Pascal: Divertissement Sartre: Malafede

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Pascal: Divertissement Sartre: Malafede
Pascal: Divertissement
Heidegger: Esistenza inautentica (nel “man” cioè nel “si” impersonale)
Sartre: Malafede
L’uomo vive, di solito, accettando una serie di valori e di comportamenti collettivi, e si mostra
convinto che si tratti di regole assolute e indiscutibili, ossia di verità oggettive.
Egli conduce così un’esistenza anonima, integrata nella massa, e in questo modo nasconde a se
stesso – oltre che agli altri – il carattere arbitrario, ingiustificato, di tali valori e regole, che non
hanno altro fondamento che una libera ed infondata decisione.
Si tratta di un grande gioco di maschere, per cui tutti fingono di non vedere quello che pure hanno
davanti agli occhi: nascondendosi l’infondatezza di tutti i valori condivisi e di tutte le norme sociali
correnti, l’uomo si nasconde la sua stessa libertà – e l’angoscia che da questa deriva. L’assoluta
libertà sarebbe infatti anche assoluto disorientamento (v. la Geworfenheit di Heidegger).
Per Pascal, gli uomini non danno forza alle idee dotate di valore, ma viceversa conferiscono valore
alle idee che hanno più forza; ossia si convincono, in mala fede, che tutte le abitudini e le finalità
che di fatto si sono imposte nel corso della storia, e che una certa autorità fa rispettare, siano le più
giuste e le più vere: è un modo di tranquillizzarsi, senza fare i conti con la propria libertà1.
Che cosa vuole, in definitiva, l’uomo che vive nel divertissement? Secondo Pascal, tutte le mete e
gli scopi così perseguiti sono soltanto obiettivi superficiali, pretesti per non uscire dal gioco delle
maschere. Il giocatore raggiunge il suo vero scopo, sia che vinca, sia che perda; egli desidera infatti,
anzitutto giocare: ogni desiderio è, in realtà, desiderio di desiderare. In tal modo, il divertissement
perpetua se stesso e rinvia l’appuntamento decisivo – da cui l’uomo si sente comunque atteso.
Tutte queste tesi pascaliane ritornano, senza sostanziali modifiche, nel pensiero di Leopardi: i due
pensatori condividono anche la convinzione che la vera grandezza dell’uomo è la consapevolezza
della sua condizione, ossia il superamento di tutte quelle false consolazioni che rendono inautentica,
superficiale e meschina la sua esistenza.
Nobil natura è quella / che a sollevar si ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato,
e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte.
[La Ginestra, vv. 111 - 116]
Ma è a questo punto che Leopardi abbandona la via seguita da Pascal: la visione del vero
(cioè del deserto dell’esistenza e della sua destinazione al nulla) non può aprire, secondo Leopardi,
la prospettiva della fede (della “scommessa” su Dio), ma è la definitiva ed insuperabile condizione
umana. Ad essa tutti gli uomini sono destinati: quella dignità che in Pascal sembra riservata ai pochi
che scelgono di uscire dai divertissements, è la dignità – ancor più grande e tragica – dell’umanità
intera, quando essa si vedrà costretta ad abbandonare l’ottusità dell’egoismo e della violenza.
E giustizia e pietade, altra radice / avranno allor che non superbe fole.
[Ibid., 153 - 154]
E non vi saranno altre consolazioni che la compassione per tutti i viventi e la bellezza della poesia.
1
Nel racconto del Grande Inquisitore di Dostoevskij, questa situazione è espressa nella maniera più
drammatica: mentre difende con la massima severità la dottrina della Chiesa cattolica, l’Inquisitore rifiuta la
predicazione di Cristo in quanto messaggio di libertà. Ma tutto questo egli lo fa per amore degli uomini:
l’Inquisitore non crede in Dio, ma appunto perciò vuole che il popolo continui ad illudersi, per non cadere
nella disperazione: «Non c’è preoccupazione più continua e tormentosa per l’uomo, quando è rimasto libero,
che quella di trovare al più presto qualcuno davanti a cui inchinarsi. Ma l’uomo vuole inchinarsi davanti a
qualcosa che sia ormai fuori discussione, talmente fuori discussione, che tutti quanti gli uomini acconsentano
ad inchinarsi, senza eccezione». Per quanto continuamente tentato dall’ateismo (l’ateismo disperato di Ivàn,
conseguente al fallimento del Grande Inquisitore – che infine lascia libero il suo prigioniero), Dostoevskij
sembra propendere, in definitiva, per un cristianesimo di stampo pascaliano, basato sulla pura fede e sul
puro amore per Cristo (l’opzione rappresentata dal personaggio di Alëša).