione delle ceramiche e delle anfore aveva suscitato delle osservazioni: – Erodoto (III, 6) ricordava un traffico di anfore dalla Grecia e la Fenicia verso l’Egitto. Le anfore di vino arrivavano in Egitto piene di vino ma una volta vuotate non erano abbandonate ma erano riportate, riempite d’acqua verso la Siria. – Teopompo (apud Strabone VII, 5, 9) segnalava che delle ceramiche di Chio e di Taso erano state rintracciate sulla costa orientale del mar Adriatico; ma su questa base egli ricostruiva non una corrente di traffico, ma una comunicazione sotterranea fra l’Egeo e l’Adriatico. Ovviamente, la ricerca moderna ha superato tali commenti. Ma l’idea di partenza rimaneva molto semplice: dalla carta di ripartizioni delle scoperte di un certo tipo di ceramica, si passava ad una riflessione sulla diffusione di questo materiale. Sul piano metodologico, questo tipo di ricerca presentava vari pericoli: necessità di localizzare sicuramente il punto di partenza della diffusione (il quale poteva essere diverso dal luogo di fabbricazione: caso della ceramica laconica); difficoltà di assimilare ripartizioni e diffusione (le carte di ritrovamenti non erano altro, spesso, che le carte di localizzazione dei cantieri di scavo); impossibilità di capire così se il trasporto era stato effettuato dai fabbricanti, dai clienti o da intermediari. Nonostante tutto quest’approccio era nuovo perché diverso da una lettura della ceramica di tipo antiquario. I cocci ritrovati nelle stratigrafie degli abitati prendevano dell’importanza rispetto ai vasi interi scoperti nei santuari o nelle necropoli. Ma il pericolo più grande era un’altro: seguendo la ceramica in modo quasi esclusivo, si enfatizzava troppo l’importanza dei vasi nelle correnti di 477 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale traffico. Infatti, per lunghi decenni, la ceramica studiata era soltanto la ceramica fine, i vasi da tavola. Ora, soltanto una parte di questi vasi conteneva un prodotto oggetto di scambio: Vallet e Villard avevano fatto la distinzione fondamentale fra vasi aperti e vasi chiusi ma per loro i vasi chiusi erano i vari “unguentari”: ariballoi, alabastra, lydia, pissidi o anche la anfore da tavola e gli stamnoi. Le anfore non erano ancora presi in considerazione. Dall’analisi di questo tipo di materiale risultava un commercio di prodotti di lusso, dove il vaso aveva la stessa importanza del contenuto. Il pericolo era ovviamente una lettura di tipo eccessivamente modernistica (infatti, c’erano dei riferimenti agli “articles de Paris”). Si dimenticava il trasporto di prodotti in grosse quantità, sia in pithoi per il grano, sia sopratutto in anfore per l’olio e per il vino (senza parlare delle varie preparazioni di pesce o di carne). Si dimenticava anche – ma questo è tutt’ora un problema non risolto – il trasporto dei tessuti e di tutti i materiali deperibili. Alla luce dei lavori più recenti si potrebbe dunque pensare che questo tipo di ricerca, ora in parte superato, dava una visione completamente sbagliata della realtà economica. Ma non è così: la ceramica era e rimane una spia dell’attività economica e si tratta di un segnale degno di attenzione se non si dimentica i limiti dell’informazione così fornita. Oggi, sappiamo che la fine dell’esportazione di bucchero etrusco dall’Italia non segna la fine dell’esportazione del vino etrusco verso la Gallia: ma sono i ritrovamenti di bucchero etrusco che hanno consentito di porre il problema del cosiddetto “commercio etrusco arcaico” (una componente dei traffici fra l’Etruria e la Gallia in età arcaica). L’uso delle carte di ripartizioni aveva però un’altro aspetto fuorviante: la rappresentazione di un punto di partenza e di “frecce” in tutte le direzioni fino ai luoghi delle scoperte spingeva verso una lettura di tipo “imperialistico”: il modello romano era qui ben troppo presente per rendere conto della complessità degli scambi arcaici. E non è un caso se il cosiddetto commercio etrusco ha particolarmente sofferto della vicinanza del modello romano. Ma dobbiamo subito aggiungere che la documentazione epigrafica recentemente scoperta (o letta) – papiro di Elefantino, tavolette di piombo di Ampurias, Pech-Maho, Olbia – propone una visione molto più “modernista” dei commerci arcaici, con un livello di tecnica fiscale per esempio che prima era impensabile per l’inizio del V secolo a.C. Nel secolare dibattito fra primitivisti e modernisti, si tratta dunque di una nuova tappa che consente di sfumare certe posizioni. Se i pericoli delle letture troppo immediate vanno giustamente denunciati, dobbiamo salvare la visione di una epoca arcaica che è stata, anche sul piano economico e non soltanto sul piano “intellettuale”, estremamente “inventiva”. Il commercio non rimane dunque indietro rispetto all’urbanistica, alla filosofia o al pensiero poli478 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale tico. E non è un caso se, su due relitti, viene testimoniato l’uso della scrittura. Finalmente, a parte lo studio dei relitti e delle anfore, sul quale sto per tornare, la conoscenza dei commerci arcaici è cresciuta con lo studio della problematica cosiddetta “emporica”. Si è trattato non di uno studio archeologico dei “porti” ma della messa in rilievo dell’importanza dei luoghi dello scambio. Qui, il riferimento a Erodoto e alla sua descrizione di Naucratis (II, 178), nel delta egiziano, va da sé. Ma il modello è stato arricchito dalla lettura di antropologia economica di Polanyi (il “port of trade”), dalla lettura delle fonti proposta da A. Mele, ma anche dagli scavi di Pyrgi e di Gravisca, le quali hanno consentito di collegare una situazione archeologia e dei materiali, ad un modello storico. Questi risultati, spesso stimolati dall’insegnamento di E. Lepore, sono di grande importanza, anche se saranno probabilmente sfumati nel futuro. Consentono anche di capire meglio il legame strutturale fra il territorio e il commercio con una visione articolata fra il concetto (in se modernista) di “esportazione” e quello di “circolazione”: Gravisca non si capisce se va letta soltanto come il “porto” di Tarquinia e gli studi recenti su Pitecusa e Cuma fanno vedere che l’opposizione fra città e emporion non è sempre adatta: il commercio è un elemento fra gli altri nelle poleis “in costruzione”. Concludo questa prima parte, insistendo dunque sulla necessità di scartare le letture facili: il commercio arcaico non è soltanto il trasporto di prodotti da un punto ad un’altro. Questa dimensione esiste certo, sopratutto per l’archeologo, il quale vede prima gli oggetti e le realtà “materiali”. Ma i traffici sono parte delle strutture politiche, economiche e sociali. Per l’età arcaica, sappiamo ben poco di tutto quello che sta “ alle spalle” del trasporto anche se le iscrizioni e i relitti cominciano ad fare luce su questi aspetti. Ancora oggi, siamo spesso costretti a sottovalutare le differenze fra le varie comunità arcaiche che hanno a che fare con gli scambi marittimi (Greci, Fenici, Etruschi). Solo la moltiplicazione delle scoperte di relitti potrà consentire di andare oltre. Le anfore: fra tipologia e storia Si dirà altrove dello studio delle anfore romane e del ruolo pionieristico di Virginia Grace, nel secondo dopoguerra. Ma per l’età arcaica, si sottovaluta troppo spesso l’importanza delle ricerche di Marcelle Lambrino ad Histria nel mar Nero con una prima tipologia delle anfore, già nel 1938. Nel campo fenicio, altro pioniero fu Pierre Cintas e la sua classificazione delle anfore puniche (1950). La scoperta del primo relitto arcaico (Cap d’Antibes 1955) fa conoscere dei tipi anforari ancora poco documentati sulla terra ferma: si tratta, da 479 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale parte di Fernand Benoit, dei primi lavori sulle anfore di Marsiglia ma anche della definizione di un tipo di anfora etrusca, che sarà, troppo a lungo, messo in discussione. Lo studio delle anfore era rimasto indietro, negli scavi terrestri, per due motivi: da una parte, si trattava di un materiale “grossolano” e, negli scavi di abitati, veniva mescolato con la ceramica “comune”, la quale era allora spesso eliminata; nelle necropoli (per esempio etrusche), le anfore sane venivano recuperate ma nascoste nelle profondità dei magazzini. Nessun museo, o quasi, presentava questo tipo di materiale. La “riscoperta” delle anfore arcaiche fu accelerata dalla scoperta dei relitti, ma anche dallo scavo di necropoli arcaiche, particolarmente in Sicilia (Camarina, Megara Hyblaea) dovè centinaia di anfore erano state riutilizzate per la deposizione di neonati e bambini morti in tenera età. Solo in un secondo momento furono elaborati delle tipologie sulla base di cocci di anfore provenienti da abitati (per esempio François et Michel Py per le anfore etrusche del Sud della Gallia). Si pensò subito a portare avanti dei programmi di analisi sulle argille (Benoit nel 1956 a Marsiglia) ma, nonostante qualche eccezione (Jones per le anfore SOS) questa linea è finalmente rimasta indietro, per mancanza di coordinamento; vari tentativi parziali sono in corso (per esempio a Napoli, presso il Centre Jean-Bérard); per quanto riguarda l’analisi dei contenuti, i risultati sono stati anche limitati. Nel campo tipologico invece, i lavori sono stati tanti e, dopo decenni di studi, i risultati si vedono chiaramente, anche se rimane molto da fare. Qui conviene ricordare i vari settori: 1. Le anfore euboiche sono state riconosciute sopratutto a Pitecusa. 2. Le anfore attiche SOS, e le successive “à la brosse” hanno un’evoluzione tipologica abbastanza chiara se ci appoggiamo sullo spessore del bordo che diventa sempre più sottile; il tipo SOS scompare all’inizio del VI secolo. 3. Le anfore corinzie sono ben conosciute per quanto riguarda il cosiddetto tipo A di Carolyn Koehler (allieva della Grace); il tipo B, invece, proposta dalla stessa studiosa è ‘“in crisi” e deve probabilmente essere diviso fra produzioni di Corcira e vari produzioni occidentali (lavori in corso di Grazia Spagnolo a Gela e Messina, e di Jean-Christophe Sourisseau a Marsiglia). 4. Le anfore di Marsiglia sono ormai ben conosciute sia al livello tipologico, sia per le argille; rimane in discussione la datazione dell’inizio delle produzioni, il quale tende a risalire nel VI secolo. 5. Le anfore della Grecia dell’Est e del mar Nero, studiate già dalla Zeest (1960) permettono di distinguere numerose produzioni (Mileto, Clazomene, Lesbo, Chio, Samo, ecc ...); recentemente l’attenzione si sta spostando sulle produzioni del Nord dell’Egeo (“prototasie”) con qualche ritrovamento in Occidente. Il Mar Nero dovrebbe dare un contributo notevole nel futuro (Dupont). 480 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 6. Le anfore laconiche sono ormai conosciute, sopratutto in Sicilia (Pelagatti). 7. Le anfore etrusche vanno classificate facilmente sul piano tipologico; rimane il dubbio sul luogo di fabbricazione dei vari tipi: solo la scoperta di fornace consentira di andare avanti in modo decisivo. Altro problema riguarda il legame con gli esemplari scoperti recentemente a Cartagine (Docter). Il lavoro fatto è dunque tanto e numerosi settori sono in corso di studio: certe forme anforiche non hanno ancora ricevute delle identificazioni decisive e appare sempre di più la grande quantità dei centri di produzione, in Occidente come in Oriente: il che non è strano ma riflette la struttura politica del mondo greco arcaico e il ruolo di ciascuna polis. Recentemente una produzione è stata individuata a Locri (Barra Bagnasco). I storici devono imparare ad usare il materiale anforario (GARLAN 1985; GRAS 1987) tenendo presente le numerose lacune delle nostre conoscenze, malgrado i progressi realizzati. Ma per gli storici, manca ancora un lavoro d’insieme sulle capacità di queste anfore. Questa capacità varia molto: certe anfore etrusche del VI secolo sono di 6 litri, altre anfore più antiche possono superare 50 litri. Forse sarebbe il caso di non appiattire queste divergenze dietro la sola definizione di “anfora”: le variazioni di capacità , infatti, riflettono delle scelte tecnologiche ma sopratutto varie situazioni storiche. In particolare il concetto di “assistenza” sembra poter essere utilizzato, in certi casi, pur con cautela (GRAS 1995). I relitti Dal 1955, con la scoperta del relitto del cap d’Antibes, il concetto di relitto è poco a poco diventato sempre più centrale per la problematica nostra. Oggi, conosciamo una quindicina di relitti arcaici: ma nessuno è stato scavato nel Mediterraneo orientale e tutti appartengono alla fase recente dell’arcaismo: dalla fine del VII all’inizio del V secolo A.C. Va dunque ricordato che non possiamo pensare di avere una campionatura valida delle navi arcaiche. In particolare l’assenza totale di documentazione per la fine dell’VIII secolo impedisce di collegare la problematica dei relitti con quella della prima fase della colonizzazione greca. Vanno distinti i problemi del carico da quelli dello scafo. Il carico dei relitti si è rivelato estremamente eterogeneo. La sorpresa, però, è durata poco perché non si poteva aspettare dei carichi molto e sistematicamente omogenei in un contesto storico come quello del commercio emporico. Prima di affondare e di diventare relitti, le nostre navi hanno avuto un percorso con tante fermate; e ad ogni fermata, si comprava e si vendeva: così ad un certo momento del suo viaggio, una nave arcaica aveva sostituito completamente il carico di partenza (forse omogeneo, forse no) con tanti 481 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale piccoli carichi, o addirittura oggetti isolati: e qui, si pensa alla dimensione di kapeleia, di vendità al dettaglio. Va sottolineato che questa particolarità del carico arcaico impedisce a priori d’identificare la provenienza di una nave sulla base della natura del carico. Una nave greca può essere piena di anfore etrusche e viceversa e ci ricordiamo le interrogazioni sulla nave di Antibes di fronte alla presenza di una lucerna punica a bordo ... Il carico pone un’altro problema, non totalmente chiarito. Infatti, accanto alle anfore vanno quasi sempre segnalati dei vasi da tavola (coppe di tipo ionico, kantharoi etruschi, e così via). Ora la spiegazione di tale presenza, in chiave economica ma anche antropologica, non va da sé: sia si cade in un’interpretazione economica di tipo modernistico e si interpreta la ceramica come un fenomeno di “marketing” (io mi rifiuto a tale lettura); sia il discorso diventa estremamente complesso: le fonti non ci dicono niente. A questo punto si può optare per una lettura economica dovè è difficile fare la parte dell’iniziativa dei produttori, dei trasportatori e dei clienti (con il rischio di ricadere nel discorso modernista); sia si prospetta la lettura antropologica, con il richiamo alla funzione del vaso da bere, della libazione e dell’incontro di tipo omerico e ci si orienta verso una dimensione “residuale” di questi vasi, ricordi dell’alto arcaismo: ma devo riconoscere che questo non spiega affatto la presenza massiccia di coppe di tipo ionico nel relitto della pointe Lequin, sulla costa della Provenza. Solo uno studio molto fine di un carico alla partenza consentirebbe forse di dare una lettura soddisfacente Lo scafo. Le scoperte recenti di Marsiglia hanno fatto molta luce sulla conoscenza delle navi arcaiche (POMEY 1995). No mi dilungo su quest’aspetto. Basta sottolineare l’importanza della tecnica della “cucitura” che risale molto indietro (Egitto) ma che appare estremamente diffusa nel Mediterraneo arcaico. Se la nave di Bon-Porte è massaliota e se la nave del Giglio è greca, dobbiamo riconoscere che non abbiamo ancora la documentazione archeologica relativa ad una nave etrusca o fenicia (almeno per l’età arcaica). In conclusione emerge sempre di più la validità dell’uso della documentazione archeologica per la ricostruzione dei traffici arcaici. Ma una ricerca sistematica di localizzazione e di scavo dei relitti porterebbe senz’altro a dei risultati importanti. Conviene per il momento andare avanti con prudenza metodologica, senza tentare di globalizzare troppo presto i fenomeni. In particolare emerge sempre di più la necessità di reperire delle fornaci di anfore arcaiche. 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